Ora si dice: l’assasino non rappresenta l’Italia. Certo, gli assassini di Dacca non rappresentano il Bangladesh né tanto meno l’Islam. Ma c’e anche questa Italia, in una parola razzista. E di stampo fascista, per di più.
Dove accade che due giovani ultrà di destra, della Fermana, incontrino vicino a una chiesa altri due giovani, nigeriani, scampati da Boko Haram e dalla morte certa, poi da quella probabile della traversata, in barcone, del Mediterraneo. E dicano: «Do’ vai co’ ssa scimmia». La “scimmia” è la compagna della sua vita, la madre di un figlio ucciso e di uno non nato per le sevizie. La difende e perciò “merita” di essere pestato a calci e sprangate. Fino a morirne.
Emmanuel aveva 36 anni e solo a gennaio era riuscito a sposare Chinyery, 24 anni. Emmanuel e Chinyery sono due dei 124 rifugiati ospitati nel Seminario di Fermo. Ma nella Fermo governata dal centrosinistra, tra i suoi 30mila abitanti, c’è anche Amedeo Mancini, l’aggressore, fermato con l’accusa di omicidio preterintenzionale con l’aggravante della finalità razziale. Ha 38 anni, è alto e corpulento, possiede almeno 30 tori ed è un imprenditore agricolo, Mancini. Nella sua Curva Duomo, rinomatamente di destra, è molto conosciuto. Ed è già noto pure alle forze dell’ordine essendo già stato sottoposto a Daspo. Ma la sua curva, nemmeno 48 ore dopo, prende le distanze: «La Curva Duomo e la tifoseria tutta è addolorata e dispiaciuta dall’accaduto, ovviamente prendiamo le distanze da un episodio che nulla c’entra col calcio, con la tifoseria e con il mondo ultras in generale, nelle prossime ore usciremo con un comunicato ufficiale», hanno scritto questo pomeriggio gli ultrà in un post su facebook.
«Pensavo stessero rubando un’auto», è tutto quello che ha saputo dire l’aggressore subito dopo i fatti. Ma oggi il suo avvocato, Francesco De Minicis, giura che «Amedeo Mancini è distrutto dal dolore, non voleva uccidere Emmanuel».
Il Governo oggi a Fermo con don Vinicio e le Istituzioni locali in memoria di #Emmanuel
Contro l’odio, il razzismo e la violenza.
Quello di cui si legge qui, e di cui si leggerà domani e domani ancora sulla stampa, ha un nome: convinzione di superiorità. «Il governo oggi a Fermo con don Vinicio e le Istituzioni locali in memoria di Emmanuel. Contro l’odio, il razzismo e la violenza», twitta Renzi. E non manca chi, come la Lega di Salvini, stigmatizza ma non perde l’occasione per l’ennesima inciviltà: «È sempre più evidente che l’immigrazione clandestina fuori controllo, anzi l’invasione organizzata, non porterà nulla di buono. Controlli, limiti, rispetto, regole e pene certe: chiediamo troppo?». Intanto il ministro dell’Interno Alfano annuncia che «la commissione competente ha concesso alla compagna del migrante ucciso a Fermo lo status di rifugiata». Protezione post mortem. Lo stesso è accaduto a Firenze, a dicembre 2011, quando militanti di CasaPound aggredirono e uccisero Samb Modou, 40 anni, e Diop Mor, 54 anni, di origine senegalese. Come allora, l’Italia antirazzista si mobilita.
New Rome's Mayor Virginia Raggi at Campidoglio Palace (the town hall) for the settlement ceremony in Rome, Italy, 23 June 2016.
ANSA/MASSIMO PERCOSSI
Fabrizio Ghera di Fratelli d’Italia esagera: «La giunta Raggi», dice, «è piena di riciclati, soprattutto dalla sinistra. Niente di nuovo». Saltata però la nomina di Andrea Lo Cicero, rugbista e gaffeur, ad assessore allo Sport, la giunta Raggi ha in effetti un segno politico. Lo danno la nomina confermata a Paolo Berdini, urbanista della scuola Insolera, Salviamoilpaesaggio, Legambiente e compagnia, che sarà assessore all’urbanistica; e poi la chiamata arrivata a Daniela Morgante, magistrato della Corte dei conti, primo assessore al Bilancio della giunta Marino, che sarà adesso capo di gabinetto di Raggi. E anche Luca Bergamo, un tempo molto vicino a Walter Veltroni, fondatore del festival Enzimi e ora assessore alla cultura.
Una pag. sul Corsera:”i primi 18 giorni di Raggi sindaco”. Ecco, no. Per pietà no, che pure negli Usa fanno almeno “i primi 100” #Rassegnati
Questo è il primo elemento di analisi legato alla presentazione della giunta Raggi, avvenuta in Campidoglio, dopo settimane di polemiche e ritardi (in realtà non così forti, visto che anche Marino ci mise un paio di settimane a chiudere la squadra). La giunta Raggi è una giunta fondamentalmente tecnica (solo il fido Davide Frongia, vicesindaco, è un eletto in consiglio) ma con molti esponenti orientati a sinistra. Il secondo elemento è il crollo del mito del Movimento come forza aliena: quando diventa partito di governo, anche il Movimento scopre che dietro le scelte ci sono trattative, lunghe ed estenuanti, da svolgere spesso a porte chiuse. Niente dirette streaming, niente sondaggi sul web, né concorsi pubblici: una giunta, anche 5 stelle, è un luogo di mediazioni, di competenze ma anche di politiche. E a farne le spese è l’immagine – evidentemente troppo enfatizzata, per non dire falsa – del Movimento dove decidono tutto i cittadini.
Si insedia oggi a Roma il nuovo sindaco DiMaio. Auguri a lui, alla “facente finzione” Raggi e soprattutto alla città.
Non è vero, decide Virginia Raggi, sì, ma decide Luigi Di Maio, decidono pure Beppe Grillo e Davide Casaleggio. Tant’è che il terzo elemento di analisi della giunta – scrivono tutti i giornali – è la sua composizione correntizia. È forte l’influenza di Di Maio (a lui si devono Marcello Minenna al Bilancio e alle Partecipate e Laura Baldassarre al Sociale) un po’ meno quella di Casaleggio (che ha lavorato con Adriano Meloni, già ad di Expedia Italia, e assessore alle attività produttive).
A 45 anni esatti da Live in Pompeii, storico concerto dei Pink Floyd a Pompei , il 7 e l’8 giugno David Gilmour sale sul palco di dell’anfiteatro di Pompei, (già da settimane precluso alla vista dei visitatori per preparare il palco). Concerto storico, quello di Gilmour, beninteso. Imperdibile. Come si legge nella petizione lanciata su Change da un gruppo di fans che chiede alla Rai e agli organizzatori del concerto del musicista inglese di trasmettere lo spettacolo in diretta, in modo da permettere a tutti di assistere a questo spettacolo esclusivo. Anche perché il costo del biglietto è di 300 euro.
Il comune di Pompei nel frattempo ha dato la cittadinanza onoraria allo storico componente dei Pink Floyd non senza accendere polemiche. Che cosa ha fatto Gilmour per la città che gli consente lauti guadagni? Hanno chiesto alcuni consiglieri comunali. Il ministero annuncia di intascare l’8 per cento degli incassi. E l’amministrazione comunale punta sul ritorno di immagine. Parliamo di un musicista e compositore che ha scrittto pagine importanti della storia del rock e non del terzetto televisivo Il Volo, che scimmiotta la lirica e taroccando il titolo dello storico album dei Pink Floyd è approdato sul quello stesso palco antico, non senza fare danni. Non solo alle orecchie avvezze alla buona musica, ma come ogni concerto – qualunque sia la qualità – con l’infausto impatto che sulle strutture antiche hanno le vibrazioni prodotte dall’impianto. Il mese scorso è stato misurato a Milano durante un concerto in piazza Duomo. La forza d’urto di bassi e chitarre acustiche, di percussioni e voci è stata passata al vaglio di microfoni e accelerometri. Ed è stato visto che la gran fabbrica “ballava”, non solo le antiche vetrate.
Non è difficile immaginare che l’impatto di concerti dal vivo in un contesto delicatissimo e a rschio come quello di Pompei. Anche perché vanno a sommarsi alle contuinue sollecitazioni quotidiane che i preziosi resti della città romana subisce, versando già in condizioni precarie, dovute a poca tutela e l’assenza perfino di manutenzione ordinaria (tanto che ad ogni cattiva stagione si registrano crolli). Quanto all’impatto delle vibrazioni, quelle della circumvesuviana, stanno mettendo a rischio la Villa dei Misteri. Lo denuncia uno studio dell’Enea. Uno degli affreschi più preziosi si trova vicino alla porta sulla parete nord e le strutture protettive danno segni di cedimento.
I ricercatori dell’Enea hanno fatto un monitoraggio sulle strutture di legno, acciaio e cemento armato costruite tra gli anni Cinquanta e Settanta, materiali questi ultimi estremamente pesanti che non giovano già di per sé. Con sistemi sosfisticati di indagine ( e l’uso di come sismometri e resistograph) sono state riscontrate infiltrazioni delle acque piovane ed effetti negativi delle vibrazioni della circumvesuviana, che la costeggia. L’obiettivo della ricerca cominciata nel 2013, dopo una serie di crolli, nasce per mettere a punto un modello di intervento di tutela che poi possa essere applicato anche ad altre Domus che versano in analoghe condizioni.
I più altti gradi di degradosono state registrate nelle zone di appoggio di molte travi del peristilio, mentre risultano particolarmente vulnerabili all’azione sismica le strutture in calcestruzzo di alcuni ambienti. L’allarme per Pompei purtroppo, continua, nonostante nel dicembre scorso siano state riaperte alcune Domus ( qui l’articolo diLeft) , all’interno del Progetto grande Pompei.
Le bugie vengono a galla. “Ci sono voluti -scrive Roberto Toscano su Repubblica- 7anni, 12 volumi, più di 2 milioni e mezzo di parole, quante ne ha scritte Tolstoj in Guerra e Pace (ha calcolato il New York Times), per stabilire, infine, che l’invasione dell’Iraq voluta da Bush Jr, con Tony Blair al suo fianco, era non solo inutile, ma anche disastrosa”. Può darsi che non ve ne ricordiate: tutta la stampa internazionale ed italiana ritenne, allora, che la guerra fosse inevitabile. Anche noi italiani andammo in Iraq (by Berlusconi) e 19 soldati persero poi la vita nell’attentato di Nāsiriya. Eppure già nel 2003 era evidente come la guerra fosse illegale (l’Onu non l’aveva autorizzata), come Saddam non fosse un pericolo diretto per inglesi e americani (non possedeva armi di distruzione di massa), come ci fossero strade diverse dalla guerra per sbarazzarsi del regime iracheno (Pannella li indicò con chiarezza). Sono cose che ho detto e che ho scritto dall’America (dal 2003 al 2006), sentendo intorno il silenzio infastidito (se non il disprezzo) dei politici ma anche dei grandi giornalisti di allora, che sono grandi ancora. Guerra e Pace, di Tolstoy-Chilcot, restituisce la verità. Finalmente. I will be with you, whatever. “Voglio essere con te in qualunque caso”, il 28 luglio del 2002 così esordiva Tony Blair in una lettera a George W. Bush con cui gli garantiva anzitempo l’appoggio britannico alla guerra in Iraq. In quei mesi Osama Ben Laden si nascondeva lungo la frontiera tra Afganistan e Pakistan. Sconfitto, allo stremo, poteva essere catturato. Ma gli Stati Uniti preferirono allentare la morsa in Afganistan e trovare un nuovo nemico, colpire un bersaglio più grosso, l’Iraq di Saddam Hussein. Ma il leader del New Labour, il modello per i nuovi socialisti europei di ieri e di oggi prometteva fedeltà a Bush whatever. Come meravigliarsi se gli epigoni fi Blair (Hollande e Valls) ieri hanno imposto per la seconda volta, senza dibattito in Parlamento, il jobs act francese, dopo ben 12 scioperi e altrettante manifestazioni di piazza? E perché stupirsi che Gonzales, un’altra icona del socialismo europeo, chieda oggi (El Pais) ai socialisti spagnoli di appoggiare Rajoy? Le scuse (dovute) mai date. Titolo di un fondo di Paolo Mieli sul Corriere a proposito del “caso Ilaria Capua”, la scienziata (e deputata per Scelta cCivica) ingiustamente accusata di traffico di virus. Si è dimessa e se ne è andata all’estero, prima che fosse riconosciuto il mendacio delle accuse. Chi dovrebbe chiederle scusa? I magistrati inquirenti e giudicanti, che non hanno neppure voluta sentirla. Non l’hanno fatto. Nè l’ha ancora fatto il gruppo L’Espresso che -scrive Mieli- “due anni fa decise di inchiodare la Capua in copertina alla stregua di una «trafficante di virus». Le ha chiesto invece scusa, dopo averla cercata in America, “la deputata grillina Silvia Chimienti (la quale) ne chiese le immediate dimissioni”. Dunque Mieli e il Corriere polemizzano con il gruppo editoriale concorrente. Beghe tra giornalisti? Purtroppo non infondate. Repubblica è ormai il giornale del credibile ma non del vero, il giornale che usa dossier giudiziari come verità rivelata, che prende delle interviste solo quel che gli serve per confermare il titolo deciso già prima. E non che chiede scusa. Emmanuel, il suo nome vuol dire “Dio è con noi”. Ma Dio non l’ha protetto come lui invece ha provato a proteggere la compagna della vita, la “scimmia nera, come l’aveva apostrofata l’Italiano ora indiziato per la morte di Emmanuel. Scrive Gramellini: “Non ci capisco più niente, Emmanuel. Sei sopravvissuto ai terroristi, agli scafisti e a un mare in tempesta per farti dare la morte da un razzista di paese”. “Scampato dalla furia islamica, ucciso da una bestia italiana”, titola il Giornale, che aveva chiamato “bestie islamiche” gli assassini di Dacca e ora (per par condicio?) cerca di recuperare chiamando “bestia” l’assassino di Emmanuel. Lavori per Expo, favori alla mafia. 11 arresti a Milano. Dall’inchiesta Pizza e Fichi (chiamo fichi il posto alle Poste da 160mila euro trovato al fratello di Alfano e la segnalazione di tanti curriculum fa parte dal padre) escono fuori i nomi di Legnini, vice presidente CSM, e di Lotti. Non vuol dire affatto che costoro abbiano una qualche responsabilità penale, né che ne abbia il ministro dell’interno. Ma l’odore è mefitico. Forse a chi si occupa di governare, di giudicare o di informare tutti noi cittadini italiani bisognerebbe chiedere: Chi frequenti? Con chi mostri confidenza al telefono? Con chi vai a cena? Ecco la questione morale e politica! Renzi, il bullo: “Monte dei Paschi di Siena? Pensino i tedeschi a Deutsche Bank”, che ha in pancia una pesantissima zavorra di derivati non esigibili. Federico Fubini spiega, però, che i margini di manovra del premier per salvare le banche italiane (con soldi dei contribuenti) senza mettere sul lastrico chi (imprudente o ingannato) ha comprato obbligazioni spazzatura, sono estremamente ridotti. Di più, il mal comune rende tutto più drammatico. Ci sono pure i fondi britannici che non rifinanziato le grandi società immobiliari. Tutto ciò fa temere un’altra catastrofe finanziaria come quella del 2007, stavolta con epicentro in Europa. La politica “realista” compiace, con battutine, i giornalisti di casa. Per il resto incrocia le dita.
Le grandi imprese britanniche fanno i conti sulla Brexit. Alcune sorridono, ma altre no, sostiene il Financial Times che le ha consultate. Per alcuni gruppi il crollo della sterlina, che oggi si cambia al valore più basso degli ultimi 35 anni, è una manna dal cielo: per Primark e Associated British Food, gruppi di produzione e distribuzione di moda e cibo le previsioni sono rosee, mentre Sport’s Direct, che vende grandi marchi sportivi online parla di un calo significativo. La verità è che è molto presto per farsi un’idea seria delel conseguenze: non sappiamo a che punto si attesterà la sterlina e neppure che regole commerciali entreranno in vigore per vendere, esportare dalla Gran Bretagna in Europa. Il Financial Times prevede che le imprese di costruzione e l’immobiliare subiranno un colpo, perché, si prevede, il mercato immobiliare rallenterà.
Sempre il Financial Times monitora una serie di indicatori giorno per giorno per valutare come e quanto la Brexit stia avendo un impatto immediato sulla vita quotidiana.Nella settimana dopo il referendum c’è stato un crollo di nuove offerte di lavoro, dimnuisce il numero di persone che entrano nei negozi e le vendite di John Lewis, unica catena a pubblicare dati di vendita settimanali, calano. C’è anche stato un picco della ricerca della parola “recessione” su Google.
E l’Europa? Meno giovani (-14.2%) e meno export (-8.5%), ma anche meno spese. Il think thank The european house – Ambrosetti ha messo in fila una serie di indicatori – che riguardano la situazione dello scorso anno e possono essere presi a riferimento per farsi un’idea – su come cambierà l’Unione senza Gran Bretagna. Euronews ne ha cavato un’infografica che ripubblichiamo qui sotto.
È la notte tra il 6 e il 7 luglio del 1945, il conflitto è finito da poco più di due mesi: il 25 aprile. Ma la violenza innescata dai due anni di guerra civile non può ancora dirsi completamente domata. È in questa cornice che s’inserisce il massacro di Schio.
Pieve di Rivoschio, ottobre 1944. Un contadino e alcuni partigiani e soldati italiani trainano una jeep
L’antefatto, la ricostruzione e le condanne
In una manciata di giorni, tra la fine di aprile e gli inizi di maggio, i tedeschi in ritirata massacrano 82 civili nella vicina Pedescala. È la rappresaglia dopo un attentato partigiano. Qualche giorno prima, il 16 aprile, le Brigate Nere hanno seviziato e ucciso Giacomo Bogotto, giovane partigiano di Schio. Dopo questi accadimenti un gruppo di partigiani vicino alle Brigate Garibaldi fa irruzione nel carcere mandamentale del piccolo paese vicentino. Liberati i detenuti per reati comuni, il commando partigiano giustizia 54 tra uomini e donne, vicini alla Repubblica di Salò o componenti del Partito Fascista. Secondo le ricostruzioni storiche e giudiziarie, però, soltanto 27 di quei detenuti potevano essere considerati prigionieri politici fascisti. Da quei processi sotto la giurisdizione alleata, poi, scaturiscono anche tre condanne a morte e due all’ergastolo per gli autori del massacro. Condanne poi comminate in pene minori nei due processi penali degli anni 50. Ma le attribuzioni di responsabilità definite dai processi quasi nulla hanno lenito, e la lacerazione nella memoria di quanto successo è rimasta profonda.
Vicenza, partigiani sfilano subito dopo la Liberazione
Memoria privata e patto di cittadinanza
Luoghi storici in cui la memoria si cristallizza, gli anniversari aprono sempre lo spazio alla riflessione sul ruolo di chi ricorda, ma anche sulla consapevolezza delle esperienze sociali e personali evocate. E diventano pure luogo di conflitto, in cui memoria pubblica e privata s’incontrano e scontrano. «La memoria privata degli eventi fatica a elaborare il lutto», spiega lo storico Giovanni De Luna. È una memoria che non passa, che non può essere placata da quel patto di cittadinanza sancito dalle istituzioni al loro formarsi e che ha nella memoria storica le sue radici. In altre parole – continua l’autore di molti testi sulla storia e la memoria della Resistenza – il patto di cittadinanza è fondato su di una memoria storica selezionata che accoglie, celebrandoli, alcuni avvenimenti e ne esclude degli altri. Ecco che, in questa chiave interpretativa, si possono comprendere le polemiche suscitate, nello scorso aprile, dall’attribuzione a Valentino Bortoloso – il partigiano “Teppa” condannato come autore dell’assalto e beneficiario di amnistia nel 1955 – della medaglia alla Resistenza (riconoscimento conferito dal ministero della Difesa per onorare i meriti di coloro che contribuirono alla guerra di Liberazione). A Schio si è protestato molto, per il sindaco Walter Orsi, l’onorificenza lede il patto di pacificazione tra vittime ed esecutori. Perché è fondato sul riconoscimento dell’ingiustizia perpetrata dalla violenza partigiana e non può, quindi, per sua natura, accogliere il riconoscimento delle istituzioni. Nell’analisi di De Luna, patto di cittadinanza e memoria privata sembrano essere a Schio particolarmente inconciliabili.
Un partigiano durante una manifestazione del 25 aprile
Il peso del vuoto istituzionale e l’inevitabile ricorso alla violenza, un’interpretazione
Scevra di ogni implicazione emotiva e dovere istituzionale, la storiografia – come scrive l’autore de La Resistenza perfetta – può fornire un quadro consapevole e sereno di quanto accaduto, poiché suffragata dalla ricerca. Aperta resta invece la questione di come interpretare, argomentare e dare senso a quanto accaduto. Ancora secondo De Luna, l’eccidio di Schiodiventa storicamente comprensibile solo attraverso la categoria dell’interregno:
«Il rubinetto non si chiude il 25 aprile; il Paese diventa difficile da governare e ancora più difficile diventa frenare quel surplus di violenza originato dal disintegrarsi di ogni forma di potere statale. Sì, un governo ci fu dopo la Liberazione, quello degli alleati, ma era una sovranità illusoria», continua De Luna. «È lo Stato a detenere il monopolio legale della violenza e quando questo, nella sua antica forma, viene a crollare e una nuova forma stenta a consolidarsi, si crea un vuoto. Un cratere, entro cui la giustizia viene con l’essere esercitata da e per i singoli». È nel contesto di quest’assenza che si può provare a capire come la violenza partigiana a Schio fu resa possibile e legittima.
Aula della Camera con diversi banchi vuoti durante il voto finale sulla riforma della legge elettorale, Roma, 4 maggio 2015.
ANSA/ALESSANDRO DI MEO
La partita per un referendum abrogativo sulla nuova legge elettorale, l’Italicum, si è conclusa. I comitati promotori per il referendum domani non consegneranno nulla alla Corte di Cassazione, visto che le firme raccolte sono in tutto 420 mila, ben al di sotto della soglia delle 500 mila necessarie per promuovere la consultazione, che si sarebbe dovuta tenere nel 2017. Tuttavia, non è ancora detta l’ultima parola. A sostenerlo è Felice Besostri, avvocato, socialista, già senatore capogruppo DS nella Commissione Affari Costituzionali nella XIII legislatura e membro del Comitato per la democrazia costituzionale, formatosi nel 2015, a cui avevano aderito giuristi come Gustavo Zagrebelsky, Luigi Ferrajoli, Massimo Villone e anche esponenti politici della sinistra Pd, di Sinistra italiana con l’adesione del M5s. Besostri è stato uno dei promotori, con gli avvocati Aldo Bozzi e Claudio Tani, del ricorso contro la precedente legge elettorale, il cosiddetto Porcellum. L’avvocato ha discusso in Cassazione e corte Costituzionale l’azione giudiziaria che ha ottenuto l’annullamento del Porcellum, giudicato incostituzionale per due dei suoi punti, il premio di maggioranza e la mancanza delle preferenze.
Secondo Besostri, anche l’Italicum, come il Porcellum, presenta degli evidenti profili di incostituzionalità. Oltre ad essere stato uno dei promotori della raccolta firme contro la legge elettorale fortemente voluta dal governo di Matteo Renzi, l’avvocato insieme ad altri ha promosso 18 ricorsi in altrettanti Tribunali civili italiani per ottenere un’ordinanza di rimessione alla Consulta su 13 motivi di ricorso. I Tribunali che sono stati interpellati sono: Torino, Venezia, Genova, Milano, Brescia, Bologna, Firenze, Ancona, Perugia, Roma, L’Aquila, Bari, Lecce, Napoli, Potenza, Catanzaro, Messina. «I primi ricorsi che abbiamo fatto contro l’Italicum sono stati tra dicembre del 2015 e gennaio del 2016» dice Besostri, che continua, «l’Italicum è anticostituzionale come il Porcellum. Per questo il Coordinamento per la democrazia costituzionale ha deciso di partire con i ricorsi di costituzionalità verso 18 tribunali civili. I ricorsi sono una carta in più da giocare rispetto al referendum. Solo che serve un giudice che presenti a sua volta il ricorso alla Corte Costituzionale: a differenza della Germania, in Italia, non è possibile il ricorso diretto dei cittadini alla Consulta. Fortunatamente uno dei nostri è stato accolto dal Tribunale di Messina lo scorso 17 febbraio: un giudice lo rimetterà alla Corte Costituzionale». Il Tribunale di Messina ha infatti rinviato l’Italicum alla Consulta facendo propri sei dei tredici motivi di incostituzionalità proposti dai ricorrenti. Anche il Tribunale di Torino si è espresso il 5 luglio scorso accogliendo il ricorso di 18 cittadini e inviandolo alla Consulta. Tra le firme vi sono Diego Novelli, Livio Pepino, Marco Revelli e Luigi Ciotti. Il Tribunale ha contestato nel particolare due dei 13 punti sollevati, dichiarati dai giudici torinesi «non manifestatamente infondati», quello dei capilista bloccati e quello relativo al premio di maggioranza che scatterebbe dopo il ballottaggio. Il parere della Corte costituzionale è previsto per il prossimo quattro ottobre.
Ma quali sono questi profili di incostituzionalità? Secondo Besostri sono infiniti, ma, nello specifico, ne elenca quattro. Il primo riguarda il procedimento che è stato usato per far approvare la legge elettorale: «Secondo l’art. 72 della nostra costituzione le leggi elettorali devono essere approvate con un procedimento normale. Invece in questo caso si è ricorso alla fiducia per approvare alcuni articoli della legge elettorale. Di fatto quindi per approvarla si è ricorso ad un escamotage che non è previsto dalla costituzione». In secondo luogo c’è la questione relativa al rapporto tra premio di maggioranza e divieto di mandato imperativo: «I premi di maggioranza sono in contrasto con l’art. 67 della Costituzione, che di fatto vieta il mandato imperativo – il principio secondo il quale coloro che sono eletti sono responsabili di fronte ai cittadini tutti, e non solo di fronte a coloro che gli hanno eletti o al loro partito di appartenenza -. Con il premio di maggioranza il parlamentare è vincolato. Non puoi prendere il premio e eleggere i parlamentari se poi questo premio di fatto limita le loro libertà e li vincola alle coalizioni e ai partiti». C’è poi la questione del premio di maggioranza. «Non c’è una soglia minima al primo turno per partecipare al ballottaggio» dice l’esperto, «basta ottenere il 40% al secondo turno. Così facendo si ottiene il premio di maggioranza, che ricopre circa il 54% del Parlamento. Così facendo una lista che ottiene il 22% può passare direttamente al 54%. È una palese violazione dell’articolo 48 della Costituzione, che prevede un voto libero ed eguale. Inoltre la legge reintroduce il premio di maggioranza simile a quello del Porcellum, dichiarato incostituzionale dalla Consulta con una sentenza del 2014 per la mancanza di una “soglia minima di voti”.». Infine c’è la questione delle minoranze e degli italiani all’estero. «Il Trentino Alto Adige elegge i propri rappresentanti, non glieli tocca nessuno. Non partecipano però al ballottaggio gli italiani della circoscrizione estero, a differenza degli altoatesini, che partecipano anche al secondo turno. Dov’è finita l’eguaglianza del voto?»
Ci sono poi altre questioni molto controverse, accolte dal Tribunale di Messina. Come quella dei capilista bloccati: secondo i calcoli si otterrà un parlamento composto prevalentemente da nominati, con una percentuale che oscilla dal 55% al 70% e i rappresentanti scelti con le preferenze saranno la minoranza. Una palese violazione dell’art.51 della costituzione, secondo il quale «tutti hanno il diritto a candidarsi in condizioni di eguaglianza».
Approvata il 6 maggio 2015, la legge elettorale voluta dal governo renziano prevede un sistema proporzionale a doppio turno con un premio di maggioranza, soglia di sbarramento al 3% e 100 collegi plurinominali con capilista bloccati. Ecco l’Italicum, che Besostri preferisce chiamare con la k, Italikum.
I fantasmi della guerra in Iraq e del modo in cui ci siamo (tutti) arrivati, tornano a perseguitare i responsabili. Questa è la volta di Tony Blair e di tutta la leadership laburista dei primi anni Duemila, quella che venne di fatto travolta dalla decisione di portare il Paese in guerra. Una guerra sbagliata, inutile e senza giustificazioni. Se non quella, ripetuta ancora ieri da George W. Bush che «Il mondo è migliore senza Saddam Hussein». Dopo anni di attesa, come fossimo in un processo sulle stragi in Italia, ieri è stato diffuso il Rapporto Chiclot che analizza l’intelligence e le decisioni attraverso le quali si è arrivati all’invasione dell’Iraq nel 2003. E boccia Blair su tutta la linea.
La relazione di Sir John Chilcot, che trovate qui per intero, ma sono 2,6 milioni di parole, non parla di violazione del diritto internazionale, ma mette in luce una serie di cose che erano evidenti, a partire dagli errori politici e militari della testa che guidava le operazioni. Il Consiglio di sicurezza Onu aveva detto a maggioranza che le ispezioni andavano continuate e il dittatore iracheno non presentava alcuna minaccia concreta, ha detto Chilcot presentando il rapporto.
Non solo: c’è stato “poco tempo” per preparare le tre brigate militari, i rischi sono stati sottovalutati e, dunque, la missione preparata male, l’intelligence era difettosa e non verificata e Blair ha sopravvalutato la sua capacità di influenzare le decisioni degli Stati Uniti in Iraq. Bush, insomma, nel dopo Saddam se ne è infischiato di quel che gli suggeriva Blair. La cosa probabilmente non ha aiutato, ma visto chi era alla guida della Casa Bianca in quegli anni (Rumsfeld, Cheney, Wolfovitz) c’era da aspettarselo.
Dal testo esce anche l’idea chiarissima che per preservare l’alleanza con gli Usa, Blair ha fatto di tutto per compiacere e far sentire la propria vicinanza a Bush. Ci sono segnali che condividesse più informazioni e punti di vista con il presidente neocon Usa che con i suoli ministri, si evince dal rapporto. Come è chiaro che nemmeno il comando militare fosse al corrente della vastità dell’operazione da intraprendere.
La pubblicazione del rapporto avrà conseguenze politiche immediate. Nei giorni scorsi abbiamo assistito a una rivolta, tentativo di colpo di mano contro Jeremy Corbyn da parte dell’ala blairiana del partito laburista. L’attuale leader della sinistra britannica è in seria difficoltà e deve spiegare in maniera più chiara la sua idea di Europa. Ciò detto, un pezzo del suo partito cerca di farlo fuori fin dal primo giorno. Ieri questa parte dei laburisti non aveva grandi argomenti. E Tony Blair, che nei giorni scorsi aveva dichiarato che con Corbyn leader il Labour non vincerà mai, ha dovuto parlare d’altro.
«Mi prendo la piena responsabilità della guerra in Iraq. Senza eccezioni e scuse. Riconosco quanto il Paese è diviso e sento la sofferenza di chi è morto in Iraq, britannici, altri soldati o iracheni. Le notizie che avevamo si sono rivelate sbagliate e i piani erano sbagliati. E il Paese che volevamo liberare da Saddam è finito con l’essere vittima di terrorismo settario. Per tutto questo mi sento responsabile». La verità è che Tony Blair, sempre sorridente e spavaldo, stavolta aveva la voce rotta e il fiatone. A domanda diretta l’ex premier risponde: «Credo cha abbiamo comunque fatto la scelta giusta e che oggi il mondo sia più sicuro». Chissà che giornali legge e che Tv guarda.
Chi è passato al contrattacco è Corbyn, che ha chiesto scusa a nome del suo partito per la guerra ai soldati, agli iracheni e a tutti i britannici. E ha anche aggiunto che il Regno Unito dovrebbe sostenere l’apertura di un’indagine internazionale sulla violazione del diritto internazionale. Corbyn è uno dei pochi che votò contro la guerra in Iraq e questo è anche uno dei motivi per cui ha vinto la contesa per la leadership – lo stesso, in forma diversa avvenne nel 2008 tra Obama e Clinton. La verità è che quella guerra rimane una macchia molto grande sul partito laburista, specie tra la parte più a sinistra dell’elettorato. È che per riconquistare quell’elettorato serve una figura che rompa con quel passato recente. La pubblicazione del rapporto è destinata a cambiare di nuovo la dinamica della politica britannica, specie quella in casa laburista. Vedremo in che modo nei prossimi giorni. Chi non cambia mai è Donald Trump: il candidato repubblicano alla presidenza Usa ha elogiato Saddam Hussein dicendo che lui sì che ammazzava i terroristi. Un’altra occasione per mettere in difficoltà tutto il suo partito.
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Emmanuel Chidi Namdi è morto. Fuggito da una Nigeria insanguinata e tetra, Emmanuel deve aver pensato che l’Italia fosse un approdo. Se non sicuro almeno più sicuro di quella sua nazione di violenza e sangue. Emmanuel invece in Italia è morto di quella morte di carne e botte da cui pensava di essere scappato. È morto perché ha difeso la compagna dal vomito di insulti di un bieco xenofobo da stadio, un cretino prototipo del cretino medio che di questi tempi trova troppo spazio.
ITALIANO UCCIDE NEGRO. Sarebbe da titolare così. Se avessimo il fegato di ribellarci di fronte a questa merda travestita da politica dovremmo prendere il cadavere di Emmanuel e lasciarlo sul tavolo del salotto di Salvini. Per vedere la faccia che fa mentre guarda il risultato di una vigliaccheria che hai concimato e ora comincia a tornargli in bocca.
Sarebbe da ascoltare cosa ne pensano questi quattro cenci da stadio che riversano la propria vigliaccheria in un odio troppo facile per non essere codardo. Sarebbe da chiedere agli italiani di razza italiana se davvero non disconoscono la violenza dei loro integralisti. ITALIANI PRENDETE LE DISTANZE DALL’INTEGRALISMO ITALICO. Ecco, sarebbe da titolare così.
La colpa di Emmanuel, morto pestato, è stata di aver voluto difendere la compagna chiamata “scimmia” da un piccolo razzista che giocava a fare l’ultrà. Che schifo questi negri che non ci stanno a fare i negri.
Altri due neri morti ammazzati per le strade d’America. Un’altra pattuglia incapace di contenere la reazione di una persona fermata se non a colpi di pistola e un poliziotto preso dal panico che apre il fuoco senza motivo. Due video terribili. In uno si mostra come la persona da “contenere” fosse già immobilizzata e non pericolosa oltre una certa misura. Nell’altro vediamo la persona morire, filmata dalla ragazza in auto con lui, mentre fuori il poliziotto che ha sparato urla «tenga le mani in vista».
Philando Castile aveva 32 anni, è stato fermato a Saint Anthony, Minnesota e secondo la versione della fidanzata in auto con lui, il poliziotto gli ha chiesto i documenti, lui ha fatto per prenderli dicendo «ho anche una pistola», ed è stato colpito. Tutto filmato, nove minuti terribili che trovate qui, e che non pubblichiamo.
Alton Sterling aveva 37 anni, viveva a Baton Rouge, Louisiana, dove è morto ucciso da due poliziotti bianchi. La pattuglia è intervenuta dopo che una telefonata anonima aveva segnalato che un uomo che vendeva Cd in strada lo aveva minacciato con una pistola. L’auto della polizia è intervenuta, c’è stato un litigio e – secondo un testimone, che lavora nel negozio davanti al quale è avvenuta l’uccisione – un poliziotto ha colpito Sterling con un taser e, mentre questi era a terra, l’altro gli ha sparato un numero imprecisato di colpi. Almeno quattro. Il testimone ha anche dichiarato che non sembrava che Sterling avesse una pistola e che, semmai, gli è parso che questa gli fosse stata già sottratta. Tra l’altro la Louisiana consente di girare con pistole senza nemmeno dover ottenere una licenza, richiesta solo se queste sono nascoste.
Il video qui sotto, ripreso con un cellulare, mostra come, in effetti, le cose siano andate proprio così. L’unica cosa che non sappiamo è se Sterling fosse armato, di certo, dalle immagini non sembra avere in mano una pistola e, se ne avesse avuta una in tasca – il poliziotto grida “gun” – nel momento in cui viene ucciso, che stia facendo qualcosa per prenderla. Altro particolare, i due poliziotti avevano le telecamere appuntate sul petto, come viene ormai chiesto si faccia per evitare situazioni come quella che ha portato all’uccisione di Sterling, ma queste sono cadute durante la colluttazione. O almeno questa è la versione del dipartimento di polizia locale.
Attenzione, il video contiene immagini che potrebbero urtare la vostra sensibilità
Poche ore dopo la morte di Sterling e la diffusione del video online, a Baton Rouge sono scese centinaia di persone in strada. Manifestazioni sono previste oggi. È presto per sapere se la morte di Alton Sterling genererà una nuova rivolta. Il fatto positivo, rispetto ad altri episodi simili a cui la comunità afro-americana ha assistito in questi anni è che il governatore della Louisiana John Bel Edwards è immediatamente andato in televisione a definire le immagini “disturbanti”. Edwards era circondato da afroamericani – tutti tranne un poliziotto – e ha annunciato le indagini verranno condotte dalla divisione per i diritti civili del Dipartimento di Giustizia, ovvero che diminuisce il rischio di manipolazione. Il governatore dice che «avendo visto il video, ci sono elementi preoccupanti». Edwards ha ovviamente invitato alla calma, dicendo: «So che ci sono proteste in corso, mantenetele pacifiche».
Da mesi gli Stati Uniti sono attraversati da proteste, rabbia, manifestazioni e da una profonda riflessione sulla discriminazione nei confronti della comunità afroamericana. Il Pew Research Center ha interrogato un campione di persone che evidenzia una grande divisione tra le comunità: se l’88% dei neri ritiene che la comunità sia discriminata e che in America ci sia un problema di rapporti tra le razze, solo il 55% dei bianchi la pensa allo stesso modo. La divisione tra questi ultimi è secondo strette linee di appartenenza politica: i repubblicani pensano che il problema non esista e che Obama abbia peggiorato le cose.
È difficile sapere con esattezza quanti morti ammazzati facciano i poliziotti Usa in un anno: i dati sono locali, federali e così via. E non c’è un lavoro sistematico delle istitzuoni per registrarli. Le stime parlano di più di mille all’anno, con una sproporzione enorme tra neri e bianchi uccisi (il rapporto è più o meno uno a cinque).
(La conferenza stampa della NACCP, a destra la sorella di Adam Sterling- AP)
Poco dopo la diffusione della notizia, sui social networks si sono moltiplicati i rilanci del video (qui sotto) con cui Jesse Williams, attore che lavora a Grey’s Anatomy ha accettato un premio per l’impegno civile. Il discorso di Williams è durissimo nei confronti dei bianchi e della polizia e invita alla lotta della comunità. In platea riconoscerete tra gli altri Spike Lee e Samuel Jackson. Tra le altre cose Williams dice: «La polizia riesce a far rientrare le situazione e disarmare i sospetti quando questi sono bianchi e che con i neri è vero il contrario (…) Se criticate la nostra resistenza, sarà bene che abbiate un bel discorso di critica sulla nostra oppressione». Dopo la diffusione del video petizioni per far licenziare o far rimanere Williams come personaggio della serie Tv prodotta da ABC si sono moltiplicate raccogliendo migliaia di firme.