Home Blog Pagina 1088

L’urlo dell’America ferita il coraggio di Diamond e di Ieshia

Giovedì 7 luglio, a Dallas, a manifestare contro le violenze della polizia, a gridare Black Lives Matter, “le vite dei neri valgono”, c’erano tante donne e tanti ragazzi armati di video telefono, o in diretta facebook. Come Diamond Reynolds, che aveva avuto i riflessi e la freddezza di filmare la morte del compagno (mentre la figlia stava sul sedile di dietro), ucciso da un poliziotto bianco, il quale poco prima li aveva fermati per via un fanalino  rotto: «Gli aveva detto lei di prendere patente e libretto, signore Non mi dica che è morto, non così». E l’America ha sentito.

Ma quella sera  in piazza c’erano anche tra “i venti e i trenta manifestanti che sfilavano con fucili da guerra. E li portavano apertamente, con la cinghia a tracolla, sulla schiena”. “In Texas, it was not only legal. It was commonplace”, scrive il New York Times: “In Texas ciò non solo è legale, è ordinario, addirittura d’uso comune”. Quando un cecchino si è messo a sparare, dalla sua postazione in alto sopra un parcheggio,  e ha ucciso 5 poliziotti bianchi, si è temuto di avere davanti la scintilla di una guerra civile a sfondo razziale. Neri umiliati e discriminati in quanto neri, che sparano contro la polizia di chi li discrimina. Non era così, non è così.

Dopotutto la borghesia nera sta chiedendo da anni law and order almeno quanto la bianca. Dopo il sermone e i gospel, può capitare di sentire nelle chiese di Harlem uomini e anche donne afroamericani che rintuzzano le lamentele per i troppi ragazzi di colore finiti in carcere: «Imparino a non andare per strada, non seguano bande, rispettino la proprietà». Dopo tutto è stata proprio la borghesia nera, assieme a quella ispanica, a sostenere nelle primarie democratiche la candidata dell’establishment Hillary Clinton.

The Nation, grande settimanale di sinistra, riprende la sigla del Black Lives Matter, movimento nero venuto alla ribalta in questo giorni e il cui leader è stato arrestato per poche ore, e dice in un suo titolo: “Black Lives Still Must Matter, Even After Dallas”, “le vite nere hanno ancora più valore dopo Dallas”.  Aggiunge però che «nessuna vita sarà più al sicuro fin quando non faremo i conti con la violenza».

Fare i conti con la violenza vuol dire farli con la libera vendita delle armi. Negli Stati Uniti circolano, secondo un report del Congressional Research Service, 357 milioni di armi da fuoco per una popolazione di 319 milioni di persone. Il famoso secondo emendamento – «A well regulated Militia, being necessary to the security of a free State, the right of the people to keep and bear Arms, shall not be infringed» – parlava di “ben organizzate milizie”. Nel 1791 erano i volontari in armi che difendevano i coloni americani dagli imperi inglese e spagnolo, oggi le si potrebbe identificare nell’esercito e nella stessa polizia. Ma la critica liberista allo Stato federale ha voluto presentare quel famoso secondo emendamento come l’affermazione del diritto individuale all’autodifesa armata. Fino alla sentenza del 2012, adottata dalla Suprema Corte con il voto di 4 giudici conservatori e del moderato Kennedy, che ha scolpito nel diritto questa interpretazione, liberista e individualista. Obama ha posto il problema: più in là non ha potuto andare.

Armi a parte, chi ha sparato sui poliziotti, chi sono gli autori delle recenti e delle prossime stragi? Si potrebbe rispondere: schegge estreme di un’anti mondializzazione feroce quanto disperata. A Dallas Micah Johnson, un ragazzo nero che vediamo nelle foto in divisa o col pugno chiuso, ha sparato sui poliziotti bianchi come aveva imparato a sparare in Afghanistan sui talebani. A Orlando Omar Mateen, americano con pulsioni omosessuali, figlio di un afgano simpatizzante Taliban, ha massacrato i frequentatori di una discoteca gay e dedicato la strage al Califfo del sedicente Stato islamico. C’è pure il figlio di Bin Laden, che gli americani armarono perché combattesse l’armata rossa in Afganistan, si fa vivo e minaccia nuove stragi contro l’America che gli ha ucciso il padre. “Nemici pubblici” che disseminano le città di lutti e dolori,  ma che alla fine sarebbero un prezzo, certo sgradevole, tuttavia sopportabile da pagare, contenibile con arresti e carcere duro, se fosse tutto lì, se il sistema tenesse e la mondializzazione avesse il vento in poppa.

Non a caso il presidente Obama ha deciso di presentarsi a Dallas con George W. Bush, che è di quelle parti, per dare un segno di unità, ha ricordato i poliziotti uccisi ma anche i neri uccisi, ha provato a dire che no, questa non è una rivolta nera, l’america non ritorna agli anni Sessanta. Eppure non ha torto Trump: «L’America è divisa». Si cerca, prova a dialogare, a riconoscersi sui social e per le strade, ma è divisa.

Ieshia Evans,  infermiera di 28 anni, fotografata a Baton Rouge mentre sola, nel suo vestito estivo svolazzante, sfida un cordone di polizia in assetto da combattimento, Diamond che filma e commenta in diretta la morte del boy friend, rappresentano il coraggio e dunque la speranza, ma mostrano al tempo stesso una sfiducia pofonda nelle istituzioni e nella polizia. Dalle quali ci si difende con la rete e facendo rete. Autorganizzandosi. In un certo senso sono le eredi di Tommie Smith e John Carlos, che nel 1968, dopo aver  vinto a Città del Messico la gara dei 200 metri, immobili sul podio alzarono al cielo il pugno ricoperto da un guanto, simbolo del Black Panther Party for Self-Defence. E queste giovani donne nere non trovano – come è sempre stato – la solidarietà solo di radical bianchi  e intellettuali. Questa volta trovano – anzi sono loro in qualche modo a seguire –  i millennial bianchi, in maggioranza bianchi, di Bernie Sanders. Ragazzi bianchi e neri si sentono parte di un’America nuova, che parte da Occupy Wall Street e ha la pretesa di rappresentare il 99% che subisce contro l’1% che decide.

Il razzismo, certo, è un retaggio terribile e imprescindibile – quanto dell’impulso che spinge il poliziotto a sparare non deriva dalla paura atavica dell’uomo nero, secondo gli stereotipi, ribelle, sessualmente indisciplinato, imprevedibile? – ma l’America di oggi è divisa soprattutto dallo spezzarsi della scala sociale e dal restarne due tronconi: uno sta in basso, l’altro in alto. Chi lavora e fatica giù, su chi decide e investe. Chi sta sotto vive nella Rete e usa la Rete come mezzo di autodifesa, chi è in alto controlla i vecchi (e tuttavia potenti) mezzi di comunicazione di massa. Non è solo l’America di sinistra, la sfiducia nelle élite è trasversale. E se le vecchie identità possono essere rievocate da slogan passatisti come “America first” – in fondo la stessa operazione del Brexit: prima gli inglesi! – si tratta tuttavia di una narrazione nostalgica, che rischia di non tenere e non ha molto da dire.

Nel suo The End of  White Christian America, Robert Jones ricorda che nel 2008 il 54% degli americani si potevano dire bianchi e cristiani, nel 2015 solo il 45%. E i giovani abbandonano più numerosi  le chiese: se il 27% degli over 65 ne frequenta una evangelica, lo stesso vale solo per il 10% dei millennial. Quando nel 2004 Bush vinse le elezioni contro Kerry, l’America bianca e cristiana fu l’arma segreta – 8 milioni di voti in più – con cui il suo guru Karl Rove gli consegnò il primato. Oggi la destra cristiana non riesce ad affezionarsi al suo candidato naturale, che era Ted Cruz; oggi il Tea Party, nocciolo duro iper liberista viene risucchiato dagli slogan anti mondialisti di Trump. E così la convention di Cleveland intronerà un candidato reazionario, imposto al partito a furor di popolo, ma che stenta a trovare finanziamenti  tra i ricchi della destra e  suscita la diffidenza delle corporation. La convention di Philadelphia consacrerà la prima candidata donna, ma che dovrà indossare un vestito rosso-Sanders per sperare di vincere in novembre, fino a prendere le distanze persino dal Ttip, vero totem delle multinazionali.

L’America si guarda allo specchio. Il sogno si è spezzato. Vecchie ferite non si sono ancora rimarginate e altre se ne aprono:  paura del futuro, paura di contare meno, sfiducia nell’establishment. La sbornia neoliberista sta smaltendo i suoi effetti inebrianti e le stragi dei lupi solitari come la violenza della polizia diventano il sintomo di un malessere profondo, da cui si può uscire immaginando una società nuova o, come teme Vauro in questa pagina, con l’urlo di Munch. Pochi sanno che la gran parte delle opere del pittore norvegese sono improntate all’ottimismo. Noi di Left scommettiamo sul futuro.

L’editoriale è tratto da  Left in edicola dal 16 luglio

 

SOMMARIO ACQUISTA

Contro la barbarie, i valori dell’illuminismo

C’erano bambini, giovani madri, fidanzati con la mano nella mano. Nonni e ragazzi a godersi l’aria della sera, col naso in su a guardare la luna e lo spettacolo dei fuochi su La promenade des anglais, lungomare elegante di Nizza. Erano le 22,40. Un camion bianco, lungo 15 metri, si è lanciato sulla folla. Sterzando a destra e a sinistra per prendere sotto quanti più birilli. Solo che i birilli erano persone, turisti arrivati in Côte d’Azur, francesi in festa per il 14 luglio, anniversario della rivoluzione del 1789, festa nazionale. Due chilometri di corsa: almeno 80 morti, oltre 100 feriti e fra questi almeno 15 in condizioni gravissime. L’autista è stato ucciso, pare da un agente in scooter che si è affiancato alla cabina di guida e gli ha sparato. Sul camion -dicono le autorità locali- sono state trovate armi e granate. Fittizie, pare.
L’apocalisse del nostro tempo, che rivela il volto disumano dell’uomo. L’odio per chi vive, per chi ama o va in vacanza. “L’attacco alla Francia”, così titola La Stampa, il terzo in 18 mesi, dopo Charlie Hebdo e il Bataclan. Dunque era un terrorista islamico alla guida del camion della morte? Sono stati trovati documenti di un franco-tunisino, Hollande ha parlato di “attentato islamista”. È verosimile, quasi certo! La libertà di satira, i giovani sulle terrazze di Parigi e ad ascoltar musica al Bataclan, la festa del 14 luglio. Le bestie che stuprano e sgozzano, che esercitano il potere tra Siria e Iraq, hanno buoni motivi per odiare la Francia.
L’illuminismo, la rivoluzione poi le campagne napoleoniche furono infatti la prima mondializzazione che affermava i diritti dell’uomo, mentre apriva le rotte del traffico delle merci. In quegli stessi anni si saldava il sodalizio tra un predicatore, Al Wahhab, feroce nemico della civiltà e della storia islamica, che sognava il ritorno al medioevo e la totale sottomissione a dio e al califfo, e Al Saud, capostipite della dinastia che regna ancora sull’Arabia e sui luoghi sacri. Contro la mondializzazione dei diritti, contro chi scriveva Le lettere persiane, Candide o il trattato sulla Tolleranza, nasceva una anti mondializzazione radicale intenta a cancellate diritti, cultura, immagini, statue e memoria di una grande civiltà. Si diffondeva un virus che ora attrae donne e uomini in occidente, che succhia il sangue di chiunque abbia origini berbere, arabe o islamiche. Con il senso di colpa: ci bombardano, uccidono i nostri figli, sfruttano le nostre risorse, ci impongono governi corrotti. Ma anche con il mito del ritorno a un passato, ingiusto e barbaro, dominato da guerra e fanatismo, ma nel quale trovare le radici e la forza di una presunta identità.
Che fare? Non cedere al panico: stanno perdendo. Gli attentati mostruosi fiancheggiano altrettanti insuccessi: a Mosul, a Kobane, nei pressi di Racca. Bisogna fare presto: togliere ogni rifugio agli uomini del Daesh, cancellare questo mito del califfato, mostrare che non può esistere una terra amministrata dall’anti mondializzazione del terrore. Questa è una “guerra giusta”. Non serve che venga combattuta dagli occidentali, ma le potenze “democratiche” devono togliere le travi dai binari su cui si muove chi la combatte. Proprio ieri Kerry e Lavrov si sono incontrati per concordare una linea d’azione comune in Libia.Bene. C’è qualche segno persino in Arabia Saudita: qualcuno comincia a capire che non si può andare avanti con la predicazione wahhabita o pagando imam che come quello di Brest, che pretende dai bambini francesi che non ascoltino mai la musica, crusca del diavolo. E poi l’Iran, che l’orrore per la barbarie sunnita può spingere ad aprirsi. E la Turchia, dove Erdogan minaccia ancora curdi e diritti, ma ora apre alla Russia e si pente degli scambi armi-petrolio coi terroristi.
Difendere libertà e diritti. Soprattutto non diventare come loro. Non è buonismo, è l’unico approccio possibile, la medicina più efficace per disarmare l’autista del camion, gli amici di Salah o Coulibaly, quell’Omar Mateen che la strage l’ha fatta nella discoteca Pulse in Florida. Vi traduco un brano dell’appello lanciato da Abou Mohammed Al-Adnani nel settembre di due anni fa, quando questo siriano era portavoce del Daesh e “ministro per gli attentati”. “Se non potete far scoppiare una bomba o sparare, sbrigatevela voi, ritrovatevi da soli con un infedele francese o americano e fracassategli la testa con una pietra, ammazzatelo a coltellate, investite la sua auto, gettatela nel burrone, strangolatelo, avvelenatelo”. Ci sono in questo triste brano tre elementi. La convinzione (o la speranza) che noi non sopporteremo il sangue versato degli innocenti. La richiesta d’aiuto, disperata e ricattatoria (Al Adnani sa che Daesh è una formazione effimera), a ogni “fratello” che vive male la mondializzazione. L’offerta di un sogno: negare tutto, rinunciare a tutto, ribellarsi contro tutto e scegliere la morte. In una prospettiva brutale e barbara e perciò salvifica. Arrestarli, combatterli a morte, ma prima di tutto rispondere dicendo : noi non siamo così.

La strage di Nizza, 84 morti. Prolungato lo stato d’emergenza

AGGIORNAMENTO ore 14

Tre giorni di lutto nazionale, 50 bambini ricoverati in ospedale. Ancora non si hanno notizie di alcuni italiani presenti a Nizza: la Farnesina non esclude che possano essere tra le vittime. 

CHI ERA L’ATTENTATORE
È suo, confermano gli investigatori, il documento d’identità trovato a bordo del camion refrigerato con il quale ha ammazzato 84 persone, ferendone oltre un centinaio. È cittadino tunisino (e non di doppia nazionalità come sembrava nei primi momenti) e si chiama Mohamed Lahouaiej Bouhlel, trentunenne nativo di Sousse e residente a Nizza. Non aveva alcun precedente legato al jihiadismo o al terrorismo né era schedato o noto ai servizi di sicurezza francesi e tunisini. La polizia lo aveva fermato e identificato in più occasioni per violenza privata – reato per il quale sarebbe stato condannato lo scorso marzo -, furto, violenza domestica e uso di armi.

Stamattina le forze dell’ordine hanno individuato e perquisito la sua abitazione, in un quartiere popolare nella parte orientale della città. Padre di tre figli, pare vivesse in condizioni economiche precarie – aveva fatto consegne per un anno, secondo la polizia – e che stesse divorziando, tanto che alcuni testimoni dicono che ultimamente appariva «depresso e instabile». I vicino lo descrivono come una persona solitaria, spesso in pantaloni corti e scarpe di sicurezza, e non religioso, o comunque non praticante, dal momento che non aveva osservato il digiuno del Ramadan. France 24 riporta che l’uomo ha ottenuto la patente per guidare mezzi pesanti come il Tir della strage soltanto un anno fa. E che proprio per aver perso il controllo di un camion era stato fermato a fine giugno.

*****

Finiti gli Europei di calcio, la Francia si rallegrava per il successo della macchina della sicurezza. E ieri celebrava la festa del 14 luglio, anniversario della presa della Bastiglia, anche a Nizza, sulla Promenade des Anglais, quando quel camion bianco ha percorso 2 chilometri di lungomare a 80 all’ora travolgendo la folla festante poco dopo lo spettacolo dei fuochi d’artificio. 84 morti e oltre 100 feriti, almeno 15 in condizioni gravissime. Non è ancora accertato, ma numerosi testimoni parlano anche di spari rivolti controlla folla.

Alla guida del camion ci sarebbe stato un 31enne franco-tunisino che viveva a Nizza, ucciso dalle forze di sicurezza. L’uomo, che avrebbe noleggiato il tir per compiere la strage, sarebbe già noto alle forze dell’ordine ma non per fatti legati alla radicalizzazione e al terrorismo di matrice islamica. Il portavoce del ministero dell’Interno francese ha spiegato che non è ancora accertato se abbia agito da solo o con dei complici. Una fonte della polizia ha dichiarato all’Afp che almeno una pistola è stata trovata all’interno del tir, ma secondo altre fonti di polizia ci sarebbero state a bordo del veicolo una granata inattiva e alcuni fucili, elemento che rafforza l’ipotesi della presenza di complici.

Questa notte Francois Hollande, che ha convocato un Consiglio ristretto di sicurezza e difesa per le 9 e poi si recherà sul luogo della strage, ha annunciato una serie di misure, tra cui l’estensione per altri tre mesi dello stato di emergenza che avrebbe dovuto cessare il 26 luglio e poche ore prima dell’attentato, a margine delle celebrazioni del 14 luglio, lo stesso Hollande aveva confermato invece di non voler rinnovare.

«Non ci stancheremo di combattere il terrorismo» ha detto il presidente francese. «Ho deciso, su proposta del primo ministro e dei ministri della Difesa e degli Interni, che manterremo alto il livello di funzionamento dell’operazione Sentinel, che può mobilitare 10.000 soldati e altri gendarmi e polizia. Ho anche deciso di fare appello alla riserva operativa, per alleviare il personale di polizia e militari. Li possiamo impiegare in tutti i luoghi in cui abbiamo bisogno di loro, e in particolare nel controllo delle frontiere». Nella notte alcuni siti hanno associato allo Stato islamico l’attentato, ma non è ancora giunta alcuna rivendicazione.

Io non ho le parole

Anche questa mattina, come tutte le mattine che sono dal lunedì al venerdì, dovrei scrivere il buongiorno in cui dico di quello che è successo nel giorno precedente e naturalmente oggi il tema del giorno è la carneficina di Nizza.

Ma io non ho le parole, su Nizza. Non ho parole perché non ho un pensiero compiuto sul dolore. Non uso parole per la cura che serve all’ecologia lessicale contro il terrore. Non so voi ma sempre più spesso mi capita di temere di perdere l’equilibrio tra l’opinione e l’involontario concorso esterno al terrorismo. Quindi niente, stamattina. Ve lo scrivo per onestà.

C’è una riflessione, questa sì, che vale la pena riportare. È di Paul-Henri Thiry d’Holbach, filosofo tedesco naturalizzato francese del ‘700 che si dedicò all’Encyclopédie: un professionista delle parole. Scrive nella sua opera Il buon senso (1772):

«Come si è potuti riuscire a persuadere esseri ragionevoli che la cosa più incomprensibile era per essi la più essenziale? Perché sono stati fortemente terrorizzati; perché, quando si ha paura, si cessa di ragionare; perché sono stati esortati soprattutto a diffidare della loro ragione; perché, quando il cervello è turbato, si crede a tutto e non si esamina più niente.»

Buon venerdì.

Un camion sulla folla a Nizza. 73 morti. Incubo terrorista

Un fermo immagine tratto da Sky Tg 24 mostra il camion da dove sarebbe partito il presunto attacco terroristico a Nizza, 14 luglio 2016. ANSA/SKY TG24 ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING

Promenade des anglais è il lungomare elegante di Nizza, il 14 luglio l’anniversario della Grande Rivoluzione, festa della Repubblica in Francia. Giochi pirotecnici, migliaia di niçoises e di turisti si godevano la brezza del mare, la luna e i fuochi. Un camion lungo 15 metri ha travolto le recinzioni e si è lasciato a tutto gas sulla folla.

Dicono i testimoni, che durante la folle corsa dal camion sparavano raffiche di mitra. Si parla di decine di morti , mentre scrivo, all’una della notte, la polizia parla di 73 vittime. L’autista del camion è stato ucciso. Niente si sa dei complici.

Su camion sarebbero state trovate armi e granate. Ed è panico terrorismo. Restate in casa, dicono le autorità. E parte la caccia all’uomo. È un incubo. La nostra vita è così: libera e non difendibile. Le ferite provocate dal terrorismo islamico – perché di questo sembra verosimile che si tratti- sono profonde. Difficili da rimarginare. Perché non hanno colpito agli europei di calcio? Probabilmente perché sarebbe stato più complicato,  per via delle misure di sicurezza, per il gran numero di flic disseminati intorno agli obiettivi sensibili.

Perché hanno scelto il 14 luglio? Perché la rivoluzione del 1789 è un simbolo. Con la rivoluzione parte una mondializzazione che afferma anche i diritti dell’uomo. Proprio in quegli anni nella penisola arabica si chiudeva l’alleanza tra Al Wahhab – fanatico predicatore religioso – e Al Saud – padre della dinastia saudita che voleva comandare e ha comandato sul medio oriente. Il credo comune si configura come una anti mondializzazione che propone il ritorno al medio evo, la distruzione di ogni civiltà, di quella islamica prima delle altre. Questo se – come, ripeto,  è verosimile ma non ancora certo- si è trattato di un attentato terrorista del Daesh.

Bisogna aspettare, conviene aspettare anche a dare un nome all’attentato. D’altra parte anche con il terrorismo è fondamentale restare freddi e lucidi quando si è sotto attacco. Per saper reagire, con efficacia e determinazione, quando il sangue è stato lavato e la vita è ripresa.

Babenco, il regista che denunciò la condizione dei bambini di strada

Pixote, Babenco

Il regista argentino  Hector Babenco, scomparso  il 14 luglio all’età di 70 anni, è riuscito a raccontare al cinema in maniera indiretta ma  incisiva e potente la feroce dittatura argentina, in cui  lo Stato e la Chiesa unirono le forze per stroncare una generazione di giovani di sinistra che sognavano e stavano costruendo un Paese moderno e progressista. La repressione violenta della fascia più giovane, democratica e vitale del Paese messa in atto da Videla  era rappresentata attraverso la vicenda di un ragazzino  brasiliano (Paese dove Babenco  aveva scelto di vivere) che finisce in riformatorio e si trova a scontrarsi contro una gerarchia stupida, ottusa, che conosce solo il linguaggio della violenza. Il film si chiamava Pixote, la legge del più debole (1982). Lo scrittore argentino Marcelo Figueras ci raccontava un anno fa in una intervista che proprio quella sera in cui a andò a vedere quel film al cinema con la sua ragazza  cambiò qualcosa di profondo in lui, ci fu una presa di coscienza se possibile ancor più profonda della vicende del suo Paese, l’Argentina, e cominciò il suo impegno di scrittore che poi lo avrebbe portato a pubblicare Kamchatka ( L’Asino d’oro edizioni), un romanzo che ha il coraggio di raccontare l’immane dramma della dittatura con gli occhi di un bambino.

Nel film Pixote, Babenco riprendeva la lezione di Buñuel e il suo I figli della violenza nel raccontare la povertà e l’emarginazione di ragazzini brasiliani costretti a vivere in strada e ad arrangiarsi. Ma  c’è anche un rimando anche alla poesia dei 400 colpi di Truffaut nella figura dell’ attore bambino (Fernando Ramos  Silva)  che obbliga ad aprire gli occhi sulla pazzia di un sistema “di governo” che dopo aver gettato larghi strati della popolazione nella più assoluta indigenza, voleva distruggerne anche le menti. Anche tenendo conto degli orrori istituzionali raffigurati in Scum, nulla nel cinema  degli ultimi quarant’anni si avvicina alla inquietante rappresentazione del tentativo di distruzione di un ragazzo di 10 anni come in questo film di Babenco che colpisce dritto al cuore.  In quest’opera il piccolo protagonista riesce a fuggire dal riformatorio, ma poi, per cercare di sopravvivere, finisce in un giro di droga, spaccio, prostituzione e omicido, restando intrappolato nella della malavita brasiliana. L’argentino Babenco deninciava un sistema sociale che in Brasile produceva tredici milioni di bambini senza casa e costretti a vivere di espedienti,  Ma come accenavamo, per metofora, Pixote rappresentava  la condizione dell’Argentina tutta.

Poi sarebbe venuto un film molto noto anche in Italia come il Il bacio della donna ragno (1984), con Sonia Braga e William Hurt, che accettò un ruolo non facile che era stato proposto a Burt Lancaster ( il quale rifiutò per paura di  rovinarsi l’immagine dal momento). Il  film che vedeva protagonista un omosessuale finito  in carcere era tratto dall’omonimo romanzo dell’argentino Manuel Puig. Dopo quel film candidato all’Oscar nel 1986 , Babenco  ha realizzato Giocando nei campi del Signore, ambientato nella giungla amazzonica, Cuore illuminato, in concorso a Cannes nel 1998, Carandiru, sulla strage compiuta nell’omonimo carcere brasiliano, e, tra i film da segnalare, Il passato ispirato al libro  che  ha fatto conoscere lo scrittore argentino Alan Pauls al grande pubblico. ( Qui una sua intervista su left). Babenco raccontava di aver scoperto quel romazo (pubblicato in Italia da Feltrinelli) in una libreria dell’aeroporto di Ezeiza in Argentina e  di esserne rimasto folgorato: in anni in cui in cui  si faceva un gran parlare di amore libero, tematizzava una passione fortissima fra un uono e una donna e la difficoltà  poi di separarsi, senza distruggere la memoria di ciò che era stato. Permettendo l’uno all’atra di realizzarsi prendendo una nuova strada. Con questo film Babenco diceva di voler rileggere un genere latinoamericano per eccellenza come il melodramma, ripulendolo da ciò che è eccessivo,  ma conservandone la struttura essenziale, in cui  la gelosia, l’abbandono, la vendetta, fanno parte di un teatro molto  familiare. De Il Passato, Babenco diceva: ” E’ un film d’amore per le donne. Il suo tempo narrativo cinematografico è psicologico, nonostante la vicenda copra un periodo molto lungo, sembra invece concentrata in una sola settimana. E’ anche una storia un po’ thriller, nella quale lo spettatore non capisce a volte che cosa stia accadendo, in fondo c’è un po’ di Rosemary’s Baby. E anche un po’di Krzysztof Kieślowski. Mi chiedo anche se non ho realizzato un “Scene da una separazione”, vent’anni dopo Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman”.

El Salvador contro le donne: fino a 50 anni di prigione per chi abortisce

In El Salvador l’aborto è illegale dal 1998. Per le donne che scelgono di abortire – anche coloro che sono costrette, a seguito di uno stupro o per salvaguardare la propria salute – le pene possono arrivare fino ad 8 anni di carcere. I diritti delle donne sembrano oggi, però, ancora più a rischio: il partito conservatore ha proposto di alzare quelle pene fino a 50 anni. La mozione presentata dalla destra al Congresso del piccolo paese sudamericano prevede infatti un inasprimento delle sanzioni e delle condanne per le donne che scelgono di abortire e per i medici e gli operatori sanitari che forniscono loro servizi di assistenza. A pochi mesi dall’appello ufficiale del governo a contenere il numero delle gravidanze per paura che il virus della Zika possa diffondersi ulteriormente, il partito repubblicano lancia un duro attacco contro la salute e i diritti delle donne.

El Salvador è il paese con la legislazione antiabortista più restrittiva del Sud America – e del mondo. Le interruzioni di gravidanza clandestine nel Paese sono state, ad oggi, 19,000 e hanno messo a duro rischio la salute delle donne, soprattutto delle più giovani. Come se non bastassero i rischi, le donne el salvadoregne si trovano costrette ad affrontare anche pene durissime per crimini legati all’aborto. Secondo alcune stime delle organizzazioni locali, sono 17 le donne ad essere state incarcerate a seguito di un aborto clandestino o per essere state costrette a praticare un raschiamento a seguito di un’interruzione spontanea. Punire penalmente le donne che decidono di abortire e coloro che offrono loro supporto medico è una scelta irresponsabile. A dirlo è l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) che in un rapporto ha dimostrato che l’impiego della legislazione antiabortista nulla può nell’arginare l’esercizio della pratica. Anzi, l’unico risultato prodotto è quello d’aumentare il ricorso ad aborti clandestini, aborti che non possono che peggiorare le già fragili condizioni di salute delle donne d’El Salvador.

 

Amnesty International ha duramente condannato la proposta del partito conversatore el salvadoreno e su Twitter la campagna #MenosPenasMasSalud accoglie l’indignazione delle donne e degli uomini che si oppongono alla mozione.

Boris Johnson agli Esteri? Tutte le sue sparate (e lo sgomento dei leader mondiali)

epa05423530 Conservative MP , former London mayor, Boris Johnson arrives at Downing Street after being summoned by new British Prime Minister Theresa May in London, Britain, 13 July 2016. Theresa May has become Britain's Prime Minister after a meeting with the Queen and has begun building a new cabinet. EPA/ANDY RAIN

Boris Johnson è stato nominato Ministro degli esteri nel nuovo governo britannico guidato da Theresa May. E le reazioni dei leader e degli esponenti governativi internazionali non si sono fatte attendere. Il mondo della politica e della diplomazia ha infatti con reagito «con un misto di divertimento, sdegno e orrore», per dirla come il Guardian, alla nomina dell’ex sindaco di Londra e uomo di punta dello schieramento pro-Brexit.
Incline alle gaffe, poco posato, Boris Johnson si è lasciato dietro, durante gli anni come primo cittadino londinese, una serie di figuracce che hanno fatto parlare il mondo intero.

Cosa dicono i principali leader europei e mondiali? 

La prima reazione, molto dura, è stata di Jean Marc Ayrault, ex Primo Ministro francese e Ministro degli esteri del governo Valls: «Conosciamo il suo stile e il suo metodo, e durante la campagna per il referendum ha detto una serie di bugie al popolo britannico, e ora è con le spalle al muro. Non vuole difendere gli interessi del proprio paese. In questo quadro, la scelta di schierarsi a favore della Brexit appare ancora più chiara». Per Ayrault, che ha conosciuto Johnson già quando era primo cittadino di Nantes, la scelta di farlo responsabile per la politica estera britannica «è il segno dell’evidente crisi della politica britannica uscita dal referendum». Le sparate dell’ex sindaco londinese sui francesi, e in particolare sulla presidenza Hollande si sprecano: secondo Johnson la Francia è dal 2012 «ostaggio dei sanculotti», ed è in corso, in Francia, «una tirannia e uno stato di terrore che non li si vedeva dal 1789», anno dell’inizio della rivoluzione francese. Una farsa, insomma, l’invasione nazista del 1940 e il regime di estrema destra del maresciallo Philippe Petain. La prossima settimana il neo ministro britannico dovrà incontrare il suo omologo francese e gli altri colleghi europei. E oltre alla tensione dovuta al fatto che il principale promotore della Brexit presenzierà in un summit europeo, c’è sopratutto l’evidente imbarazzo dovuto a tutte le gaffes che Johnson ha collezionato negli anni. In primis contro l’Ue, definita, durante la campagna referendaria, «un tentativo fallito simile a quello di Hitler e Napoleone, con metodi diversi». Tant’è che una fonte dell’Unione europea ha detto alla Bbc a proposito della nomina di Johnson:«Al Parlamento europeo pensiamo che sia un brutto scherzo che danneggia il Regno Unito».

Tra battute xenofobe e uscite sgradevoli su altri esponenti internazionali, lo stile di Johnson assomiglia a quello dell’ex premier italiano, Silvio Berlusconi. La prima gaffes risale al 2007, quando paragonò Hillary Clinton a «un’infermiera sadica su una clinica psichiatrica», mentre Barack Obama è diventato un «mezzo americano e mezzo kenyano che disprezza, a livello ancestrale, la Gran Bretagna». Si sprecano anche le uscite xenofobe: da una parte le lotte intestine del partito Tory vengono paragonate alle «orge di cannibalismo della Papua nuova guinea», dall’altra i bambini africani vengono apostrofati con la parola «piccaninnies», letteralmente, in gergo coloniale ,“faccetta nera“. E ovviamente, i «negri hanno sorrisi come le angurie», dice Johnson. Mandela invece diventa un «tiranno negro»: dopotutto il vero problema dell’Africa è che «l’Europa non la governa più».

L’episodio più grave avvenne lo scorso aprile, quando Johnson scrisse una poesia con protagonista Recepp Taypp Erdogan, in cui il Presidente turco era descritto prima come «segaiolo», poi nell’atto di fare sesso con una capra. Imbarazzo ancor più grande, tenendo conto che il poema fu scritto per un concorso della rivista The Spectator: competizione che poi il neo ministro vinse, assieme alla somma di 1000 sterline. «Strano, nonostante assomigli a Dobby l’elfo domestico – un personaggio della saga di Harry Potter – in realtà è uno spietato tiranno». Indovinate a chi sono rivolte queste parole? Ovviamente al Presidente Russo, Vladimir Putin. Ma non tutti i dittatori stanno antipatici al neo ministro. Anzi, Johnson si è più volte speso in elogi e omaggi al Presidente siriano Bashar Assad, sostenendo di «provare gioia per aver rimesso Palmira sotto il sito dell’Unesco».

Le reazioni americane. Il portavoce del Dipartimento di stato, Mark Toner, appresa la notizia, è riuscito a stento al trattenersi dalle risate. Per poi affermare di «non vedere l’ora» di collaborare con Johnson.

https://twitter.com/mylovelyhorsie/status/753581701842870272

Duri i tedeschi. Diplomatica la reazione della Cancelliera tedesca Angela Merkel («è nostro compito lavorare con qualsiasi governo. Dobbiamo portare avanti la cooperazione politica con la Gran Bretagna, come abbiamo sempre fatto»). Ma intanto, in Germania, l’hashtag # Außenminister (ministro degli esteri) sta dilagando sui social. «Johnson sta negoziando la Brexit, enjoy the trip (godetevi il viaggio)» dice Ralph Stegner, parlamentare socialdemocratico e vicepresidente del partito. Ancora più duri i Verdi, con frasi come quella del parlamentare Anton Hofreiter, («la scelta mette in dubbio le competenze del primo ministro May»), o quella del vice-presidente Simone Peter («è come confidare nel gatto per mantenere la crema»). Anche la stampa tedesca non risparmia Johnson dalle accuse: «capo delle menzogne» lo apostrofa Anne Gelink, delll’emittente pubblica Zdf, mentre Nicole Deiman, della stessa rete, definisce la scelta «autentico humor britannico». E il Ministro degli esteri tedesco, Frank Steinmer, si riferisce a lui, senza nominarlo apertamente, ma parlando, in maniera generica, di «politici irresponsabili che non hanno voluto assumersi la responsabilità, quando la Brexit si è concretizzata, e se la sono svignata a giocare a cricket».

L’ex Ministro degli esteri svedese, Carl Bilt, dice che «avrei preferito fosse uno scherzo, ma non lo era». Mentre per il Presidente dell’europarlamento, Martin Schultz, si sta creando, in Uk, «un circolo vizioso». E anche in Cina molti commentatori delle chat popolari sono increduli alla notizia che «Bao Li Si» – così è conosciuto Johnson nel Paese – sia divenuto il responsabile della diplomazia britannica.

Johnson, che si è detto «eccitato», per il nuovo incarico che gli è stato conferito, dovrà affrontare sfide importanti, e avrà un ruolo non-marginale nel traghettare il Paese d’oltremanica fuori dall’Unione europea. Ma il ruolo di ministro degli Esteri è stato depotenziato dal nuovo governo di Theresa May, che ha creato ad hoc un nuovo «ministero per la Brexit», guidato dall’influente Davis David, ex ministro per gli affari europei nel governo Mayor, colui che sfidò Cameron alla guida del partito conservatore del 2005, venendo sconfitto. Un’altra figura di spicco, Liam Fox, ex ministro della difesa, è stato posto al Ministero del Commercio internazionale: sarà lui a dover rinegoziare i trattati europei con le istituzioni comunitarie. Insomma Johnson dovrà sopratutto stringere mani e abbracciare leader internazionali. E stare simpatico ai leader internazionali. Cosa che, comunque, non gli riesce molto bene.

Viaggiare senza barriere. Una nuova guida da scaricare gratis

Viaggiare senza barriere è la nuova guida che Lonely Planet ha deciso di diffondere gratis, rendendola scaricabile dal proprio sito (qui il link per scaricare il pdf) in vista delle vacanze, come incoraggiamento, offrendo gli strumenti per poter programmare un viaggio, anche se ci si deve spostare in carrozzina o con altri supporti. Anche per questo, precisa Silvia Castelli che si occupa delle guide Lonely Planet, «la nostra non è una “guida” nel senso tradizionale del termine. Piuttosto è una disamina attenta e ben curata delle risorse online a disposizione dei viaggiatori con difficoltà motorie. Tutto è cominciato dall’iniziativa di un autore che usa la sedia a rotelle a cui si è aggiunto il supporto di organizzazioni ufficiali, ma importanti sono state anche le segnalazioni da tutto il mondo», precisa Silvia Castelli di Lonely Planet-EDT.

Come è nato il progetto?

L’idea che ci ha mosso è stata proprio di entrare in questo flusso di informazioni, di esserne parte attiva: i viaggiatori con disabilità, soprattutto motoria, sono una parte importante della nostra comunità di viaggiatori, e sono sempre più decisi a non perdersi l’opportunità di vedere il mondo.

Un’esigenza che può essere soddisfatta però con costi assai più alti di quelli che devono affrontare gli altri viaggiatori?

Si può fare tutto, ma il costo a volte appare proibitivo: diventa quindi fondamentale poter accedere a risorse informative che aiutino i viaggiatori con disabilità a organizzare al meglio il loro viaggio trovando soluzioni adeguate al loro budget. Un altro grande obiettivo della guida, a cui ben volentieri abbiamo aderito, è la diffusione di blog di viaggiatori con difficoltà di vario genere che raccontano come affrontano pragmaticamente i loro problemi. In questi blog si incontrano storie di portatori di handicap, ma anche storie di persone affette da gravi patologie come la Sla, di famiglie con figli epilettici oppure di persone che devono sottoporsi alla dialisi pur continuando a viaggiare. In Italia non c’è ancora abbastanza apertura e in molti non hanno il coraggio di far valere le loro richieste presso tour operator, alberghi o musei. Non dev’essere necessariamente così, dicono i testimonial della nostra guida: aiutateci a dimostrarlo sempre di più.

Quali sono i Paesi più attrezzati ad accogliere viaggiatori disabili?

La guida considera sostanzialmente tre categorie di informazioni online: quelle ufficiali e istituzionali (governi municipali, provinciali, statali, ente parchi e quant’altro), quelle di operatori privati del settore (dal database alberghiero all’agenzia di volo in tandem…) e quelle di privati cittadini e/o organizzazioni senza scopo di lucro. Se pensiamo alle istituzioni, la palma d’oro potrebbe andare all’Australia, ma si piazzano bene anche la Nuova Zelanda (che ha sentieri attrezzati nei parchi nazionali), il Regno Unito (con una mappa di tutti i teatri di Londra accessibili, per esempio), la Germania (che ha sviluppato un’ottima app per segnalare sulle mappe cittadine tutti i luoghi accessibili).

E quelli a cui va la medaglia nera?
Difficile assegnare la maglia nera in base alle informazioni fin qui raccolte: in tutta Europa, anche grazie a finanziamenti europei, sono nate molte iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica; molti dei siti citati nella guida dimostrano che c’è voglia di fare. Che cosa, poi, le singole istituzioni facciano realmente per rendere più semplice l’accesso a chi ha difficoltà motorie è difficile da dire.

Ci sono gruppi autorganizzati di viaggiatori disabili, a cui potersi collegare?
Molti dei siti che abbiamo appositamente ricercato per l’Italia e la Svizzera (con l’aiuto della presidente dell’ENAT) sono di associazioni senza scopo di lucro che fungono da centrale di raccolta dati. In qualche caso si tratta di iniziative di singoli che, oltre a mettere a disposizione di tutti la propria esperienza di disabilità, si avvalgono della collaborazione di varie associazioni che si sono messe in rete per condividere informazioni utili sulla disabilità, e per promuovere azioni comuni sul territorio. Esistono anche dei siti che catalogano strutture ricettive accessibili ai disabili, in Italia e nel mondo, e che raccolgono le segnalazioni di persone affette da diversi tipi di disabilità che hanno visitato in prima persona le strutture. È uno di quei casi virtuosi in cui la rete, con la sua capacità di diffondere le informazioni a una velocità impensata fino a poco tempo fa, riesce a ovviare alla lentezza che spesso affligge le istituzioni.

La foto in apertura è di © Yoko Whyte

Spiagge da regolamentare. L’Europa bacchetta l’Italia

Gente in spiaggia a Genova per cercare un pò di refrigerio dal grande dal caldo, 24 giugno 2016. ANSA/LUCA ZENNARO

Attenzione, le concessioni agli stabilimenti balneari non si possono rinnovare automaticamente. È la Corte di giustizia europea oggi a bacchettare il governo italiano che non ha rispettato la direttiva Bolkestein del 2006. Il provvedimento, ricordiamo, stabilisce per gli stabilimenti balneari la necessità di un bando con procedura di evidenza pubblica alla loro scadenza. E invece in Italia si va avanti per rinnovo automatico. Nel 2001 la legge 88 prevedeva il rinnovo automatico della durata delle concessioni demaniali marittime dopo 6 anni. E nonostante la direttiva Bolkestein la procedura è continuata attraverso varie proroghe, l’ultima delle quali scade il 2020. «Tale proroga prevista dalla legge italiana impedisce di effettuare una selezione imparziale e trasparente dei candidati», dice la sentenza.

Ecco che allora il pronunciamento di un organismo europeo obbliga il governo a ridisegnare attraverso una legge – come aveva preannunciato lo stesso ministro Costa – l’intero sistema, anche tenendo conto dei cambiamenti  degli ultimi quindici anni. Bisogna ringraziare, anche stavolta, la giustizia europea.

«Non sono tanto deluso, ne prendiamo atto, d’altro canto ce lo aspettavamo. Il quadro adesso è negativo ma in parte anche positivo», dice a Left Vincenzo Lardinelli, presidente della Fiba (Federazione italiana imprese balneari). L’imprenditore, che gestisce con la sua famiglia uno dei più antichi stabilimenti d’Italia, il bagno Balena di Viareggio, anno di nascita 1873, riconosce che l’aspetto negativo è dato dallo stesso pronunciamento della Corte europea, «peraltro previsto, che nega il rinnovo automatico», ma ci sono comunque aperture perché la Corte stessa «contempla anche il legittimo affidamento, cioè riconosce il valore legato agli investimenti fatti dal concessionario». Nel senso che se un gestore ha speso soldi per valorizzare le strutture dello stabilimento, questo fatto deve essere riconosciuto al momento della procedura di evidenza pubblica. «E se dovesse lasciare lo stabilimento deve essere indennizzato», continua Lardinelli.

E a questo punto, continua il presidente della Fiba «è necessario subito un provvedimento d’urgenza per sgomberare il campo sulla decadenza delle concessioni e successivamente una legge delega che tenga conto dell’impianto dettato dalla Corte europea di giustizia». La nuova legge, conclude Lardinelli, servirà anche a mettere in ordine anche tra le varie categorie di stabilimenti. È chiaro che i canoni demaniali sono diversi rispetto alle aree del Paese, un bagno a Capri o in Versilia paga sicuramente di più di un altro in spiagge difficili da raggiungere della Calabria. Ma le due categorie presenti adesso sono troppo poche, occorre aggiungerne altre, per rappresentare tutte le tipologie di stabilimenti.

Infine, una postilla, fondamentale. Come riporta La Stampa, «La Corte ha inoltre stabilito che spetta ai giudici nazionali verificare, “ai fini dell’applicazione della direttiva”, se le concessioni italiane debbano essere oggetto di un numero limitato di autorizzazioni a causa della “scarsità di risorse naturali”». Anche questo è un elemento che forse servirà a dettare regole contro lo sfruttamento dei beni demaniali nel rispetto dell’ambiente. Chissà se il legislatore ne terrà conto.