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Un’altra attivista per i diritti umani uccisa in Honduras

Lesbia Janeth Urquìa

Lesbia Janeth Urquìa era stata vista l’ultima volta martedì scorso. Il suo corpo è stato ritrovato ieri, a 160 km ad ovest della capitale Tegucigalpa.

Attivista vicina alle battaglie di Berta Cáceres – figura di primo piano nella difesa della comunità indigena dei Linca e assassinata in casa propria lo scorso marzo – e membro con lei del consiglio dei popoli indigeni d’Honduras, Urquìa ha da sempre difeso i diritti delle comunità locali opponendosi duramente alla speculazione dei privati sul territorio.

In prima linea nella battaglia contro la costruzione della diga Agua Zarca sul fiume Gualcarque – scontro che è costato la vita alla collega Cáceres – Lesbia Janeth Urquìa si aggiunge alla lunga lista degli attivisti uccisi in Honduras, tre soltanto quest’anno. Secondo Global Witness, autore di un duro rapporto, sono oltre 50 gli ambientalisti uccisi nel piccolo paese a sud del Guatemala solo nel 2015.

In un breve comunicato pubblicato sul proprio sito nella giornata di giovedì 7 luglio, l’organizzazione ambientalista di cui erano membri le due donne ha così commentato l’accaduto: «La morte di Lesbia Janeth è un femminicidio di stampo politico che cerca di mettere a tacere la voce delle donne che con coraggio difendono i propri diritti». Tuona nella conclusione l’accusa al governo: «Riteniamo le autorità direttamente responsabili di questo omicidio».

Secondo i membri del Copinh, in Honduras sarebbe in atto un piano per eliminare tutti coloro che cercano di difendere il patrimonio ambientale del Paese e le sue risorse dalle speculazioni delle multinazionali.

A fare eco alle accuse degli attivisti, alcune dichiarazioni emerse a maggio. Secondo quanto dichiarato da un ex membro delle forze armate, il nome di Cáceres e quello di altri membri delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani in Honduras sono circolati tra le forze speciali.

Se è vero che le autorità nazionali hanno smentito le accuse, il quadro di quanto accaduto e continua ad accadere in Honduras resta inquietante.

In un’intervista pubblicata da Left sul settimanale di sabato 7 maggio – a pochi giorni dall’attentato al giornalista e difensore dei diritti umani Felix Molina – la figlia venticinquenne di Berta Cáceres, aveva raccontato del trattamento intimidatorio subito da alcuni membri del Copinh da parte delle autorità. Il governo ha inoltre rifiutato ogni collaborazione esterna nelle indagini – richiesta a gran voce dagli attivisti e offerta dalla Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) – che ad oggi hanno portato all’arresto di quattro sospettati.

Alla ricerca di giustizia e verità per la morte di Berta si aggiunge oggi quella di Lesbia, mentre il clima politico in Honduras sembra sempre più ostile agli attivisti.

 

Tutto quello che trovate su Left #28. In edicola dal 9 luglio

Torniamo in Medio Oriente, nello Yemen che vive una tregua fragile, dopo una guerra spietata. A Kobane, tra i bambini scampati al dominio del Daesh. E poi in Turchia, con un fumettista, Claudio Calìa, in viaggio verso il paese curdo, che si è trovato nel mezzo dell’attentato all’aeroporto Ataturk. Mentre Umberto De Giovannangeli prova a ricostruire le mosse di Erdogan, il sultano che ora sembra tendere la mano allo zar Putin. Pagina 34 e a seguire.
I 5 stelle si sentono forti, “Siamo meglio di Podemos” dicono a Luca Sappino, pagina 20. Ma Tiziana Barillà pone una domanda semplice alla sindaca a 5 stelle di Roma: continuerà a non vedere i migranti di Baobab, laceri, abbandonati, stremati dal caldo e senza un tetto né assistenza? Per la Capitale è una vergogna e può diventare un’emergenza sanitaria. Virginia, che fai? Pagina 24.
Ma la storia di copertina è ancora la sinistra, che resiste, a fatica, in Gran Bretagna, dopo Brexit, e in Spagna, dopo le elezioni del 26 giugno.
Aldo Garzia a pagina 12. Federico Fornaro segnala quante cose si possano capire studiando il nuovo fantasma che si aggira per l’Europa, l’astensionismo.
Michele Prospero mette sotto accusa le élite, modeste, della politica. Carlo Galli si chiede se la frattura destra sinistra non sia stata sostituita oggi da quella fra i partiti del sistema e quelli anti sistema. L’uno e l’altro, Prospero e Galli, aprono il dibattito sul futuro della Sinistra. Un dibattito che vorremmo si allargasse, non fosse paludato, mostrasse coraggio. Mordi, sinistra.

Left n. 28 è in edicola dal 9 luglio

 

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«Siamo meglio di Podemos» i 5 stelle ne son proprio convinti

«La Storia ci dà già ragione», dice sicuro Manlio Di Stefano, deputato 5 stelle che con Alessandro Di Battista condivide la passione per gli esteri, un wannabe sottosegretario, e che meglio di altri esprime così l’orgoglio del Movimento 5 stelle, che si considera meglio di Podemos, dei gemelli diversi spagnoli, colpevoli di scendere a patti con la politica, di fare politica, politica delle alleanze. Colpa mortale, pare – e non conta nulla che Podemos abbia comunque eletto 72 deputati. La politica, per il Movimento 5 stelle, è irriformabile, almeno per quel che riguarda i partiti.

Quindi niente alleanze: è la sacra regola. Che sia il Pd, che sia Forza Italia o che sia Izquierda unida non fa differenza. «Sinceramente non capisco cosa stupisca quelli che commentano la sconfitta elettorale di Podemos», dice ancora Di Stefano: «per quale motivo un elettore dovrebbe affidarsi ad un partito nuovo, che si propone come rivoluzionario e alternativo, ma si presenta in coalizione con l’estrema sinistra di Izquierda Unida? Se devo votare una finta novità per essere poi tradito come i greci con Tsipras, allora preferisco votare direttamente per i vecchi partiti almeno so cosa mi aspetta».

La regola, per Di Stefano, è quindi universale, e vale – «inosservata» – da anni, vale anche per il passato: «Volete un esempio italiano?», continua Di Stefano: «la Lega Nord». «Nata per mandare a casa “Roma ladrona” e Berlusconi “il mafioso” (parola di Bossi), è finita ad allearsi col Cavaliere per la smania di andare subito al Governo, e adesso è seppellita in un consenso da partito minore intorno al 10 per cento». La Lega, in effetti, tra il 1994 e il 1996 Berlusconi lo chiamava «Berluskàz», Bossi tuonava contro «il grande fascista di Arcore» (10 aprile 1995, La Repubblica), diceva «ci risponda, Berlusconi: da dove vengono i suoi soldi?». E deve avergli dato spiegazioni convincenti, Berlusconi, evidentemente. «Capite», è sempre Di Stefano a parlare, «perché siamo sempre più convinti che l’intransigenza verso la parte marcia del sistema sia un valore inestimabile?

Pensate se ci fossimo alleati con Bersani tre anni fa o se Beppe Grillo avesse lasciato Renzi provare a sedurci a quel famoso tavolo, oggi saremmo una minoranza qualsiasi in Parlamento». Di Stefano ne è convinto – rimuove il fatto che Beppe Grillo un tempo chiese di poter partecipare alle primarie del Pd – ma è convinto. E in effetti a Grillo fu il partito democratico a dire di no – e fu quella l’occasione dell’epica previsione di Piero Fassino: «Grillo si faccia un suo partito e vediamo quanto prende!», disse l’ex sindaco di Torino, la cui seconda profezia riguarda la sconfitta (e quindi la vittoria) di Chiara Appendino. Non l’avesse mai detto, Fassino, forse ora Grillo sarebbe un Civati più riccio e agitato. Quello che dice Di Stefano, lo dice, con toni più moderati, anche Luigi Di Maio.

Il candidato premier in pectore del Movimento 5 stelle la teoria la spiega così: «Noi crediamo che i partiti non si possano salvare dall’interno», dice il giovane leader, che piace ormai anche a un pezzo di establishment e a un pezzo di destra, «anche perché puntualmente le forze di rinnovamento che ci sono vengono fermate o non riescono a portare a termine il loro progetto». «Con i partiti», dunque, «non si possono fare alleanze». I partiti sono il male, e un po’ lo sono anche le alleanze in sé. Non per nulla, quando il Movimento 5 stelle si è brevemente seduto al tavolo del confronto sulla legge elettorale, una delle tre richieste consegnate a Renzi (insieme alle preferenze e all’eliminazione dei capolista bloccati) era il premio alla lista e non più alla coalizione, come invece prevedeva la prima versione dell’Italicum. E quest’ultimo passaggio, la richiesta sull’Italicum mossa ai tempi, in coerenza con la regola ferrea sulle alleanze, che ci aiuta a parlare del rapporto tra 5 stelle e legge elettorale.

Perché se oggi i grillini dicono che l’Italicum non si può cambiare ma «va buttato tutto intero» – come dice Danilo Toninelli, deputato -, non sempre hanno detto così. Un tempo lo avrebbero modificato, mentre oggi Di Maio scommette che sarà il Pd a toccarlo, e per convenienza: «Io», dice, «penso che proveranno a proteggersi», che lo modificheranno sia se dovesse vincere il sì al referendum costituzionale – perché comunque il Movimento 5 stelle rischia di prendere il ricco premio di maggioranza e, a quel punto, governare – sia perché «se vince il No al referendum e si vota con l’Italicum per la Camera e con il proporzionale al Senato né il M5s né altri possono governare». È probabile che sia così, e il posizionamento di Dario Franceschini tra i favorevoli al ritorno del premio di coalizione sembra confermare la lettura.

Ma è vero anche il contrario. Che il Movimento 5 stelle, cioè, se non preme ora per modificare l’Italicum è perché – si può malignare – vuole vedere l’esito del referendum, forse addirittura sperando che vincano i Sì. Perché è una legge con il premio di maggioranza, se ci si pensa, l’unico ragionevole modo con cui il Movimento 5 stelle può sperare di andare al governo, senza fare alleanze. Dice Di Maio che ci penseranno una volta al governo a mitigare gli effetti di Italicum e riforma costituzionale. Il 50 per cento da soli è però difficile prenderlo, impossibile senza il meccanismo del ballottaggio – che c’è invece nelle città. Questa cosa ai vertici del Movimento – la cui proposta di legge elettorale depositata è proporzionale – la sanno. Ma se gliela fai notare non ottieni risposte valide. «Il Movimento 5 stelle non fa alleanze», ti rispondono. Anche stimolati sulle liste civiche per ora dagli staff dicono che no, «non si fanno alleanze».

Ma chissà che non ci si possa ammorbidire un po’, col tempo. D’altronde, per dire, quant’è che i parlamentari 5 stelle non fanno un’assemblea in streaming? E le riunioni che hanno preceduto la composizione della giunta Raggi, un tempo non avrebbero dovuto farcele vedere? Di soldi dell’indennità, deputati e senatori, eletti nel 2013, devono restituirne molti: per gli europarlamentari, eletti nel 2014, è molto più economico. Anche la regola sul doppio mandato non sembra eterna. Per ora la difendono tutti, sì. Se dici a Roberto Fico ti dice che tutto può essere, c’è sempre chi pensa qualcosa di strano, tipo modificare le regole, ma che quella del doppio mandato non si tocca.

E anche Luigi Di Maio la difende, dice che serve «per moralizzare il sistema». Si dice pronto a tornare a lavorare, Di Maio, che non ha un lavoro in realtà, ma stava avviando una società di e-commerce con i suoi amici di Pomigliano, prima di entrare in Parlamento. Dice che il limite dei due mandati anzi dovrà valere per tutti i parlamentari, di tutti i partiti. Almeno per un po’, però. Perché poi aggiunge: «Oggi servono regole certe, poi un giorno magari potremmo anche tornare indietro. Come Paese». Alleanza, qualche politico a scadenza più lunga, un po’ meno di ideologia post-ideologica.

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Leo Ferrè, la sua poesia è viva più che mai

«Non sono l’uno per cento ma credetemi /Esistono». Sono loro, gli anarchici, con «un sogno disperato / E le anime corrose /Da idee favolose». Questi sono alcuni versi di Les anarchistes, una ballata tra le più belle e commoventi di Leo Ferrè, il poeta ribelle, il cantautore che sprigionava forza e malinconia potente. L’uomo che cantava la fine di un amore… con amore. Come nella splendida Avec le temps, ripresa in Italia da tanti, da Gino Paoli a Franco Battiato.

Il grande artista, nato a Monaco di Baviera il 24 agosto 1916, viene celebrato stasera a Castellina in Chianti (Siena), dove si era trasferito nel 1971 con la compagna Maria e i tre figli. Viveva in un casale in campagna e coltivava naturalmente il vino. Qui è morto il 14 luglio 1993.

Leo Ferrè è un gigante della cultura del dopoguerra. Con la sua musica e i suoi testi ha sempre dimostrato un impegno forte in nome della libertà e della pace. Non è solo uno dei nomi più celebri della chanson d’Oltralpe, cultore della grande poesia francese dell’Ottocento, è anche un personaggio punto di riferimento dell’anarchia.

Stasera a Castellina in Chianti a far rivivere la poesia di Leo Ferrè nell’ambito del Chianti Festival è lo spettacolo Extra dei Têtes de Bois con i versi musicati di Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Ferré
musicato da Ferré e Ferré musicato e ri-arrangiato dai Têtes de Bois.
Con la voce potente di Andrea Satta, Carlo Amato, basso, contrabbasso e computer, Angelo Pelini, pianoforte e tastiere, e Luca De Carlo, tromba.

Non solo musica, ma anche immagini. Alle 17 infatti sarà inaugurata la mostra Les copains de la fureur di un pittore amico di Leo Ferrè, l’artista belga Charles Szymkowicz. Si tratta di oltre cento dipinti, disegni e incisioni realizzati fra gli anni Settanta e gli anni Duemila, caratterizzati da una potente forza espressiva che
per colori e linee si ricollega a quella delle parole di Leo Ferrè. La mostra, il cui catalogo è stato curato da Enrico Crispolti, rimarrà aperta (nel museo archeologico e nella Rocca fino al 1° novembre ed è uno degli omaggi che il paese fa al suo grande concittadino, il poeta e anarchico Leo Ferrè, «che ha sempre amato la campagna del Chianti e la sua gente», ha ricordato il vicesindaco Andrea Pucci.

Se cado,cadrete con me.Caffè

The italian job. Un pullman tricolore in bilico sull’orlo di un burrone. È la copertina di The Economist. Spiega Federico Fubini: “A quasi dieci anni dall’avvio della Grande recessione mondiale, i crediti bancari a rischio di default nella zona euro valgono ancora quasi mille miliardi. Per quasi un quarto vi contribuisce l’Italia”. Il settimanale economico non ha dubbi: gli stati devono finanziare le banche. Ma le regole europee (per evitare che ciascun paese pensi a se stesso con i soldi anche degli altri) subordinano i salvataggi bancari alla tosatura degli azionisti, poi degli obbligazionisti, infine dei correntisti con oltre 100mila euro. Nel caso Italia, ciò vorrebbe dire moltiplicare l’impatto sociale del fallimento di Banca Etruria. Un prezzo politico assai pesante per il governo, che ha fatto dell’ottimismo di maniera -arriva la ripresa, anzi è già arrivata, non va ancora bene ma meglio- la sua cifra politica. Invece, scrive il direttore del Corriere Luciano Fontana,”siamo ancora ad aspettare segnali di ripresa che non arrivano”. Intorno a noi il quadro non è meno fosco. Deutsche Bank ha in pancia troppi “derivati” e non potrà liberarsene senza un poderoso intervento pubblico. In Gran Bretagna “la caduta della sterlina post brexit – come scrive Federico Rampini su Repubblica- espone a una perdita secca di valore gli investimenti immobiliari”. Perché i capitali che arrivavano finivano nel mattone (di lusso) e l’investimento veniva condiviso da banche e fondi pensioni: ora la sterlina attrae meno e la paura moltiplica l’effetto brexit. Così i fondi si ritirano, rischia di scoppiare una bolla immobiliare Per ora tutti vogliono credere che non scoppierà un’altra crisi finanziaria come quella del 2008, con epicentro questa volta in Europa. Ma il fatto che se ne parli testimonierebbe che un qualche rischio c’è.

Gli stati annaspano : Monte dei Paschi di Siena dovrà liberarsi dei 10 miliardi di sofferenza e questo avrà – ha già- un costo per chi ha creduto nella ripresa (nel salvataggio) di quella banca. L’Europa si divide (proclami contro il piano italiano per le banche, minacce di sanzioni a Spagna e Portogallo che sfiorano il deficit9 e ognuno coltiva il proprio interesse a breve. La BCE consiglia prudenza e invita a cercare compromessi. Ora si attende una sentenza della corte di giustizia europea che il 19 luglio dovrà giudicare sugli aiuti di stato che la Slovenia diede alle sue banche. Se dirà sì, qualcosa si farà, cosa non si sa. Allegria!

Vertice Renzi Mattarella. È il titolone de La Stampa. Che si saranno detti? Il Sole24Ore la racconta così: “Ho i numeri, vado avanti”. “E sul referendum apre allo spacchettamento Forza Italia non vuole crisi, frena la fronda Ncd”. Repubblica mostra una tabella a pagina 10: il governo potrebbe contare in Senato su 113 voti del Pd, su 20 del gruppo Autonomie, di 9 voti sui 28 del gruppo misto, di 4 sui 14 di GAL e di 11 sui 18 del gruppo Ala (Verdini). Con questo bel vestito arlecchino e trasformista, Renzi dovrebbe andare sul sicuro. Tuttavia il giovane premier ha deciso di ricorrere il meno possibile alla fiducia (non si sa mai), di rinviare all’inizio di novembre il voto sul referendum (quando la crisi di governo sarebbe drammatica, con la legge di stabilità da approvare e l’incubo dell’esercizio provvisorio). Inoltre pare non escluderebbe che si possa votare al referendum su più quesiti, in modo da lasciar bocciare le parti più indigeste della riforma senza dover rinunciare al governo. In ogni caso Renzi ora chiarisce – l’avevo scritto parecchi mesi fa- che se anche dovesse perdere il governo (per un complotto dei centristi o perché bocciato dal referendum) in ogni caso non lascerebbe la segreteria del Pd. Anzi si presenterebbe a Mattarella per sbarrare la strada a ogni ipotesi di governo che non sia il suo. “Apres moi le déluge”, disse Louis XV. Sappiate, puzzoni di Ala, sappiate amici inquieti di Alfano, sappiate governativi raccogliticci del gruppo misto e sappiatelo pure voi, senatori del Pd alla prima legislatura, che “se cado resterete senza scranno e senza vitalizio”. Prudenza trasformista, decisionismo pure trasformista.

Comincia l’era Raggi. Con il figlio e tanti parenti in Campidoglio, lo stato maggiore a 5 Stelle di fronte e la diretta streaming. Francamente non trovo scandaloso che la sindaca abbia voluto comporre le sue prime scelte con il movimento che l’ha sostenuta. E due settimane e mezzo, tra i ballottaggi e il varo della giunta, non mi sembrano troppe. Ho votato Raggi gente che non ti aspetti, pure, scopro da Repubblica, la vedova di Petroselli, grande sindaco comunista di Roma. Per ora Virginia ha il sostegno della città. Dovrà essere prudente e audace. Ha sbagliato a non chiedere un incontro con i genitori, affranti, dall’americano gettato nel Tevere, sbaglierebbe a non andare in via Cuba, tra i migranti abbandonati per strada, emergenza umanitaria che rischia di diventare emergenza anche sanitaria.

Razzismo? Non solo! Hanno ammazzato Emmanuel che si era salvato da Boko Haram ed era sopravvissuto alla traversata sul barcone. Mattarella ora chiede protezione per la vedova. Che ha perso un figlio nella chiesa fatta saltare da Boko Haram, che ha abortito per le sevizie subite durante il viaggio, che si è vista uccidere il marito da un italiano che prima l’aveva chiamata “scimmia africana”. Il ministro dell’interno Angelino Alfano è andato a Fermo a vantare che ora si può persino invocare l’aggravante delle motivazioni razziste per l’omicidio, sia pure preterintenzionale, di Immanuel. Per lavarsi la coscienza. Ma questo “agricoltore” razzista immagino pretenda di essere protetto dallo stato italiano, credo che sia tra coloro che invocano lavoro -stipendio, “posto”, aiuti- prima per gli italiani come lui. Fascista, sono certo che si consideri anti casta, che ritenga nel suo diritto ogni genere di insulto su chi governa, su chi fa il sindaco, su chi amministra. Infine pare proprio che sia tra quelli che si arrabbiano se la Chiesa di Francesco perché gli porta sotto casa quelle facce nere invece di lasciarle in Africa. Cari lettori, sono qui riunite tutte le caratteristiche del nazional socialismo. Tutte tranne una: questa brava gente non ha ancora trovato l’appoggio del grande capitale.

Terrore a Dallas: cinque poliziotti uccisi. Cosa è successo

Dallas police respond after shots were fired during a protest over recent fatal shootings by police in Louisiana and Minnesota, Thursday, July 7, 2016, in Dallas. Snipers opened fire on police officers during protests; several officers were killed, police said. (Maria R. Olivas/The Dallas Morning News via AP)

Aggiornamento: Il capo della polizia David Brown e il sindaco Mike Rawlings hanno detto in una conferenza stampa che non rilasceranno particolari sugli arrestati o sul morto, riferendo però che questi, durante le trattative ha detto di «voler uccidere poliziotti e bianchi, di essere furioso per le morti dei giorni scorsi e di non essere collegato a nessuna organizzazione». Non è chiaro se i tre sospetti arrestati siano necessariamente connessi alla sparatoria e, a questo punto, le informazioni lasciano il dubbio se, la sparatoria non sia l’ennesimo episodio di lupo solitario squilibrato che ha a disposizione armi automatiche o se si sia trattato di un atto più politico e organizzato da un gruppo.

Aggiornamento: le parole di Obama. «Non conosciamo i fatti ma sappiamo che c’è stato un attacco violento, brutale e premeditato sulla polizia che proteggeva le persone che marciavano per protestare. Ho detto che bisogna fare riforme del sistema penale e giudiziario, ma ho anche detto che la maggioranza dei poliziotti fanno il loro mestiere in maniera giudiziosa».

Il presidente Usa ha anche parlato del fatto che la presenza di armi automatiche rende tutti gli attacchi come quello di Dallas più tragici.

Aggiornamento: la persona asserragliata in un garage è morta o si è uccisa. Le autorità stanno controllando gli edifici pubblici e le strade del centro di Dallas per cercare eventuali ordigni nascosti. La persone che si è uccisa aveva infatti detto di avere piazzato bombe.

Cinque poliziotti morti e altri sette feriti. E il centro di Dallas in preda al panico. Stavolta l’ennesima strage dovuta alla follia e alla disponibilità di armi prende la forma della protesta contro le uccisioni di neri da parte della polizia.

Mentre una marcia di protesta per la morte di Philando Castile e Alton Sterling, i due neri uccisi da poliziotti a Baton Rouge e St. Paul nei giorni scorsi, si scioglieva, quattro persone, ma la polizia non è certa non ce ne fossero altre, hanno aperto il fuoco con delle armi automatiche, scatenando il panico e, facendo una strage.

Il capo della polizia di Dallas ha spiegato che i poliziotti sono stati colpiti dall’alto: gli aggressori, insomma, si erano piazzati in posizione da cecchini e hanno aspettato l’arrivo della manifestazione per cominciare a sparare.

Bystanders run for cover after shots fired at a Black Live Matter rally in downtown Dallas on Thursday, July 7, 2016. Dallas protestors rallied in the aftermath of the killing of Alton Sterling by police officers in Baton Rouge, La. and Philando Castile, who was killed by police less than 48 hours later in Minnesota. (Smiley N. Pool/The Dallas Morning News)
Manifestanti in fuga (Smiley N. Pool/The Dallas Morning News)

A mother covers her children as Dallas police respond to shots being fired during a protest over recent fatal shootings by police in Louisiana and Minnesota, Thursday, July 7, 2016, in Dallas. Snipers opened fire on police officers during protests; several officers were killed, police said. (Maria R. Olivas/The Dallas Morning News via AP)
Una madre che partecipava alla marcia ripara la figlia (Maria R. Olivas/The Dallas Morning News via AP)

Dallas Police shield bystanders after shots were fired Thursday, July 7, 2016, during a protest over two recent fatal police shootings of black men. (Smiley N. Pool/The Dallas Morning News via AP)
Poliziotti e passanti al riparo (Smiley N. Pool/The Dallas Morning News via AP)

Tre persone sono state arrestate dopo che la polizia le aveva viste gettare un borsone nel cofano di una mercedes e cercare di fuggire. Una quarta persona è, mentre scriviamo, asserragliata al secondo piano di un parcheggio, circondata e scambia colpi d’arma con la polizia. La persona dice di avere con sé delle bombe e che altre sono state piazzate in città.

Poche ore prima che a Dallas scoppiasse l’inferno il governatore del Minnesota, Dayton, aveva dichiarato che «se Philando Castile fosse stato bianco sarebbe ancora vivo, abbiamo un problema di razzismo e ce ne dobbiamo occupare». Anche Obama era intervenuto.
Il Washington Post ha raccolto i dati sui morti afroamericani uccisi dalla polizia e segnalato come questi, dopo Ferguson e le proteste che ne sono seguite, sono aumentati: 465 nel 2015, 491 quest’anno. Sono numeri enormi e in parte rimandano alla questione delle armi: se ne circolassero meno, l’uso della forza da parte della polizia, quando è un uso indiscriminato e razista, si rivelerebbe per quel che è e non avrebbe scuse.

Un buon esempio è il tweet qui sopra: questo è uno dei manifestanti, che la polizia identifica come sospetto. Si tratta di Mark Huges, che quando ha saputo di essere ricercato si è presentato alla polizia ed è poi stato rilasciato. Ecco, Huges ha un fucile automatico a tracolla e partecipa a una manifestazione. Le due cose in Texas sono legali. Una follia.

Eppure Maroni ha chiesto all’antimafia. Oppure no

La scenetta che si è consumata ieri in Regione Lombardia è significativa: Maroni si scrolla di dosso l’ultima operazione antimafia che riguarda Fiera Milano (di cui la Regione è azionista) dicendo di avere chiesto alla Direzione Antimafia l’autorizzazione morale per collaborare con l’ente. Dice Maroni, testualmente: «”Dominus – il consorzio al centro delle indagini – lavorava in Fiera perché la Dia aveva concesso il nulla osta. Evidentemente, la Direzione investigativa antimafia nel 2014 non riteneva che l’associazione di imprese avesse legami con la criminalità organizzata tali da consigliarne l’esclusione dagli appalti».

La DIA ufficialmente non replica. Ufficiosamente dice che Maroni vaneggi, che non sanno nemmeno di cosa stia parlando. «Abbiamo le prove!» risponde Maroni. E la scenetta comincia ad assumere i contorni dello screzio a bordo piscina.

Intanto l’Ambasciata francese comunica di non avere mai avuto contatti con la società paramafiosa per la costruzione dei propri stand all’interno di Expo. In pratica negano la serietà dell’indagine, tanto per parlare dei successi internazionali. E in più aggiungono di avere firmato il “protocollo della legalità”. Affossando in un secondo anche la retorica governativa (e filoBeppeSala) secondo cui la manifestazione sarebbe stata Mafia-free. I protocolli sono la nuova penicillina antimafiosa. Peccato che per funzionare abbiano bisogno della schiena diritta delle persone.

Le persone, i dirigenti, appunto: scrive la Bocassini che alcuni dirigenti dovranno spiegare la superficialità dei propri atteggiamenti. Si ritorna al punto di partenza: le persone contano.

La crisi frammenta le identità che la politica dovrebbe unire

C’è molta confusione sotto il cielo e il compito della sinistra, che un tempo si considerava il sale della terra, è di sfrondare tale confusione e di svelare – come Foscolo diceva di Machiavelli – di che lacrime grondi e di che sangue.

Il terrorismo, per prima cosa, che colpisce in una discoteca di Parigi, all’aeroporto di Istanbul e in un ristorante a Dacca. Di sicuro è terrorismo islamico. Quando i kamikaze ammazzano e si ammazzano lo fanno nel nome di Allah. Ma è l’islam il responsabile delle loro nefaste azioni? Direi che ne è la prima vittima. Mentre in Bangladesh venivano scannate 20 persone e 9 erano italiani, a Baghdad una bomba faceva 200 morti, e 25 almeno erano bambini sciiti. Islamici sunniti contro musulmani sciiti. E ora la frustrazione per le sconfitte subite sul campo, tra Siria e Iraq, porta Daesh a colpire l’ex alleato Erdogan e persino l’Arabia Saudita, Paese la cui dinastia regnante ha stretto il patto del diavolo con Al Wahhab, teorico settecentesco di quella versione semplificata, misogina, settaria e medievale del Corano che da decenni arma i terroristi. Wahhabiti contro wahhabiti. Quando da noi, da Fallaci a Le Pen, si insiste sulle colpe dell’Islam, in realtà si vuol coltivare l’illusione che sia possibile ergere un muro a protezione della civiltà giudaico-cristiana e che a noi convenga che i musulmani si scannino tra loro. Invece è proprio per scannarsi tra loro e regolare i loro conflitti di potere che i terroristi islamici ci prendono in ostaggio.

I ragazzi, con buoni studi e soldi in tasca che hanno ucciso barbaramente a Dacca, volevano che la strage facesse notizia e che la notizia colpisse al volto le loro stesse faniglie, i clan islamici che controllano nel Bangladesh sia governo che opposizione, comunque corrotti e autoritari. La guerra santa è una anti mondializzazione radicale, che sostituisce diritti e libertà con l’obbedienza assoluta a dio e al califfo. Penetra nelle madrasse come nelle università e pretende di essere la spada che taglia i regimi corrotti. Al tempo stesso è un prodotto universale, felicemente mondializzato. L’annullamento di sé nella causa, l’istinto distruttivo, la rinascita in una nuova fede possono animare uno studente modello a Dacca, un omosessuale irrisolto a Orlando, un francese figlio di immigrati a Saint Denis. Se non rompiamo coi regimi islamici corrotti, da sempre strumento del nostro potere, se non proviamo a guarire le nostre società, dovremo convivere a lungo col terrorismo islamico. La sinistra questo dovrebbe capirlo. La destra continuerà a ringhiare, a mettere in questione libertà e diritti, poi rimuoverà, per tornare a piangere morti e stragi.

L’economia, come seconda questione. Ormai dovremmo sapere che il problema non è la lumga crisi, ma la ripresa anemica. Una ripresa che non promette lavoro stabile ai più giovani, non dà fiducia al ceto medio e accresce le disuguaglianze, con gruppi troppo ristretti che fanno sempre più denaro con il denaro, e file interminabili di donne e di uomini che, a ragione o a torto, temono di dover stare peggio domani. Ripetere “ca va mieux” come fa Hollande o mettersi a gridare che è diminuito il lavoro precario grazie al Jobs act, come ha fatto Renzi parlando alla direzione del suo partito, è assumere un comportamento irrazionale e impotente. Lo stato quasi comatoso dei socialismi europei, non dipende dalle divisioni a sinistra, ma dalla mutazione in corso nell’economia capitalistica e dal fatto che la Terza Via ha rinunciato all’idea che si possa cambiare lo stato presente delle cose. No, per Hollande, Renzi, Sanchez si può solo ottimizzare, lucrare qualche vantaggio dentro i margini ristretti che il potere dispotico del capitale finanziario lascia agli Stati.

La democrazia, in terzo luogo. Per quasi mezzo secolo si è nutrito un modello di partecipazione che divideva la cittadinanza attiva in due campi, uno convinto che bisognasse abbattere le disuguaglianze (e lì stavano in buon numero operai e dipendenti), l’altro che bisognasse lasciar correre liberi i piu abili e fortunati (ipotesi da sempre gradita a imprenditori e possidenti). In mezzo, al centro, il ceto medio che intendeva l’una e l’altra sirena, e che, scegliendo, moderava – o avrebbe dovuto moderare – sia l’uno che l’altro campo. Ma se la politica rinuncia a cambiare e può solo ottimizzare, se le disuguaglianze crescono e l’ascensore verso l’alto rallenta, entrambi i poli finiscono per trovarsi in pancia pulsioni diverse: una folla che teme di essere trascinata in basso dai più poveri e dagli immigrati, che chiede protezione mentre nutre invidia o rancore per chi ha troppo, per chi decide, e sta in alto. Davanti all’impotenza (e alla rinuncia) delle élites nazionali sia della destra che della sinistra, questa folla coltiva progetti separatisti, spera nel potere più vicino, o corre verso un nuovo polo né di destra né di sinistra, una lega dei giusti e degli arrabbiati e dei deprivati (non importa se la privazione sia materiale o culturale o anche solo immaginaria). Se bipolarismo e alternanza irretivano la lotta di classe, il frantumarsi delle identità mischia le carte, libera lo scontento popolare e proietta il governo in un’area tecnica, fuori dalla portata di qualsivoglia controllo democratico.

Quarto, le riforme. I cultori della democrazia governante liberano le leggi maggioritarie dal fardello della cultura e della storia del Novecento. Non importa – sostengono – che lo scontro non sia più fra tory e labour, socialisti e popolari, democratici e repubblicani: l’importante è che alla fine uno solo vinca e governi. Follia, delirio vano è questo! Se, come è probabile, nel Paese europeo con la Costituzione più organicamente maggioritaria, e cioè in Francia, Marine Le Pen andasse al ballottaggio, lo scontro finale opporrebbe un candidato del sistema a uno anti sistema. Sarebbe la replica della Brexit. Chiunque vinca, l’altro non gli riconoscerebbe legittimità e ancora meno gliela riconoscerebbero i supporter dell’altra famiglia storica, ghigliottinata già al primo turno. Avverrebbe lo stesso con l’Italicum. Con l’aggravante dei deputati imposti agli elettori in quanto capolista e di quelli promossi in Parlamento dal premio di maggioranza conquistato dal loro leader.

Mondializzazione e anti mondializzazione terrorista. Ripresa senza occupazione e crescita delle disuguaglianze. Paura degli immigrati e riflesso identitario, nazionale ma anche regionale. Sfiducia nei mercati, nella politica, nel futuro. La destra può tenere insieme tutto ciò in un unico fascio? Si è visto che può riuscirci nel voto. Ma per ora il capitale non la segue. Non si vedono per fortuna i Krupp, grandi industriali tedeschi che appoggiarono Hitler. Al contrario, chi ha chiesto ai britannici di votare Leave per restaurare l’impero si trova ora con il Palazzo imperiale, la City londinese, che studia sinergie col palazzo nemico, a Francoforte. E la sinistra? Può una sinistra, lasciati al loro destino i cantori della Terza Via, puntare su movimenti e forze anti sistema, organizzare la disobbedienza sociale, rifiutare ogni compromesso con la casta, fino a far emergere un nuovo modello di società e una diversa forma di democrazia? Sarebbe un lavoro di lunga lena, una prospettiva di non breve periodo. Credo di capire che a questo pensino Carlo Galli, che ne scrive su Left, e Walter Tocci, quando chiede che si torni al mutualismo e alla fase germinale del socialismo. Un tale impegno si può coniugare con la lotta a ogni ipotesi (ingannatrice) di democrazia governante, spostando l’attenzione sul tema della rappresentanza e – perché no? – anche proponendo il ritorno a leggi elettorali proporzionali.

Mi preoccupa, tuttavia, la mancanza di un soggetto sociale in grado di addensare questo lavoro, di un vettore per le idee e le esperienze innovatrici. Oggi i movimenti e la sinistra sociale si concentrano di volta in volta su un aspetto, fanno lobby per portare a casa qualche risultato, usano settori del capitalismo sensibili a quel mercato. Mentre la sinistra politica naviga, come può, nelle istituzioni e si ricorda, quando può, del sociale. Anche la contraddizione tra queste due sinistre è figlia della crisi. Mi sembra che Pablo Iglesias abbia scelto un’altra linea. Quella difficile della congiunturalità politica, trasformarsi per puntare al governo in Spagna e da lì cambiare l’Europa. Troppo in fretta. Non è riuscito a portarsi dietro tutto quel che serviva. Ma mi chiedo se non sia la strada.

Questo articolo lo trovi su Left in edicola dal 9 luglio

 

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Gaza, le Ong chiedono la fine del blocco israeliano

Six months since the conflict began, parts of Gaza are still strewn with the rubble of destroyed homes. Despite the ceasefire in September 2014 vital reconstruction has barely begun and the Israeli blockade of Gaza remains in place. ANSA/ UFFICIO STAMPA OXFAM +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Dopo i bombardamenti israeliani dell’estate del 2014, che costarono la vita a quasi 1500 civili, tra cui 551 bambini, buona parte della striscia di Gaza è rimasta in rovina. Le associazioni umanitarie che operano a Gaza hanno denunciato una grave situazione di disagio sociale, con decine di migliaia di palestinesi senza una casa, ospedali e cliniche distrutte e mancanza di accesso all’acqua corrente nella maggior parte delle città e dei quartieri della striscia. La campagna #OpenGaza, lanciata dall’associazione Aida – che raccoglie la maggior parte delle Ong che operano nei Territori palestinesi – mira a fare pressioni sull’opinione pubblica internazionale per arrivare al ritiro del blocco israeliano su Gaza, in modo da permetterne la ricostruzione. All’appello di Aida hanno aderito le principali Ong italiane ed internazionali, tra cui Cospe, Cisp, ActionAid e Oxfam International.
«Israele deve rispondere della grave situazione di emergenza in corso a Gaza da oramai diversi anni, dal momento che controlla quasi completamente l’intero confine via terra e via mare, con la striscia. La comunità internazionale deve esigere il rispetto dei diritti umani, ponendoli alla base delle relazioni internazionali e diplomatiche con Israele» ha detto Giorgio Menchini, Presidente del Cospe, una delle associazioni firmatarie dell’appello. Cospe ha sede a Firenze, e sta portando avanti insieme ad altre organizzazioni alcuni progetti di sostegno psicologico rivolto a minori e donne disabili che hanno subito traumi nelle aree di Gaza durante l’offensiva Israeliana del 2014.
Dai promotori della campagna è stato realizzato un video che racconta, attraverso dati e numeri, la difficile situazione in cui vivono gli abitanti di Gaza. «Dopo due anni dall’inizio della guerra il blocco sta gravemente ostacolando la ripresa di Gaza» dice Chris Eijkemans, direttore di Oxfam International in Palestina, che prosegue, «Con l’avvio del cessate il fuoco, i leader mondiali hanno promesso di lavorare per uno sviluppo sostenibile e di lungo periodo per i palestinesi che vivono a Gaza. Tuttavia, ci sono poche evidenze realmente concrete di tali promesse». E poi conclude: «La fine del blocco è l’unica soluzione per dare alle persone l’accesso ai servizi di base di cui hanno disperatamente bisogno, per consentire che la ricostruzione proceda veramente. Solo la sua fine immediata porterà sicurezza a lungo termine per i palestinesi e gli israeliani».
Particolarmente la grave la situazione dei bambini e dei minori. Fikr Shalltoot, Direttore dei programmi a Gaza dell’organizzazione Medical Aid for Palestinians sostiene che «a centinaia di bambini che necessitano di un trattamento medico salva-vita viene impedito di lasciare Gaza. Due anni dopo, ancora non sono state affrontate le cause della loro sofferenza». Oltre la metà della popolazione di Gaza è composta da bambini, che vivono sotto il blocco dalla maggior parte della loro vita. Alcuni, addirittura, da quando sono nati.
Il blocco israeliano su gaza dura dal 2007: circa 1,8 milioni di persone vivono costantemente in trappola, senza possibilità di muoversi al di fuori, né di fuggire in caso di guerre, che sono molto frequenti – nella striscia ce ne sono state tre in sei anni.
Nel conflitto del 2014 andarono distrutte 11mila case, e oltre 75mila persone rimasero senza un tetto dove dormire. La disoccupazione si aggira intorno al 40% – la più alta al mondo – e circa l’80% dei palestinesi dipende dagli aiuti umanitari internazionali. Per questo è necessario rimuovere il blocco.
é possibile firmare la petizione qui.

Rio 2016, polizia violenta. Human Rights Watch condanna il Brasile

Rio de Janeiro aveva promesso di incrementare la pubblica sicurezza in vista delle Olimpiadi d’agosto, ma nulla è stato fatto per fermare e condannare le violenze della polizia. E gli abusi e gli omicidi aumentano.

A dichiararlo è Human Rights Watch in un rapporto di 109 pagine che condanna duramente l’operato della polizia brasiliana. La polizia di Rio, infatti, è accusata di aver ucciso oltre 8000 persone, 645 soltanto nel 2015.

Se è vero che la violenza criminale in Brasile è aumentata e rappresenta un problema serio per l’ordine e la sicurezza pubblica, gli abusi della polizia non sono serviti ad arginarla. Al contrario – dichiara Maria Laura Canineu, direttrice di Human Rights Watch Brasile – l’operato delle forze dell’ordine ha minato il già fragile ordine pubblico, fomentando l’ostilità popolare nei confronti delle autorità.

Il rapporto stilato dalla Ong di sede a New York, raccoglie oltre 30 interviste ad agenti della polizia di Rio. Quasi tutti gli intervistati hanno raccontato gli abusi e le violenze commesse ai danni dei sospettati, ma soltanto in due hanno ammesso gli omicidi – descritti nel testo come vere esecuzioni. Un ufficiale di polizia ha raccontato di avere ucciso un sospettato membro di un cartello di droga, mentre questo era immobilizzato a terra.

Human Rights Watch ha inoltre riscontrato 64 casi in cui la polizia di Rio ha cercato di insabbiare gli omicidi illeciti commessi dai propri agenti. Più precisamente, la polizia è accusata di aver intimidito i testimoni e di aver rimosso i cadaveri dalla scena del crime per poi consegnarli personalmente agli ospedali. La motivazione fornita dagli autorità: “Stavamo cercando di salvarli”.

Crimini commessi e poi taciuti per paura di ritorsioni. Human Rights Watch tratteggia il quadro di un paese in preda al caos, dove l’unico ordine è quello imposto dalla polizia attraverso gli omicidi, le ritorsioni e il terrore. Il rischio, tuonano gli attivisti per i diritti umani, è che l’operato della polizia frantumi il debole equilibrio che lega le autorità brasiliane alla comunità cittadina minando la sicurezza pubblica ad appena un mese dall’inizio delle Olimpiadi.