“One way only – Senza voltarci indietro” è il titolo della mostra fotografica di Stefano Schirato che sarà ospitata a partire dal 23 giugno a Roma presso la Biblioteca della Camera dei Deputati a Palazzo San Macuto in via del Seminario.
Un percorso in bianco e nero che racconta l’arrivo di migliaia di famiglie di migranti e il loro lento procedere lungo la rotta balcanica. Una marea indefinita di persone che è composta dalle storie, i ricordi, le tragedie e le speranze di ognuno. Sono anziani e giovani, bambini, uomini e donne, in cerca di una via verso il nord Europa. Un’unica via, un’unica direzione, opposta e contraria a quella che ci si lascia alle spalle: la guerra.
Oggi si vota il referendum sulla Brexit. Ma perché in Gran Bretagna si vota di giovedì? Per ragioni pratiche, potremmo dire. Perché il giovedì per un lavoratore britannico è come il 26 del mese per un pensionato italiano: l’ultimo giorno utile per spendere la sua paga. E in Uk è il venerdì il giorno della paga settimanale, perciò i governanti britannici scelsero il giovedì per garantirsi che gli elettori proletari non avessero più soldi per sbronzarsi al pub. E i seggi elettorali sono spesso allestiti per strada, così da trovarsi di strada per la gente che va a lavorare.
Public Bar, Saloon Bar, Private Bar, scritte incise sulle caratteristiche insegne di ferro battuto. I pub, sono nati nel 1400 come osterie che offrivano cibo e alloggio, per volere del re Riccardo II. Solitamente, aprono alle 11 e chiudono prima di mezzanotte e, 20 minuti prima, una campanella o la luce spenta per alcuni secondi, ne segnala la chiusura. «Last orders, please!», «Time, gentlemen!», c’è ancora tempo per l’ultima ordinazione.
Ramsay MacDonald
p.s. l’unica eccezione è avvenuta nel 1931 quando si votò di martedì 27 ottobre. In quell’anno venne interrotta la consueta alternanza laburisti-conservatori e si tenne un governo di unità nazionale guidato da Ramsay MacDonald. Erano tempi di guerra e di crisi economica (quella del 1929) e il Regno Unito aveva optato per le misure di austerity.
«Dovrebbe il Regno Unito continuare a essere un membro dell’Unione europea? ». I cittadini di Sua Maestà britannica, Elisabetta II, si troveranno a decidere se continuare a fare parte dell’istituzione transnazionale meno amata del decennio scegliendo tra le opzioni «Rimanere un membro dell’Unione europea/Lasciare l’Unione europea», il fac-simile della scheda lo vedete qui sopra – l’Union Jack l’abbiamo aggiunto noi.
La risposta che daranno i britannici avrà ripercussioni enormi, sul loro Paese innanzitutto e poi sull’Europa. Circolazione delle persone, commercio, idea di Unione che l’Europa è in grado di immaginare e provare a mettere in pratica.
Hanno diritto a votare 44 milioni e 772mila persone. 37,9 milioni sono inglesi, 2,1 gallesi, 3,9 gallesi, 1,2 nordirlandesi. La nazionalità non è indifferente, visto che gli scozzesi vogliono rimanere a tutti i costi e in caso di vittoria dei sostenitori del Brexit potrebbero decidere di tenere un nuovo referendum per uscire dal Regno. La partecipazione al voto sarà un aspetto cruciale: quanti andranno? Nel 1992, quando vinse Tony Blair per la prima volta, votò il 77,7% degli aventi diritto, nel 2001 il 59,4% e l’anno scorso il 66,1%. Più voti forse significa più fuga dall’Europa.
Gli schieramenti
I principali partiti sono divisi al loro interno. I leader sono per il No, liberaldemocratici, Verdi e nazionalisti dello Scottish National Party compresi; per il Sì le voci più forti sono quelle di Boris Johnson, ex sindaco di Londra e papabile leader conservatore in caso di terremoto, e poi Nigel Farage, il cui Ukip è fondamentalmente una creatura dell’Europa, nel senso che nasce in opposizione ad essa. Tra le voci forti per il No c’è il neo-sindaco di Sadiq Khan, che ha giganteggiato contro Johnson nel dibattito televisivo a due giorni dal voto. Dei 650 membri del parlamento o MPs, 478 (73,5%) sono per rimanere, l’1,4% non si è espresso. La forza del Sì nei sondaggi è un segnale di come la domanda sull’uscita dall’Europa sia forte nella società britannica: comunque vada un quarto degli elettori in più degli eletti voterà per abbandonare l’Ue.
I sondaggi
Il Sì è stato in vantaggio per mesi, ma più si avvicina la data e gli argomenti si fanno seri, e più il fronte del No cresce. Gli ultimi sei sondaggi assegnano la vittoria al No in quattro casi, un pareggio e una vittoria del Sì. Gli indecisi restano il 9-10% e i distacchi minimi, dentro al margine di errore. Dovessimo dare retta ai social network stravincerebbe il No, come mostrano i rilevamenti di Reputation Squad su Twitter e Facebook. Farage stravince, Cameron secondo, terzo Johnson quasi pari con il premier, poco dietro il laburista James Corbyn e Sadiq Khan u passo. Farage è però molto attivo su Twitter e negli ultimi mesi l’unica cosa di cui si è occupato è il referendum. Gli altri leader hanno altro a cui pensare.
L’engagement su Twitter e Facebook rispecchia invece gli orientamenti, con il Sì, che è per forza di cose più motivato che prevale di un soffio.
Di cosa si è parlato in campagna elettorale?
Pro-Brexit
La campagna ha assunto toni nazionalisti fin da subito: gli inglesi sono nazionalisti e gelosi della loro isola e con i tempi che cambiano si sentono invasi. E il 10-12% di loro vota Ukip nonostante il sistema elettorale non dia quasi speranze di eleggere deputati al partito di Farage. Boris Johnson nel dibattito Tv ha detto che in caso di vittoria del Sì, il 23 giugno potrebbe diventare l’Independence day della Gran Bretagna (ironia vuole che l’Independence day americano celebri l’indipendenza proprio dall’impero dove non tramontava mai il sole di Sua Maestà).
L’immigrazione, il controllo delle frontiere per tenere fuori rifugiati e terroristi, la burocrazia di Bruxelles sono gli argomenti forti del Sì. Oltre a quel manto di nostalgia per la cara vecchia Good Old England di pub, città minerarie coperte di smog, paesaggi verdi, ristoranti di fish&chips con le posate e i piatti di plastica come nella miglior tradizione dell’era moderna, in cui tutto quel che era sintetico era buono e Sheperd’s Pie, il pasticcio di carne più popolare. Quel Paese, se mai è esistito, oggi non c’è più.
La polemica più dura c’è stata per il manifesto che vedete qui sotto: l’uso delle masse di rifugiati che camminano nel mezzo della campagna europea da parte dell’Ukip viene considerato da molti volgare e xenofobo. Tanto che la baronetta Sayeeda Warsi, conservatrice per il Brexit, ha cambiato campo a pochi giorni dal voto proprio a causa dei toni usati dai favorevoli a lasciare l’Europa. Farage si è rifiutato di chiedere scusa. Ma a quei toni viene imputata anche la morte di Jo Cox, uccisa da uno squilibrato, certo, che però era animato da risentimento e nazionalismo.
L’idea dei favorevoli a uscire è che da sola, la Gran Bretagna può affrontare meglio la minaccia terroristica, fermare l’immigrazione (“come in Australia”), commerciare meglio e di più con i Paesi extraeuropei, Stati Uniti e Cina in testa «perché non ci vorranno anni per negoziare un trattato commerciale e non dovremo sottostare alle regole assurde imposte da Bruxelles».
I contrari
I contrari all’uscita hanno argomenti razionali, a volte troppo, ma riescono anche a mettere passione. I sindacati del personale sanitario ad esempio spiegano che l’NHS, il sistema sanitario nazionale, rischia di collassare senza l’apporto di medici e infermieri stranieri. Che siano immigrati indiani o polacchi, il discorso non cambia, sempre di stranieri si tratterà. L’idea che senza Europa quella che viene definita un’invasione si arresterebbe è ridicola: in Gran Bretagna vivono milioni di pakistani, indiani, bengalesi, asiatici di altra provenienza, africani che non hanno nulla a che vedere con la presenza del Paese in Europa. Quanto al terrorismo, ha urlato nel dibattito Tv la leader del partito conservatore scozzese: «Se la Cia, il capo dell’Mi6, gli esperti del settore e i militari mi dicono che sono più sicura in Europa io credo a loro». E se parliamo di regole e burocrazia europee? Sono troppe, è vero, ma siccome il Regno Unito esporta il 58% del totale delle merci che vende all’estero proprio in Europa, queste devono essere compatibili con le regole europee.
Jeremy Corbyn, che non è un euroentusiasta, chiede un Sì di testa perché le grandi questioni che ci stanno davanti: immigrazione, cambiamento climatico, Siria, non si affrontano da soli.
Nei mesi scorsi il governo britannico ha posto sul tavolo alcune questioni a Bruxelles: mantenimento del pound, dichiarazione che il Regno Unito non ha intenzione di fare passi aggiuntivi verso più Unione europea, taglio dei benefici del welfare agli immigrati che perdono il lavoro – un modo per scoraggiare l’immigrazione da welfare, che è una frazione di frazione. Qui sotto la pagina di pubblicità su Metro comprata da un cittadino per comunicare al mondo il suo sdegno per la volgarità del dibattito sull’immigrazione. «Gli immigrati aumentano dello 0,5% l’anno, davvero non siamo in grado di gestirli» Per l’Europa sarà comunque un problema: se vincesse il Sì, ci troveremmo quasi certamente di fronte ad altri referendum e a risultati ancora migliori per i partiti euroscettici (a meno che Londra non affondi nei guai di una crisi il giorno dopo). Se vincerà il No, comunque si apre una fase di rinegoziazione molto complicata.
In questi giorni e nei mesi passati contro la Brexit si sono schierati la City, che teme di perdere la propria centralità mondiale nel mondo delle transazioni finanziarie,le società della Premier League, molti artisti e Soros ha messo in guardia sul pericolo di un attacco alla sterlina.Anche la musica è terrorizzata: come il calcio un’industria britannica globale che teme per le tariffe per l’export, i visti di ingresso e uscita per gli artisti in tour (in Gran Bretagna e dalla Gran Bretagna). Figure come Brian Eno, Johnny Marr, Bob Geldof, fondatori di importanti case discografiche indipendenti come Rough Trade o Beggar’s banquet, tutti si sono espressi pubblicamente per il No.
E a proposito di musica, qui in fondo potremmo caricare il classico dei Clash che recita Should I stay or should I go, “Resto o me ne vado”. Postiamo invece Panic degli Smiths, che è quello che prenderà alla City di Londra in caso di vittoria del Sì.
«Siamo l’unica vera ed effettiva novità politica di questo voto». Parla di rivoluzione e di protagonismo politico, Luigi de Magistris, il giorno dopo la sua riconferma a Napoli. Osannato dai napoletani, Giggino esce a pugno chiuso da Palazzo San Giacomo cantando Bella Ciao. Ignorato dai media e contrastato da quelli che definisce i «poteri forti e l’apparato», de Magistris è stato rieletto a Napoli con il 66,85% delle preferenze al ballottaggio, doppiando l’avversario di centrodestra Gianni Lettieri. Con lui vince una sinistra che non si nasconde e non teme d’essere vecchia e anacronistica: parla di zapatismo in salsa partenopea e cita Gramsci e Che Guevara. Ma questa volta, il sindaco, esce dalle mura della sua roccaforte e arriva a Roma con il suo movimento Dema – Democrazia Autonomia, per incontrare Yanis Varoufakis e il suo movimento DiEM25. Poche ore dopo la vittoria, del resto, de Magistris lo aveva annunciato: Napoli deve diventere «un soggetto autonomo, una forza nazionale e internazionale».
Riprendersi le città in alternativa alle grandi coalizioni di governo, che impongono misure di austerità e limiti alla democrazia. La “Napoli in comune” di de Magistris, come la “Barcelona En Comú” di Ada Colau, è una delle città ribelli d’Europa. Tra le due città c’è «un sodalizio fondato dall’allargamento delle pratiche di democrazia, di partecipazione e sui beni comuni», dicono all’unisono i sindaci: «Insieme lavoreremo per un Mediterraneo di pace e diritti, lavoreremo per i nostri popoli contro le sofferenze dettate dall’austerità finanziaria».
L’incontro si tiene, il 23 giugno alle ore 18, in una cornice speciale: il Baobab di Roma, la tendopoli di via Cupa gestita in modo volontario da alcuni cittadini che tempo fa si sono costituiti in associazione (Baobab Experience) e che è stato il rifugio di centinaia di migranti. Sgomberato, adesso il Baobab continua comunque ad accogliere i migranti che transitano da Roma. Tende per strada e trattative con il Campidoglio che adesso ha una nuova guida, quella di Virginia Raggi.
Ci sarà anche Left, per seguire l’incontro e, ovviamente, aggiornarvi.
IMMIGRAZIONE: ROSARNO, MAMMA AFRICA RIAPRE MENSA PER I NERI
In questa immagine d'archivio (13 marzo 2010) immigrati africani durante la raccolta delle arance a Rosarno (RC) due mesi dopo la famosa rivolta degli immigrati, che provoco' scontri tra clandestini e abitanti.
FRANCO CUFARI/ DBA
Il caporalato è la drammatica punta dell’iceberg. E la repressione una risposta necessaria ma non sufficiente. L’analisi della filiera agricola contenuta nel secondo rapporto #FilieraSporca presentato oggi a Roma traccia il quadro di un pezzo importante dell’economia italiana caratterizzato da pesanti sacche di sfruttamento ai danni di braccianti – tra cui anche i migranti in attesa del riconoscimento del diritto d’asilo – e piccoli produttori, anche in virtù della crisi di alcuni comparti come quello agrumicolo e dell’assoluta mancanza di trasparenza lungo tutta la filiera.
Rifugiati sfruttati
La raccolta dei Rifugiati. Trasparenza di filiera e responsabilità sociale delle aziende, si intitola quest’anno il report realizzato da Terra! Onlus, Associazione daSud e Terrelibere.org. Il numero di Left disponibile online da domani e in edicola sabato, dedica un approfondimento al tema, con l’analisi e le proposte di esperti e attivisti, anche alla luce dell’indagine di #FilieraSporca, disponibile sul sito www.filierasporca.org. In provincia di Catania, denunciano le associazioni promotrici del dossier, la raccolta delle arance durante la stagione appena terminata è stata effettuata anche con l’impiego di richiedenti asilo ospitati nel Cara di Mineo. «Non hanno il permesso provvisorio di lavoro – spiegano a Left – eppure abbiamo raccolto testimonianze che confermano che lavorano nei campi per 10 o 20 euro al giorno quando va bene».
Arance in ginocchio
#FilieraSporca ha realizzato anche un approfondimento sulla composizione del prezzo delle arance, che quest’anno – anche a causa delle condizioni meteo che hanno alterato la caratteristica colorazione della varietà Tarocco – ha raggiunto il minimo storico di 7 centesimi al chilo pagati dall’industria dei succhi (quelle fresche finite sui banchi di mercati e supermercati vengono pagate intorno ai 17 centesimi al chilo). «Senza il lavoro di quei migranti, pagato una miseria, forse quelle arance non sarebbero nemmeno state raccolte», spiega Fabio Ciconte, portavoce di Terra! Onlus.
Concorrenza al ribasso
A contribuire alle cifre così irrisorie incassate dai produttori sono anche l’imposizione del prezzo di vendita da parte della Grande distribuzione e l’aumento dell’importazione di agrumi da Paesi come Egitto, Marocco e Spagna, a prezzi molto ridotti. A fronte di ciò, la regione agrumicola italiana per eccellenza, la Sicilia, affronta il mercato «assecondando la concorrenza al ribasso e puntando su prodotti di scarso valore e non su qualità e specialità. Così, a farne le spese sono innanzitutto i lavoratori, su cui si scarica gran parte del peso di questi problemi» prosegue Ciconte. Il rapporto racconta infatti come, alla luce dei diversi fattori, il lavoro dei raccoglitori venga pagato 8 o 9 centesimi al chilo se regolare, scendendo a 4 o 5 quando invece a 4 o 5 e anche meno se irregolare.
IL COSTO DI 1 KG DI ARANCE FRESCHE
Il peso dei big
#FilieraSporca ha anche invitato un questionario sulla trasparenza di filiera a 10 gruppi presenti in Italia: Coop, Conad, Carrefour, Auchan-Sma, Crai, Esselunga, Pam Panorama, Sisa Spa, Despar, Gruppo Vegè e Lidl. Le risposte sono pervenute solo da Coop, Pam Panorama, Auchan-Sma e Esselunga. Conad ha spiegato di «non essere molto interessata a questo tipo di operazioni». La Coop inoltre risulta il distributore di arance e derivati a marchio più trasparente, seguito da Coca Cola, Auchan e Pam. «Questo dimostra che serve una legge sulla trasparenza – commenta Fabio Ciconte -:accanto alla repressione di frodi e illegalità, bisogna introdurre un’etichetta narrante collegata a un elenco pubblico dei fornitori, in modo da conoscere per quante e quali mani è passato il prodotto che consumiamo. Senza le attuali opacità si ridurranno anche le innumerevoli occasioni di sfruttamento che raccontiamo nel nostro rapporto».
«La pratica del colpo di Stato istituzionale sembra essere la nuova strategia delle oligarchie latinoamericane. Dopo Honduras e Paraguay, è la volta del Brasile. I movimenti sociali sono oggetto di un’offensiva politica di grande entità che trascina il Brasile in un una regressione democratica». In difesa di Dilma Rousseff, eletta con 54 milioni di voti, e contro il processo di impeachment un centinaio di intellettuali brasiliani e stranieri hanno sottoscritto l’appello “Contro il colpo di Stato in Brasile”. I tedeschi Jürgen Habermas, Axel Honneth e Rainer Forst, la nordamericana femminista Nancy Fraser e il canadese Charles Taylor, sono solo alcuni del centinaio di intellettuali brasiliani e stranieri che hanno sottoscritto un appello per criticare e condannare il processo di impeachment subito da Dilma, qualificandolo come «golbe bianco» e – aggiungono gli intellettuali – l’opposizione, formata dai partiti di destra, che ha approfittato della crisi economica per scatenare una campagna violenta contro la Presidenta. Il testo, poi, afferma anche che l’obiettivo dell’impeachment è attaccare i diritti sociali garantiti dal governo di Dilma, deregolamentare i processi economici nel Paese e porre un freno alle numerose indagini per corruzione.
Il documento lanciato dalla professoressa di Etica e Filosofia politica Yara Frateschi e dalla docente di Filosofia Miriam Madureira è stato presentato durante la conferenza internazionale di Filosofia e Scienze sociali di Praga, nella Repubblica Ceca. «Non si tratta di un’adesione a un partito, ma di una chiara manifestazione di solidarietà ai brasiliani», ha dichiarato Frateschi al quotidiano online brasiliano Opera Mundi. «Il Brasile negli ultimi anni è stata in grado di avviare un processo di trasformazione sociale nel rispetto delle regole democratiche»
Ecco il testo dell’appello, tradotto in italiano da Left:
Il 31 marzo 1964 un colpo di Stato ha instaurato una dittatura civile-militare in Brasile, inaugurando un buio periodo di 21 anni di sospensione delle garanzie civili e politiche. Oggi, 52 anni dopo, il popolo brasiliano si trova ad affrontare ancora una volta una rottura dell’ordine democratico. Come risultato dell’approvazione da parte del Senato di un processo di impeachment sulla base di irregolarità contabili, Dilma Rousseff, che era stata eletta nel 2014 per un mandato di 4 anni, è stata costretta, il 12 maggio 2016, ad abbandonare il suo posto di presidente la Repubblica. Anche se questa rimozione dovrebbe essere temporanea, della durata massima di 180 giorni, periodo durante il quale i senatori dovrebbero ricostituire e valutare i motivi che hanno portato al processo di impeachment, è improbabile che Dilma riesca a tornare nel suo ufficio.
La temporanea rimozione di Dilma Rousseff è il culmine di un processo caratterizzato dall’arbitrio e dalla polarizzazione nella società brasiliana democratica senza precedenti, percepibile almeno da quando la sua rielezione nel 2014. Attribuendo i recenti scandali di corruzione esclusivamente alle al Partito dei lavoratori (anche se sono stati gli unici ad avere il coraggio di indagare contro se stessi) e manipolando l’opinione pubblica contro i presunti rischi di una scalata della sinistra nel Paese, l’opposizione di destra ha approfittato della crisi economica emersa dopo anni di stabilità e crescita per dare il via a una violenta campagna mediatica. È riuscita ad aggregare contro il Partito dei lavoratori (Pt) di Lula e Dilma le grandi sezioni delle élite aziendali e pezzi della classe media conservatrice, così come i settori autoritari rappresentati nel Congresso e nella magistratura, evidentemente puntando allo smantellamento dei diritti sociali garantiti dal governo di Dilma e alla deregolamentazione dell’economia. Inoltre, una volta al potere, probabilmente eviteranno di affrontare la corruzione in quanto è probabile che vedrebbero coinvolta la propria gente, al contrario di Dilma Rousseff, la cui onestà nell’amministrazione della cosa pubblica non è messa in dubbio, tant’è che le accuse di corruzione non fanno parte del processo di impeachment. L’impeachment è uno strumento giuridico di portata estremamente limitata nel presidenzialismo brasiliano. È regolato dall’art. 85 della Costituzione brasiliana del 1988, e il suo uso è limitato a casi di gravi reati (“crimini di responsabilità”) del Presidente. E le irregolarità contabili nella gestione dei fondi pubblici, di cui Dilma Rousseff è accusata, non sono reati gravi nel senso previsto dalla Costituzione, è evidente che questa accusa non è legittima. Inoltre, l’intero processo era pieno di aspetti discutibili, che contribuiscono per aggiungere ulteriore illegittimità ai suoi risultati. Pertanto, non è esagerato considerare l’attuale processo di impeachment contro Dilma Rousseff un colpo di stato bianco, che produrrà conseguenze durature per la regola di diritto democratico in Brasile. Di fronte a tutto questo, riteniamo necessario affermare il nostro ripudio assoluto della povertà illegittimo del presidente Dilma Rousseff, e il nostro forte sostegno per il mantenimento dello Stato di diritto in Brasile.
French President Francois Hollande (C) walks to greet Sweden Prime Minister Stefen Loefven (not pictured) prior to their meeting at the Elysee Palace in Paris, France, 22 June 2016. EPA/JEREMY LEMPIN
Ancora stamani il titolo di Le Monde non lasciava dubbi: Manifestation interdite, Valls choisit l’epreuve de force. Poche ore e il governo ha dovuto suonare la ritirata. La Cgt e gli altri sindacati, che si oppongono alla riforma del Code du Travail, il Jobs act francese, avranno la loro manifestazione. Un corteo breve, dalla Bastiglia alla Bastiglia, girando intorno al Bacino dell’Arsenale, ma è il principio che conta. La prefettura di Parigi aveva vietato il corteo dopo gli scontri tra giovani e polizia che avevano costellato l’ultimo, grande, defilé sindacale, da la Porte d’Italie a Les Invalides. La speranza di Hollande, di Valls e dei loro strateghi, se di strateghi si può parlare, era di provocare un moto d’ordine nella pubblica opinione che continua a solidarizzare con gli scioperi di sindacati, pure minoritari, e che continua a ritenere che le violenze dei giovani contro la polizia siano, almeno in parte, conseguenza delle violenze della polizia nelle banlieues e contro i giovani. Giocando la carta della drammatizzazione, dell’orgoglio nazionale – sono in corso gli europei di calcio-, dell’ordine. Ma così operando il governo è riuscito a saldare la protesta sociale al grande tema della difesa dei diritti. Era dal tempo della guerra d’Algeria, nei primi anni 60, che un corteo sindacale non veniva proibito nella terra dell’Illuminismo. Gli intellettuali sono insorti, sono insorti molti commentatori famosi. Persino Marine Le Pen stamani ha detto che per lei la Cgt (il sindacato comunista) aveva il diritto di manifestare. Non si regala lo stato di polizia a un governo debole e screditato, che fa la voce grossa per recuperare qualche punto di popolarità.
Un momento del corteo delle famiglie Arcobaleno a Milano, 14 aprile 2016. ANSA/MOURAD BALTI TOUATI
Il via libera della Suprema Corte all’adozione del figlio del partner di una coppia omosessuale non è altro che la stepchild adoption che tanto aveva fatto litigare le forze politiche ai tempi della legge Cirinnà sulle unioni civili. Con la giurisprudenza che arriva dove la politica non aveva osato.
La sentenza della Cassazione, la 12962 della Prima sezione civile, ha respinto infatti il ricorso del procuratore generale e ha confermato la sentenza della Corte d’Appello che a sua volta aveva confermato la sentenza “storica” del 29 agosto 2014, emessa dal Tribunale per i minorenni di Roma.
«Sono contenta che la sentenza del Tribunale per i minorenni di Roma sia stata confermata nella sua interpretazione dell’articolo “casi particolari”. Ma soprattutto sono contenta per tutti i bambini che potranno trarre vantaggio da questa sentenza, perché non riguarda solo i bambini di cui mi sono occupata io ma quei tanti che vivono questa situazione». È Melita Cavallo che a Left esprime la sua soddisfazione per quella sentenza basata – come ha sempre sottolineato – sulla legislazione vigente, in questo caso l’art.44 lettera “d” della legge 184 del 1983. Presidente del Tribunale per i minorenni di Roma fino a dicembre 2015, il giudice Cavallo ha trattato una quindicina di casi, sempre a Roma. Quello oggetto della Suprema Corte nell’agosto 2014 fece sollevare personaggi del centrodestra come Carlo Giovanardi che parlò di un atto «che scardina i principi della Costituzione». Riguarda l’adozione di una bambina figlia di una donna che convive con la compagna da prima che nascesse. L’adozione, spiega la Cassazione «prescinde da un preesistente stato di abbandono del minore e può essere ammessa sempre che alla luce di una rigorosa indagine di fatto svolta dal giudice, realizzi effettivamente il preminente interesse del minore». La Cassazione precisa anche che la stepchild adoption «non determina in astratto un conflitto di interesse tra il genitore biologico e il minore adottato, ma richiede che l’eventuale conflitto sia accertato in concreto dal giudice».
Adesso questa sentenza farà, come si dice, giurisprudenza nei Tribunali. Intanto, le sentenze nelle aule di giustizia continuano a esprimersi sulle adozioni in coppie omosessuali. A Napoli il 5 maggio 2016 la Corte d’appello ha detto sì all’adozione di due bambini figli di due donne che si erano sposate in Francia, mentre a Torino il 27 maggio sempre la Corte d’appello ha stabilito l’adozione per i figli di due coppie lesbiche. Oggi, dopo la notizia della sentenza, mentre il sottosegretario allo Sviluppo economico Ivan Scalfarotto twitta «#stepchildadoption. #Buonenotizie», Maurizio Sacconi, presidente della commissione Lavoro del Senato evoca il referendum per fermare «la deriva antropologica».
Massimo D'Alema durante il seminario dei deputati della Sinistra Italiana su "La guerra globale e la pace come politica" alla Sala Capranichetta in piazza Montecitorio. Roma 11 marzo 2016. ANSA/ANGELO CARCONI
«Serve una figura che si occupi del Pd a tempo pieno». Questa è la frase principale dell’intervista rilasciata da Massimo D’Alema al Corriere della Sera. Quello è il centro, al netto della promessa di votare “no” al referendum costituzionale di ottobre. È la frase che interessa la minoranza dem, che vorrebbe proprio convincere Renzi ad abbandonare l’idea della figura unica del segretario-premier, idea veltroniana che caratterizza il Pd sin dalle origini. Renzi però non è tipo disponibile e i suoi (Latorre per primo) dicono che proprio non si può snaturare il partito. Sereni dice che «non è certo quella la soluzione».
E la minoranza dem, infatti, non ci crede: «Solo un congresso può modificare lo Statuto», riconosce Gotor. E solo Davide Zoggia si ostina a chiedere le dimissioni – da segretario – del premier. Gli altri sono più miti, quasi fermi, e puntano più su un rimpasto nella segreteria. Per fare che? «Faremmo come i vecchi democristiani» avvisa Enrico Rossi, che ancora una volta è su una posizione a metà. Critico con Renzi ma ben lontano dalla minoranza. «Lo facevano i democristiani quando si accorgevano di essere un po’ in crisi al governo». Ed è però esattamente quello che sta succedendo a Renzi. Su cui pesa oggi pure il giudizio di Prodi, che si è scoperto attento al tema della «redistribuzione del reddito»: «Al momento si sente la mancanza di risposte che affrontino il problema delle paure», dice. Spera dunque la minoranza, ma non azzarda né si aspetta troppo. «Renzi da noi non vuole farsi aiutare», è il commento a microfoni spenti. Ma forse, pensando al congresso, è meglio così.
Tracce Spieghi il candidato il significato della parola sinistra con particolare riferimento alle risse continue all'interno del Pd.
Un vocabolario di italiano in una classe durante le prove scritte della maturita' nell'Istituto Tecnico Commerciale di Pontedera, Pisa, 20 giugno 2012.
ANSA/STRINGER
Ma come è “buono” il Ministero dell’Istruzione. La prima prova di Italiano all’esame di Stato, anno scolastico 2015-2016 il primo dell’era della Buona scuola, se vede gli insegnanti delusi, quando non disperati, dalla legge 107, almeno fa felici gli studenti. L’analisi di un testo di Umberto Eco, il rapporto padre-figlio, il valore del paesaggio, il voto alle donne e il superamento del Pil, l’avventura dello spazio con la figura-mito di Samantha Cristoforetti. Ecco le tracce scelte dal ministro Giannini con i suoi esperti. Temi alquanto controcorrente, verrebbe da dire, di sinistra. Addirittura in certi casi il Miur propone riflessioni in aperto contrasto, per esempio, con la politica economica del momento. Come nel caso dell’ambito socio-economico.
Il titolo è “Crescita, sviluppo e progresso sociale. È il Pil la misura di tutto?”. Le tracce sono una “spiegazione” su cosa sia il Pil tratta dal’Enciclopedia dei ragazzi della Treccani, e uno stralcio ampio di un discorso del 1968 del senatore Robert Kennedy, in cui già si parlava di un Pil che misura tutto ma «non una vita degna di essere vissuta». La ricchezza produce anche inquinamento, minaccia per la salute, disuguaglianza, vale la pena? È chiaro come questo discorso cozzi contro la caccia all’aumento del Pil dello 0,00… che caratterizza spesso il dibattito politico ed economico del Paese. Ricordate le battaglie sui report statistici?
Anche il tema di ambito storico-politico, “Il valore del paesaggio” contrasta, se vogliamo, con certe politiche del governo come quelle dello Sblocca Italia. Politiche apertamente contrastate da un professore come Salvatore Settis che alla Costituzione e alla difesa dell’articolo 9 (citato nelle tracce Miur) ha dedicato saggi e battaglie personali. Ebbene, tra i brani citati ce n’è proprio uno del normalista “Perché gli italiani sono diventati nemici dell’arte” da Il Giornale dell’arte del 2012. Se al primo posto c’è la difesa e la tutela del paesaggio, però le altre tracce scivolano un po’ sui benefici che possono arrivare dal punto di vista dello sviluppo culturale, economico e culturale (da testi di Andrea Carandini e di Vittorio Sgarbi). Che ci sia una guida occulta per spingere a ragionamenti più “morbidi” rispetto a quelli dei paladini dell’articolo 9? Gli altri temi offrono tante sponde. Come quello di ambito artistico letterario “Il rapporto padre-figlio nelle arti e nella letteratura”. Chi è che non ha un rapporto conflittuale con il proprio padre? Qui si citano una poesia di Umberto Saba, un dipinto di De Chirico e poi un passo di Kafka dalla celebre Lettera al padre, in cui lo scrittore ceco racconta una ingiusta e dolorosa punizione. L’altro padre terribile è quello di Federigo Tozzi, il Domenico da Con gli occhi chiusi. Se il Miur vuole sapere come va il rapporto generazionale, il piatto è servito. Oppure quello di ambito storico “Il voto alle donne”, con brani tratti da Alba de Cespedes e Anna Banti. In questo caso, gli studenti, attenti agli anniversari, forse hanno avuto modo di leggere o informarsi su un argomento molto noto anche in rete. Diciamo che anche questa traccia era prevedibile, così come l’analisi del testo di Umberto Eco. Già nei siti scolastici circolavano riassunti o letture che ipotizzavano un tema dedicato all’autore de Il nome della rosa.
Infine le tracce più “leggere”, quella di ambito tecnico scientifico “L’uomo e l’avventura dello spazio” con la storia di Samantha Cristoforetti e un brano tratto da Umberto Guidoni, Viaggiando oltre il cielo. E quello di carattere generale, anche questo facile, se solo uno si è tenuto informato sulle vicende dei migranti e dei muri d’Europa: «Il candidato deve riflettere sul concetto di confine, muri, reticolati, frontiere, la costruzione e l’attraversamento di confini».
Come vediamo, un Miur benevolo e tracce che ben si prestavano alla tipologia B – articoli di giornale o saggi brevi (la tipologia introdotta dal ministro Tullio De Mauro) – che è rimasto tale e quale anche con la Buona scuola. Anche se, come si legge oggi su Repubblica, si prefigura un cambiamento dell’esame di maturità, come suggerisce Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli. «Prove comuni a tutti e una correzione unificata a livello centrale». In questa maniera datori di lavoro e atenei «avranno gli elementi per capire le reali competenze e potenzialità dei candidati indipendentemente dalla commissione e dal luogo dove sono stati esaminati». Peccato che «l’uniformità» non riguardi l’insegnamento e la aree del Paese. Ma questa è un’altra storia.