C’erano bambini, giovani madri, fidanzati con la mano nella mano. Nonni e ragazzi a godersi l’aria della sera, col naso in su a guardare la luna e lo spettacolo dei fuochi su La promenade des anglais, lungomare elegante di Nizza. Erano le 22,40. Un camion bianco, lungo 15 metri, si è lanciato sulla folla. Sterzando a destra e a sinistra per prendere sotto quanti più birilli. Solo che i birilli erano persone, turisti arrivati in Côte d’Azur, francesi in festa per il 14 luglio, anniversario della rivoluzione del 1789, festa nazionale. Due chilometri di corsa: almeno 80 morti, oltre 100 feriti e fra questi almeno 15 in condizioni gravissime. L’autista è stato ucciso, pare da un agente in scooter che si è affiancato alla cabina di guida e gli ha sparato. Sul camion -dicono le autorità locali- sono state trovate armi e granate. Fittizie, pare.
L’apocalisse del nostro tempo, che rivela il volto disumano dell’uomo. L’odio per chi vive, per chi ama o va in vacanza. “L’attacco alla Francia”, così titola La Stampa, il terzo in 18 mesi, dopo Charlie Hebdo e il Bataclan. Dunque era un terrorista islamico alla guida del camion della morte? Sono stati trovati documenti di un franco-tunisino, Hollande ha parlato di “attentato islamista”. È verosimile, quasi certo! La libertà di satira, i giovani sulle terrazze di Parigi e ad ascoltar musica al Bataclan, la festa del 14 luglio. Le bestie che stuprano e sgozzano, che esercitano il potere tra Siria e Iraq, hanno buoni motivi per odiare la Francia.
L’illuminismo, la rivoluzione poi le campagne napoleoniche furono infatti la prima mondializzazione che affermava i diritti dell’uomo, mentre apriva le rotte del traffico delle merci. In quegli stessi anni si saldava il sodalizio tra un predicatore, Al Wahhab, feroce nemico della civiltà e della storia islamica, che sognava il ritorno al medioevo e la totale sottomissione a dio e al califfo, e Al Saud, capostipite della dinastia che regna ancora sull’Arabia e sui luoghi sacri. Contro la mondializzazione dei diritti, contro chi scriveva Le lettere persiane, Candide o il trattato sulla Tolleranza, nasceva una anti mondializzazione radicale intenta a cancellate diritti, cultura, immagini, statue e memoria di una grande civiltà. Si diffondeva un virus che ora attrae donne e uomini in occidente, che succhia il sangue di chiunque abbia origini berbere, arabe o islamiche. Con il senso di colpa: ci bombardano, uccidono i nostri figli, sfruttano le nostre risorse, ci impongono governi corrotti. Ma anche con il mito del ritorno a un passato, ingiusto e barbaro, dominato da guerra e fanatismo, ma nel quale trovare le radici e la forza di una presunta identità.
Che fare? Non cedere al panico: stanno perdendo. Gli attentati mostruosi fiancheggiano altrettanti insuccessi: a Mosul, a Kobane, nei pressi di Racca. Bisogna fare presto: togliere ogni rifugio agli uomini del Daesh, cancellare questo mito del califfato, mostrare che non può esistere una terra amministrata dall’anti mondializzazione del terrore. Questa è una “guerra giusta”. Non serve che venga combattuta dagli occidentali, ma le potenze “democratiche” devono togliere le travi dai binari su cui si muove chi la combatte. Proprio ieri Kerry e Lavrov si sono incontrati per concordare una linea d’azione comune in Libia.Bene. C’è qualche segno persino in Arabia Saudita: qualcuno comincia a capire che non si può andare avanti con la predicazione wahhabita o pagando imam che come quello di Brest, che pretende dai bambini francesi che non ascoltino mai la musica, crusca del diavolo. E poi l’Iran, che l’orrore per la barbarie sunnita può spingere ad aprirsi. E la Turchia, dove Erdogan minaccia ancora curdi e diritti, ma ora apre alla Russia e si pente degli scambi armi-petrolio coi terroristi.
Difendere libertà e diritti. Soprattutto non diventare come loro. Non è buonismo, è l’unico approccio possibile, la medicina più efficace per disarmare l’autista del camion, gli amici di Salah o Coulibaly, quell’Omar Mateen che la strage l’ha fatta nella discoteca Pulse in Florida. Vi traduco un brano dell’appello lanciato da Abou Mohammed Al-Adnani nel settembre di due anni fa, quando questo siriano era portavoce del Daesh e “ministro per gli attentati”. “Se non potete far scoppiare una bomba o sparare, sbrigatevela voi, ritrovatevi da soli con un infedele francese o americano e fracassategli la testa con una pietra, ammazzatelo a coltellate, investite la sua auto, gettatela nel burrone, strangolatelo, avvelenatelo”. Ci sono in questo triste brano tre elementi. La convinzione (o la speranza) che noi non sopporteremo il sangue versato degli innocenti. La richiesta d’aiuto, disperata e ricattatoria (Al Adnani sa che Daesh è una formazione effimera), a ogni “fratello” che vive male la mondializzazione. L’offerta di un sogno: negare tutto, rinunciare a tutto, ribellarsi contro tutto e scegliere la morte. In una prospettiva brutale e barbara e perciò salvifica. Arrestarli, combatterli a morte, ma prima di tutto rispondere dicendo : noi non siamo così.
Contro la barbarie, i valori dell’illuminismo
La strage di Nizza, 84 morti. Prolungato lo stato d’emergenza
AGGIORNAMENTO ore 14
Tre giorni di lutto nazionale, 50 bambini ricoverati in ospedale. Ancora non si hanno notizie di alcuni italiani presenti a Nizza: la Farnesina non esclude che possano essere tra le vittime.
CHI ERA L’ATTENTATORE
È suo, confermano gli investigatori, il documento d’identità trovato a bordo del camion refrigerato con il quale ha ammazzato 84 persone, ferendone oltre un centinaio. È cittadino tunisino (e non di doppia nazionalità come sembrava nei primi momenti) e si chiama Mohamed Lahouaiej Bouhlel, trentunenne nativo di Sousse e residente a Nizza. Non aveva alcun precedente legato al jihiadismo o al terrorismo né era schedato o noto ai servizi di sicurezza francesi e tunisini. La polizia lo aveva fermato e identificato in più occasioni per violenza privata – reato per il quale sarebbe stato condannato lo scorso marzo -, furto, violenza domestica e uso di armi.
Stamattina le forze dell’ordine hanno individuato e perquisito la sua abitazione, in un quartiere popolare nella parte orientale della città. Padre di tre figli, pare vivesse in condizioni economiche precarie – aveva fatto consegne per un anno, secondo la polizia – e che stesse divorziando, tanto che alcuni testimoni dicono che ultimamente appariva «depresso e instabile». I vicino lo descrivono come una persona solitaria, spesso in pantaloni corti e scarpe di sicurezza, e non religioso, o comunque non praticante, dal momento che non aveva osservato il digiuno del Ramadan. France 24 riporta che l’uomo ha ottenuto la patente per guidare mezzi pesanti come il Tir della strage soltanto un anno fa. E che proprio per aver perso il controllo di un camion era stato fermato a fine giugno.
Finiti gli Europei di calcio, la Francia si rallegrava per il successo della macchina della sicurezza. E ieri celebrava la festa del 14 luglio, anniversario della presa della Bastiglia, anche a Nizza, sulla Promenade des Anglais, quando quel camion bianco ha percorso 2 chilometri di lungomare a 80 all’ora travolgendo la folla festante poco dopo lo spettacolo dei fuochi d’artificio. 84 morti e oltre 100 feriti, almeno 15 in condizioni gravissime. Non è ancora accertato, ma numerosi testimoni parlano anche di spari rivolti controlla folla.
Alla guida del camion ci sarebbe stato un 31enne franco-tunisino che viveva a Nizza, ucciso dalle forze di sicurezza. L’uomo, che avrebbe noleggiato il tir per compiere la strage, sarebbe già noto alle forze dell’ordine ma non per fatti legati alla radicalizzazione e al terrorismo di matrice islamica. Il portavoce del ministero dell’Interno francese ha spiegato che non è ancora accertato se abbia agito da solo o con dei complici. Una fonte della polizia ha dichiarato all’Afp che almeno una pistola è stata trovata all’interno del tir, ma secondo altre fonti di polizia ci sarebbero state a bordo del veicolo una granata inattiva e alcuni fucili, elemento che rafforza l’ipotesi della presenza di complici.
Questa notte Francois Hollande, che ha convocato un Consiglio ristretto di sicurezza e difesa per le 9 e poi si recherà sul luogo della strage, ha annunciato una serie di misure, tra cui l’estensione per altri tre mesi dello stato di emergenza che avrebbe dovuto cessare il 26 luglio e poche ore prima dell’attentato, a margine delle celebrazioni del 14 luglio, lo stesso Hollande aveva confermato invece di non voler rinnovare.
La France est éplorée, affligée, mais elle est forte et le sera toujours plus que les fanatiques qui veulent aujourd’hui la frapper. #Nice
— François Hollande (@fhollande) 15 luglio 2016
«Non ci stancheremo di combattere il terrorismo» ha detto il presidente francese. «Ho deciso, su proposta del primo ministro e dei ministri della Difesa e degli Interni, che manterremo alto il livello di funzionamento dell’operazione Sentinel, che può mobilitare 10.000 soldati e altri gendarmi e polizia. Ho anche deciso di fare appello alla riserva operativa, per alleviare il personale di polizia e militari. Li possiamo impiegare in tutti i luoghi in cui abbiamo bisogno di loro, e in particolare nel controllo delle frontiere». Nella notte alcuni siti hanno associato allo Stato islamico l’attentato, ma non è ancora giunta alcuna rivendicazione.
Attentat de Nice : une méthode qui rappelle des consignes de l’Etat islamique https://t.co/fbMWoAts2J
— Silvère Boucher-L. (@silverebl) 15 luglio 2016
Io non ho le parole
Anche questa mattina, come tutte le mattine che sono dal lunedì al venerdì, dovrei scrivere il buongiorno in cui dico di quello che è successo nel giorno precedente e naturalmente oggi il tema del giorno è la carneficina di Nizza.
Ma io non ho le parole, su Nizza. Non ho parole perché non ho un pensiero compiuto sul dolore. Non uso parole per la cura che serve all’ecologia lessicale contro il terrore. Non so voi ma sempre più spesso mi capita di temere di perdere l’equilibrio tra l’opinione e l’involontario concorso esterno al terrorismo. Quindi niente, stamattina. Ve lo scrivo per onestà.
C’è una riflessione, questa sì, che vale la pena riportare. È di Paul-Henri Thiry d’Holbach, filosofo tedesco naturalizzato francese del ‘700 che si dedicò all’Encyclopédie: un professionista delle parole. Scrive nella sua opera Il buon senso (1772):
«Come si è potuti riuscire a persuadere esseri ragionevoli che la cosa più incomprensibile era per essi la più essenziale? Perché sono stati fortemente terrorizzati; perché, quando si ha paura, si cessa di ragionare; perché sono stati esortati soprattutto a diffidare della loro ragione; perché, quando il cervello è turbato, si crede a tutto e non si esamina più niente.»
Buon venerdì.
Un camion sulla folla a Nizza. 73 morti. Incubo terrorista

Promenade des anglais è il lungomare elegante di Nizza, il 14 luglio l’anniversario della Grande Rivoluzione, festa della Repubblica in Francia. Giochi pirotecnici, migliaia di niçoises e di turisti si godevano la brezza del mare, la luna e i fuochi. Un camion lungo 15 metri ha travolto le recinzioni e si è lasciato a tutto gas sulla folla.
Dicono i testimoni, che durante la folle corsa dal camion sparavano raffiche di mitra. Si parla di decine di morti , mentre scrivo, all’una della notte, la polizia parla di 73 vittime. L’autista del camion è stato ucciso. Niente si sa dei complici.
Su camion sarebbero state trovate armi e granate. Ed è panico terrorismo. Restate in casa, dicono le autorità. E parte la caccia all’uomo. È un incubo. La nostra vita è così: libera e non difendibile. Le ferite provocate dal terrorismo islamico – perché di questo sembra verosimile che si tratti- sono profonde. Difficili da rimarginare. Perché non hanno colpito agli europei di calcio? Probabilmente perché sarebbe stato più complicato, per via delle misure di sicurezza, per il gran numero di flic disseminati intorno agli obiettivi sensibili.
Perché hanno scelto il 14 luglio? Perché la rivoluzione del 1789 è un simbolo. Con la rivoluzione parte una mondializzazione che afferma anche i diritti dell’uomo. Proprio in quegli anni nella penisola arabica si chiudeva l’alleanza tra Al Wahhab – fanatico predicatore religioso – e Al Saud – padre della dinastia saudita che voleva comandare e ha comandato sul medio oriente. Il credo comune si configura come una anti mondializzazione che propone il ritorno al medio evo, la distruzione di ogni civiltà, di quella islamica prima delle altre. Questo se – come, ripeto, è verosimile ma non ancora certo- si è trattato di un attentato terrorista del Daesh.
Bisogna aspettare, conviene aspettare anche a dare un nome all’attentato. D’altra parte anche con il terrorismo è fondamentale restare freddi e lucidi quando si è sotto attacco. Per saper reagire, con efficacia e determinazione, quando il sangue è stato lavato e la vita è ripresa.
Babenco, il regista che denunciò la condizione dei bambini di strada
Il regista argentino Hector Babenco, scomparso il 14 luglio all’età di 70 anni, è riuscito a raccontare al cinema in maniera indiretta ma incisiva e potente la feroce dittatura argentina, in cui lo Stato e la Chiesa unirono le forze per stroncare una generazione di giovani di sinistra che sognavano e stavano costruendo un Paese moderno e progressista. La repressione violenta della fascia più giovane, democratica e vitale del Paese messa in atto da Videla era rappresentata attraverso la vicenda di un ragazzino brasiliano (Paese dove Babenco aveva scelto di vivere) che finisce in riformatorio e si trova a scontrarsi contro una gerarchia stupida, ottusa, che conosce solo il linguaggio della violenza. Il film si chiamava Pixote, la legge del più debole (1982). Lo scrittore argentino Marcelo Figueras ci raccontava un anno fa in una intervista che proprio quella sera in cui a andò a vedere quel film al cinema con la sua ragazza cambiò qualcosa di profondo in lui, ci fu una presa di coscienza se possibile ancor più profonda della vicende del suo Paese, l’Argentina, e cominciò il suo impegno di scrittore che poi lo avrebbe portato a pubblicare Kamchatka ( L’Asino d’oro edizioni), un romanzo che ha il coraggio di raccontare l’immane dramma della dittatura con gli occhi di un bambino.
Nel film Pixote, Babenco riprendeva la lezione di Buñuel e il suo I figli della violenza nel raccontare la povertà e l’emarginazione di ragazzini brasiliani costretti a vivere in strada e ad arrangiarsi. Ma c’è anche un rimando anche alla poesia dei 400 colpi di Truffaut nella figura dell’ attore bambino (Fernando Ramos Silva) che obbliga ad aprire gli occhi sulla pazzia di un sistema “di governo” che dopo aver gettato larghi strati della popolazione nella più assoluta indigenza, voleva distruggerne anche le menti. Anche tenendo conto degli orrori istituzionali raffigurati in Scum, nulla nel cinema degli ultimi quarant’anni si avvicina alla inquietante rappresentazione del tentativo di distruzione di un ragazzo di 10 anni come in questo film di Babenco che colpisce dritto al cuore. In quest’opera il piccolo protagonista riesce a fuggire dal riformatorio, ma poi, per cercare di sopravvivere, finisce in un giro di droga, spaccio, prostituzione e omicido, restando intrappolato nella della malavita brasiliana. L’argentino Babenco deninciava un sistema sociale che in Brasile produceva tredici milioni di bambini senza casa e costretti a vivere di espedienti, Ma come accenavamo, per metofora, Pixote rappresentava la condizione dell’Argentina tutta.
Poi sarebbe venuto un film molto noto anche in Italia come il Il bacio della donna ragno (1984), con Sonia Braga e William Hurt, che accettò un ruolo non facile che era stato proposto a Burt Lancaster ( il quale rifiutò per paura di rovinarsi l’immagine dal momento). Il film che vedeva protagonista un omosessuale finito in carcere era tratto dall’omonimo romanzo dell’argentino Manuel Puig. Dopo quel film candidato all’Oscar nel 1986 , Babenco ha realizzato Giocando nei campi del Signore, ambientato nella giungla amazzonica, Cuore illuminato, in concorso a Cannes nel 1998, Carandiru, sulla strage compiuta nell’omonimo carcere brasiliano, e, tra i film da segnalare, Il passato ispirato al libro che ha fatto conoscere lo scrittore argentino Alan Pauls al grande pubblico. ( Qui una sua intervista su left). Babenco raccontava di aver scoperto quel romazo (pubblicato in Italia da Feltrinelli) in una libreria dell’aeroporto di Ezeiza in Argentina e di esserne rimasto folgorato: in anni in cui in cui si faceva un gran parlare di amore libero, tematizzava una passione fortissima fra un uono e una donna e la difficoltà poi di separarsi, senza distruggere la memoria di ciò che era stato. Permettendo l’uno all’atra di realizzarsi prendendo una nuova strada. Con questo film Babenco diceva di voler rileggere un genere latinoamericano per eccellenza come il melodramma, ripulendolo da ciò che è eccessivo, ma conservandone la struttura essenziale, in cui la gelosia, l’abbandono, la vendetta, fanno parte di un teatro molto familiare. De Il Passato, Babenco diceva: ” E’ un film d’amore per le donne. Il suo tempo narrativo cinematografico è psicologico, nonostante la vicenda copra un periodo molto lungo, sembra invece concentrata in una sola settimana. E’ anche una storia un po’ thriller, nella quale lo spettatore non capisce a volte che cosa stia accadendo, in fondo c’è un po’ di Rosemary’s Baby. E anche un po’di Krzysztof Kieślowski. Mi chiedo anche se non ho realizzato un “Scene da una separazione”, vent’anni dopo Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman”.
El Salvador contro le donne: fino a 50 anni di prigione per chi abortisce
In El Salvador l’aborto è illegale dal 1998. Per le donne che scelgono di abortire – anche coloro che sono costrette, a seguito di uno stupro o per salvaguardare la propria salute – le pene possono arrivare fino ad 8 anni di carcere. I diritti delle donne sembrano oggi, però, ancora più a rischio: il partito conservatore ha proposto di alzare quelle pene fino a 50 anni. La mozione presentata dalla destra al Congresso del piccolo paese sudamericano prevede infatti un inasprimento delle sanzioni e delle condanne per le donne che scelgono di abortire e per i medici e gli operatori sanitari che forniscono loro servizi di assistenza. A pochi mesi dall’appello ufficiale del governo a contenere il numero delle gravidanze per paura che il virus della Zika possa diffondersi ulteriormente, il partito repubblicano lancia un duro attacco contro la salute e i diritti delle donne.
El Salvador è il paese con la legislazione antiabortista più restrittiva del Sud America – e del mondo. Le interruzioni di gravidanza clandestine nel Paese sono state, ad oggi, 19,000 e hanno messo a duro rischio la salute delle donne, soprattutto delle più giovani. Come se non bastassero i rischi, le donne el salvadoregne si trovano costrette ad affrontare anche pene durissime per crimini legati all’aborto. Secondo alcune stime delle organizzazioni locali, sono 17 le donne ad essere state incarcerate a seguito di un aborto clandestino o per essere state costrette a praticare un raschiamento a seguito di un’interruzione spontanea. Punire penalmente le donne che decidono di abortire e coloro che offrono loro supporto medico è una scelta irresponsabile. A dirlo è l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) che in un rapporto ha dimostrato che l’impiego della legislazione antiabortista nulla può nell’arginare l’esercizio della pratica. Anzi, l’unico risultato prodotto è quello d’aumentare il ricorso ad aborti clandestini, aborti che non possono che peggiorare le già fragili condizioni di salute delle donne d’El Salvador.
Exigimos #MenosPenasMasSalud para las mujeres y niñas en El Salvador pic.twitter.com/XLi4ToffvV
— AmnistiaOnline (@AmnistiaOnline) 14 luglio 2016
Amnesty International ha duramente condannato la proposta del partito conversatore el salvadoreno e su Twitter la campagna #MenosPenasMasSalud accoglie l’indignazione delle donne e degli uomini che si oppongono alla mozione.
Spiagge da regolamentare. L’Europa bacchetta l’Italia

Attenzione, le concessioni agli stabilimenti balneari non si possono rinnovare automaticamente. È la Corte di giustizia europea oggi a bacchettare il governo italiano che non ha rispettato la direttiva Bolkestein del 2006. Il provvedimento, ricordiamo, stabilisce per gli stabilimenti balneari la necessità di un bando con procedura di evidenza pubblica alla loro scadenza. E invece in Italia si va avanti per rinnovo automatico. Nel 2001 la legge 88 prevedeva il rinnovo automatico della durata delle concessioni demaniali marittime dopo 6 anni. E nonostante la direttiva Bolkestein la procedura è continuata attraverso varie proroghe, l’ultima delle quali scade il 2020. «Tale proroga prevista dalla legge italiana impedisce di effettuare una selezione imparziale e trasparente dei candidati», dice la sentenza.
Ecco che allora il pronunciamento di un organismo europeo obbliga il governo a ridisegnare attraverso una legge – come aveva preannunciato lo stesso ministro Costa – l’intero sistema, anche tenendo conto dei cambiamenti degli ultimi quindici anni. Bisogna ringraziare, anche stavolta, la giustizia europea.
«Non sono tanto deluso, ne prendiamo atto, d’altro canto ce lo aspettavamo. Il quadro adesso è negativo ma in parte anche positivo», dice a Left Vincenzo Lardinelli, presidente della Fiba (Federazione italiana imprese balneari). L’imprenditore, che gestisce con la sua famiglia uno dei più antichi stabilimenti d’Italia, il bagno Balena di Viareggio, anno di nascita 1873, riconosce che l’aspetto negativo è dato dallo stesso pronunciamento della Corte europea, «peraltro previsto, che nega il rinnovo automatico», ma ci sono comunque aperture perché la Corte stessa «contempla anche il legittimo affidamento, cioè riconosce il valore legato agli investimenti fatti dal concessionario». Nel senso che se un gestore ha speso soldi per valorizzare le strutture dello stabilimento, questo fatto deve essere riconosciuto al momento della procedura di evidenza pubblica. «E se dovesse lasciare lo stabilimento deve essere indennizzato», continua Lardinelli.
E a questo punto, continua il presidente della Fiba «è necessario subito un provvedimento d’urgenza per sgomberare il campo sulla decadenza delle concessioni e successivamente una legge delega che tenga conto dell’impianto dettato dalla Corte europea di giustizia». La nuova legge, conclude Lardinelli, servirà anche a mettere in ordine anche tra le varie categorie di stabilimenti. È chiaro che i canoni demaniali sono diversi rispetto alle aree del Paese, un bagno a Capri o in Versilia paga sicuramente di più di un altro in spiagge difficili da raggiungere della Calabria. Ma le due categorie presenti adesso sono troppo poche, occorre aggiungerne altre, per rappresentare tutte le tipologie di stabilimenti.
Infine, una postilla, fondamentale. Come riporta La Stampa, «La Corte ha inoltre stabilito che spetta ai giudici nazionali verificare, “ai fini dell’applicazione della direttiva”, se le concessioni italiane debbano essere oggetto di un numero limitato di autorizzazioni a causa della “scarsità di risorse naturali”». Anche questo è un elemento che forse servirà a dettare regole contro lo sfruttamento dei beni demaniali nel rispetto dell’ambiente. Chissà se il legislatore ne terrà conto.








