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A Polistena la prima marcia degli amministratori sotto tiro

Hanno ricevuto intimidazioni di ogni tipo, sono stati vittime di atti vandalici. Sono i sindaci e gli amministratori d’Italia che nei loro territori si oppongono alle cosche e alla criminalità. E per questo motivo sono sotto tiro. Il 24 giugno a Polistena (Reggio Calabria) uno dei maggiori centri della piana di Gioia Tauro, si tiene la prima marcia degli amministratori sotto tiro (ore 11.30). Mentre nel pomeriggio a Gioiosa Jonica (Reggio Calabria)  viene presentato il Rapporto 2015 sugli amministratori sotto tiro promosso da Avviso Pubblico. Tra i presenti: Filippo Bubbico, vice ministro dell’Interno, Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare Antimafia, Doris Lo Moro, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle intimidazioni nei confronti degli amministratori locali.

Tra i sindaci sotto tiro c’è anche Michele Tripodi al suo secondo mandato a Polistena. Pubblichiamo il suo messaggio di benvenuto:

Venerdì 24 giugno la città di Polistena sarà ancora una volta protagonista di un’importante battaglia di impegno civile, sociale e culturale.
L’Associazione nazionale “Avviso Pubblico”, la rete degli enti locali che promuove sui territori formazione ed impegno contro le mafie, ha deciso di istituire un appuntamento annuale fisso per manifestare il continuo sostegno a tutti gli amministratori locali minacciati ed intimiditi durante l’esercizio del loro mandato elettivo.
Ma la Prima marcia degli amministratori sotto tiro di Polistena, sarà comunque un momento simbolico forte e coinvolgente, nel quale confluirà il bisogno di tantissimi cittadini comuni, lavoratori, commercianti, imprenditori, intimiditi e colpiti dalla criminalità organizzata attraverso l’usura ed il racket, di scendere in piazza per difendere i valori della democrazia e della convivenza civile. La scelta di Polistena, per organizzare la prima marcia in assoluto in Italia e in Calabria, ci gratifica, rende ancora più vivo e rinnova il nostro impegno contro le mafie: in Calabria, proprio perché la nostra regione è una delle più colpite dal fenomeno, a Polistena perché è un luogo simbolo di lotte per il riscatto sociale e civile. Qui, le battaglie contro la ndrangheta sono state sempre condotte a viso aperto dall’Amministrazione Comunale e da tutti coloro, a partire da semplici cittadini, associazioni, cooperative sociali, chiesa, che s’impegnano per diffondere ed affermare nella società i valori dell’onestà e della laboriosità in contrapposizione al tentativo delle mafie di condizionare le scelte di ognuno.
Saremo felici di accogliere tutti, sindaci e amministratori provenienti da ogni parte d’italia, personalità impegnate socialmente e politicamente, cittadini e magistrati sotto scorta, persone normali, giovani disoccupati, anziani rassegnati, emarginati e migranti, e tutte quelle figure che combattono tutte insieme, spesso nell’anonimato, nel silenzio e nella paura, la loro battaglia quotidiana contro le mafie ed il malaffare, che è e sarà sempre lotta per il cambiamento culturale e speranza per il riscatto e l’emancipazione della Calabria.

Benvenuti a Polistena

Per l’Amministrazione Comunale
il sindaco, dott. Michele Tripodi

Maggioranza battuta in Parlamento. Ala e Verdini votano un emendamento di Nitto Palma (Fi). M5s pure

La facciata di Palazzo Madama, sede del Senato, con le luci spente in occasione della campagna 'M'illumino di meno', l'iniziativa per il risparmio energetico lanciata dalla trasmissione radiofonica 'Caterpillar' di Radio Due, Roma, 19 febbraio 2016. ANSA / FABIO CAMPANA

Si stava votando la ratifica di convenzioni internazionali sul terrorismo. E l’aula si è trovata davanti un testo che suonava così: «È punito con la reclusione da sei a dodici anni chiunque, con le finalità di terrorismo a) procura a sé o ad altri materia radioattiva, b) crea un ordigno nucleare o ne viene altrimenti in possesso». Era proprio necessario che governo e maggioranza prescrivessero l’entità delle pene a proposito di reati che, ove commessi, ogni giudice ha già la più ampia possibilità di comminare pene severissime? È lecito dubitarne. Ma la maggioranza non resiste alla tentazione di prescrivere nel dettaglio entità massima e minima di ogni pena per ridurre la discrezionalità del giudice.

Un assist da sogno per il senatore Nitto Palma, ex magistrato ed ex guardasigilli che ha ridicolizzato il provvedimento: solo 12 anni a chi “crea un ordigno nucleare” e lo vuole usare per seminare il terrore? Non meno di 15 anni, suvvia! A favore dell’emendamento le opposizioni, 5 stelle compresi, tranne Sinistra Italiana. Ma a favore votano anche i “volenterosi” di Verdini e la maggioranza va sotto. Panico, sospensione della seduta – intanto i verdiniani abbandonavano l’emiciclo in base alla nota tecnica del dare un colpo al governo e poi ritirarsi e non metterlo troppo in difficoltà – e alla ripresa il relatore, Sergio Lo Giudice, è costretto a far suo un altro emendamento della destra che porta da 15 a 20 anni la pena per chi provi a usare quelle armi di sterminio.

Come avrete capito terrorismo e ordigni nucleari non c’entrano nulla con quel che è successo stamani in Senato. C’entra parecchio il dilettantismo della maggioranza di governo che tutto vuole prescrivere nel dettaglio e c’entra soprattutto la volontà degli alleati di Renzi di alzare il prezzo del loro appoggio ora che il premier appare più debole. Ciascuno lo fa a suo modo: Verdini con le imboscate. Casini con un’intervista al Corriere: «Renzi cambi, non può solo dividere». «Ma non dite che sono diventato anti renziano», diceva oggi con un gran sorriso sul volto.

Cucchi a Orlando: «Reato di tortura entro il 2016». Il ministro: «Risposte in tempi rapidi»

Aula bunker di Rebibbia - Sentenza processo Cucchi

«Un vuoto normativo esiste. Mi auguro di dare una risposta in tempi rapidi sull’approvazione, è una questione che dobbiamo risolvere anche nei confronti della Corte europea di Strasburgo». Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si è espresso così in merito al reato di tortura. Sollecitato da Ilaria Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo che questa mattina – 23 giugno – gli hanno consegnato le oltre 200mila firme raccolte fin qui (l’obiettivo è 300mila) con la petizione su Change.org: Contro ogni tortura: l’Italia approvi la legge entro il 2016.

 

«Il caso di mio fratello Stefano è un simbolo», ha commentato Ilaria Cucchi. «Lo ha riconosciuto lo stesso procuratore della Repubblica. È un caso di tortura. Stefano è diventato il simbolo di tutte le altre storie che non hanno voce. Queste firme dimostrano l’attenzione della gente comune che si sente coinvolta». E l’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, ha aggiunto: «Sta passando un messaggio sbagliato, quello che il reato di tortura sarebbe contro le forze dell’ordine e che violerebbe di conseguenza la sicurezza dei cittadini. Nulla di più distorto. Lo stesso ministro ce lo ha riconosciuto». Mancano tre giorni al 26 giugno, Giornata mondiale contro la tortura, e meno di sei mesi alla fine del 2016.

In Italia 10mila milionari in più nel 2015

Nonostante la scarsa crescita e un tasso di disoccupazione che rimane elevato, in Italia è stato registrato nel 2015 un aumento dei milionari rispetto all’anno precedente. A farcelo sapere è il World Wealth report 2016, redatto dalla società di consulenza finanziaria Capogemini. Il rapporto definisce i milionari High net world individuals (Hnwi), ossia coloro che detengono più di un milione di dollari di ricchezza. Se nel 2014 erano, nel nostro paese, circa 218mila, l’anno successivo se ne contano 228mila, ossia 10mila persone in più (+4,5%, a fronte di una crescita complessiva dello 0,6%). Nella buona performance italiana pesano due fattori, il risparmio nazionale (+18,7%) e un aumento della capitalizzazione di mercato (+12,7%), mentre viene penalizzata dalla flessione del mercato immobiliare (-2,4%).
Nel mondo – continua il rapporto – ci sono in totale 15,4 milioni di paperoni, il 4,9% in più rispetto all’anno precedente, e la ricchezza totale stimata e detenuta da queste persone è di 58.700 miliardi di dollari. I dati sono stati ricavati attraverso interviste a 800 gestori di patrimoni e 5200 «grandi abbienti».

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Inaspettatamente la quota di ricchezze concentrata nelle mani di pochi è andata progressivamente aumentando negli anni della crisi, subendo una lieve frenata solamente nel 2011: 39 milioni di dollari nel 2009, 42 nel 2010, 41 nel 2011, 46 nel 2012, 52 nel 2013 e 56 nel 2014. Addirittura risulta quadruplicata se si confronta con i dati del 1996. Secondo Andrea Falleni, vice presidente di Capogemini Italia, «se i modesti tassi di crescita attuali saranno mantenuti, questa cifra dovrebbe raggiungere i 100 miliardi di dollari nel 2025».

Numero di popolazione Hnwi per area geografica
Concentrazione di persone Hnwi per area geografica

Il primato della ricchezza Hnwi spetta alla regione Asia-Pacifico, che ha registrato un aumento dello 9.9%, a fronte della scarsa performance degli Usa (+2,3%) e dell’Europa (+4,8%). Tale brusca accelerata, trainata da Cina e dal Giappone rispettivamente del 16% e dell’11%, ha permesso all’area asiatica di superare quella nordamericana anche in valori assoluti, sia in termini di patrimoni detenuti (17,4 miliardi di dollari dell’Asia-Pacifico contro i 16,8 del nord America e i 13,6 dell’Europa) sia in termini di popolazione che detiene la ricchezza (5,1 nell’Asia-Pacifico, 4,8 nel nord America, 4,2 in Europa).

Concentrazione della ricchezza Hnwi per area geografica
Concentrazione della ricchezza Hnwi per area geografica

Calano i super ricchi in America Latina (-8% dei milionari e 6% dei patrimoni) a causa delle due crisi in Brasile e Messico.
Nel 2015 solo un terzo della ricchezza totale Hnwi è stata affidata a società di gestione patrimoniale, mentre il 35% è stata di natura liquida, depositata su conti bancari o in forma di contanti.
Cresce nel mondo la richiesta di servizi digitale. Nel 2015 c’è stato un aumento del 20% di richiesta di digitalizzazione della finanza. «Le aziende di maggior successo», conclude il rapporto, «saranno quelle in grado di innovarsi e convertirsi alle interazioni digitali».

Cari gay, non fate coming out

Ogni due anni, d’estate, qualcosa ci ricorda che siamo italiani. Sì, avete capito bene: sto parlando di calcio.
Che siano i Mondiali o che siano gli Europei, negli anni pari è tutto uno sventolare di bandiere tricolore come nemmeno durante la festa della Repubblica. Cosa succede il resto del tempo? Ci dimentichiamo di essere italiani? Certo. Perché la vita è anche altro, e noi non siamo solo la nostra nazionalità: siamo un mosaico di caratteristiche, e prendere una parte per il tutto è da stupidi, perché quello che ci rende unici non è la caratteristica in sé ma il modo in cui è combinata con le altre. Per esempio, un naso un po’ storto ammanta di fascino un viso da bambola, come un paio di occhi verdi diventa assolutamente irresistibile su una persona di colore.
E dunque, fra le varie cose, io mi dimentico di essere lesbica. Perlomeno finché non apro il giornale e leggo della strage di Orlando, o vado su Twitter e leggo dichiarazioni omofobe da parte del politico di turno. Perché esattamente come il calcio agisce sul resto della popolazione (in barba ai cliché non ho mai giocato a calcetto) queste azioni mi colpiscono nell’orgoglio. Mi smuovono qualcosa dentro, come quel video francese della carbonara fatta con la panna (Anche lì, di nuovo, tutti orgogliosamente italiani).
In condizioni di quiete, perciò, non sento alcun bisogno di presentarmi al nuovo venuto e dire “Piacere, Chiara. Sono lesbica”. Dovrei? E perché piuttosto non dovrei dire “Piacere, Chiara. Non so nuotare” oppure, ugualmente importante “Piacere, Chiara. Sono celiaca/diabetica/cardiopatica”? Dopotutto, sono informazioni che potrebbero potenzialmente salvarmi la vita in caso di pericolo. Solo che io penso a me stessa come Chiara: né come a un elenco di caratteristiche, né come a una sola di queste. E quindi, a meno che qualcuno non mi proponga di andare a fare una pizza o di mangiare un gelato o di fare bungee jumping trascurerò di parlare della mia condizione medica.

©antoniopronostico
L’amore fa puff, illustrazione di Antonio Pronostico

Il fatto è che il peso del coming out, socialmente parlando, è tale che molte persone non riescono a farlo per tutta la vita. O che fanno con immensa fatica, atterrite dalla paura di un riscontro negativo da parte di genitori, colleghi e amici. E in effetti un feedback negativo, in seguito a un coming out, non è da escludere. Perché prendendoci uno spazio specifico per dire “sono gay” in qualche modo ci stiamo scusando. Stiamo ammettendo qualcosa. Come se fosse la confessione di una colpa, una giustificazione necessaria. Con una dichiarazione così solenne “Sono gay”, con questo faro puntato sull’orientamento sessuale, ci poniamo in difetto. E come tali ci mettiamo in una posizione eccezionale per ricevere critiche.
Ora io, che ci volete fare, ho preso da mio nonno Damiano: sono sfrontata, e di questi problemi non ne ho mai avuti. Davvero: nessuno mi ha mai fatto storie a causa del mio orientamento sessuale. Nessuno ha mai fiatato. Non davanti a me, perlomeno. Ma non si tratta di fortuna, né di vivere nel paese dei balocchi. Vivo in Italia: un Paese sufficientemente fascista da non aver mai contemplato l’omosessualità fra i reati e sufficientemente retrogrado da non tutelare i figli delle coppie dello stesso sesso già nel ventunesimo secolo. La mia difesa, da sfrontata quale sono, è l’attacco. Un particolare tipo di attacco. Tanto per cominciare è un attacco non violento.
Lo scenario che vi potete immaginare è quello, familiare, del lunedì mattina alla macchinetta del caffè. Le chiacchiere di riscaldamento prima di gettarsi in ufficio sulle sudate carte riguardano, tanto per cambiare, il week end appena trascorso. Chi è stato spaparanzato sul divano a guardare la TV, chi è stato a casa dei suoceri, chi ha avuto il pupo malato, chi si è ubriacato e chi è andato alle terme. E poi arriva la fatidica domanda. “E tu?”
Senza nessun imbarazzo mi gioco la mia cartuccia: «Sono andata al mare con la mia ragazza».
Perché non vuol dire semplicemente: “Cara società, sono lesbica” ma vuol dire: «Sono lesbica. Embè?» E questo è un attacco politico. Perché la narrazione quotidiana della propria vita è un’affermazione politica.
Perché noi siamo qui, adesso, tutti i giorni. E non dobbiamo giustificarci, davanti agli altri, ma dare loro gli strumenti per comprenderci, rispettarci, tutelarci. Perché la vita è quello che succede mentre siamo impegnati a fare altri progetti e ad aspettare che ci vengano concessi dei diritti. Perché la vita è quella cosa che succede mentre ci dimentichiamo di essere gay, lesbiche, bisessuali, transessuali o persino italiani. E pensiamo a noi stessi, com’è giusto che sia, in quanto semplici individui.

*Chiara Sfregola è una blogger e scrittrice.  Scrive su LezPop.it e ha appena pubblicato il suo primo romanzo Camera Single (Leggereditore).

Su Left in edicola dal 25 giugno trovate un’intervista a Chiara Sfregola autrice del romanzo Camera Single

 

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Quindi è colpa di Orfini

Fantastico. Alla fine dicono la Madia e Giachetti che a Roma la sonora sconfitta del PD abbia un nome e cognome: Matteo Orfini. Sarebbe il già vecchio giovane turco l’uomo che ha portato i democratici nella palude e, dice la Madia, che con lui si sono perse le periferie, si sono persi voti e si è pagato lo scotto per Mafia Capitale.

Da quando la politica ha preso i tempi del turborenzismo, tutta presa dall’ansia del cambiamento e dall’ossessione della narrazione veloce, anche la memoria sembra essersi corrotta in mezzo alla fretta: la rimozione di Ignazio Marino, voluta e ordinata da Matteo Renzi (come lo stesso ex sindaco ha raccontato),  è stata l’inizio di un declino che non sarebbe stato difficile immaginare concludersi con un fallimento simile.

Credere che i cittadini romani possano ritenere affidabile un partito che rimuove il proprio sindaco, tra l’altro con un vigliacchetto appuntamento da un notaio senza passare dal Consiglio Comunale, significa avere perso non solo la connessione con i propri elettori ma addirittura con il buon senso. Il renzismo (anche a Roma) si è convinto, sbagliando, che tra le deleghe di un partito politico ci sia quello di brigare internamente senza dare risposte ai cittadini: Renzi risponde stizzito alle critiche ma oculatamente ha evitato di dare spiegazioni di alcuni passaggi politici che non passando direttamente dal voto avrebbero avuto bisogno ancora di più di comunicazione e comprensione.

Su Mafia Capitale la guerra televisiva su chi avesse la mafia più lunga tra destra e sinistra è apparsa piuttosto disdicevole; la campagna anti-Raggi (con tanto di sms non richiesti nelle battute finali della campagna elettorale) ha avuto il sapore di un infantilismo di ritorno; una campagna elettorale basata sulle buche, sulle olimpiadi (presunte) e sull’esposizione di membri del governo come feticci portafortuna. Siamo sicuri che sia tutta colpa di Orfini?

La cultura può essere il volano d’Italia. Ecco come

Secondo il World Economic Forum, l’Italia perderà la metà dei suoi posti di lavoro nei prossimi cinque anni. Anche per incapacità di usarli per valorizzare le competenze culturali, archeologiche di storia dell’arte che abbiamo e che, sempre di meno trovano impiego. Colpa del blocco del turn over, delle assunzioni bloccate da anni nelle soprintendenze che sono state depauperate di finanziamenti e competenze, dal momento che, sempre più, chi va in pensione non viene sostituito ed è venuto meno il passaggio di competenze da generazione a generazione. A questo quando che abbiamo più volte denunciato raccogliendo la voce di studiosi come Settis e Montanari, assai critici verso l’attuale riforma Franceschini, si aggiunge un fattore globale come quello dell’avanzata di grandi gruppi che gestiscono servizi prodotti da altri, speculandoci. Pensiamo per esempio a facebook che il sito di informazione più frequentato, senza produrre proprio contenuti giornalistici ma basandosi sulla condivisione di contenuti di altre testate rilanciate dagli utenti del social network di Zuckerberg. È il lato b della sharing economy.

Che accanto a tanti vantaggi, sfruttando e alla fine indebolendo la forza contrattuale di chi produce cultura. Sempre stando agli economisti del Wef questa skill distruption (alla lettera distruzione di competenze) costa all’Italia il 48% dei posti di lavoro tra il 2015 e il 2020. Una tendenza che si potrebbe contrastare se riuscissimo a tutelare e a valorizzare ( i due aspetti sono inscindibili a nostro avviso) il patrimonio culturale italiano, dando finalmente piena applicazione all’articolo 9 della Costituzione che tutela paesaggio e beni culturali legandoli alla ricerca e alla conoscenza.

«La cultura dalla radici antiche è oggi un importante volano per la crescita del Paese», ha detto Ermete Realacci presentando La Fondazione Symbola nel rapporto 2016 Io sono Cultura, l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi fotografa lo stato dell’arte della produzione culturale oggi in Italia, proponendo di puntare sulla green economy per mettere in sicurezza e far conoscere la bellezza e la varietà del paesaggio italiano. Meno convincenti forse le proposte che riguardano il patrimonio artistico considerato nelle sue potenzialità solo dal punto di vista della valorizzazione, parola chiave della Riforma Franceschini, ma anche diventata sospetta da quando il premier Renzi parlò del suo interesse verso i musei come «macchine per far soldi» evocando modelli di sfruttamento intensivo senza badare ai rischi.

Il punto di forza del Rapporto Symbola, in ogni caso, è la fotografia che offre dell’Italia che produce cultura. Diamo dunque una rapida occhiata al quadro, in modo che ognuno poi possa trarne le considerazioni che ritiene più opportune. Il primo elemento da ricordare è che nel sistema culturale lavora un milione e mezzo di italiani, il 6,1% dell’occupazione. Secondo i dati raccolti in questo studio, realizzato da Fondazione Symbola e Union camere in collaborazione con la regione Marche, «la cultura è uno dei motori primari della nostra economia.

Al Sistema Produttivo Culturale e Creativo (industrie culturali, industrie creative, patrimonio storico artistico, performing arts e arti visive, produzioni creative-driven) si deve il 6,1% della ricchezza prodotta in Italia: 89,7 miliardi di euro». Ma l’aspetto da considerare è anche che la cultura ha sul resto dell’economia un effetto moltiplicatore pari a 1,8: in altri termini, per ogni euro prodotto dalla cultura, se ne attivano 1,8 in altri settori. Gli 89,7 miliardi, quindi, ne “stimolano” altri 160,1, per arrivare a quei 249,8 miliardi prodotti dall’intera filiera culturale, il 17% del valore aggiunto nazionale, col turismo come principale beneficiario di questo effetto volano.

In questo quadro è soprattutto il centro Italia a guidare la classifica delle macro aree più attive in questo settore: cultura e creatività producono il 7,5% del valore aggiunto totale dell’economia locale. Seguono il Nord-Ovest, che attraverso l’industria culturale e creativa genera il 7,1% del suo valore aggiunto e il Nord-Est, che sempre dal settore delle produzioni culturali e creative vede arrivare il 5,8% della sua ricchezza. Il gap si riscontra nel Mezzogiorno, dove l’industria culturale produce il 4,3% della sua ricchezza. Se guardiamo invece alle singole regioni, a sorpresa, in vetta alla classifica si trova il Lazio ( con l’8,9%), Lombardia (7,5%) e Piemonte (7,1%); quarta la Valle d’Aosta (6,6%) e quinte le Marche (6,2%), seguita – come era facile immaginare- da Emilia Romagna e Toscana (entrambe al 6%) e poi Friuli Venezia Giulia (5,7%), Veneto e Trentino Alto Adige (il 5,6%).

Considerando, invece, l’incidenza dell’occupazione delle industrie culturali sul totale dell’economia regionale la classifica subisce qualche variazione: in vetta c’è il Lazio, seguito Lombardia e Valle d’Aosta, rispettivamente con il 7,8%, il 7,6% e il 7,3%; quindi Piemonte (7%), Emilia Romagna e Marche (attestate al 6,6%), Trentino Alto Adige (6,5%), Veneto, Toscana e Friuli Venezia Giulia (tutte e tre al 6,3%).

La provincia di Milano è al primo posto in Italia sia per valore aggiunto che per occupati legati alle industrie culturali e creative (rispettivamente 10,4% e 10,5% del totale dell’economia provinciale). Nella classifica provinciale per incidenza del valore aggiunto del sistema produttivo culturale e creativo sul totale dell’economia, seguono Roma, attestata sulla soglia del 10%, Torino al 9,1%, Siena all’8,5% e Arezzo al 7,8%. Quindi Firenze con il 7,5%, Modena e Ancona entrambe al 7,2%, Bologna con il 7,1% e Trieste al 6,7%. Dal punto di vista dell’incidenza dell’occupazione del sistema produttivo culturale e creativo sul totale dell’economia, come anticipato, è sempre Milano la provincia con le migliori performance. Ma subito dopo troviamo Arezzo (9%), Roma (8,8%), Torino (8,5%), Firenze (8%), Modena (7,7%), Bologna (7,6%), Monza-Brianza e Trieste (entrambe al 7,5%), Aosta (7,3%).

Brexit: chi vota cosa, chi pensa cosa

The scene inside the White Horse Inn in Priors Dean, Hampshire, England also known as the 'Pub with no name' which has been made a polling station for the EU referendum Thursday June 23, 2016. Voters in Britain are deciding Thursday whether the country should remain in the European Union. (Andrew Matthews/PA via AP) UNITED KINGDOM OUT - NO SALES - NO ARCHIVE

Oggi i quotidiani britannici titolano in maniera divergente: da “il giorno del giudizio” di The Times a Il giorno dell’indipendenza del tabloid sparato sull’uscita The Sun. Il rivale Daily Express titola invece: “Non fate un salto nel buio”. Qui sotto una rassegna.

 

Immigrazione e spesa: una percezione falsata della realtà

Il pubblico britannico non si è potuto fare un’idea di quel che è in gioco. Segno che i media non hanno fatto un buon lavoro. La percezione dei britannici su alcuni fenomeni è piuttosto diversa dalla realtà delle cose. Un’indagine Ipsos segnala infatti come su immigrazione, costi dell’Europa, pressione degli immigrati sui costi del welfare, i cittadini britannici abbiano un’idea sbagliata. Due esempi: i britannici pensano che la popolazione immigrata che risiede nel Regno Unito sia intorno al 15%, la verità è che gli immigrati sono il 5%. La maggioranza ritiene che la Gran Bretagna sia tra i primi contribuenti all’Unione europea e ritiene – correttamente – che Londra prenda meno di quanto versi a Bruxelles. La verità è che il Regno Unito è il quarto contributor dopo Germania, Francia e Italia. Stessa percezione sbagliata se parliamo del peso degli stranieri sul welfare britannico, così come, nella testa degli elettori, si esagera la percentuale di spesa in burocrazia del budget dell’Unione europea (i britannici ritengono sia il 37%, è il 6%).

United Kingdom Independence Party leader, Nigel Farage, arrives to cast his vote in Biggin Hill, south eastern England, Thursday, June 23, 2016, as voters head to the polls across the UK in a historic referendum. Voters in Britain are deciding Thursday whether the country should remain in the European Union — a referendum that has exposed deep divisions over issues of sovereignty and national identity. (Gareth Fuller/PA via AP) UNITED KINGDOM OUT NO SALES NO ARCHIVE
Nigel Farage ha votato (Gareth Fuller/PA via AP)

Britain's Labour Party leader Jeremy Corbyn smiles as he arrives to cast his vote in the EU referendum at a polling station in Islington, London Thursday June 23, 2016. Voters in Britain are deciding Thursday whether the country should remain in the European Union. (Daniel Leal-Olivas/PA via AP) UNITED KINGDOM OUT - NO SALES - NO ARCHIVE
Anche Jeremy Corbyn

Un rapporto oscillante con l’Europa

Storicamente, la voglia di Europa della Gran Bretagna non è mai stata enorme. La serie storica è fatta di grandi oscillazioni. Nel 1977 il 56% voleva rimanere, nel 1980, un anno dopo l’elezione di Margaret Thatcher, i filo europei erano solo il 29%, 10 anni dopo il 68% voleva rimanere, nel 2000 il 43%.

Chi e quanti andranno a votare?

Questa è la domanda cruciale: più giovani vuol dire più voti per l’Europa, più anziani il contrario. Tradizionalmente le persone più adulte votano di più, ma cosa succederà stavolta? I londinesi sono in gran maggioranza per il No, così come scozzesi e gallesi. Le altre regioni d’Inghilterra tendono a essere favorevoli all’addio all’Unione europea. Le donne sono a favore del Remain in lievissima maggioranza, chi ha studiato anche. Chi segue la politica preferisce rimanere in Europa, chi non la segue granché vuole lasciare. I sostenitori del Labour sono in gran maggioranza a favore dell’idea di far parte di un consesso più ampio di Stati, conservatori e Ukip vogliono uscire.

Se voleste fare una previsione del risultato, ecco un bel quadro interattivo con il quale giocando su chi vota e quanti votano – e utilizzando i dati raccolti da YouGov in questi mesi – si prevede il risultato (il link è nella foto qui sotto)

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Nel 2015 record degli omicidi di militanti ambientalisti. Il rapporto di Global witness

Berta Caceres
epa05278864 Members of the Latin American Network of Women Defendor of Social and Environmental Rights pay tribute to Honduran activist killed Berta Caceres, at a square of San Salvador, El Salvador, 26 April 2016. Demonstrators asked for justice in the case of Caceres, assassinated last 03 March in Honduras. EPA/Oscar Rivera

Lo scorso 25 agosto Raimundo Rodrigues Dos Santos e la moglie Maria, mentre tornavano a casa lungo una strada tranquilla, sono stati attaccati improvvisamente e picchiati brutalmente da due uomini sconosciuti. La moglie è sopravvissuta miracolosamente, ma Raimundo è morto poche ore dopo a causa delle percosse. La sua unica colpa era quella di essere un difensore attivo della riserva indigena di Gurupi, – nello stato di Maranhao, a nord del Brasile – che rischia l’estinzione a causa del disboscamento illegale, pratica criminale ma frequente portata avanti dai latifondisti terrieri in tutta la foresta Amazzonica brasiliana.
E la storia di Raimundo non è l’unica: le violenze contro indigeni e attivisti ambientalisti sono frequenti sia nell’Amazzonia che in tutto il Brasile, tanto che il 2015 ha registrato un record di uccisioni, con ben 50 morti, il doppio rispetto al 2014. E il problema non è solo brasiliano, ma globale.

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Secondo il rapporto dell’Ong Global witness, nel 2015 sono stati avvenuti 185 omicidi di militanti ambientalisti – circa tre a settimana – il 59% in più rispetto al 2014. il dato peggiore dal 2002, anno in cui cominciò il monitoraggio del fenomeno. Le uccisioni denunciate sono avvenute in 16 paesi: il triste primato spetta all’America latina e al Sud Est asiatico, dove in cima alla classifica vi sono Brasile (50) Filippine (33) e Colombia (26), paesi in cui c’è un consistente aumento della domanda di commodities.

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Il caso più famoso è sicuramente quello dell’attivista Berta Caceres, esponente degli indigeni Lenca, che si batteva contro la costruzione della diga di Agua Zarca, in Honduras. La donna, vincitrice del premio Goldman per l’ambiente, fu uccisa in casa mentre dormiva. Inizialmente la polizia sostenne che si trattò di una rapina, ma la verità venne poi a galla. Nessuno è ancora stato arrestato per il suo omicidio. Storie di uomini e donne la cui vita è stata violata perché hanno difeso i diritti delle loro famiglie e comunità.

Manifestazione per l'attivista Monica Caceres
Manifestazione per l’attivista Monica Caceres

Michelle Campos  ha documentato i crimini portati avanti contro la comunità indigena di Lumad, nella regione del Mindanao, ha denunciato, in un giornale di Manila, la brutale uccisione del padre e del nonno, giustiziati da un gruppo paramilitare con contatti nell’esercito. Un terzo uomo è stato rapito e il suo corpo è stato ritrovato dopo pochi giorni nudo e mutilato a causa delle torture. Il nonno di Michelle, Dionel Campos, portava avanti una campagna contro lo sfruttamento, da parte delle compagnie minerarie, delle riserve di carbone, nichel e oro della zona. Tutta l’area del Mindanao è militarizzata e costellata di conflitti tra popoli indigeni e compagnie minerarie e di agro business, che sfruttano le terre ricche di materie prime senza il consenso delle comunità, spesso con il plauso del Governo. Alcune organizzazioni umanitarie hanno documentato gravi abusi, tra cui esecuzioni extragiudiziali, concentrate in aree in cui le aziende cercano il controllo dei terreni e delle risorse.

Gli indigeni, che difendono in prima persona i territori dallo sfruttamento delle multinazionali, sono i più colpiti, quasi il 40% del totale delle persone uccise nel 2015 (67 in totale). Dati che dimostrano come i nativi subiscano sempre di più le violenze, in consistente aumento, da parte delle compagnie minerarie e agro alimentari, desiderose di mettere le mani sulle terre ricche di risorse naturali ancora intatte. Un caso emblematico è quello del Nicaragua, dove l’aumento della domanda di terreni è la causa principale del conflitto tra proprietari e comunità locali, che ha causato la morte di 12 leader indigeni nel 2015.

Altro caso emblematico è la Colombia. Fabio Moreno è stato latitante sin dal 7 aprile 2015, il giorno in cui il suo amico e collega Fernando Salazar Calvo è stato ucciso davanti alla sua casa. Entrambi gli uomini erano attivisti della riserva di Canamomo Lomaprieta, nella Colombia Centrale. Poche settimane prima dell’attentato sono stati minacciati da alcuni uomini di cessare la loro attività. Il loro gruppo indigeno, lo Embera Chami, ha convissuto in un territorio ricco di oro, praticando uno sfruttamento di piccole proporzioni, rispettoso dell’ambiente. Il Governo colombiano ha poi approvato le concessioni minerarie nell’area senza consultare minimamente la comunità locale. Questo ha aperto la strada all’attività dalle società minerarie come AngloGold Ashanti e all’estrazione mineraria illegale da parte di gruppi armati. E persone come Fabio e Fernando sono state costrette, fin da subito, a convivere con minacce e intimidazioni.
Sono stati in totale nove gli attivisti uccisi in Colombia nel 2015. L’attività delle multinazionali sta portando alla degradazione del suolo, dell’ambiente e all’aumento della povertà e della diseguaglianza. Secondo le associazioni per i diritti umani gli autori dei crimini sono perlopiù gruppi di paramilitari che operano in collusione con le elites locali e governative. Nessuno ancora è stato arrestato per l’uccisione di Fernando, e e Fabio è ancora costretto a vivere in latitanza per la mancanza di protezione da parte del Governo colombiano.
«Una delle ragioni dietro all’aumento degli omicidi è l’impunità, le persone sanno che possono farla franca con questi crimini» dice Billy Kyte, attivista di Global Witness, alla Reuters. E il rapporto documenta anche la compiacenza dei Governi agli interessi dei potentati economici: secondo Global witness 16 assassini sono legati a gruppi paramilitari, 13 all’esercito e 11 alla polizia. E i governi più corrotti sono quelli africani, che marginalizzano gli attivisti e la protesta bollando le azioni degli ambientalisti come anti-sviluppo.
Global Witness alla fine del rapporto da alcuni consigli ai governi per affrontare la situazione. Tra questi, aumentare la protezione delle zone e delle persone a rischio, investire risorse nelle indagini e fare di tutto per portare i responsabili di fronte alla giustizia, cercare di trovare una mediazione tra aziende e comunità indigene e supportare le loro ragioni, riconoscere i loro diritti e combattere la corruzione e l’illegalità che affliggono il settore delle risorse naturali. Secondo l’associazione, i numeri delle uccisioni sono ancora più alti se si tiene conto che gli omicidi avvengono in villaggi remoti o nella foresta pluviale, nel più totale silenzio. Dati preoccupanti, che dimostrano come l’ambiente sia il nuovo campo di battaglia per i diritti umani.