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C’era una volta l’Europa, Caffè

C’era una volta l’Europa. Semplice, evocativo, non vanamente consolatorio. Il titolo più efficace è del Manifesto. Gli altri parlano di “tempesta”, la Stampa, di “colpo all’Europa”, il Corriere, di un “piano per salvarla”, La Repubblica. Oppure usano l’esortazione: “Europa svegliati!”, il Sole24Ore. Ricorderete: dopo aver vinto il suo referendum Tsipras fu umiliato dalla Merkel, da Hollande, da Renzi e tutti si accorsero che “Atene non aveva un piano B”. Ora sono gli aguzzini di Trsipras a non avere “un piano B” davanti alla porta che gli elettori britannici gli hanno sbattuto in faccia. Sì, certo, Draghi allaga borse e banche stampando euro, compra titoli del debito italiani e spagnoli per evitare che lo spread torni. Sono risposte necessarie ma il loro effetto è temporaneo: possono attutire il crollo delle borse -pauroso quello di Milano, meno 12,5% -, possono evitare che l’euro si apprezza dopo l’ondata di vendite che investe la sterlina. Ma poi? I commenti di Polito per il Corriere, Scalfari su Repubblica, Napoletano per il Sole, confermano questo vuoto di idee: chiedono – in modo più accorato e urgente il direttore del Sole24Ore- che i politici al governo in Francia, Germania e Italia, facciano ora quello che non hanno fatto fino a ieri: che diano all’Europa, con urgenza, sotto la pressione del Brexit, istituzioni federali e democratiche, che imbocchino per l’Europa la strada di una politica espansiva e più solidale. Dove erano questi commentatori quando gli stessi governanti strozzavano la piccola Grecia, in nome delle regole immutabili che presiedono al modo folle con cui si è costruita l’Europa dell’euro? Dove, quando in Spagna si infliggeva un colpo doppio ai lavoratori e alle famiglie in nome della ripresa: prima il licenziamento poi lo sfratto? Il piano di cui parla Repubblica nel titolo si limita a due mosse. La prima: fare presto, visto che Londra deve uscire, che esca subito. La seconda rimanda come al solito alla BCE e quello che può fare, per limitare i danni, l’onesto Draghi. Non basta. Perché -ha ragione Ezio Mauro- la malattia d’Europa è prima di tutto una malattia politica.

“L’europeismo non è più un sentimento politico, in nessuno dei nostri Paesi”, scrive l’ex direttore di Repubblica. “L’antieuropeismo è invece un risentimento robusto e potente, distribuito a piene mani dovunque”. Siamo arrivati fin qui perché : né Cameron né Merkel, né Hollande né Renzi, sono mai stati leader europei. Sono stati, e sono, leader nazionali pronti a usare a piene mani populismo e demagogia per confermarsi nel loro ruolo. Cameron ha voluto il referendum: pensava di domare gli istinti nazionalisti e secessionisti del suo paese e si è visto con che risultato. In tutti questi anni Merkel ha fatto credere ai tedeschi di aver generosamente contribuito a un progetto -l’Euro e l’Europa- nascondendo i vantaggi incassati dalla Germania nell’operazione e promettendone altri, grazie alla sua leadership e alla sua grinta nell’imporre “compiti a casa” e sacrifici ai partner piùdeboli. Hollande contro ogni evidenza ripete ai francesi “Ca va mieux” mentre strizza l’occhio alla Grandeur gollista, con le sue incursioni in Africa e in Medio Oriente. Renzi, toglie diritti e deprime la partecipazione democratica, come gli chiedono le istituzioni sovra nazionali, ma distribuisce bonus elettorali e sgravi fiscali, e mostra i muscoli da giovanotto con cui -promette- rimetterà in riga “i burocrati” di Bruxelles. E, con questo spettacolo, vorreste che il sentimento europeo vinca il risentimento? Naturalmente ogni segno di rinsavimento, ogni ritorno a una politica degna del nome, l’abbandono del populismo dei governi, sarebbe benvenuto. E non mancherò di segnalarlo e di lodarlo, qualora venisse. Per ora, lasciatemi constatare come questa classe politica e dirigente abbia fatto fallimento. C’erano un tempo elites europee.

Ottimista, nonostante tutto. Lo sapete, a me l’analisi spietata serve per vedere, comunque, la possibilità che si può aprire. Possibilità non vuol dire “probabilità”, è solo uno spiraglio per il quale, comunque, val la pena di battersi. Lo vedo, questo spiraglio, nel voto di domani in Spagna: se Podemos vincesse o arrivasse a un’incollatura dai popolari, forse potrebbe dar vita a un governo delle sinistre, l’ottusità del Psoe. Potrebbe proporre una Spagna federale in un’Europa federale. Anche in Gran Bretagna qualcosa può accadere: i giovani hanno votato contro Brexit, anche se sono andati alle urne in percentuale più bassa degli anziani “risentiti” che hanno scelto il Leave. In tutte le città ha prevalso il Remain, nelle campagne ha trionfato il Leave. Scozia e Irlanda del Nord cercheranno bloccare l’anacronistico nazionalismo imperiale britannico, a costo di disunire il regno, chiedendo di far parte dell’Europa e restando legati a Galles e England in uno stato federale molto lasco. Bernie Sanders, che non si è ritirato dalle primarie, dice però ai suoi millennials: votiamo per la Clinton e contro Trump. Non gli chiede di credere nella Clinton, di tornate sotto l’ala dell’establishment. Vuole almeno che il Partito cambi il suo programma, che si sposti a sinistra, mentre comincia a proporre la sua corsa entusiasmante come quella di un nuovo soggetto. In Italia c’è un’unica grande arma per salvare il salvabile: il referendum di ottobre. Trasformato in plebiscito pro o contro il realismo dei mercati, pro o contro l’Europa dorotea, pro o contro la politica che pretende deleghe in bianco, da un apprendista stregone che somiglia a Cameron come una goccia d’acqua a un’altra. Battiamoci perché vinca il No, perché si apra una vera fase costituente, con il dialogo con la destra senza inciucio nazareni con una apertura di credito (e con rispetto) nei confronti dei 5 Stelle. Se Renzi non Renzi fosse un leader politico, e non solo un tattico che gioca con la politica, prenderebbe atto del no e cambierebbe il verso della sua azione di governo. Altrimenti, senza rimpianti, avremo un Cameron in meno anche in Italia. La rivoluzione copernicana della politica vuol dire oggi partire dai giovani. Quelli che sanno che lavoro sicuro non l’avranno, perché la ripresa che si annuncia fa persino crescere disuguaglianze e precariato. Quelli che lasciano il paese per studiare o fare ricerca, che ma sono pronti a tornare. Quelli che sono italiani o turchi, inglesi o nati in Siria ma hanno un progetto comune: trasformare il mondo al lume della ragione, costruire la convivenza nel diritto. Progetto europeo! L’unico vero progetto europeo. Vedete, fa più per l’Europa un prete che dece a Yerevan, sì’ quello degli armeni fu genocidio, degli esorcismi e delle promesse dei politici professionisti dopo Brexit

Viaggio in Islanda. Raccontata da Stefansson

Dopo una potente trilogia dal sapore epico, ambientata nell’Islanda di cento anni fa e che aveva come protagonista un ragazzo senza nome, amante della poesia (inesperto di tutto eppure dotato di una saggezza profonda), lo scrittore e poeta Jón Kalman Stefánsson torna con un nuovo romanzo dal titolo Grande come l’universo (Iperborea, traduzione di Silvia Cosimini). Ancora una volta un libro forte e avvolgente come la corrente del mare, dall’andamento musicale, profondo nel raccontare il mondo interiore dei personaggi. Ma questa volta anche politico. Insieme al precedente I pesci non hanno gambe (2015), infatti, accompagna il lettore in un viaggio dagli anni 60 a oggi, ambientato a Reykjavík e a Klefavìk, «strana e remota cittadina con poche migliaia di abitanti» oppressa dalla presenza di basi militari Usa e dalla disoccupazione; «porto vuoto» dove «nelle mattine serene il sole è una palla di fuoco che prende forma oltre le montagne, come se qualcosa di grande stesse salendo dal profondo», si legge nel preludio.
L’Islanda è sempre stata l’isola degli elfi e delle fate nel nostro immaginario. Delle saghe e della grande letteratura. Il Paese della natura selvaggia dove vive una società pacifica e solidale. Un equilibrio silenzioso, qualche anno fa, rotto da un gigantesco crack bancario. E ora anche dalla voce dell’opinione pubblica che ha cominciato a farsi sentire con più determinazione. Costringendo tre mesi fa il primo ministro Gunnlaugsson a dimettersi. Dopo le rivelazioni dei Panama papers che hanno messo in luce il suo conflitto di interessi (una società off shore legata a lui aveva contratto un grosso credito nei confronti di tre banche).
Rompendo il loro proverbiale riserbo, gli islandesi si sono liberati di un premier corrotto?
Sì ci siamo liberati del primo ministro che si è dimesso. Anche se è ancora alla guida del suo partito e siede in Parlamento. Intanto il ministro delle Finanze, il conservatore Benediktsson, segretario dell’Independence Party, benché il suo nome compaia nei Panama papers, se ne sta attaccato alla poltrona. Va detto però che il governo è stato costretto ad anticipare le elezioni all’autunno.
Com’è la situazione oggi?
L’economia regge nonostante siano passati pochi anni dal default bancario. Anzi, direi che va molto bene. Anche grazie al turismo che è molto cresciuto. Si dice che il Partito pirata che alle ultime elezioni ha preso il 6 per cento, alle prossime, possa andare oltre il 30 per cento. Chissà che cosa potrà succedere! La situazione generale è buona, in Islanda c’è un alto tenore di vita, una società moderna, anche se avanzano aspetti preoccupanti: gli ospedali pubblici sono in crisi e aumentano le privatizzazioni. I proprietari delle grandi fabbriche ittiche fanno enormi profitti e si mettono in tasca i soldi senza investire. Acquistano i mezzi di comunicazione per controllarli e restituiscono sempre meno alla società. A parte questo… siamo felici come fringuelli.
Anche Ari, l’editore e poeta protagonista di Grande come l’universo attraversa un periodo di crisi, tradisce la sua compagna, spreca il suo talento. Alla fine, però, scopriamo che la crisi può essere un’opportunità di cambiamento?
Tradisce la moglie, sì e no. Penso che piuttosto tradisca se stesso. La sua vita è in un vicolo cieco. In gran parte perché ha smarrito i suoi sogni o meglio non ha più cercato di seguirli. Al culmine di tutto questo si accorge di amare due donne. Scopre che non si può obbligare il cuore. Non puoi comandare i sentimenti e gli affetti come si fa con un cane. È impossibile vivere senza prendere posizione, senza fare scelte. Per anni è fuggito da se stesso, lasciando che i giorni scorressero via. Tradendo le proprie aspirazioni, la propria vita. Nel profondo di sé sa di aver cercato di ingabbiarla. Si è limitato a gestire le situazioni per anni e quando lo incontriamo all’inizio del romanzo rischia di implodere. Ma forse è fortunato, perché tante persone passano la vita a controllare le cose razionalmente per poi morire da vecchi con i loro sogni… Sì, penso che nella crisi ci sia anche una possibilità di cambiamento. A volte è meglio che la situazione esploda così si è obbligati a ricostruire tutto ex novo, piuttosto che accontentarsi di una vita al minimo.
«La cosa più dolorosa deve essere non aver amato amato abbastanza», dice Ari nel finale de I pesci non hanno gambe che con questo romanzo forma un dittico. Due romanzi che sembrano avere qualcosa di autobiografico nel ripercorre l’ultimo cinquantennio di storia islandese. Un’impressione sbagliata?
Capita di usare aspetti della propria vita, spesso qualcosa che riguarda l’atmosfera. Lo si fa senza accorgersene. Ma il bello della letteratura è che puoi utilizzare aspetti della vita “vera” per trasformarli in qualcosa di completamente diverso. E alla fine la questione cruciale non è tanto se il romanzo è autobiografico o meno, ma se funziona, se ha una sua autonomia e universalità, se emoziona, se ha un senso…
Lo spirito ribelle di Margrét che impara da uno sconosciuto a leggere le stelle e poi la zia Veiga che nonostante la guerra, si lascia andare alla passione; come sempre nei suoi romanzi i personaggi femminili sono particolarmente affascinanti, come è riuscito a dar loro voce?
Non l’ho cercata coscientemente. Sono parte di me; la loro voce emerge quando scrivo. E poi è più interessante scrivere di donne perché, oppresse per migliaia di anni, sono state costrette a guardare il mondo da un punto di vista differente rispetto a quello dei potenti che hanno scritto la storia ufficiale, la storia della religione, che hanno dettato la cronaca. La voce della donna è diversa, per questo mi attrae come uomo, come poeta e scrittore.
Perché storicamente è stato più difficile per le donne affermarsi come scrittrici?
Perché, come accennavo, gli uomini hanno “scritto il mondo”. Anche Dio è uscito da una penna maschile. La maggior parte della letteratura classica è maschile. La Bibbia è stata redatta nella forma che conosciamo dagli uomini e la donna è stata tagliata fuori. Il modo di pensare che esprime è maschile. Scrittrici come Virginia Woolf o Jean Rhys hanno dovuto trovare un nuovo modo per esprimersi, un modo personale per utilizzare questo strumento maschile, il linguaggio. Jean Rhys, per esempio, ha scritto romanzi di grande interesse intorno al 1930. Come Buongiorno, mezzanotte (il titolo è ispirato ad Emily Dickinson) in cui racconta la vita di un barfly a Parigi; ma ci vollero almeno 30 anni perché fosse notato, perché era insolito vedere una donna in quel ruolo ed esprimersi in quel modo. Andava contro corrente. Era troppo… strano. Questo ci dice quanto le nostre menti e il nostro modo di percepire siano improntate al solito modo di pensare tradizionale.

Nei suoi libri lei fonde poesia e prosa cercando di restituire una visione più profonda della realtà e l’invisibile dei rapporti umani. Quanto conta per lei la ricerca di un linguaggio diverso da quello razionale della “veglia”?
La ricerca di una dimensione irrazionale per me è molto importante. Come scrittore, poeta e come persona. Da bambino ero sempre molto sorpreso nel vedere le persone indossare maschere seriose. Mi colpiva che tutto fosse plasmato da rituali, da abitudini; come se le persone credessero di sapere esattamente come il mondo avrebbe dovuto essere,; come se nella loro mente non fosse mai sorto il dubbio che la realtà possa essere diversa da come la si vede ogni giorno sui media. La realtà era solo quella per loro e tutti i loro schemi mentali lo confermavano. Io invece volevo sapere… perché la sinistra si chiama sinistra, perché il blu non si può chiamare giallo, perché (erano gli anni Sessanta) quasi tutte le donne stavano a casa, mentre gli uomini lavoravano. Perché i maschi avevano sempre l’ultima parola e comandavano su tutto? Quella mi sembrava la cosa più strana, perché avevo notato che gli uomini intorno a me non erano in alcun modo superiori, più saggi, più forti, o migliori delle donne. Erano forse più sicuri di se stessi, ma questo per me era ancora più incomprensibile, dal momento che non mi sembrava che avessero molti motivi per esserlo. Ancora oggi sto cercando di scoprire perché la sinistra si chiama sinistra, perché il blu non è giallo, perché gli uomini governano il mondo… L’importanza della letteratura, se vogliamo, è proprio questa: può farci vedere che la realtà in cui viviamo è governata da regole molto stupide e che la cultura in cui siamo immersi è fatta di credenze e gretti rituali. Se il nostro mondo è travagliato, malato e pieno di violenza bisogna cercare lì le cause.

Tempesta Brexit: Il piano tedesco e il nuovo referendum scozzese

«Questo non è un voto solo sull’Unione europea, ma è un giudizio di disaffezione verso il sistema politico che fallisce in troppi luoghi: dalle comunità date per sicure dei laburisti, a quelle colpite dai tagli dei conservatori a causa di una crisi che non sono loro ad aver causato». Nicola Sturgeon leader dello Scottish National Party ha parlato per nove minuti e annunciato quello che tutti sapevamo: sebbene con cautela e trovando la formula giusta, un secondo referendum sull’indipendenza scozzese è inevitabile. Il suo predecessore Alex Salmond ha parlato di una campagna (per l’uscita) fatta di odio e paure e twittato una bandierina europea. Il Sinn Fein nordirlandese la pensa allo stesso modo.

La tempesta per il voto britannico sull’Europa sta diventando uno tsunami e, per ora, sta investendo la Gran Bretagna e le borse di tutto il mondo: dopo le asiatiche e le europee è Wall Street a perdere il 2,7% mentre scriviamo. Nel giro di poche ore abbiamo assistito alle dimissioni del premier David Cameron e al possibile avvio del processo di separazione della Scozia che, come dicono i leader del Snp, «in nessun modo accetterà di uscire dall’Europa».

Come ha commentato con efficacia Edward Snowden: il voto dimostra come metà della popolazione si può convincere a votare contro i propri interessi in poco tempo.

A questo proposito segnaliamo un altro aspetto con il tweet qui sotto: le aree che hanno votato per uscire dall’Europa sono quelle economicamente più dipendenti economicamente dall’Unione. Votare contro i propri interessi, appunto.

La reazione dell’Europa è quella dell’invito alla cautela ma anche ferma: Juncker e diversi altri leader europei dicono che le trattative e la richiesta di far scattare l’articolo 50 dei Trattati (qui spieghiamo cos’è) va fatta senza perdere tempo. Il contrario di quel che pensa Boris Johnson, che forse si candida alla leadership dei conservatori e, comunque, si trova a essere la faccia pulita del fronte del Brexit. I presidenti del Consiglio, Commissione e Parlamento europeo – Donald Tusk, Jean-Claude Juncker e Martin Schulz, rispettivamente – e Mark Rutte, il primo ministro dei Paesi Bassi, presidente di turno, hanno scritto una dichiarazione congiunta sostenendo che qualsiasi ritardo per l’uscita della Gran Bretagna «prolungherebbe inutilmente l’incertezza…si tratta di una situazione senza precedenti, ma siamo uniti nella nostra risposta».

Certo è che per il progetto europeo la situazione si complica: l’Ue perde il 13% della popolazione, il 18% del Pil e 18 miliardi l’anno in contributi. Sia Hollande che Renzi, figure critiche della conduzione della Germania a guida tedesca, hanno parlato della necessità di fermarsi a riflettere.

Il tedesco Handelsblatt sostiene di avere in mano un piano di otto pagine preparato dal ministro delle finanze tedesco Schauble sul processo di uscita e sul futuro: la Germania vorrebbe «negoziati costruttivi sulla separazione». Dopo due anni, il governo tedesco avrebbe in mente di offrire a Londra lo status di Paese associato.

Ma nel documento si legge anche che non ci sarebbe «nessun accesso automatico al mercato unico». Il timore è incoraggiare altri Paesi come la Francia, l’Austria, la Finlandia e l’Olanda a seguire l’esempio della Gran Bretagna. «La portata dell’effetto imitazione dipenderebbe in gran parte da come verrà trattata la Gran Bretagna». Tradotto significa che Bruxelles sarà dura con il nuovo governo di Londra. Merkel ha parlato di colpo al processo di unificazione europea.

Se a Trump è piaciuto il risultato del referendum ed ha annunciato che altri Paesi seguiranno, il vicepresidente Biden ha detto che gli Stati Uniti avrebbero preferito un risultato diverso e Obama ha aggiunto che il rapporto di partnership e amicizia con l’Europa e il Regno Unito non cambia. Clinton ha parlato di «tempi incerti».

Guai possibili anche per Jeremy Corbyn: il Leave vince in tutte le aree dove il Labour prende voti e qualche deputato che non ama il leader ha già cominciato a borbottare e a parlare di necessità di ripensare la linea politica. È presto per dirlo, ma anche per il partito laburista, il referendum potrebbe essere un guaio serio.

 

Trump in Scozia elogia il Brexit. Sanders: «Voterò per Clinton»

Donald Trump è molto contento per il voto britannico. Ora potremo stabilire relazioni migliori e moltiplicare i commerci con la Gran Bretagna. The Donald è in Scozia per inaugurare una sua proprietà, il posto sbagliato per parlare bene del referendum: in Scozia il Remain ha vinto ovunque. Probabilmente verrà contestato e c’è già chi ha piantato bandiere messicane nelle zone che visiterà – in polemica con la sua idea di espellere gli irregolari e di raddoppiare il muro al confine. Qui sotto parla con i giornalisti all’arrivo: «La gente è stufa, vuole riprendersi i confini…questo non è l’ultimo posto dove capiterà una cosa del genere».

Trump si augura una qualche forma di effetto Brexit anche nel voto americano: in fondo la maggioranza dei britannici che ha votato per uscire dall’Europa è fatta di maschi, bianchi e over 50. Esattamente il ritratto dell’elettore repubblicano. Certo è che riferirsi così all’Europa e soffiare sul vento della disgregazione dell’Unione europea è molto poco presidenziale. E pericoloso.

Più preoccupato e centrato sulle elezioni americane è Bernie Sanders, che nella trasmissione politica del mattino, Morning Joe, annuncia che, sebbene non abbia ancora deciso di darle il suo sostegno ufficiale, alle elezioni di novembre voterà Clinton e farà tutto quel che può per sconfiggere Donald Trump (qui sotto il video). È la prima volta che Sanders dichiara esplicitamente che voterà per Clinton, che nel frattempo sta volando nei sondaggi. L’ultimo sondaggio che mette molto vicini Hillary e Donald risale a metà maggio, questa settimana il sondaggio peggiore per Clinton le assegna 3 punti di vantaggio, il migliore 10. Sanders non si ritira perché, come spiega, «il mio lavoro, oggi, è influenzare la piattaforma del partito».

Causa Brexit slitta la direzione dem. Non i problemi di Renzi&co

Roberto Speranza durante l'assemblea della Sinistra Riformista Pd, Roma, 23 giugno 2016. ANSA/ANGELO CARCONI

Slitta la direzione, ma nel Pd lo scontro è solo rimandato. Discutere oggi di Verdini sarebbe stato troppo. Meglio farlo venerdì prossimo, quando stonerà meno discutere per ore del risultato delle amministrative: farlo nel giorno in cui la Gran Bretagna decide di lasciare l’Europa, sarebbe stato troppo, sì, pure per i dem che – come dice Emiliano – sono abituati «a concentrarsi troppo sulle cose interne». Siccome gli ultimi sondaggi della notte davano in vantaggio il remain però, Renzi aveva già fatto arrivare le sue veline: sappiamo cosa vuol fare il premier-segretario. Ha anche rilasciato un’intervista a La Stampa mostrandosi baldanzoso: «Farò al mio partito un discorso chiaro, che somiglierà a una sfida. Se vogliono un ritorno ai caminetti, hanno una via dritta: un nuovo segretario. Il congresso non è lontano, possono provarci».

Non sappiamo invece cosa vuol fare la minoranza. Che paventa di non votar più fiducie («In questi mesi abbiamo votato cose che non ci convincevano, come togliere la tassa sulla casa ai miliardari. Non c’è più voto di fiducia che tenga»), e si dice tentata dal seguire D’Alema sul No al referendum costituzionale, nella speranza (vana) di ottenere una modifica all’Italicum: «La riforma costituzionale è pessima. Sto cercando motivi per votare sì. Se ci fosse una riforma della legge elettorale, ad esempio, probabilmente la pillola potrebbe essere meno amara», dice ad esempio Errani.

Errani (tenetelo d’occhio) che nella pre riunione della sinistra dem è tornato sulle scene dopo l’assoluzione. Ed è tornato con un discorso non «sulle figurine per la segreteria» ma nel merito. Contro la politica degli 80 euro, delle tasse abbassate a tutti: «L’idea di un welfare consolatorio produce grosse contraddizioni». Tipo Raggi e Appendino. Tipo Brexit. Entrambi frutti, si potrebbe notare, di politiche sbagliate.

Parigi, 23 giugno. Una manifestazione/passeggiata

A protester of the French movement Nuit Debout during a national demonstration against the Labor Law reform in Paris, France, 23 June 2016. Labor unions demonstrated during a national strike across France to protest against employment law reforms in the so-called El Khomri bill. EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON

Il percorso l’avevo fatto qualche settimana fa per guardare la piena della Senna: Place de la Bastille, Canal de l’Arsenal, 1,6 chilometri, venti minuti circa di cammino a passo rapido. È l’itinerario proposto dal governo francese per la manifestazione sindacale del 23 giugno contro la loi travail, dopo ridicoli tentennamenti e la minaccia di negare il diritto di manifestare. Tutti gli accessi alla zona finalmente autorizzata sono blindati da cancelli di ferro e camionette della polizia. Per entrate bisogna accettare una perquisizione: niente foulard, caschi, occhiali di protezione. Due signore si fanno fotografare davanti a un cartello appeso sulle griglie “C’est pas une manif, c’est un zoo”, non è una manifestazione, è uno zoo. Un luogo dove rinchiudere il dissenso.

Le immagini di quelle griglie mi fanno tornare alla mente il G8 di Genova, e subito un senso di angoscia mi assale, nonostante il sole che splende e l’atmosfera allegra che c’è in piazza. Il corteo sindacale inizia la marcia che per forza di cose assomiglia più a una passeggiata, una balade, come si direbbe da queste parti. 2000 CRS sono stati mobilitati e infatti sono ovunque. Ogni tanto sbarrano la strada, costringendo il corteo a fermarsi sotto un sole cocente, con il chiaro intento di dire: siamo noi che guidiamo il gioco. Alcuni sono appostati lungo il bordo del canale, come temessero l’arrivo dall’acqua di chissà chi. Non so se c’è più da ridere o da piangere. A un certo punto i CRS sbarrano di nuovo la strada, un uomo sulla sessantina fa il gesto brusco di voler passare. Basta questo per far alzare i manganelli, la tensione è forte, l’uomo protesta “non sono un vostro prigioniero” dice, “lasciatemi passare”. Lo bloccano fisicamente, lui insiste “stiamo manifestando anche per voi, non contro di voi”. Mi accorgo che l’uomo ha paura, sta tremando violentemente, i CRS sudano nelle tute nere corazzate, “e allora resti al suo posto” dice uno di loro. Il servizio d’ordine della CGT interviene per evitare incidenti, poco dopo il corteo riprende.

Basta un soffio per far scoppiare il casino, questo è il risultato della politica di governo che ha scelto di delegare alle forze dell’ordine la gestione del conflitto, di usare l’état d’urgence come risposta al malcontento crescente, più del 60 percento della popolazione è solidale con la protesta che scuota il Paese da mesi. Il governo appare sempre più isolato, disconnesso dalla realtà. Molti dei cori in piazza sono contro il Partito socialista. Manca meno di un anno alle presidenziali…

Il corteo lentamente avanza e ha quasi compiuto il suo breve itinerario. Sulla piazza, davanti all’Opéra Bastille un cordone di polizia blocca un folto gruppo di gente, si sente della musica, sono i Nuit Debout, con l’orchestre debout. Suonano e cantano. La polizia apre il passaggio permettendo il ricongiungimento delle due estremità del corteo, e sono applausi, e fischi e canti, un movimento liberatorio. Il prossimo appuntamento è per il 28 giugno, giorno in cui la legge dovrebbe essere approvata in Senato.

Non sono modifiche, è un’altra Costituzione

La legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139. Non è quindi, propriamente, una “revisione”, ma un’altra costituzione, diversa da quella del 1948. Di qui il suo primo, radicale aspetto di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138, che è un potere costituito, in un potere costituente non previsto dalla nostra Costituzione e perciò anticostituzionale ed eversivo.
La differenza tra i due tipi di potere è radicale: il potere costituente è un potere sovrano, che l’articolo 1 attribuisce al “popolo” e solo al popolo, sicché nessun potere costituito può appropriarsene; il potere di revisione è invece un potere costituito, il cui esercizio può consistere soltanto in singoli e specifici emendamenti onde sia consentito ai cittadini, come ha più volte stabilito la Corte Costituzionale, di esprimere consenso o dissenso nel referendum confermativo alle singole revisioni. È una questione elementare di grammatica giuridica: l’esercizio di un potere costituito non può trasformare lo stesso potere del quale è esercizio in un potere costituente senza degradare ad eccesso o peggio ad abuso di potere.
Ma ancor più gravi sono la forma e la sostanza della nuova costituzione. Per il metodo con cui è stata approvata e per i suoi contenuti, questa legge di revisione è un oltraggio non tanto e non solo alla Costituzione del 1948, ma al costituzionalismo in quanto tale, cioè all’idea stessa di Costituzione.
Innanzitutto per il metodo. Non è con i modi adottati dal governo Renzi che si trattano le costituzioni. Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale. Servono a unire, e non a dividere, dato che equivalgono a sistemi di limiti e vincoli imposti a qualunque maggioranza, di destra o di sinistra o di centro, a garanzia di tutti. Così è stato per la Costituzione italiana del 1948, approvata dalla grandissima maggioranza dei costituenti – 453 voti a favore e 62 contrari – pur divisi dalle contrapposizioni ideologiche dell’epoca. Così è sempre stato per qualunque costituzione degna di questo nome.
La costituzione di Renzi è invece una costituzione che divide: una costituzione neppure di maggioranza, ma di minoranza, approvata ed imposta, però, con lo spirito arrogante e intollerante delle maggioranze. È in primo luogo una costituzione approvata da una piccola minoranza: dal partito di maggioranza relativa, che alle ultime elezioni prese il 25% dei voti, corrispondenti a poco più del 15% degli elettori, trasformati però, dalla legge elettorale Porcellum dichiarata incostituzionale, in una fittizia maggioranza assoluta, per di più compattata dalla disciplina di partito e dal trasformismo governativo di gran parte dei suoi esponenti, pur apertamente contrari. Insomma, una pura operazione di palazzo. E tuttavia questa minoranza ha imposto la sua costituzione con l’arroganza di chi crede nell’onnipotenza della maggioranza: rifiutando il confronto con le opposizioni e perfino con il dissenso interno alla cosiddetta maggioranza (“abbiamo i numeri!”), rimuovendo e sostituendo i dissenzienti in violazione dell’articolo 67 della Costituzione, minacciando lo scioglimento delle Camere, strozzando il dibattito parlamentare con “canguri” e tempi di discussione ridotti in sedute-fiume e notturne, ponendo più volte la fiducia come se si trattasse di una legge di indirizzo politico, ottenendo l’approvazione in un clima di scontro giunto a forme di protesta di tipo aventiniano, fino all’ultima, gravissima deformazione del processo di revisione: il carattere plebiscitario impresso al referendum costituzionale dal presidente del Consiglio che lo ha trasformato in un voto su se stesso. Non si potrebbe immaginare un’anticipazione più illuminante di quelli che saranno i rapporti tra governo e parlamento se questa riforma andasse in porto: un parlamento ancor più umiliato, espropriato delle sue classiche funzioni, ridotto a organo di ratifica delle decisioni governative. Del resto, sia l’iniziativa che l’intera gestione del procedimento di revisione sono state, dall’inizio alla fine, nelle mani del governo; laddove, se c’è una questione di competenza esclusiva del Parlamento e che nulla ha a che fare con le funzioni di governo, questa è precisamente la modifica della Costituzione. L’illegittima mutazione del referendum costituzionale in un plebiscito era perciò implicita fin dall’origine del processo di revisione e strettamente connesso a un altro suo profilo di illegittimità: al fatto che il potere di revisione costituzionale, proprio perché è un potere costituito, ammette solo emendamenti singolari e univoci, i quali soltanto consentono che il successivo referendum previsto dall’articolo 138 avvenga, come ha più volte richiesto la Corte costituzionale, su singole e determinate questioni, e non si tramuti, appunto, in un plebiscito.
Si capisce come una simile revisione – quali che fossero i suoi contenuti, anche i più condivisi e condivisibili – meriti comunque di essere respinta, soltanto per il modo con cui è stata approvata. Giacché essa è uno sfregio alla Costituzione repubblicana, dopo il quale la nostra costituzione non sarà più la stessa perché non avrà più lo stesso prestigio. Le costituzioni, infatti, valgono anche per il carattere evocativo e simbolico del loro momento costituente quale patto sociale di convivenza. Questa nuova costituzione sarà percepita come il frutto di un colpo di mano, di un atto di prepotenza e prevaricazione sul Parlamento e sulla società italiana. Sarà la costituzione non della concordia ma della discordia; non del patto pre-politico, ma della rottura del patto implicito in ogni momento costituente: indipendentemente dai contenuti.

Ma sono precisamente i contenuti l’aspetto più allarmante della nuova costituzione. Si dice che con essa viene superato il bicameralismo perfettamente paritario. È vero. Ma il superamento del bicameralismo perfetto avviene con la sua sostituzione con un monocameralismo sommamente imperfetto. Imperfetto per due ragioni.
In primo luogo perché la seconda Camera non è affatto abolita, ma sostituita da un Senato eletto non dai cittadini, come vorrebbe il principio della sovranità popolare, ma dai Consigli regionali “in conformità” – non è chiaro in quali forme e grado – “alle scelte espresse dagli elettori”, e tuttavia dotato di molteplici competenze legislative. Contrariamente alla semplificazione vantata dalla propaganda governativa, ne seguirà un’enorme complicazione del procedimento di approvazione delle leggi. Basti confrontare l’attuale articolo 70 della Costituzione composto da una riga – “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” – con il suo nuovo testo, articolato in sette commi lunghi e tortuosi che prevedono ben quattro tipi di leggi e di procedure: a) le leggi di competenza bicamerale, come le leggi costituzionali, le leggi di revisione costituzionale, le leggi elettorali e altre importanti e numerose leggi sull’ordinamento della Repubblica; b) tutte le altre leggi, di competenza della Camera ma a loro volta differenziate, a seconda del grado di coinvolgimento del Senato nella loro approvazione, in tre tipi di leggi: b1) le leggi il cui esame da parte del Senato può essere richiesto da un terzo dei suoi componenti e sulle cui modificazioni la Camera si pronuncia a maggioranza semplice in via definitiva; b2) le leggi di cui all’articolo 81 4° comma, le quali vanno sempre sottoposte all’esame del Senato, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data di trasmissione; b3) le leggi di attuazione dell’articolo 117, 4° comma della Costituzione, che richiedono sempre l’esame del Senato e le cui modificazioni a maggioranza assoluta dei suoi componenti sono derogabili solo dalla maggioranza assoluta dei componenti della Camera.
All’unico procedimento bicamerale attuale vengono dunque sostituiti quattro tipi di procedure, differenziati sulla base delle diverse materie ad esse attribuite. È chiaro che questo pasticcio si risolve in un’inevitabile incertezza sui diversi tipi di fonti e procedimenti, ancorati alle diverse ma non sempre precise e perciò controvertibili competenze per materia. Il comma 6° del nuovo articolo 70 stabilisce che «i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza». Ma come si risolverà la questione se i due presidenti non raggiungeranno un accordo? E comunque l’incertezza e l’opinabilità delle soluzioni adottate rimangono, e rischiano di dar vita a un contenzioso incontrollabile su questioni di forma che finirà per allungare i tempi dei procedimenti e per investire la Corte Costituzionale di una quantità imprevedibile di ricorsi di incostituzionalità per difetti di competenza.

Ma c’è soprattutto una seconda ragione, ben più grave e di fondo, che rende inaccettabile il monocameralismo imperfetto introdotto da questa revisione: la trasformazione della nostra democrazia parlamentare, provocata dalla legge elettorale maggioritaria n. 52 del 6 maggio 2015, in un sistema autocratico nel quale i poteri politici saranno interamente concentrati nell’esecutivo, e di fatto nel suo capo, ben più di quanto accada in qualunque sistema presidenziale, per esempio negli Stati Uniti, dove è comunque garantita la netta separazione e indipendenza del Congresso, titolare del potere legislativo, dal Presidente. Il sistema monocamerale infatti, in una democrazia parlamentare, implica un sistema elettorale puramente proporzionale, in forza del quale i governi e le loro maggioranze si formano in maniera trasparente in Parlamento, quali frutti del dibattito e del compromesso parlamentare, e restano costantemente subordinati alla volontà della Camera della quale il governo è espressione. Solo così il monocameralismo è un fattore di raffor­zamento, anziché di emarginazione del Parlamento: solo se l’unica Camera – la Camera dei deputati – viene eletta con un sistema elettorale perfettamente proporzionale, in grado di rappresentare l’intero arco delle posizioni politiche, di garantire perfettamente l’uguaglianza del voto, di riflettere pienamente il pluralismo politico e, soprattutto, di assicurare costantemente la presenza e il ruolo di controllo delle forze di minoranza e di opposizione. È stato solo questo il monocameralismo proposto in passato dalla sinistra: quello che, grazie alla massima rappresentatività ed efficienza decisionale dell’unica Camera, alla sua composizione pluralista e alla forza delle opposizioni, assicura quella che chiamavamo la “centralità del Parlamento”, cioè il suo ruolo di indirizzo politico e di controllo sull’attività del governo quale si conviene a una democrazia parlamentare.

Questo articolo continua su Left in edicola dal 25 giugno

 

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Destra, sinistra e 5 Stelle si uniscano nel “No” al Referendum

In trenta mesi da segretario e premier è riuscito a scontentare quasi tutti. Ha perso 45 amministrazioni su 90: nessun leader della sinistra aveva mai fatto peggio. Il Pd è stato “asfaltato” a Roma e a Napoli. A Torino donne e uomini che avevano sempre, e nonostante tutto, votato a sinistra hanno accolto Chiara Appendino, bocconiana a 5 stelle, come una liberazione dall’ipocrisia, dal racconto menzognero di un Paese che sorride alla ripresa mentre tante famiglie operaie sono costrette a impegnarsi la fede nuziale per mettere la cena a tavola. La rivolta, sofferta e privata, di intellettuali e militanti che hanno sentito di non poter più votare una sinistra così, sinistra della “buona” scuola e del Jobs act, dei petrolieri e delle smorfie a Marchionne, è stata sorretta e superata per slancio da un vero e proprio moto popolare nelle periferie. A Tor Bella Monaca il 75% degli elettori ha scelto Virginia Raggi. Alle Vallette, Chiara Appendino ha preso il doppio dei voti Pd. E se tra primo e secondo turno 25mila torinesi hanno ritirato il certificato elettorale per poter votare, il sindaco uscente ha solo aggiunto 8mila suffragi al primitivo bottino, il sindaco eletto ne ha conquistati altri 82mila. Compresi, ovviamente, molti voti di una destra, rottamata e non unita, che ha preferito una giovane bocconiana NoTav a Renzi e alla sinistra dell’establishment.

«È andata in scena la rivolta contro l’Ancien Régime, incarnato proprio dal quel Renzi che avrebbe dovuto rottamarlo», ha scritto Massimo Gramellini. «Governare senza una storia politica a far da cornice e dei valori di riferimento – ha scritto Ezio Mauro – diventa un’interpretazione autistica, staccata dal corpo sociale». Matteo Renzi, purtroppo, è fatto così: trasforma la contesa politica in una serie di partite a scacchi, dalle quali esce vincitore perché sa cogliere la debolezza dell’avversario, vede la linea di minore resistenza dalla quale passare e usa a suo vantaggio i succhi gastrici dell’antipolitica. Ma non ha visione né idee forti, perciò le prende in prestito dai poteri forti. Si circonda di personalità minori, con poca esperienza e scarsa competenza, perché non sopporta di poter essere guidato, né ripreso. Come un ragazzo viziato, si porta via la palla se prende il gol. La colpa è sempre degli altri: serve il “lanciafiamme”. Dunque si torna a “spianare” ed “asfaltare”.

Non modificherà l’Italicum, Renzi, anche se ha capito che con quella legge un demagogo votato appena da un sesto degli elettori potrà portarsi via il banco e far danni da Palazzo Chigi per cinque anni. Chiederà obbedienza al Pd e trasformerà il referendum – non una riforma ma una riscrittura della Costituzione, come spiega Luigi Ferrajoli – in un plebiscito giacobino: o me o il diluvio. Proseguirà con i bonus e gli sgravi, che non creano occupazione e mettono a rischio i conti. L’unica politica che gli importa è la sopravvivenza della sua politica. Si circonderà di pesi piuma giovani e telegenici, piazzisti di una narrazione ottimistica e anacronistica.

Davvero per la sinistra, ma anche per la destra e per i 5 stelle è l’ultima chiamata per rimettersi in questione e cambiare l’Italia. Uniamoci tutti per dire No alla riforma Renzi, per non piegare la Costituzione al capriccio di un leader. Un No detto insieme, di cittadini di sinistra, di destra e 5 stelle, che si sono incontrati ai ballottaggi in risposta all’arroganza del premier, potrebbe aprire in autunno una fase costituente. Darebbe la possibilità ai tre poli – ma noi speriamo che come in Spagna diventino 4 – di aprire una vera dialettica, un confronto anche aspro, ma sulle idee, non su slogan e tweet.

Questo articolo continua su Left in edicola dal 25 giugno

 

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JK Rowling : “Harry Potter lascia l’Inghilterra dopo la Brexit”

La scrittrice che ha inventato il maghetto Harry Potter avverte che ora, dopo la Brexit, la Scozia ha molte ragioni in più per lottare per la propria Indipendenza separandosi dalla Gran Bretagna. Questo 23 giugno è stato una giorno storico per la Gran Bretagna e il 52 per cento dei voti che determinano l’uscita inglese dalla Ue avranno molte conseguenze, dice JK Rowling,  che via twitter ha accusato David Cameron di aver determinato tutto questo con l’idea di indire un referendum. Poco o nulla contano le affermazioni del premier inglese a favore del “remain” e ora il “bel gesto “ di annunciare le dimissioni. Ormai la frittata è fatta dice JK Rowling che scrive “Niente più magia in Gran Bretagna”

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Commentando il risultato del voto, Rowling che nel 2015 aveva fatto campagna perché la Scozia rimanesse nel Regno Unito, ora vede le ragioni della secessione uscire rafforzate dal voto di giovedì scorso. Se più di 30 milioni di persone hanno votato il turn-out, interessante è la geografia del voto: mentre Londra e l’Irlanda del Nord hanno votato in modo schiacciante per rimanere, il Galles ha votato per l’uscita. Ma è la Scozia il dato da sottolineare con il 62 per cento dei voti contro la Brexit.

Aggiornamento del 26 giugno:

Il Parlamento scozzese potrebbe cercare tramite un voto dell’assemblea di fermare l’uscita dall’Unione europea sancita dal vito del 23 giugno. Lo ha dichiarato  il primo ministro scozzese Nicola Sturgeon,

“La mia sfida, ma anche la mia responsabilità è cercare di negoziare per proteggere gli interessi della Scozia”., ha dichiarato in un’intervista alla BBC.  Sturgeon  ha aggiunto ” è mio dovere, verso chi rappresento, tentare di impedire di essere trascinati fuori dall’Ue contro il nostro volere”. Sturgeon ha annunciato che chiederà ai deputati  scozzesi (69 del suo partito sul totale di 129) di rifiutare  il consenso legislativo alla Brexit,  dal momento  che gli elettori scozzesi  hanno votato remain a larga maggioranza.  L’esito  finale pro Brexit nel Regno Unito  ora, a pre concretamente la strada, a un secondo referendum per l’indipendenza,  che ebbe esiti negativi  nel 2014.

Nel frattempo, in Inghilterra la richiesta per un nuovo referendum sulla Brexit ha superato la soglia dei tre milioni di firme e continua a raccogliere adesioni-

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Ludovico Einaudi suona fra i ghiacci dell’Artico per Greenpeace

Uno dei video più belli che possiate vedere. Uno spettacolo davvero suggestivo, il pianista Ludovico Einaudi suona mentre fluttua fra i ghiacci dell’Artico. La piattaforma sulla quale l’artista si esibisce è stata costruita da Greenpeace per supportare l’incontro dell’Ospar previsto questo giugno a Tenerife in Spagna. I 15 Paesi che compongono il comitato ambientale internazionale, fra i quali non compaiono gli Stati Uniti, si stanno infatti impegnando a proteggere e conservare l’area Nord dell’Atlantico e le sue risorse. Artico incluso. E il video di Einaudi sembra perfetto per sensibilizzare il maggior numero di persone possibile sulla questione.