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Cameron lascia, Gran Bretagna spaccata, Europa più debole. Il punto sulla Brexit

Sondaggi smentiti: più di 17 milioni i cittadini britannici hanno scelto di uscire dall’Europa, circa il 51,8% dei votanti. La partecipazione al voto è stata alta, ma non come appariva essere nelle prime ore dopo il voto (72%, si diceva 80%) e ieri notte tutto sembrava filare liscio. Nigel Farage dichiarava «Sembra che il Remain l’abbia spuntata» e due sondaggi diffusi dopo la chiusura delle urne – ma non exit polls –  assegnavano la vittoria al fronte europeista. Come nel 2015, quando i sondaggisti non avevano previsto l’ampiezza della vittoria dei conservatori di David Cameron, le rilevazioni erano sbagliate e la Gran Bretagna si è svegliata fuori dall’Europa.

Cameron si dimette de facto

David Cameron è uscito alle 8 e 20 del mattino di Londra e ha annunciato le sue dimissioni entro pochi mesi: «Vorrei rassicurare gli investitori e gli europei che vivono qui: non ci saranno cambiamenti immediati e nel modo in cui le persone viaggiano, i beni si comprano e vendono. Ai negoziati devono partecipare anche le autorità scozzesi, gallesi e nordirlandesi» – un modo per tenere assieme il regno, che ha votato in maniera molto difforme. Dopo le rassicurazioni la bomba politica: «Sono stato un orgoglioso premier britannico e ho combattuto questa campagna in maniera diretta e chiara e non me ne pento, io credo che la Gran Bretagna è più forte in Europa. Ma i britannici hanno votato e credo che serva una nuova leadership. Non posso essere il capitano che guida fuori dall’Europa. Non c’è una timeline e per i prossimi tre mesi il premier sarà io, ma per la conferenza conservatrice di ottobre serve una nuov leadership». Cameron e la moglie Samantha si girano e si incamminano verso il 10 di Downing Street senza voltarsi. Il premier aveva la voce rotta, durante le ultime frasi della sua dichiarazione. Probabilmente entrambi piangevano. Il premier ha investito molto capitale politico per vincere una battaglia contro la parte del suo partito che lo combatteva. Ha peso di brutto e con lui la Gran Bretagna e l’Europa.

I negoziati, quindi, con la richiesta di Londra di attivare l’articolo 50 dei Trattati, saranno condotti da un nuovo premier (o magari dallo stesso Cameron, improbabile) ma con un nuovo mandato chiaro. Non sarà il premier favorevole all’Unione a dover negoziare per uscirne, ma un governo in linea con il sentimento dei britannici – o meglio, degli inglesi.


Come si esce: l’articolo 50 del trattato di Lisbona
Ai sensi dell’articolo 50 del trattato sull’Unione europea, uno Stato membro può notificare al Consiglio europeo la sua intenzione di lasciare l’Unione e avviare le trattative per il ritiro. I trattati cessano di essere applicabili a tale Stato a partire dalla data del contratto o, in mancanza di un accordo, entro due anni dalla notifica, a meno che lo Stato e il Consiglio europeo siano d’accordo nel prorogare tale termine. L’accordo delinea anche il quadro di riferimento per le future relazioni dello Stato interessato con l’Unione. L’accordo deve essere approvato dal Consiglio, che lo delibera a maggioranza qualificata, previa approvazione del Parlamento europeo. Chi esce, volesse rientrare, è sottoposto al processo a cui sono sottoposti tutti coloro che chiedono di diventare membri dell’Unione.


 

Le borse

Ai mercati finanziari la cosa non è piaciuta: la sterlina è precipitata ai livelli del 1985, subendo il peggior crollo della sua storia e perdendo circa l’11% del suo valore in poche ore. Il Nikkei, l’indice di Borsa di Tokyo, è sceso del 7% mentre scriviamo, l’Hang Seng di Hong Kong del 4,3%, Londra -11,4% peggiore crollo mai registrato, Francoforte -10%, Parigi -8%. Giù S&P e balzo in avanti del prezzo dell’oro.  Le autorità della piazza finanziaria più importante del mondo assieme a Wall Street si sono affrettate a emettere un comunicato: siamo e restiamo un centro cruciale, lo siamo stati per secoli, non ci sarà una fuga di banche, dicono. Certo non succederà nelle prossime ore, ma qualche rischio per uno dei settori trainanti dell’economia britannica c’è.

Giovani europeisti, anziani nazionalisti

Il Paese si è diviso, come previsto su linee generazionali e geografiche. I 18-24enni hanno votato al 75% per rimanere in Europa, i 25-49enni al 56% Remain, gli over 50 fino a 64  al 56% per uscire e gli ultrasessantacinquenni al al 61%. Ogni contea della Scozia ha votato per rimanere: il 62% degli scozzesi vuole stare in Europa e si trova fuori contro la sua volontà. Il Nord Irlanda ha votato per rimanere, così come Londra (59,9%), il Galles, un po’ a sorpresa, vota per uscire. Tutta l’Inghilterra, ma di più le zone del Nord ex industriale dove il Labour è forte, votano per uscire. In generale, la parte che guarda al passato, nazionalista, preoccupata per il futuro vota per uscire. C’è un pezzo di Europa che, in ogni Paese, non sa dove si vada e lo dice in ogni forma nelle urne e mandando segnali molto diversi tra loro: votando Corbyn leader, votando FN in Francia, 5 Stelle in Italia, Podemos in Spagna, eleggendo un governo di sinistra in Portogallo.

Le altre conseguenze politiche del voto

Sono molte e diverse tra loro. I vincitori di questo scontro sono Boris Johnson, che guida le classifiche degli scommettitori come prossimo leader conservatore, e quella parte del partito conservatore che ha lavorato per quello che il leader dell’Ukip, il partito nazionalista e un po’ xenofobo, Nigel Farage ha definito “independence day”.

Non va bene neppure al Labour: dopo aver perso la Scozia, le zone dove il partito di Jeremy Corbyn è più forte votano per uscire contro il timido volere del suo partito. I laburisti non escono sconfitti, ma malconci sì. Non avrebbero voluto il referendum, ma sono in qualche misura ininfluenti: persa la Scozia, oggi non determinano il risultato nelle aree dove sono più forti – se non nella cosmopolita e giovane Londra. Lo scozzese SNP e il Sinn Feinn nordirlandese hanno un argomento in più per invocare la separazione dal Regno Unito. E lo stanno già timidamente facendo.

La carica degli anti-europeisti

Il profilo Twitter di Marine Le Pen, leader del Font National francese è ammantato con l’Union Jack britannico. Non una bestemmia ma una presa di posizione, quella del tweet qui sotto: «Ha vinto la libertà! Lo chiedo da anni, anche in Francia lo stesso referendum».


Stesse dichiarazioni ha rilasciato l’olandese Geert Wilders. In casa nostra, più ambiguo, che sa che in Italia la maggioranza è, nonostante tutto, con l’Europa, Matteo Salvini gioisce e dice «Adesso tocca a noi».

L’Europa reagisce

Donald Tusk ha appena convocato un meeting a 27, il primo senza Londra. Mentre il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz twitta: i britannici hanno sempre avuto una relazione ambigua con l’Europa. Ora il loro volere va rispettato, servono negoziati rapidi e chiari

I negoziati non saranno facili: Oggi abbiamo pesiamo molto meno in Europa, ha detto il Foreign Secretary, il ministro degli Esteri Hammond, aggiungendo «Putin sarà felice del risultato». Negoziare i termini dell’addio non sarà facile: l’Europa ha enormi problemi e dovrà in qualche modo scoraggiare altri a seguire le orme di Londra. Donald Tusk ha detto: vogliamo mantenere la nostra unità a 27. Non sarà facilissimo. Crisi dei rifugiati, Grecia – e poi Italia e Francia – sono un problema serio e il progetto europeo consolidatosi negli anni 90 oggi è un malato terminale. Servirebbe uno scatto da parte di una classe dirigente che in questi anni è stata incapace di pensare ad alternative migliori, eque, sostenibili per i singoli Paesi.

I prossimi giorni diranno quanto grave è la crisi europea.

 

 

Questi sono i camerieri delle banche

Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, con i ministri dell'Economia Pier Carlo Padoan (s) e dei Trasporti Graziano Delrio (d), in Senato durante la discussione in Aula delle mozioni di sfiducia al Governo, Roma, 19 Aprile 2016. ANSA/ GIUSEPPE LAMI

Io se fossi in voi, questa mattina, mi prenderei del tempo per ascoltare anche distrattamente la discussione alla Camera del decreto-legge 3 maggio 2016, n. 59, recante disposizioni urgenti in materia di procedure esecutive e concorsuali, nonché a favore degli investitori in banche in liquidazione. Il decreto, a detta del governo, dovrebbe servire a tutelare gli investitori che in questi anni (e in questo ultimo anno) hanno visto evaporare i risparmi di una vita grazie ai consigli di qualche funzionario compiacente che, in nome della banca per cui lavora, ha pensato bene di rifilare spazzatura travestita da investimenti.

Peccato che gli investitori siano cittadini in tutte le loro forme più fragili: pensionati, vedovi, ingenui, custodi dei guadagni di una vita, piccoli imprenditori previdenti, artigiani lungimiranti. Formiche. Formiche in un’epoca di cicaleccio. Aspiranti lungimiranti in un mondo invece di troppi furbi, troppo furbi. Le vittime delle banche, insomma, non sono strani tipi da decreto o editoriale ma siamo noi. Colpiti. Più o meno lontano. Più o meno direttamente.

Matteo Renzi e il suo governo, se stamattina avrete voglia di prestarci orecchio, stanno apparecchiando una legge che è la prova incontrovertibile di una politica serva del mondo finanziario e bancario. Una legge che, entrata in vigore, permetterebbe di “velocizzare” le pratiche di pignoramento in alcuni casi senza nemmeno bisogno di un passaggio giudiziario; una legge che tutela i carnefici facendo leva sulle vittime; una legge che trasforma il rapporto con le banche in un cappio ancora più stretto intorno al collo di chi si ritrova dalla parte del debitore.

Ecco, stamattina, mentre venite sommersi dal polistirolo della politica da chiacchiericcio, tendete un orecchio a cosa è diventato questo Paese che si riempie la bocca di cambiamento e invece sta raggiungendo gli inferi della servitù dei poteri forti. Pensate alle rivolte francesi, ai movimenti europei, alle parole di Sanders, alle nuove sinistre e intanto saggiate l’indifferenza, l’impermeabilità e l’acquiescenza che circonda questa mattinata da voltastomaco. Il testo di legge è qui.

Buon venerdì.

Games of Thrones è un esempio di cosa potrebbe succedere con Brexit

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Dopo la vittoria della Brexit, l’attenzione è tutta puntata sulle borse e sul crollo della sterlina. Eppure la decisione storica che ha preso la Gran Bretagna impatterà su molte più cose di quelle che al momento immaginiamo. Un esempio? L’uscita dall’Ue del Regno Unito potrebbe mettere in pericolo la produzione di Games of Thrones.

Uno dei luoghi principali per le riprese della serie è infatti l’Irlanda del Nord, qui vengono girate tutte le scene che riguardano Grande Inverno, come ad esempio l’epica “Battaglia dei bastardi”. Ora, secondo l’eminente testata Foreign Policy, HBO, casa produttrice dello show, riesce a sostenere il costo enorme per la realizzazione di una serie così imponente – circa 10milioni di dollari per un episodio della sesta stagione – grazie ai finanziamenti del Fondo europeo di sviluppo regionale dell’Unione europea. Soldi che, dopo la vittoria del “leave” al referendum, probabilmente non ci saranno più. E lo stesso accadrà per molti altri spettacoli televisivi e cinematografici girati in UK, visto che negli ultimi 7 anni la Gran Bretagna ha ottenuto circa 32milioni di dollari dalle organizzazione europee per investire su questi progetti.

Per quanto riguarda invece le sorti di Games of Thrones, con una settima stagione già confermata e un’ottava (e forse ultima) in programma, Jon Snow, Sansa Stark e compagni potrebbero dover cercare scenari alternativi per portare avanti le loro avventure diventate ormai troppo costose nel regno di Sua maestà.

Hawking e Higgs «Brexit un disastro per la ricerca». Il parere di Rovelli e altri scienziati

Le conseguenze della Brexit, votata il 23 giugno nel Regno Unito, preoccupano molto scienziati e ricercatori inglesi anche per l’effetto che avrà sulle assegnazioni dei fondi europei alla ricerca.  E preoccupa in modo particolare i giovani ricercatori che vengono da altri Paesi europei e che hanno contratti in scadenza o comunque posizioni precarie. Prima del voto Nature aveva fatto un sondaggio fra gli scienziati annunciando il “no” alla Brexit da parte dell’83% dei ricercatori inglesi.  Dati confermati dalle prime analisi del voto da cui emerge che soprattutto le persone con livelli di sitruzione più bassi si sono espressi per l’uscita dall’Unione europea, mentre gli strati più colti e informati della popolazione,hanno votato in gran parte “remain”.

A far notizia è stato soprattutto Stephen Hawking che, analogamente al  Nobel Peter Higgs ( che ha teorizzato il Bosone), ha definito la Brexit  «un atto disastroso per la ricerca e le università in generale».  Sulla stessa linea  i centocinquanta componenti della prestigiosa  Royal Society dell’università di Cambridge.
Il voto a favore della Brexit, in concreto, mette a rischio la possibilità  britannica di accesso ai fondi messi a disposizione dall’Unione per la ricerca.

L’Inghilterra è  leader nella ricerca scientifica e il Paese che  guidato da Cameron (che ha annunciato le dimissioni dopo l’esito del voto)  fin qui, era al primo posto per numero di progetti approvati.  Dal 2007  al 2013 il contributo ricevuto dai britannici è stato di 8,8 ai ricercatori inglesi, mentre il Regno Unito ha versato al fondo comunitario  5,4 miliardi di euro. I flussi di denaro provenienti dall’Ue sono più di un quarto della spesa interna inglese per la ricerca e lo sviluppo.

Come è noto, il  sistema di ricerca europeo favorisce la collaborazione e lo considera tra i requisiti fondamentali per l’assegnazione  dei fondi. E anche per questo la Brexit  peserà sulla comunità scientifica inglese, che per altro ha  livelli molto alti di produzione di letteratura scientifica anche perché, oltre ai propri laureati, ha a disposizione ricercatori e scienziati immigrati. Le stime dicono che il 15 per cento dei ricercatori che operano  in Inghilterra provengono dall’estero.  Cosa accadrà loro e ai ricercatori precari o con contratto in scadenza?  Se dovessero  tornare a casa sarebbe un grave danno  anche per l’Inghilterra.  Alcuni sostengono che potranno continuare a collaborare anche con la Gran Bretagna fuori dall’Europa, grazie ad un accordo ad hoc, simile a quello che ha la Svizzera.

Di fatto la burocrazia per chi opera fra Inghilterra e l’Europa aumenterà.  Nuovi e più complicati scenari si profilano, per esempio, dal punto di vista del diritto digitale;  ci saranno probabilmente molte complicazioni che riguardano la normativa sulla privacy se il Regno Unito non si conformerà più alla legge  unitaria condivisa da tutti e  28 Paesi che fanno parte dell’Unione Europea.  Oppure pensiamo a cosa potrebbe accadere nel commercio elettronico se la normativa non fosse più  quella condivisa dalla Ue.  E ancora pensiamo alle maggiori complicazioni che potrebbero incontrare le start up che oggi in grande numero scelgono di avere una base in Inghilterra.Che in futuro potrebbe risultare molto meno appetibile per le imprese.

Anche per questo il fisico Carlo Rovelli, diventato popolare con le sue Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi) diventate un best seller commenta così  la decisione inglese  pro Brexit sul suo account facebook : «Mi dispiace molto per gli amici inglesi, che preferiscono insularità alla collaborazione; è una loro scelta».  E poi aggiunge, con spirito positivo:  «prendiamola come  un’opportunità e facciamo una Europa unita. E’ in gran parte a causa dell’Inghilterra che avevamo fallito finora».

 

Vince Brexit e la Gran Bretagna esce dall’Ue. Cosa succede adesso

Exterior view of Manchester Town Hall, the setting for the national count in the EU referendum, in Manchester, Britain, 23 June 2016. Counting gets underway in the referendum on the UK's membership of the European Union. EPA/PETER BYRNE UK AND IRELAND OUT

È finita. A separare il Regno Unito dall’Europa non c’è più solo il Canale della Manica ma una visione del mondo completamente diversa e, forse, opposta.
Sono poco meno delle 4 di mattina a Londra quando si comincia a capire che, nonostante manchino all’appello oltre un centinaio di seggi da scrutinare, la Gran Bretagna ha scelto il Brexit. Non sono bastati i voti della Scozia e delle città più cosmopolite come Londra ed Oxford – il Paese ha scelto di uscire dall’Europa e, per usare le parole del leader dello UKIP, Nigel Farage, ha optato per «l’indipendenza».

Un risveglio amaro per gli inglesi che si trovano un Paese letteralmente spaccato a metà. A nord la Scozia che ha votato compatta per rimanere nell’orbita di Bruxelles. Poi le città metropolitane e, quindi, più internazionali. Ma, nel mezzo, la provincia britannica composta dalla working class che ha avuto l’ultima parola su questo temuto referendum. Ma è stato davvero un voto sull’Europa?
Per gli opinionisti, che per tutta la notte si sono dati il cambio per le maratone su Sky News e sulla BBC, questo non è necessariamente un voto sull’Europa ma sull’establishment più in generale. Un voto di protesta di immani proporzioni (e conseguenze) che ha come punto focale l’immigrazione, la sicurezza, il sistema sanitario al collasso e quello scolastico.

Il Regno Unito, che è entrato a far parte della allora Comunità Europea nel 1973, esce oggi sbattendo la porta con un inimmaginabile voto di protesta. Resta da capire se la Scozia possa riproporre a breve un nuovo referendum per l’indipendenza per riuscire ad ancorare il nord della Gran Bretagna all’Unione Europea e sganciarsi, come si è provato a fare lo scorso anno, da Londra.
Intanto, la sterlina è crollata ai minimi e sotto l’1.35 dollari, il punto più basso dalla metà degli anni 80.

E ora? Cameron, ad esempio. Si andrà alle elezioni entro il prossimo anno?
Questo voto sull’establishment, sì, mette una data di scadenza al governo di David Cameron che ha sperato fino all’ultimo in una vittoria del Remain. Ma niente da fare. Il referendum, che ha dilaniato il Partito conservatore del Primo Ministro, potrebbe essere l’ultimo chiodo della bara confezionata per il governo. Nonostante 84 parlamentari conservatori abbiano firmato una lettera prima della fine dello spoglio che dava pieno mandato a Cameron qualsiasi fosse stato il risultato elettorale, è ormai chiaro che il premier sarà costretto alle dimissioni. In tanti, anche all’interno del suo partito, credono infatti che gli inglesi debbano tornare a votare entro il prossimo anno per scegliere il nuovo inquilino del 10 di Downing street.

La sindaca Raggi chiamata in causa da Sosdonna: «Salvi il Casale Rosa»

Un grattacapo per la neosindaca Virginia Raggi, piccolo, ma di grande valore simbolico. Non è certo un problema che riguarda colossi come Atac o Ama, è solo un centro antiviolenza, il Casale Rosa, sede di Sosdonna h24 dalle parti dell’Eur. Ma dal 26 giugno chiuderà i battenti, con tutto quel che ne consegue. Per questo motivo il presidio che si terrà il 24 giugno in Campidoglio (ore 16.30) acquista un significato politico, sociale e culturale.

«Anche perché del problema della violenza contro le donne Virginia Raggi durante la campagna elettorale ne ha molto parlato, ora vedremo quali risposte darà, vogliamo sperare che la sua non sia stata una presa di posizione di circostanza», dice a Left Oria Gargano, presidente di Befree la cooperativa sociale che gestisce il centro di via Grotta Perfetta. La situazione è precipitata il 31 maggio scorso. Sosdonna h24 e il centro Donatella Colasanti e Rosaria Lopez gestiti da Befree, insieme alla Casa Internazionale delle donne gestita da Telefono Rosa e a Il Giardino dei ciliegi del Ceis-Don Picchi sono stati avvisati che i servizi non sarebbero stati prorogati. Questa decisione sarebbe stata presa dal commissario Tronca secondo questa «sconcertante motivazione», si legge in un comunicato di Befree. «Poiché il 20 aprile scorso è stato varato il Decreto legislativo n. 50 (“Attuazione delle direttive 2014/23/Ue, 2014/24/Ue e 2014/25/Ue sull’aggiudicazione dei contratti di concessione e sugli appalti pubblici) il Comune “ha determinato” di non emanare nuovi bandi né di concedere proroghe in mancanza di direttive attuative del decreto stesso». Il fatto che già i fondi per queste strutture fossero stati messi a bilancio non ha influito sulla decisione del commissario Tronca, afferma Befree, che ha lanciato una petizione su Change.org raccogliendo 10mila firme.

Pochi giorni fa, infine, è giunta la notizia della proroga, ma solo per gli altri tre centri residenziali, non per Sosdonna h24, che non è una casa rifugio. «Svolge un ruolo importantissimo: attorno a Sosdonna è stata creata una rete con le istituzioni, gli ospedali, le forze dell’ordine», spiega Oria Gargano. Le cinque operatrici attive tutto il giorno ricevono le richieste di aiuto o di informazioni per risolvere situazioni di donne che vogliono uscire da una spirale di oppressione e di violenza. Ma vengono chiamate anche dagli operatori istituzionali, dai pronti soccorso o dai posti di polizia. «Se all’ospedale Pertini, per esempio, arriva una donna che è stata picchiata, si rivolgono subito noi», sottolinea la presidente di Befree. Sono 1924 le donne – per il 40% straniere – che sono passate da Sosdonna e Casale Rosa è diventato dall’agosto 2014, da quando cioè Sosdonna vi si è trasferito, un centro di «mediazione sociale» anche per il territorio. Vengono realizzati laboratori per bambini, attività e spettacoli che «animano un quartiere dormitorio», dice Gargano.

Adesso il timore è che quell’esperienza possa finire nel nulla, con conseguenze, anche immediate non indifferenti. Per esempio per quanto riguarda la tutela della privacy, nel caso i locali finissero abbandonati a se stessi. «Un problema di cui nessuno parla è che là dentro ci sono documenti, verbali, materiale “sensibile” sui dati delle donne che sono state accolte», fa notare la presidente di Befree. La sindaca Raggi è invitata da Befree a dare risposte, con urgenza.

Londra addio. E ora?

Il 'Mirror' sull'esito del referendum sul Brexit, 24 giugno 2016. "We're out", "Siamo fuori", titola il Daily Mirror sulla foto di un giovane viso dipinto con i colori dell'Union Jack. ANSA / WEB

BREXIT è fatta. I giornali in edicola lo ignorano, confortati da sondaggi sbagliati, ma una maggioranza di cittadini britannici ha votato per abbandonare l’Europa. Per il Leave il 51,89% degli elettori, per il Remain il 48,11. La Manica si trasforma da ponte che era in muro d’acqua. La City piange per gli affari perduti. La borsa di Tokyo, che lavora quando da noi è notte, lascia 8 punti. Molti londinesi corrono a cambiare sterline con dollari o con euro. La moneta britannica è già ora ai minimi degli ultimi 31 anni. “We are out”, dice Nigel Farage e parla di“Independence Day”, ma gli indipendentisti scozzesi rispondono “il nostro futuro è nella UE”, Sinn Fein chiede già un referendum che permetta all’Irlanda del Nord di lasciare il regno unito per unirsi all’Irlanda. Obama cerca Cameron, cancellerie europee in subbuglio, Marine Le Pen chiede il referendum anche in Francia. Renzi rinvia la direzione del Pd.
Ha un senso tutto ciò? Purtroppo ha un senso. Gli inglesi erano entrati nell’Unione di malavoglia, con un piede dentro per lucrare soltanto i vantaggi di un’area di libero mercato e un altro fuori, nessuno gli aveva detto che la storia era cambiata e che anche loro dovevano tornare al punto d’inizio, prima della battaglia di Bouvines e della Magna Carta Libertatum, alle radici comuni dei popoli dell’isola e del continente. Francia e Germania sembrarono più avanti, quella volta davanti alle croci dei morti di Verdun quando Helmuth Kohl e François Mitterrand si tennero per mano, ma poi si ripiegarono nella cura di interessi nazionali, soprattutto interessi della Germania, che ha risolto, in pace e con l’euro, la ferita che l’ha portata a iniziare due guerre mondiali nel secolo scorso: l’essere il primo produttore del continente ma non avere a disposizione abbastanza liquidità. E tuttavia neanche i tedeschi ammettono i vantaggi dell’Euro e dell’Unione. Al contrario si lamentano, come Kohl rimproverava di lagnarsi ai turisti che dalla Germania partivano – disse – felici verso il mare e le città d’arte italiane, ma poi tornavano di cattivo umore perché l’Italia non è tedesca.

Colpa dell’immigrazione? Certo. La mondializzazione e la scia avvelenata delle guerre imperialiste hanno mosso un esodo dal Medio Oriente e dall’Africa vero l’Europa. Ma la Gran Bretagna conviveva con flussi non meno rilevanti da Paesi lontani, dal Pakistan all’India, un tempo sudditi di sua maestà. Quello che inquieta i Farage è l’immigrazione di cittadini con pari diritti, di europei, studenti, ricercatori, imprenditori di se stessi. Ciò che rende nervosi gli elettori di destra in Francia, in Austria, in Olanda, più che il nero che arriva è la rimozione della domanda su cosa debba essere Europa, se un blocco continentale, Europa dei barbari divenuti cristiani nel Medioevo che, gioco forza, dovette ritirarsi dal Mediterraneo, o se l’Europa Mediterranea, con dentro Atene Grecia, Roma e l’Italia, Madrid e la Spagna. Un’Europa quest’ultima che non può non darsi una politica per l’Africa e per il Medio Oriente. L’immigrazione ha fatto solo precipitare la reazione chimica, mostrando viltà e scarsa capacità di prevedere da parte delle classi dirigenti nazionali ed europee.

E ora? Grandi turbolenze nei mercati, perché chi può cercherà di avvantaggiarsi della crisi. Speculando al ribasso sulla sterlina, ma anche vendendo titoli del debito – lo spread risale -, cercando di attrarre altrove una parte di fondi che muovevano dalla City. Dopo la febbre alta, euro banchieri ed euro politici prenderanno a dire che la separazione tra Gran Bretagna e quel che resta dell’Europa sarà comunque lunga, che durante il processo si potranno riscrivere le basi della convivenza europea, Dopodiché, chissà, magari la Gran Bretagna, alla fine, rinuncerà a uscire. Faranno come gli struzzi, temo, metteranno la testa sotto la sabbia, proveranno a contenere i danni. Come sempre. Ma se si passa alla società, cioè ai comportamenti e al sentire di milioni di uomini, ogni Paese si allontanerà dal vicino e in ogni paese sarà più a rischio l’unità interna. La Scozia e l’Irlanda del Nord si separeranno dall’Inghilterra. La Catalogna dalla Spagna, la provincia francese da Parigi, la Napoli di De Magisteri si allontanerà dalla Milano di Sala. Al contrario servirebbe uno scatto in avanti. Pretendere subito una vera Europa, solidale e democratica, che ristrutturi il debito greco e induca i tedeschi a comprare di più, che vari a tempo di record un piano europeo per il lavoro giovanile e per la ricerca. Che combatta le guerre in Medio Oriente, nonché i Paesi che le provocano, e appresti un piano Marshall per l’Africa. “Follie, delirio vano è questo”, direbbe la Violetta di Verdi e di Piave. Molto, molto più folle è proseguire con i tatticismi delle attuali classi dirigenti, con gli ammiccamenti insinceri alle opinioni nazionali. Non mi piace fare il catastrofista, ma l’attuale crisi dell’Europa, esorcizzata e alla fine subita, ricorda la disintegrazione degli imperi che accese la prima guerra mondiale aprendo il Secolo Breve.

Condannata per aver scritto «noi NoTav» nella tesi. Un appello chiede libertà di ricerca e di pensiero

Una condanna a 2 mesi di carcere con la condizionale per aver usato l’io narrante nella sua tesi di laurea “Ora e sempre No Tav: identità e pratiche del movimento valsusino contro l’alta velocità”, conseguita nel 2014. È successo a Roberta Chiroli, ricercatrice. Il 15 giugno 2016, il tribunale di Torino l’ha condannato per concorso morale in violenza privata aggravata e invasione di terreni. Due mesi, a fronte dei 9 anni chiesti dai pm torinesi. Per le stesse circostanze era imputata anche una ricercatrice di Sociologia all’Università della Calabria che però è stata assolta. «Siamo indignati: che ci risulti, è la prima volta dal 25 aprile 1945 che una tesi di laurea viene considerata oggetto di reato e subisce una condanna. Ci domandiamo, increduli, quale perversione attraversi un paese che porta nelle aule di un tribunale le parole di una tesi di laurea», recita l’appello “Mai scrivere “noi”. Appello per la liberta di ricerca e di pensiero.

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Quello che per la difesa è un “espediente narrativo”, per l’accusa è la prova del “contributo” alla dimostrazione NoTav. «L’uso del noi nella tesi rappresentava una scelta stilistica», spiega l’avvocato di Chiroli, Valentina Colletta, «quindi è assurdo che la ragazza sia stata condannata sulla base di questa osservazione. Anche perché i filmati dimostrano che entrambe le ricercatrici hanno sempre avuto un atteggiamento defilato rispetto alla manifestazione». Il lavoro di ricerca sociale di Chiroli, del resto, ha attenuto dalla commissione di laurea il voto di 110 e lode. Ma il giudizio dell’autorità giudiziaria è stato la sanzione penale.

Com’è andata

Laureata in antropologia culturale, etnologia, etnolinguistica, nel 2014, Roberta si è recata per qualche mese in Val Susa, insieme a Franca Maltese, dottoranda in Antropologia all’università della Calabria, partecipando a incontri e manifestazioni No Tav. Entrambe partecipano, ma non entrano nella proprietà privata, si limitano a osservare. Di ritorno a Venaus, sul treno, i manifestanti vengono fermati dagli agenti di polizia, anche Roberta e Franca, che vengono denunciate, insieme ad altre 43 persone, per concorso morale nei reati di blocco stradale, imbrattamento, resistenza aggravata a pubblico ufficiale, violenza privata aggravata, invasione di terreni. In attesa delle motivazioni della sentenza, il giudice potrebbe aver accolto la tesi del pubblico ministero: condanna per concorso morale in quanto la Chiroli ha utilizzato il “noi partecipativo”. L’io narrante, insomma. Come questo.

 

Mimmo Jodice, poesie visive e nuda realtà

Mimmo Jodice, Frattura, 1970 - Collezione dell’artista

La luce che fende la scena, svela la nuda realtà in un drammatico chiaroscuro, quasi caravaggesco. un lampo fulmineo fa emergere uno spoglio basso napoletano, bambini scalzi, vestiti di stracci, attaccati alle gambe di una madre giovanissima, dallo sguardo altero che sfida l’obiettivo. Bellezza amara. Una vecchia posa per un ritratto con in mano la foto incorniciata di quando era giovane. L’ingiustizia del tempo sul volto di una donna. Un ragazzino controvento cerca di vendere sigarette di contrabbando. Un bimbo con un vassoio di caffè, più grande di lui. Un dolore profondo si legge negli occhi di questi ragazzini costretti a crescere troppo in fretta.

Mimmo Jodice, il maestro della fotografia a cui si deve questa straordinaria narrazione per immagini di una Napoli che non c’è più, era uno di loro. Nato nel 1934 nel quartiere Sanità, dopo la morte di suo padre quando lui aveva 5 anni, fu costretto a cercare un modo per sopravvivere in una città difficile e complessa di cui coglie immediatamente i problemi. L’ampia, emozionante, retrospettiva che Electa gli dedica al Madre dal titolo Attesa. 1960-2016 (fino al 24 ottobre 2016) ben racconta il percorso che, a partire da quella realtà drammatica ma piena di vita, lo ha portato poi a sviluppare raffinate meditazioni sugli infiniti orizzonti che si aprono sul mare e sulle tracce delle civiltà antiche – da Pompei a Palmira – ma soprattutto a lavorare sull’immagine femminile, ritraendo il volto di Angela (luccicante di stelle dietro il cellophane in una foto degli anni 60) musa, compagna di vita e collaboratrice per poi approdare a progetti sperimentali sul nudo in movimento tracciando linee come in un dripping alla Pollock, in sequenze fotografiche che sembrano pitture astratte. La scelta di Jodice di usare quasi esclusivamente il bianco nero ha che fare con il disegno: la sua prima passione da ragazzino, dettata da una esigenza espressiva profonda non tanto dal fatto che carta e matita cinquant’anni fa erano per lui certamente più a portata di mano di una costosa attrezzatura. A questo gusto del disegnare, di creare immagini che non sono la piatta riproduzione della realtà, Jodice non ha mai rinunciato neanche quando negli anni dell’impegno politico si tuffò nella fotografia sociale. Non occupandosi di fatti di cronaca, ma della vita delle classi più povere e dei lavoratori, sempre cercando la qualità formale, riequilibrando le luci in camera oscura, cercando per “arte del levare” un’armonia compositiva che potenzia il contenuto, come nel caso della celebre foto del ragazzino con la maglia a righe che si staglia, espressivo e potente, su un gioco rovesciato di luci e ombre. Una attenzione alla costruzione dell’immagine che ritroviamo fortissima in tutto il progetto dedicato alla fabbrica in cui spiccano gli scatti di Bagnoli e all’Italsider. L’impegno nel mettere la fotografia al servizio della “causa” va di pari passo con lo sviluppo di una originale poetica, con la progressiva definizione di una identità stilistica, che nell’orizzonte tetro e poderoso delle acciaierie produce folgoranti silhouettes di operai da cui si irradia la fontana di luce che promana dalla saldatrice. La lotta contro l’ingiustizia e le disuguaglianze sociali, la dignità del lavoro, le battaglie delle donne sono al centro della sua ricerca negli anni 70, quando va in piazza a documentare oceaniche manifestazioni, per i diritti di tutti. Avvertendo una propria responsabilità di artista, senza scadere mai nella propaganda. Anche in questo caso non usa la fotografia per fare copie della realtà, ma per realizzare immagini che esprimono un pensiero su quella realtà, andando oltre la superficie delle cose. Come raccontano le spettacolari sequenze montate da Francesco Jodice (figlio di Mimmo e a sua volta fotografo di talento, a cui Camera ora dedica una personale) che scorrono su grande schermo a pianterreno del Museo, nella sala che il direttore e curatore Andrea Viliani ha pensato come un’agorà aperto alla città.

Qui esplodono i fuochi d’artificio delle affollate feste popolari anni 60 e 70 , c’è il bambino che cammina sul filo sospeso a mezz’aria sotto migliaia di occhi accalcati su minuscoli terrazzi ma ecco anche i rituali di una religiosità popolare, in cui si mescolano magia e superstizione. Senza tacere sul fondo di violenza che vi si legge in filigrana: gli incappucciati della processione per San Gennaro sono identici a quelli del Ku Klux Klan. L’ambiguità dell’immagine, la sua polisemia, è uno degli aspetti che Jodice più coltiva. Insieme all’ironia, che diventa guizzo vitale in foto come quella di una famiglia in un interno senza mobili, sul muro sporco c’è scritto “felice anno”.

In questi ritratti dalla forte impronta teatrale si ritrova l’umanità rappresentata da Caravaggio e da Ribera, sembra di rivederne le espressioni e perfino certe “arie” da ceffo. L’attenzione di Jodice verso la pittura napoletana del ‘600 è raccontata nell’ampio svolgimento della mostra al terzo piano da una splendida natura morta dello stesso Ribera, un genere che negli anni più recenti il fotografo napoletano ha reinventato in termini moderni, “documentando” in modo visionario il centro storico preda di un consumismo che produce effetti di soffocante horror vacui. Questo immane accumulo di merci sembra vivere di vita propria, producendo un senso di palpabile straniamento; così come enigmatiche e sottilmente inquietanti appaiono le Vedute di Napoli realizzate negli anni 80, che nelle bianche sale del Madre scorrono intervallate da tele di Morandi e di De Chirico (La grande torre, 1932-38). Dopo gli anni di impegno civile, Jodice cercò un modo per esprimere la delusione perché nulla era cambiato, lo sconforto per non essere riusciti a sconfiggere le disuguaglianze. «Non era successo niente. Ci eravamo illusi», ha raccontato lui stesso. Nacque così l’idea di fotografare una Napoli deserta, senza persone, azzerando la riconoscibilità dei luoghi, facendo emergere una dimensione irreale, sospesa fra realtà e immaginazione: un colonna fasciata, che non siamo certi ci sia davvero sotto la stoffa. Un cortile con un capitello romano, attraversato da un filo con mollette, ma i panni non ci sono più. Macchine prese da dietro, con i vetri oscurati. Finestre che non si aprono, architetture cieche. Intonaci sbrecciati rivelano balconi finti, solo disegnati. Due rampe di scale, ma entrambe scendono e nessuna sale. Tutto concorre a rappresentare una sinistra dimensione di vuoto, di sconfitta, di speranze tradite. Qui come in altri progetti è una visione di Napoli smitizzante ma anche struggente e poetica, quella che il fotografo ci offre, con luoghi antichi congelati dalla polvere accanto alle nuove aggressioni urbane di una tangenziale o di un viadotto che sfregiano il panorama. Con i suoi modi riservati Mimmo Jodice ha lanciato un allarme per Napoli anche due anni fa in occasione dei festeggiamenti per i suoi 80 anni, esprimendo preoccupazione per il degrado della città. Denunciando lo stato in cui versano Santa Chiara, la posta centrale, il centro storico. Da Napoli non è mai voluto andar via, neanche quando trasferirsi a New York avrebbe accelerato la sua carriera o quando Parigi lo celebrava. «Non me la sono sentita – ripete spesso -. Napoli mi ha dato i temi della mia ricerca, il mare, la memoria, l’archeologia». Fin da ragazzino ha sempre avuto una passione per la città sotterranea, per Pompei, per le tracce del passato. Iniziando negli anni 60 un viaggio nell’antico che continua ancora oggi, cercando di ricreare vedute senza tempo, le stesse che hanno visto i viaggiatori tanti secoli fa. La linea dell’orizzonte governa quasi sempre l’immagine. È nata così la serie Eden come ricorda Germano Celant in Fotografia maledetta e non (Feltrinelli). Paesaggi in cui aleggia un senso di attesa, che invitano a perdersi a guardare.

Mimmo Jodice non cerca la bellezza, ma l’intensità. I suoi atleti della villa del papiro ad Ercolano riproposti al Madre non vogliono essere belle sculture, ma presenze vive, magnetiche. Senza nostalgie romantiche per le rovine, semmai drammaticamente presenti, interroganti, come le foto di statue dal volto sfregiato, fratturato, o addirittura abraso che evocano i drammatici calchi pompeiani come a ridar voce a quelle persone arse vive o soffocate dalla lava. La mostra curata da Andrea Viliani permette cogliere la genesi di questi progetti, ne esplicita le fonti, inserendo nel percorso espositivo alcune opere selezionate con l’artista stesso: in particolare due testimonianze dell’archeologia mediterranea, la scultura in marmo bianco del Compagno di Ulisse e il busto in bronzo di Artemide che rimandano a un ideale Museo del mare nostrum. Qui la fotografia intesa come linguaggio colto dispiega tutte le sue possibilità. E anche sotto questo riguardo Mimmo Jodice è stato un anticipatore. Facendo incontrare fotografia e arte, con progetti sperimentali come la serie di foto strappate: ritraggono addensati paesaggi rurali calabresi percorsi verticalmente da una crepa che ne interrompe l’immobilità. Tagli a vivo, sulla immagine stampata, che evocano i tagli di Fontana, le drammatiche fratture alla Burri, che squarciano l’ordinario. Oppure all’apposto viene colpito dal Cretto di Burri nella Gibellina ferita dal terremoto, cerca il gesto dell’artista che si oppone alla distruzione. Così anche Torre del Greco o gli angoli più degradati di Napoli diventano luoghi senza tempo che rimandano alla pittura e diventano emblemi di un universale discorso sull’uomo.

 

Mimmo Jodice, dalla proiezione Teatralità quotidiana a Napoli, anni 70-2016 – Collezione dell’artista

Mimmo Jodice, dalla proiezione Teatralità quotidiana a Napoli, anni 70-2016 – Collezione dell’artista

Mimmo Jodice, dalla proiezione Teatralità quotidiana a Napoli, anni 70-2016 – Collezione dell’artista

Mimmo Jodice, dalla proiezione Teatralità quotidiana a Napoli, anni 70-2016 – Collezione dell’artista

Mimmo Jodice, Chimigramma, 1966 - Collezione dell’artista
Mimmo Jodice, Chimigramma, 1966 – Collezione dell’artista

Mimmo Jodice, Nudi stroboscopici, 1966 - Collezione dell’artista
Mimmo Jodice, Nudi stroboscopici, 1966 – Collezione dell’artista

Mimmo Jodice, Frattura, 1970 - Collezione dell’artista
Mimmo Jodice, Frattura, 1970 – Collezione dell’artista

Mimmo Jodice, Tetrapilo, Palmira, 1994 - Collezione dell’artista
Mimmo Jodice, Tetrapilo, Palmira, 1994 – Collezione dell’artista

Mimmo Jodice, Alba fucens, 2008 - Collezione dell’artista
Mimmo Jodice, Alba fucens, 2008 – Collezione dell’artista

Mimmo Jodice, Attesa, opera n. 2, 2012 - Collezione dell’artista
Mimmo Jodice, Attesa, opera n. 2, 2012 – Collezione dell’artista

Mimmo Jodice, Attesa, opera n. 4, 2004 - Collezione dell’artista
Mimmo Jodice, Attesa, opera n. 4, 2004 – Collezione dell’artista

Mimmo Jodice, Attesa, opera n. 8, 2014 - Collezione dell’artista
Mimmo Jodice, Attesa, opera n. 8, 2014 – Collezione dell’artista

23. Attesa, Opera nr. 9 2012
Mimmo Jodice; Attesa; opera n. 9; 2012 – Collezione dell’artista

Mimmo Jodice, Attesa, opera n. 23, 1999 - Collezione dell’artista
Mimmo Jodice, Attesa, opera n. 23, 1999 – Collezione dell’artista

Gallery a cura di Monica Di Brigida

Boschi vs Raggi, al Giubileo dei politici i forti fanno i forti

© Ansa

La prima notizia è che la Chiesa oggi celebra il «Giubileo degli uomini e delle donne delle istituzioni pubbliche». Cioè la Chiesa, se non lo sapevate, alla presenza delle maggiori cariche dello Stato, celebra un Giubileo ad hoc “per gli uomini e le donne delle istituzioni pubbliche”, il cosiddetto «Giubileo dei politici». In ordine “visibilmente” presenti – alla Pontificia Università Lateranense di Roma – insieme a monsignor Enrico Dal Covolo (il celebrante): Marianna Madia, Maria Elena Boschi, Angelino Alfano, Maurizio Gasparri, Lorenzo Guerini, Nicola Zingaretti, Beatrice Lorenzin, Rosy Bindi, Stefania Giannini, Laura Boldrini… e non poteva certo mancare Roberto Formigoni (più chiaro ora perché c’è bisogno di un “giubileo” ad hoc).
La seconda notizia è che al Giubileo dei politici, i forti fanno i forti: Boschi e Madia, tutta la prima fila del potere costituito, si permette di snobbare a lungo, il potere nuovo, quello più piccolo che si affaccia in veste ufficiale e che li guarda come fossero dei marziani.
Virginia Raggi oggi entra con la sua fascia tricolore nella culla del Potere pontificio che nei secoli della Storia ha sempre “stretto” tra le sue braccia re, imperatori, primi ministri e ministri, ed è stata appositamente tenuta a distanza, senza saluto. Troppo piccola lei, frutto del popolo, crepa vistosa di quel potere biondo e phonato che va in scena.
Baci e abbracci tra monsignori e potere, e Virginia può aspettare. Deve aspettare, avranno pensato.
Raggi umiliata da Boschi hanno scritto. E la polemica si è concentrata sul saluto o meno della ministra alla sindaca. A suon di video. Mentre, se di notizia si può parlare – e non di assurdità, com’è -, è che esiste un giubileo “riservato” dove politici di ogni dove (proprio ogni!) abbracciano la Chiesa che li abbraccia a sua volta. E Virginia? Di Virginia ci teniamo, per ora, quello sguardo scuro, sbigottito, quasi spaventato dallo spettacolo. Da quello sfoggio di potere senza tempo. Poi vedremo.

(nota di redazione) Alla fine, dopo molto evitarla, è finita così, forse per salvare le apparenze e mettere a tacere i media sulla troppa freddezza della ministra Boschi.

© Ansa / Ufficio Stampa
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