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Depotenziare la chiamata diretta dei presidi? Macché, il governo non cede

Il Sottosegretario all'Istruzione Davide Faraone alla Camera dei Deputati durante il voto finale del disegno di legge sulle Riforme Costituzionali, Roma, 12 Aprile 2016. ANSA/ GIUSEPPE LAMI

Niente da fare. Il governo non cede, vuole la chiamata diretta dei presidi per il trasferimento degli insegnanti, a partire dal 1° settembre. Così l’incontro di ieri al Miur con i sindacati è saltato proprio su questo punto della legge 107 che è, ricordiamo, anche oggetto di un quesito referendario abrogativo. Ed è anche la bandiera stessa della Buona scuola, come ha detto più volte il presidente del Consiglio Matteo Renzi parlando con esaltazione dei presidi manager e della scuola come azienda.

La chiamata diretta è l’essenza stessa della legge 107. «Tavolo inadeguato» commentano ieri a caldo  Cgil, Cisl, Uil e Snals, che avevano sottoscritto un accordo politico il 6 luglio con il sottosegretario Faraone. «Rottura aspra e nessun segnale di riavvicinamento», dice oggi Maurizio Lembo per i sindacati. Forse al momento di fissare su carta le modalità tecniche dell’accordo potrebbe esserci stato un intervento dall’alto? Non si sa, solo che ora è tutto da rifare e i toni trionfalistici del 6 luglio sono decisamente smorzati.

I quattro sindacati dalla loro pensavano – si illudevano? –  di aver depotenziato la chiamata diretta, adesso l’amara realtà. L’intesa prevedeva che i docenti non si sarebbero più sottoposti al colloquio con il dirigente scolastico, ma sarebbero finiti in una graduatoria d’istituto sulla base di requisiti fissati a livello nazionale. I docenti avrebbero fatto richiesta alla scuola e sulla base dei curriculum sarebbero stati scelti. Una chiamata per competenze, dunque. Tra i requisiti, master, dottorati, specializzazioni, certificazioni di corsi informatici, sperimentazioni di metodi.

Questo accordo, ricordiamo, aveva sollevato molte polemiche. In rete numerose le testimonianze di professori che hanno raccontato come l’esperienza – questa la parola chiave – di fronte a una classe serva molto di più di un attestato di informatica o di un dottorato. Stessa valutazione da parte di Gilda, il sindacato che si è sfilato dagli ultimi tavoli con il Miur proprio sul tema della mobilità. «Riteniamo che non venga adeguatamente valorizzata l’esperienza didattica dei docenti, che invece dovrebbe essere il criterio fondamentale», dice il coordinatore Rino Di Meglio. «La scelta dei requisiti non garantisce la qualità e rappresenta un atto unilaterale da parte dei dirigenti scolastici». Insomma, tutto da rifare.

Cucine galeotte. La cena è servita il 14 luglio a Milano

“Orecchiette alla San Michele” dal carcere di Alessandria, parmigiana di melanzane dalla casa circondariale di Pozzuoli (Coop. Le Lazzarelle), panzerotti con mozzarella e pomodoro e cannelloni al sugo dal carcere di Bollate, coni di pasta sfoglia con mozzarella, pomodorini e crema di basilico dal carcere di San Vittore, pasta con verdure al forno e torta di mele dal carcere di Opera. E il vino offerto dalle cantine Cincinnato e Le Grotte. Questo il menu di “Cucine Galeotte”.

La cena, preparata dalle detenute e dai detenuti, sarà servita domani – 14 luglio – a partire dalle 19 presso il Mare culturale urbano di Milano. L’evento che si terrà domani nell’ambito di Mare culturale urbano (per il programma completo potete cliccare qui). Prima di cena, alle ore 18, in programma un incontro dedicato alle buone pratiche di formazione professionale in carcere, con gli interventi di Lucia Castellano, direttore generale esecuzione penale esterna e di messa alla prova, Valeria Verdolini, presidente della Sezione Lombardia dell’associazione Antigone, Cosima Buccoliero, vicedirettore del carcere di Bollate, Davide Dutto dell’associazione Sapori Reclusi, coordinati dalla giornalista di Left Tiziana Barillà.

Ad allietare la giornata ci saranno anche, sempre a partire dalle ore 18.00, l’installazione fotografica “Sapori Reclusi” realizzata da Davide Dutto e la selezione musicale a cura di Paolo Minella.

Evo Morales nega l’amnistia a Gary Prado. Il generale che catturò Che Guevara in Bolivia

Il presidente boliviano, Evo Morales, ha respinto la richiesta di amnistia per il generale in pensione Gary Prado Salmón, il veterano militare responsabile della cattura di Ernesto Che Guevara nel 1967.

Il generale in pensione Gary Prado Salmón
Il generale in pensione Gary Prado Salmón

Proprio il generale Prado Salmón, infatti, nel 2008 venne processato e condannato per terrorismo su denuncia del governo di Morales, con l’imputazione di aver incoraggiato la secessione del Paese durante la crisi politica del 2008: quando si scontrarono da una parte il governo nazionale e il Movimento al Socialismo (MAS) e dall’altro i prefetti dipartimentali della regione conosciuta come il “Media Luna” (Santa Cruz, Beni e Pando, Tarija e, secondo alcuni, anche Chuquisaca) che tentarono dei governi regionali autonomi rifiutando il progetto costituzionale del presidente Morales. Quel gruppo, inoltre, è ritenuto responsabile di attentati a edifici statali e gasdotti. Oggi Morales conferma di ritenere inammissibile la richiesta di amnistia: «Dividere la Bolivia è alto tradimento per la patria, per lui non ci può essere amnistia; tutti dobbiamo difendere l’unità della patria, questo ho imparato da soldato, è qualcosa di imperdonabile che io sappia», ha detto il presidente ai giornalisti lunedì 11 luglio. Ma, subito dopo, ha sottolineato che il futuro del generale Prado Salmón dipenderà dalla giustizia.

Bolivia, 9 ottobre 1967. Ernesto Guevara viene catturato e giustiziato dai militari boliviani
Bolivia, 9 ottobre 1967. Ernesto Guevara viene catturato e giustiziato dai militari boliviani

Da ormai più di sei anni, Prado è agli arresti domiciliari per motivi di salute e la scorsa settimana ma i giudici lo hanno obbligato ad assistere alle udienze del processo. E la scorsa settimana, l’ex ambasciatore di Bolivia in Brasile, Jerjes Justiniano, aveva chiesto a Morales di concedere un’amnistia politica a Prado, che è disabile e su una sedia a rotelle. Dicendo che la sua richiesta era sostenuta da Osvaldo “Chato” Peredo, ex consigliere del Municipio di santa Cruz per il Movimiento al socialismo, il partito di Evo Morales. Peredo è il fratello di Inti y Coco, che accompagnarono il Che nella guerriglia del 1967 in Bolivia, dove il Comandante Guevara fu giustiziato dai militari boliviani.

Condannati tre carabinieri per la morte di Riccardo Magherini

Guido Magherini, padre di Riccardo Magherini, morto a seguito di una colluttazione con i carabinieri, dopo la lettura della sentenza del tribunale di Firenze, 13 luglio 2016. ANSA/MAURIZIO DEGL INNOCENTI

Condannati per omicidio colposo tre dei quattro carabinieri che nella notte tra il 3 e 4 marzo 2014 a Borgo San Frediano, nel centro di Firenze, fermarono Riccardo Magherini, 39 anni, ex calciatore della Fiorentina che vagava per quelle vie a due passi dall’Arno. Non stava bene, era preda di un attacco di panico. Come è accaduto purtroppo in altri casi, durante il fermo, il ragazzo venne ammanettato e immobilizzato a terra con violenza, nonostante le disperate urla, come testimoniarono i passanti. Oggi la sentenza del giudice Barbara Bilosi che ha condannato due carabinieri a 7 mesi e un terzo a 8 mesi. Il giudice li ha dichiarati responsabili, in concorso colposo, di aver determinato la morte avvenuta «per arresto cardiocircolatorio per intossicazione acuta da cocaina associata ad un meccanismo asfittico». Il quarto carabiniere è stato assolto per non aver commesso il fatto, come anche le due volontarie della Croce Rossa a bordo dell’ambulanza chiamata per soccorrere Magherini in piena crisi respiratoria. Nel dispositivo della sentenza si afferma infatti che «dopo averlo non senza difficoltà immobilizzato e ammanettato», tennero Magherini “prono a terra”, in una «situazione idonea a ridurre la dinamica respiratoria».
La famiglia Magherini con il padre Guido (nella foto) e il fratello Andrea hanno subito reagito chiedendo giustizia per Ricky. In rete è nata subito una grande mobilitazione (qui la pagina fb) che è sfociata anche in manifestazioni pubbliche a Firenze.

Il caso di Riccardo è simile ad altri, come quello di Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e Michele Ferulli. Tutti cittadini che, nelle mani delle forze dell’ordine, hanno perso la vita. Per non parlare poi di Stefano Cucchi il cui avvocato Fabio Anselmo difendeva anche la famiglia Magherini.
Il senatore Pd Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani a Palazzo Madama che fu uno dei primi a denunciare tutte le ombre della morte di Magherini in una iniziativa pubblica, ha detto, dopo la sentenza: «Non abbiamo sbagliato a sostenere questa battaglia per la giustizia».

In Egitto sparizioni forzate (e torture) in aumento costante. Così è morto Regeni?

Orrore allo stato puro, quello che troviamo in 66 pagine di rapporto di Amnesty su sparizioni e torture in Egitto. Qualche esempio terribile. Nel 2015 Islam Khalil, 26 anni, è stato fatto sparire per 122 giorni. Tenuto bendato e ammanettato per l’intero periodo, è stato picchiato brutalmente e sottoposto a scariche elettriche anche sui genitali. Una volta, negli uffici dell’Nsa, l’Agenzia per la sicurezza nazionale, della città di Tanta (a nord del Cairo), è stato tenuto sospeso per i polsi e le caviglie per ore, fino a quando ha perso conoscenza.

Una volta, un agente che lo stava interrogando gli ha detto: «Pensi di avere qualche valore? Ti possiamo uccidere, arrotolarti in una coperta e buttarti in una discarica e nessuno chiederà di te». In un’altra occasione, un secondo agente lo ha sollecitato a dire le ultime preghiere mentre gli stava somministrando scariche elettriche. Le persone che spariscono vengono prelevate in strada o in casa, da agenti armati, ma senza documentazione o mandati di arresto.

Dopo 60 giorni Islam Khalil è stato trasferito in quello che ha chiamato “l’inferno”, ossia gli uffici dell’Nsa a Lazoughly, dove sono proseguite le torture. A Lazoughly, a giudizio unanime il peggior centro di detenzione dell’Nsa, si stima si trovino centinaia di detenuti.

Il caso di Islam Khalil è uno dei 17 su cui Amnesty International ha raccolto testimonianze dirette che vengono diffuse oggi in un rapporto dal titolo: “Ufficialmente tu non esisti”, ma si stima che in Egitto le sparizioni forzate siano dalle tre alle quattro al giorno e che dalla presa del potere del generale Al-Sisi, che ha destituito il presidente eletto Morsi nel 2015, le sparizioni forzate siano migliaia. E con tutta probabilità Giulio Regeni è una delle vittime di questo metodo di lavoro delle forze di sicurezza egiziane. Che pure si ostinano a ribadire che nel Paese non c’è nessuna sparizione forzata – non parliamo neppure della verità sul caso Regeni.

Regista delle sparizioni, ideatore del metodo di lavoro, sembra essere il ministro dell’Interno Magdy Abd el-Ghaffar, già noto per il lavoro del Servizio per le indagini sulla sicurezza dello stato (Ssi), la polizia segreta dei tempi di Mubarak, smantellata dopo la cacciata dell’ex presidente e oggi rinata con il nome di Nsa.
Minorenni e familiari di attivisti non sfuggono alle torture e alle sparizioni: Mazen Mohamed Abdallah, fatto sparire quando aveva 14 anni, è stato ripetutamente violentato con un bastone di legno per estorcergli una falsa “confessione”.

Aser Mohamed, stessa età, è scomparso per 34 giorni durante i quali è stato picchiato, colpito con scariche elettriche su tutto il corpo e sospeso per gli arti. Alla fine è stato portato di fronte a un procuratore che, quando questi ha detto che la confessione gli era stata estorta, lo ha minacciato di nuove scariche elettriche.

Le testimonianze e i segni di tortura gettano nuova luce – se ce ne fosse stato bisogno – sulla vicenda di Giulio Regeni: molti dei segni lasciati sui corpi dei torturati nelle prigioni dell’Nsa sono infatti simili a quelli trovati sul corpo del dottorando sparito e ritrovato morto a il Cairo. La mancanza di trasparenza e il fatto ce l’Egitto neghi l’esistenza delle sparizioni forzate, rendono più probabile e verosimile che Giulio sia stato vittima di un rapimento simile. Alcune fonti, ricorda Amnesty, parlano di un prelevamento avvenuto assieme a un cittadino egiziano non identificato.


 

Leggi anche: la vicenda di Malek Adly, avvocato dei diritti umani, arrestato ad aprile


 

«Le sparizioni forzate sono diventate uno dei principali strumenti dello stato di polizia in Egitto. Chiunque osi prendere la parola è a rischio. Il contrasto al terrorismo è usato come giustificazione per rapire, interrogare e torturare coloro che intendono sfidare le autorità» – ha dichiarato il direttore del programma Medio Oriente di Amnesty, Philip Luther, aggiungendo – «Le autorità egiziane si ostinano a negare l’esistenza del fenomeno. Noi denunciamo non solo le brutalità cui vanno incontro gli scomparsi ma anche la collusione esistente tra le forze di sicurezza e le autorità giudiziarie, il cui ruolo è quello di mentire per coprire l’operato della sicurezza o non indagare sulle denunce di tortura, e che in questo modo si rendono complici di gravi violazioni dei diritti umani».

Anche Human Rights Watch ha denunciato pratiche simili, parlando di una serie di ragazzini, prelevati, torturati e poi fatti sparire, nell’aprile scorso ad Alessandria. Molte testimonianze raccolte anche in quel caso, segno che l’orrore egiziano è quotidiano.

Binario unico. Caffè del 13 luglio 2016

Binario unico. L’Italia si sente così. La strada è segnata dalle rotaie, non si può che andare avanti, senza alternative, senza vie di scampo. La tragedia ferroviaria tra Andria e Corato è la metafora della condizione comune. Meglio, della sorte che investe gli studenti, le mamme che vanno in città a comprare, il personale ferroviario, le famiglie di ritorno da vacanze low cost, o una ragazza che corre dal fidanzato, tutti pendolari. Un’altra Italia, quella che dovrebbe provvedere, che si è data il compito di decidere, corre a velocità così alta da non saper mai dire di chi sia la colpa. Non sa perché lavori programmati nel 2007 non siano neppure cominciati, e come mai gli investimenti stanziati dall’Unione Europea non si riescano a spendere. L’Italia sul binario unico muore, l’altra non capisce come sia potuto accadere. Ecco i tutoli: “Morire sul binario unico”, Corriere della Sera, “La strage sul binario unico”, La Repubblica, “Apocalisse sul binario unico”, La Stampa, e infine “Binario morto”, Il Giornale.
Questa tratta è sul binario unico, dice un ferroviere a Giuliano Fascini, di Repubblica. Tra la stazione di Andria e quella di Corato ci sono 17 chilometri e dieci minuti esatti di viaggio. «Nel momento in cui un treno parte da qui io do comunicazione al collega di Andria che tiene il treno fermo in stazione e gli dà il via libera per partire soltanto quando la vettura è arrivata» «Comunichiamo tra noi via fonogrammi. Quando avviene lo scambio, quando cioè i treni si incrociano, noi facciamo scattare il verde e con la paletta diamo il segnale al treno di partire». Il sistema si chiama “blocco telefonico”. Le comunicazioni passano via telefono e il segnale arriva dalla paletta. Dunque, è probabile che la tragedia -per ora i morti sono 27- sia stata causata da “errore umano”. Errore umano, in un tempo nel quale un congegno elettronico che blocchi i treni quando fossero in rotta di collisione costerebbe due soldi, su una tratta ferroviaria che si era deciso di raddoppiare nel 2007, in una Europa che nel 2008 aveva investito 180 milioni per raddoppiarla ma i lavoro non sono neppure iniziati, in una parte del Paese, il sud, al quale Sblocca Italia e Legge di Stabilità hanno destinato soltanto 1,2% dei 4.850 milioni previsti (la denuncia, sul Mattino di Napoli).
Perché? Perché le misure di sicurezza (il controllo automatico) obbligatorio sulle linee gestite direttamente dalle Ferrovie dello Stato non sono obbligatorie per le linee private come quella Andria Corato? Perché i soldi dell’Europa non sono stati spesi? È colpa della Regione Puglia, della burocrazia, delle società che lucrano gli appalti e che ormai – il caso della metropolitana C di Roma insegna- hanno più potere del potere pubblico che concede l’appalto? Comunque la pensiate, quei 27 corpi smembrati, straziati, irriconoscibili erano fino a ieri persone, erano cittadini italiani. Probabilmente pagavano le tasse e pensavano di fruire, su quei treni, di un pubblico servizio. Purtroppo sbagliavano: il criterio che tutto muove ormai è quello del plusvalore, del profitto o, come si dice con un eufemismo, della redditività. Ferrovie dello Stato curano con attenzione l’alta velocità, che rende bene per l’azienda, si paga tutta,ma funziona anche per l’utente. A Matera, capoluogo e città della cultura 2019, invece, non si arriva in treno. Costruire quella tratta -ho sentito dire in televisione a una deputata del partito di maggioranza- non sarebbe economicamente redditivo. L’idea del servizio pubblico è evaporata. Errore umano? Possibile. Ma direi anche omissione di pubblico servizio

Ruvo di Puglia, non è errore umano ma inefficienza di un intero Paese

Le carrozze distrutte ANSA/ LUCA TURI

Errore umano. Accertare le responsabilità. Con un’inchiesta amministrativa e un’altra penale. Il cordoglio. Faremo luce. Non deve più accadere. È ormai un disco rotto il frasario post-tragedia nel nostro Paese. Poi guardi le immagini dei due treni in mezzo alla campagna, con i rottami finiti a decine di metri, leggi di ora in ora il numero dei morti salire da troppi a maledettamente troppi e ti fermi a pensare a come andrà dopo. Anche in questo caso non serve la sfera di cristallo: oggi qualche dettaglio sulla tragedia, domani le storie personali delle vittime, tra qualche giorno i funerali e poi i riflettori si abbassano. Passa qualche settimana e ci sono le indiscrezioni sulla scatola nera, qualche mese e arriva l’esito di una perizia e poi, con calma, si apre il processo. Non merita le prime pagine, i familiari non sanno più a quale ufficio di quale ente rivolgersi per chiedere giustizia, verità. Sempre più soli. Intanto in aula, udienza dopo udienza, devono affrontare il dolore che riaffiora e l’ipocrisia di una verità che si consolida, se si consolida, a uso e consumo dei più attrezzati.

È andata così quando è arrivata l’assoluzione dei dirigenti delle Ferrovie imputati per il disastro di Crevalcore. Il 7 gennaio 2005 alle 12,53 un merci e un regionale si scontrano sulla Verona-Bologna allora a binario unico: la responsabilità per i 17 morti e gli 80 feriti, ha decretato il processo, è del macchinista e del capotreno, entrambi morti. Errore umano. Poco importa se in quella fitta nebbia il cantiere per il raddoppio della linea minava la sicurezza dei veicoli in transito. Poi c’è la variabile dei tempi del processo. Viareggio: alle 23,48 del 29 giugno 2009 un treno carico di gpl attraversa la stazione. Un asse corroso sotto una carrozza si spezza, quattro cisterne si ribaltano e le esplosioni del gas fuoriuscito uccidono 32 persone. A fine anno è attesa la sentenza di primo grado ma anche la scure della prescrizione per i reati di incendio e lesioni colpose.

Errore umano, dunque, anche nel caso della strage sulla Bari-Barletta? Quella linea ferroviaria privata è un fiore all’occhiello del Sud, non c’entrano le due Italie, dice qualcuno. O forse le due Italie non sono semplicemente quella del Nord e quella del Sud. Astraendosi dal caso specifico, resta un dato di fatto: la distribuzione degli investimenti in infrastrutture e trasporti è diversa tra alta velocità e treni pendolari e anche tra Nord e Sud del Paese. 5 miliardi distribuiti così: 60 milioni a sud di Firenze e il resto al Nord, il 98,8% contro l’1,2 del Centro-Sud. Si quadruplica la Lucca-Pistoia spendendo una somma uguale a tutta la spesa per il Mezzogiorno. In tutto il Sud i treni pendolari sono meno di quelli della Lombardia. E Le risorse destinate al trasporto locale sono sempre meno: nel 2016 siamo a -25% rispetto al 2009.

C’è anche un’altra questione, legata agli esiti di privatizzazioni e tagli. Pubblico o privato che sia, l’obiettivo primario è ormai la riduzione dei costi: a farne le spese – come dimostrano molti degli incidenti ferroviari più recenti – è la prevenzione, la sicurezza. Sulla Barinord non era ancora attivo un sistema di segnalazione dei binari occupati. Che sia un treno o un albero caduto, il macchinista se lo ritrova davanti senza poterci fare molto. Su una tratta a binario unico questo è inammissibile, come è inammissibile che il segnale di via libera sia limitato a un fonogramma, in pratica una telefonata da un estremo della linea all’altro.

Il problema dunque non è tanto il raddoppio dei 9mila chilometri di binari unici italiani: tra Andria e Corato era previsto (e ci sono una gara e 31 milioni pronti per farlo) ma nella gran parte dei casi sarebbe impossibile per l’orografia dei luoghi o per la spesa troppo ingente rispetto al numero di passeggeri che utilizzano quelle tratte. Ora scopriamo che quel sistema di sicurezza che blocca il treno in caso di ingombro sui binari, doveva essere attivato in due tranche su quella linea: una parte entro l’anno, l’altra entro il 2017.

Uno dei due treni ieri partiva in ritardo di 8 minuti su una tratta che si percorre in dieci. L’altro è partito in orario, probabilmente senza aver ricevuto l’informazione del ritardo dell’altro convoglio. Errore umano dunque? Il fonogramma, la telefonata da un capostazione all’altro, non è andata a buon fine? Un macchinista pensava di avere via libera e non ce l’aveva? Lavori in corso avevano per qualche strana ragione trasformato in verde un semaforo che invece doveva essere rosso? Le indagini lo accerteranno, forse.

Ma su una linea che non utilizza il sistema che blocca il treno in caso di binari occupati, è lecito ridurre tutto all’errore umano soltanto se l’umano in questione è quello che, a luglio 2016, ancora non ha fatto in modo che quella tecnologia fosse operativa. O parliamo dell’errore umano di chi distribuisce i finanziamenti secondo criteri clientelari, di chi per ragioni di profitto o di presunto efficientamento taglia sulla sicurezza, di chi usa male o non usa i finanziamenti pubblici oppure, per favore, non parliamo di errore umano.

Se la democrazia si piega ai diktat di questa finanza

Bisognerebbe contare il numero di volte in cui politici e media hanno annunciato di avere trovato la soluzione definitiva per mettere al sicuro il sistema bancario. E il numero di volte in cui poco dopo, puntualmente, si è ripresentata una situazione di emergenza, una crisi, un possibile disastro. In Italia il fondo “Atlante” era stato presentato come la soluzione ai problemi dei nostri istituti di credito. Con la Brexit si scatena uno “tsunami” sui mercati, un “terremoto” in Borsa, ed eccoci al punto di partenza: il governo ai ferri corti con Bruxelles sugli aiuti, dopo Atlante spunta un super-fondo del governo, arriva una garanzia pubblica fino a 150 miliardi sulle obbligazioni bancarie, ma molti sostengono che non sia ancora sufficiente. Per l’ennesima volta le banche in bilico a causa dell’instabilità finanziaria, o in altri termini tutti gli sforzi della politica sono diretti a salvare la finanza da se stessa. La Brexit è stata sicuramente un evento di portata storica, e almeno in parte inatteso. Non ci sono dubbi sul fatto che ci possano essere conseguenze sul piano economico. Dall’incertezza sul futuro al comprendere quali potranno essere i rapporti dell’Ue con la City di Londra, fino a oggi capitale finanziaria del Vecchio continente. Ancora prima, bisogna mettere in conto l’irrazionalità dei mercati e i comportamenti in “gregge”: se qualcuno inizia a vendere il prezzo scende, il che porta altri a vendere a loro volta, in una spirale che si auto-alimenta e scatena il panico. Perché, però, nuovamente sono le banche al centro della bufera? Pensiamo a una banca come a una piramide rovesciata. La punta è costituita dal suo patrimonio, semplificando molto, dai soldi di proprietà della stessa banca e su cui si può contare nei momenti di difficoltà. Sopra c’è la massa di prestiti concessi.

 

Una finanza “too big to fail” ricatta il mondo politico, minaccia catastrofi se non viene salvata. Non è difficile capire perché sia sempre più difficile riconoscersi in questa Europa

Sopra ancora, c’è uno strato che per molte banche è nettamente più grosso, e sono le operazioni speculative e il trading in proprio. La punta tiene tutto in equilibrio, nel senso che il patrimonio è il parametro fondamentale per giudicare la stabilità di una banca. Se c’è un crollo in Borsa, avvengono due cose. La punta si assottiglia, perché il valore delle azioni e quindi il valore patrimoniale della stessa Banca cala. Nello stesso momento lo strato più grosso della piramide – attività finanziarie e speculative – pesa sempre di più a causa delle perdite sui mercati. Il risultato è una struttura estremamente squilibrata. Investitori e mercati vedono questo squilibrio e vendono i titoli della banca in difficoltà, o addirittura speculano su un possibile crollo. E nuovamente la spirale rischia di auto-alimentarsi. Molte delle più grandi banche europee negli ultimi anni hanno investito sempre di più in Borsa, scommettendo su titoli complessi e ponendo un rischio sistemico per l’intero sistema finanziario. Con un problema in più: il sistema finanziario è fortemente inter-correlato, ovvero le grandi banche sono legate le une alle altre. Non solo gigantesche piramidi rovesciate ed estremamente instabili, ma talmente vicine l’una all’altra che se ne viene giù una parte un effetto domino.
Se questa è la situazione, facile che a ogni problema si scateni il panico. Mantenere l’equilibrio è estremamente difficile, al primo soffio di vento rischia di venire giù tutto. Le possibilità sono due: o si costruiscono piramidi diverse, o si puntella il tutto dall’esterno. Fuor di metafora, o si cambia alla radice l’attuale sistema finanziario, o l’unica possibilità è continuare a iniettare soldi e garanzie pubbliche, in attesa che succeda un miracolo, o più realisticamente fino alla prossima crisi e al prossimo salvataggio. Per le banche italiane i problemi sono altri. Tranne qualche eccezione, non si sono lanciate all’inseguimento del modello anglosassone di finanziarizzazione e speculazione, rimanendo relativamente più ancorate ai prestiti all’economia reale, ma questo, paradossalmente, oggi costituisce un punto di debolezza.

Questo articolo continua su Left in edicola dal 16 luglio

 

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Anche i binari sono diseguali

La rete ferroviaria di un Paese è il certificato di famiglia del suo sviluppo. Un monumento si può velocemente sbianchettare, un lungo mare è possibile pulirlo e riacciotolarlo, ad una strada si può aggiungere una sbavata di asfalto, un porto si cantierizza in qualche mese con un bando europeo, un parco si ripulisce con un occhio ben allenato alle erbacce e alle sporcizie, un aeroporto cresce con un nuovo cubo prefabbricato. La ferrovia invece è ferro, legno, bulloni e passaggi infilati in gola: ci vuole fatica vera a spostare una ferrovia, lavoro pesante e sguardo lungo, lunghissimo poiché serve un occhio almeno qualche chilometro più lungo del capolinea.

Per questo la rete ferroviaria è la sindone a traversine di uno Stato: non si bluffa con qualche gingillo ma ha bisogno di un progetto che tenga conto di tutti gli anni prima. Per questo quella foto dall’alto dei due treni accartocciati in uno scontro frontale è un’immagine che non lascia scampo: dicono che si viaggiasse in deroghe alle norme di sicurezza, lì, dove l’errore umano sembra dovuto ad un fonogramma inascoltato. Un fonogramma: qui i treni partono come sessant’anni fa.

Se la politica non fosse un ring sapremmo tutti che questo incidente è lungo almeno sessant’anni, come il metodo di sicurezza applicato: ci sono rughe di questa Italia che non riescono a nascondere una diseguaglianza che s’è fatta mappa, ambiente o ferrovia. Un Paese che fruga le montagne per trasportare merci a trecento all’ora e intanto si scorda due treni su un binario unico in senso opposto in mezzo ad una fila d’alberi. A volte anche le tragedie non hanno nemmeno bisogno di troppe didascalie. Il 98% dei binari hanno un sistema di sicurezza che evita incidenti del genere. Qui no.

Il principale errore umano è avere anche i binari diseguali.

 

12 luglio 1944, la strage dimenticata e il gappista ragazzino

Campo di concentramento di Fossoli, 12 luglio 1944: “I venti ebrei non erano ancora rientrati. Uno ad uno quei settanta vennero poi a salutarci tutti, e quella notte al campo, si fu più preoccupati“. Alba Valech Capozzi, internata tra gli ebrei, ricorda così gli attimi che precedono la fucilazione dei 67 prigionieri partigiani.

Nel frattempo, nel vicino Poligono di Cibeno, su ordine delle SS i venti ebrei sono costretti a scavare una grande fossa. Ricondotti al campo all’alba, agli ebrei viene impedito di rientrare nelle proprie baracche: sono costretti a dormire in uno dei locali di sorveglianza del campo e gli viene ordinato di non far parola con nessuno di quanto hanno visto. I settanta, invece, vengono raggruppati e accompagnati sul piazzale del campo. Divisi in tre gruppi, i nazisti caricano i partigiani su dei camion e li portano al Poligono.

Lapide commemorativa della strage di Cibeno © Fondazione Fossoli
Lapide commemorativa della strage di Cibeno © Fondazione Fossoli

Nella chiamata a raccolta, il Maresciallo Haage decide di risparmiare Renato Carenino. La scrupolosa metodicità con la quale i nazisti pianificano la rappresaglia per un attentato subito a Genova, non può includere Carenino: sarebbe il settantunesimo della lista. Durante quella notte, c’è chi la scampa e chi scappa: uno dei prigionieri – Teresio Orivelli – riesce a nascondersi, mentre Mario Fasoli e Eugenio Jemina arrivati al poligono, dopo essersi lanciati un rapido sguardo d’intesa si scagliano sui tedeschi riuscendo a scappare. La rivolta scatenata dai due per fuggire alla morte, viene subito sedata dalle SS che allineano i prigionieri sui bordi della fossa e con un colpo di fucile ci scaraventano dentro i loro cadaveri. E’ una rappresaglia, un atto legittimo: poco prima di sparare, i tedeschi leggono ai prigionieri partigiani la condanna.

Come già accaduto alle Fosse Ardeatine nella primavera di quello stesso anno, i tedeschi  per non lasciare traccia, ricoprono la fossa. Se però a Roma l’eccidio dei 335 era stato comunicato ufficialmente una volta eseguito, la notizia di Cibeno arriva a Genova addirittura una settimana prima della strage. Sui muri dei palazzi della città ligure, il 6 luglio infatti compare un manifesto con il quale i nazisti comunicano alla popolazione che in rappresaglia per l’attentato subito il 25 giugno – in cui erano stati uccisi sei dei loro soldati – 70 partigiani sono stati uccisi. Ecco spiegato, perché il settantunesimo partigiano, Carenino, viene risparmiato.

Commemorazioni della strage di Cibeno, 12 luglio 2016 © Fondazione Fossoli
Commemorazioni della strage di Cibeno, 12 luglio 2016 © Fondazione Fossoli

Nel modenese invece i tedeschi tacciono sull’accaduto e impongono il silenzio ai venti ebrei, al custode del poligono e al vescovo di Carpi – precipitatosi sul luogo della strage per fermare i nazisti e benedire le vittime. La voce, però, inizia a circolare. I prigionieri rimasti a Fossoli non vedendo tornare i settanta partiti all’alba del 12 si insospettiscono e tra la popolazione vicina al luogo della strage la notizia si sparge. Pochi giorni dopo, il 15 luglio, Fossoli, che era stato usato dai repubblichini come campo di concentramento e dai nazisti come anticamera dei lager, viene chiuso. Di lì, l’intervento delle autorità e la ritirata delle truppe tedesche, portano all’esumazione dei corpi e alle solenni esequie a Milano, il 24 maggio 1945.

Rievocata in occasione del suo anniversario e rimasta impunita dai processi che sono stati insabbiati e non hanno quindi potuto dargli giustizia, la strage del Cibeno viene oggi ricordata per la più giovane della sue vittime.

Felice Lacerra, il gappista ragazzino

La storia lo ricorda come il più giovane protagonista di un attentato partigiano. Operaio alla sezione V della Breda di Sesto San Giovanni, Felice Lacerra è a dieci anni, tra gli autori dell’attentato alla Casa del Fascio di Sesto. E’ il 10 febbraio 1944. Il ragazzo della Quinta viene arrestato subito e poi trasferito prima al Macello di Monza, e poi al carcere di San Vittore. Il 27 febbraio 1944 è a Fossoli dove resta fino al giorno della strage. Nella tenera lettera ai genitori e con tutta l’ingenuità che contraddistingue la sua età, il giovane gappista descrive il campo come un luogo piacevole dove: “si può stare all’aria a prendere il sole“. A luglio Felice viene aggiunto ai settanta della lista di Cibeno e muore a sedici anni assieme alle altre 67 vittime della strage. La storia di Felice Lacerra viene oggi ricordata dallo studioso Marco Manuele Paolini nel suo libro, Il ragazzo della Quinta.