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Francia, dopo gli scontri la stretta. Il governo alla Cgt: «Stop alle manifestazioni»

Labour union employees hold flags and banners as they take part in a demonstration for the defence of employment and industry in Paris October 9, 2012. The CGT, France's biggest trade union, has called for a national day of protest against job cuts and plant closures. REUTERS/Christian Hartmann (FRANCE - Tags: POLITICS BUSINESS EMPLOYMENT)

Sono accuse molto pesanti quelle lanciate dal primo ministro Manuel Valls al sindacato francese Ctg, all’indomani della manifestazione. Il primo ministro punta il dito contro la Ctg accusandola di essere responsabile per le violenze avvenute durante la manifestazione nazionale del 14 giugno, a Parigi, contro la Loi Travail. Dopo aver ribadito che il governo non modificherà il progetto di riforma del lavoro – intervistato su France Inter – Valls ha definito «ambiguo» l’atteggiamento del servizio d’ordine sindacale nei confronti dei casseur. Ieri c’erano «molti più ultrà» e teppisti del solito, ha continuato Valls, circa 700-800.

Francois Hollande (R), France's Socialist Party (PS) candidate for the 2012 French presidential election and his Campaign communications director, Manuel Valls, attend a meeting with executives of innovative companies for a campaign visit, on February 22, 2012, at the Genopole, France’s leading science and business park dedicated to genomics, genetics and biotech, in Evry, suburb of Paris. AFP PHOTO / PATRICK KOVARIK
Il primo ministro francese, Manuel Valls, e il presidente François Hollande

«Minacciare di proibire le manifestazioni è il segno di un governo alle strette». È dura anche la replica della Cgt: «Manuel Valls farebbe molto meglio ad ascoltare la maggioranza dei lavoratori, dei giovani e più in generale dei cittadini che respingono questo progetto di dumping sociale e di distruzione del nostro modello di società», risponde il sindacato con un comunicato firmato il 15 giugno da Montpellier. Poi, la Cgt ribadisce la condanna alle bande di casseur e conclude: «Il primo ministro non può ignorare che spetta alle autorità pubbliche, sotto la loro responsabilità, di assicurare la sicurezza e il mantenimento dell’ordine. Come non è dei tifosi la responsabilità di garantire la sicurezza dentro e fuori gli stadi degli Europei di calcio, allo stesso modo non è responsabilità dei manifestanti assicurare la sicurezza dentro e fuori una manifestazione autorizzata dalla Prefettura».

 

Ma il presidente François Hollande lo ha già annunciato, sempre ieri, al termine dl Consiglio dei ministri francese: «In un momento in cui la Francia ospita gli Europei di calcio, ed è sotto minaccia del terrorismo, non si potrà più ottenere l’autorizzazione a manifestare se le condizioni di protezione dei beni e delle persone e dei beni pubblici non saranno garantite». Quali sono queste condizioni? Si discuteranno tra «organizzatori, autorità e rappresentanti dello Stato», ha precisato il portavoce di Hollande, Stephane Le Foll. Per gli scontri di martedì 14 – conferma l’Eliseo – sono state fermate 58 persone e i feriti sono 40: 29 agenti e 11 manifestanti.

Dopo le stragi di Pargi di novembre 2015 e il relativo stato di emergenza, sul piano della sicurezza la Francia ha già intrapreso una serie di misure che hanno esteso i poteri della polizia e introdotto la “irresponsabilità penale” delle forze dell’ordine in caso di morti o feriti, al di là della legittima difesa. «La sicurezza è la prima delle libertà», disse Manuel Valls all’indomani degli attentati del 13 novembre. Ma oggi il dato è che la stretta continua.

I furbetti del cartellino. In Parlamento

Tanto per capirsi. Un elenco:

  • i renziani. Tutti. Tutti quelli che sono in posti di potere solo perché servetti del renzismo. Che saranno poi i primi a mangiargli la carcassa. Furbetti perché senza il vizio della servitù non riuscirebbero nemmeno a farsi eleggere in una riunione di condominio.
  • NCD. Il nuovo centrodestra che si è inventato una sigla per ripulirsi ma che poi sono gli stessi che ci hanno ripetuto per anni che il processo a Dell’Utri è una persecuzione della magistratura. Berlusconiani senza rinnegare Berlusconi perché sono troppo ricattabili. Abusivi.
  • Formigoni: in un Paese normale un Presidente di Regione finito com’è finito lui sarebbe costretto a vita privata. Oggi è in maggioranza. Con Renzi. Evviva. Furbetti colorati.
  • Cicchitto: si lascia andare in una lunga intervista su l’Unità (mio dio, l’Unità) per dirci che a Roma bisogna votare Giachetti. Cicchitto. E intanto Giachetti ci insegna di essere il nuovo.
  • Tutti quelli che ci dicono che il M5S sono una massa di potenziali delinquenti. E intanto si fanno sostenere alla Camera e al Senato da delinquenti acclarati. Pensa te.
  • Maria Elena Boschi. Che ha mezza famiglia impastata nella banca più scandalosa degli ultimi anni. A questo punto ci facevamo Fiorani ministro. Si faceva prima.
  • Beppe Sala (sì, lo so, non è in Parlamento ma è un prototipo che non possiamo tralasciare) Ha promesso di non volere fare politica. E si è candidato. Ha promesso di mostrare i conti di Expo e hanno dovuto strappargli la borsa per vederli. Ha promesso che i conti fossero in attivo e poi ci ha sgridato perché non sappiamo leggere i bilanci. Si è dimenticato di avere una casa, come l’insaputismo dei bei tempi.
  • Giachetti. Che si sforza di dirci che la Raggi la vota la feccia di Roma. Che come spesso succede dice che il PD romano è cambiato anche se ci sono sempre gli stessi. Perché professano il cambiamento e l’autopreservazione. Al solito.
  • Poletti: l’uomo di sinistra diventato ministro che festeggia per avere ottenuto dalle banche un prestito a cui appaltare il welfare. Viene voglia di rimpiangere la Fornero.
  • Renzi. Non in quanto Matteo Renzi ma come l’esoso al governo. Se vince è merito suo ma se perde il suo partito è una merda. Anche da presidente del consiglio riesce ad essere minoranza del partito di cui è segretario. Solo che ormai cominciano a crederci in pochi. E comunque sempre meno.

Israele taglia l’acqua a migliaia di famiglie palestinesi

epa05258702 A member of the al-Hamadeh family fills water from a well outside a cave they use as their home on the outskirts of the West Bank village of Mufagra, in Yatta, 80 kilometers south of Hebron, 14 April 2016. Residents claim that they have received a orders from the Israeli army banning them from building houses or roads in the area. According to the family's elders they have been living in this area already for 200 to 300 years and their living depends on their cattle. EPA/ABED AL HASHLAMOUN

La società idrica nazionale israeliana, la Mekorot, ha tagliato le forniture d’acqua a vaste aree della Cisgiordania, un’area a ovest di Israele facente parte dei Territori palestinesi. Decine di migliaia di famiglie palestinesi sono così rimaste senza accesso a fonti di acqua potabile nel delicato periodo del Ramadam, il mese sacro del calendario islamico, in cui la temperatura media della regione si aggira intorno ai 35 gradi centigradi.

A riportare la notizia è Ayman Rabi, direttore esecutivo dell’Ong Palestinian hydrology group, che si occupa di monitorare lo status della sicurezza idrica e di salvaguardare l’accesso dell’acqua nell’area in proporzioni adeguate e qualità accettabili. Rabi ha riferito ad Al Jazeera che in alcuni territori la popolazione non riceve acqua da oltre 40 giorni.

«In mancanza degli approvvigionamenti, le persone acquistano l’acqua a un prezzo maggiore dalle autobotti o dalle cisterne, oppure ricorrono ad altre fonti come le sorgenti presenti sul territorio» sostiene l’esperto, «e le famiglie sono costrette a vivere con pochi litri di acqua pro capite al giorno». E conclude: «In alcune zone si è addirittura cominciato a razionare l’acqua».

palestina

In particolare Mekorot avrebbe penalizzato la città di Jenin, l’area vicino Nablus, la città di Salafit e i villaggi circostanti. Secondo alcune fonti, gli approvvigionamenti diretti a Jenin sono stati dimezzati. La città ha oltre 40mila abitanti, e dal 1953 è la sede di un campo profughi internazionale in cui attualmente vivono più di 16mila rifugiati.

Al jazeera ha chiesto chiarimenti a Mekorot, ma la compagnia si è rifiutata di rilasciare dichiarazioni. Il governo Israeliano ha smentito quanto sostenuto dall’Ong.
Dall’occupazione del 1967, Israele limita l’accesso dell’acqua nei Territori palestinesi: da anni le provviste di acqua della West Bank e della striscia di Gaza non arrivano a coprire i 100 litri di acqua pro capite raccomandati dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Secondo Amnesty International, Israele utilizza circa l’80% dell’acqua proveniente dalla falda montana, l’unica fonte di acqua potabile che rimane ai palestinesi, incanalando questa risorsa verso i territori occupati dai coloni e verso lo stesso territorio di Israele. Si è inoltre appropriato della quota palestinese del fiume Giordano, con cui ha anche risorse idriche non in comune con i Territori palestinesi. Sempre secondo Amnesty, circa 180-200mila palestinesi che vivono nei villaggi della Cisgiordania non hanno accesso all’acqua corrente, ed i razionamenti sono frequenti, sopratutto durante i mesi estivi.

Il governo francese vuole mettere a tacere la protesta. Ma giovani e sindacati dopo ieri sono più forti

June 14, 2016 - Paris, France - In Paris, the capital of France, hundred thousands demonstrated against the new labor reforms the socialist party of Francois Holland. The demonstration escalated into massive riots and the police used teargas, sound bombs and rubber bullets to disperse the crowd. (Credit Image: © Willi Effenberger/Pacific Press via ZUMA Wire)

Un corteo lunghissimo da Nation a Invalides: quella di ieri a Parigi è stata la più grande manifestazione contro il jobs act dall’inizio della mobilitazione. Eppure il governo giurava che Cgt, Force Ouvriere, Solidaires, i sindacati organizzatori, erano ormai a corto di fiato. Che il fuoco si sarebbe spento con l’arrivo dell’estate, con l’arrivo degli esami a scuola e nelle università, con la distrazione degli Europei. Oggi Manuell Valls, il primo ministro, ha parlato dell’attentato a Magnanville: «La guerra contro il terrorismo – ha detto – durerà una generazione. Altri innocenti perderanno la vita».

La polizia francese conosceva dal 2011 Larossi Abballa, il terrorista filo-Daesh che è entrato nella casa del vicecommissario Jean-Baptiste Salvint e ha ucciso a coltellate lui e la moglie Jessica Schneider, anche lei poliziotta, sotto gli occhi del loro bambino. «Non accetto che si parli di errori nella prevenzione – dice Valls -. Abbiamo un nemico interno che può agire con pochissimi mezzi». Vero, ma vero anche che contro questo genere di nemico l’unica prevenzione efficace è il consenso politico e la collaborazione popolare. Ha il governo Valls questo consenso? Evidentemente no. La popolarità del presidente Hollande è in caduta libera. Il Parlamento, prendendo tempo, ha costretto il governo a ritirare la legge sulla decheance de nationalité, provvedimento demagogico che inseguiva Marine Le Pen sul suo terreno e si proponeva di togliere ai francesi di origine magrebina passaporto e diritti qualora fossero coinvolti, a qualunque titolo, in un’indagine sul terrorismo islamico.

Subito dopo il governo ha imposto 39-3, una specie di super fiducia che evita ogni confronto parlamentare, il nuovo code du travail, che concede agli imprenditori il diritto di licenziare per motivi economici, di pagare meno gli straordinari (che in Francia scattano dopo le 35 ore lavorate per settimana), di spostare la contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale. Ora è previsto un incontro venerdì con il segretario della Cgt, ma in un clima tesissimo. Valls ha accusato i sindacati di non aver cacciato dal corteo i casseur, i giovani che hanno tirato pietre e bottiglie di birra sulla polizia che, da parte sua, li innaffiava con i cannoni ad acqua. Più tardi, in altra zona di Parigi, tra Republique e Belleville, un corteo di giovani a viso coperto ha provocato scontri e devastato l’arredo urbano.

Il governo ora vorrebbe vietare le manifestazioni sindacali. Cgt risponde: «Il nostro servizio d’ordine ha garantito la sicurezza del corteo, tocca al governo garantire la sicurezza pubblica, senza attaccare diritto sciopero e di manifestazione».
Gli scontri tra giovani e polizia sono sempre più frequenti e duri. Camionette lanciate contro i cortei, pestaggi di studenti, una grenade de decencerclement che ha ferito un giornalista e dall’altra parte tiro di pietre contro i flic e slogan anti police che ricordano quelli degli anni 70 e in particolare del 77 italiano.

La lotta ai Jobs act secondo Landini

Maurizio Landini, alla manifestazione nazionale della FIOM. Roma, 18 maggio 2013. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

«La tendenza a ridurre il confronto tra parti sociali al solo confronto aziendale non è solo italiana ma europea», dice a Left il segretario Fiom Maurizio Landini, che è ancora a Palermo quando lo raggiungiamo al telefono. Nel capoluogo siciliano, oggi, (insieme a Calabria e Sicilia) si è chiusa la mobilitazione unitaria delle tute blu – indetta da Fiom, Fim e Uilm – in difesa del contratto nazionale (ve lo raccontiamo sul sito di Left, dove trovate anche l’intervista integrale a Landini). È stato il terzo e ultimo appuntamento di sciopero e mobilitazione per i metalmeccanici italiani, con cortei in Calabria, Sicilia e Sardegna e un’adesione agli scioperi superiore all’80%. «Adesso, il messaggio che mandiamo a Federmeccanica è: dovete decidere cosa fare, perché mantenere questa rigidità vuol dire assumersi la responsabilità non solo di non fare il contratto ma di aprire una fase di conflitto nelle fabbriche e nel Paese», avverte il leader della Fiom Cgil.
Cosa chiedono i metalmeccanici?
Fiom, Fim e Uilm chiedono a Federmeccanica di cambiare posizione e rendersi disponibile ad aprire una trattativa vera in cui il contratto nazionale torni e rimanga uno strumento di autorità salariale per tutti i metalmeccanici. E su queste posizioni c’è un consenso vero.
Sappiamo bene che il vostro è il contratto nazionale più grande del Paese e che voi rappresentate la categoria più forte. Ha anche un valore simbolico quindi?
Sì, naturalmente, ha un valore importante perché riguarda il pezzo del settore industriale più importante del nostro Paese. In più ha ancora un significato perché Confindustria ha ormai esplicitato di condividere le posizioni di Federmeccanica. È chiaro che in questa fase il tentativo delle imprese è quello di mettere in discussione il ruolo del contratto nazionale in generale. Ed è evidente anche che se la loro linea passasse da noi sarebbe un via libera per il resto del Paese. D’altra parte, però, non vorrei che si scaricasse sui metalmeccanici quella che è una discussione più generale che riguarda il sistema dei modelli contrattuali di cui devono discutere Cgil, Cisl, Uil e Confindustria. Detto questo, il messaggio che noi mandiamo dopo questa giornata che conclude una settimana di mobilitazioni è: Federmeccanica deve decidere cosa fare, perché mantenere questa rigidità vuol dire assumersi la responsabilità non solo di non fare il contratto ma di aprire una fase di conflitto nelle fabbriche e nel Paese.
Il Jobs act s’abbatte su tutta Europa, anche in Francia. Lì, però, i sindacati riempiono le piazze…
Queste riforme sono pericolose, perciò è importante che non solo in Italia ma anche fuori ci si batta per mantenere i contratti nazionali e le leggi che tutelano tutte le forme di lavoro. Dall’altra parte, pur con le debite distanze… ma in Francia siamo ancora in una fase aperta, l’iter parlamentare non è ancora concluso e io mi auguro che a luglio queste lotte abbiano la possibilità di spostare le posizioni del governo francese.
E qui in Italia, che si fa?
Se dobbiamo proprio fare un confronto, mi permetto di dire che anche qui in Italia abbiamo fatto gli scioperi contro il Jobs act, come Cgil e come Uil. E il governo se n’è fregato. Vorrei far notare che la Cgil sta raccogliendo le firme – che a luglio depositeremo – affinché nella prossima primavera, attraverso lo strumento democratico e costituzionale del referendum, si possano cancellare le leggi sbagliate. Abbiamo da fare una battaglia per cambiare le leggi sbagliate del governo, perciò abbiamo valutato di utilizzare anche altri strumenti, e non solo la mobilitazione che abbiamo comunque fatto. Quando sei di fronte a leggi sbagliate il problema è come fare a cambiarle e non accettare che quella partita sia chiusa.

Cosa pensa Sadiq Khan del Brexit? «Non chiudiamo le porte alla prossima generazione»

(Dominic Lipinski PA via AP)

Sadiq Khan il neo eletto sindaco di Londra ha le idee chiare sul Brexit e sul voto che il 23 giugno deciderà le sorti della Gran Bretagna in Europa.
«È la più importante decisione che il nostro Paese si appresta a prendere nell’arco di una generazione. Il referendum sull’Unione europea infatti genererà conseguenze a lungo termine e la posta in gioco non potrebbe essere più alta» scrive Khan in un op-ed pubblicato dal settimanale Newsweek. «La campagna per lasciare l’Ue – continua il sindaco laburista – ha cercato di far dimenticare le questioni economiche connesse. Ma non appena ci si allontana un attimo dalle leggende e dalla retorica, la loro evidenza è innegabile. Dalle analisi del ministero del tesoro inglese, della Bank of England, della Confederazione per l’industria britannica, del Fondo monetario internazionale o anche dell’ Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica è chiaro che continuare a fare parte dell’Ue sarebbe una scelta migliore per la nostra economia, per le imprese – grandi e piccole – e per le esportazioni. Circa la metà di ogni cosa che vendiamo al di fuori dei nostri confini nazionali, la vendiamo in Europa. Nella sola Londra, le esportazioni verso i Paesi membri ammontano a 12 miliardi di sterline e qui hanno la loro sede europea circa il 60 per cento delle multinazionali non europee. Per la città di Londra quindi avere (facile) accesso ai mercati della comunità europea è fondamentale, e per ogni sterlina che mettiamo nell’Unione, ce ne ritornano 10 in termini di incremento del commercio, investimenti, abbassamento dei prezzi e posti di lavoro». Per Khan però, in vista del voto del 23, è anche cruciale spiegare ai cittadini britannici che i vantaggi e i benefici che derivano dal rimanere all’interno dell’ Ue non solo resteranno tali, ma andranno anche ad ampiarsi.
«Per esempio, è solo grazie al nostro essere membri dell’Unione – ricorda il sindaco londinese – che esiste la tutela per i diritti dei lavoratori (maternità e disoccupazione pagate, trattamento corretto dei lavoratori part-time, assicurazioni per la forza lavoro nel momento in cui c’è un cambio di proprietà all’interno di un’azienda). E questi diritti non possono e non dovrebbero smettere di essere garantiti. È sempre grazie ai fondi europei che riusciamo ad avere centinaia di milioni di sterline qui a Londra per sostenere programmi di assunzione e apprendistati per aiutare le fasce più svantaggiate della società. Ed è il nostro essere membri dell’Ue che ci offre delle possibilità cruciali per affrontare le grandi sfide alla quali ci stiamo affacciando: dal cambiamento climatico alla crisi dei rifugiati fino all’evasione fiscale e al terrorismo. Queste sfide si risolvono solo lavorando insieme, dobbiamo farcene una ragione, non voltando le spalle ai nostri partner europei. Ma soprattutto, è solo restando in Europa che possiamo essere fedeli ai valori britannici e alla nostra storia. È una questione fondamentale per definire chi siamo, qual è il nostro carattere e come ci percepiamo». Per Kahn la ricchezza economica, sociale e democratica della Gran Bretagna passa necessariamente per l’Europa e, considerando tutto questo, bisogna terenere in considerazione l’impatto che questo voto può avere sulle vite e sul futuro delle giovani generazioni che vogliono vedere un’Inghilterra capace di giocare un ruolo importante a livello internazionale, ma soprattutto vivere in un Paese in grado di offrire loro opportunità e prospettive. Per vivere, ma anche potenzialmente per disegnare un mondo conforme agli ideali di apertura e libertà con cui sono cresciuti. Quindi «facciamo sì che l’eredità di certe nostre scelte non finisca per chiudere le porte alla prossima generazione» ha concluso Khan, promettendo di impegnarsi in questi ultimi giorni prima del voto a parlare a quante più persone, e ragazzi possibile.

Se D’Alema smentisce non importa. Ormai si fa così

D’Alema vota Raggi, dice Repubblica. Ma l’interessato smentisce. Eppure il pezzo di De Marchis era pieno di virgolettati, e titolato in prima pagina come fosse un’intervista. Così: “La sfida di D’Alema: «Pur di cacciare Renzi sono pronto a votare anche Raggi»”. Poi abbiamo scoperto che questa cosa non l’ha detta D’Alema al giornalista, neanche magari offrecord, in una confidenza poi pubblicata. È quanto fantomatici amici di D’Alema avrebbero invece detto al giornalista, che però riporta dunque una voce. E servirebbe più prudenza, si può notare, anche perché di amici di D’Alema, o ex amici, è pieno palazzo Chigi. A cominciare da Rondolino, Velardi o Matteo Orfini. Vatti a fidare.

Di polemiche come questa però, per questi ballottaggi ne abbiamo avute varie. Perché il Pd si è inventato questa strategia dell’anti endorsment. Se tutti i “mostri” votano Raggi, allora Raggi (e con lei Appendino) è un mostro. La Lega vota Raggi (e Appendino a Milano), Casa Pound vota Raggi. Non importa che Simone Di Stefano, il candidato dei fascisti del Terzo Millennio, abbia smentito: «Siete pazzi» ha scritto, «Pd e M5s sono pro immigrazione. Io non voto». Tutto fa brodo.

Siccome anche Alemanno ha detto di preferire Raggi la notizia era troppo ghiotta, utile a far passare l’idea che chi vota 5 stelle è un fascioleghista. Dunque voi di sinistra non potete votarli, capito? Voi di sinistra, a cui guardano in queste ore tutti i candidati dem. Merola che firma il referendum contro l’abolizione dell’art.18, Sala che parla solo di sociale e per due minuti dimentica l’Expo. Tanto nell’epoca della politica-rissa vale tutto. Anzi tutto vale pochissimo. Non servono più neanche gli slogan, bastano le battute, le frecciate ripetute sempre uguali durante i confronti tv, mai così abbondanti, e mai così uguali. Giachetti che parla in romanesco, Raggi che gli ricorda il sostengo di Verdini e Cicchitto (il cui endorsement è incredibilmente sbandierato da l’Unità). Come se fosse una cosa bella.

Anticipo pensionistico, quel prestito ai lavoratori che fa un favore alle banche

Un momento della manifestazione dei pensionati a Piazza del Popolo per protestare contro il governo Renzi a Roma, 19 maggio 2016. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

La legge Fornero non si tocca per ora, ma i lavoratori che vorranno andare anticipatamente in pensione dal prossimo anno potranno ricorrere a un prestito. Sì, le casse dello Stato non possono permettersi di finanziare la flessibilità in uscita, che costerebbe circa 10 miliardi di euro, e allora il governo, nel corso dell’incontro di ieri con i sindacati, ha confermato l’intenzione di utilizzare strumenti finanziari.

Si chiama “anticipo pensionistico”, in sigla Ape, e consentirà di lasciare volontariamente il lavoro fino a tre anni prima dell’età utile per la pensione di vecchiaia (66,7 anni) usufruendo di un prestito da restituire nei vent’anni successivi ma che non è legato all’attivazione di garanzie reali e non si estende agli eredi in caso di “premorienza” del pensionato. La rata da restituire può arrivare fino al 15% dell’assegno mensile e i lavoratori con redditi più bassi dovrebbero usufruire di forme di sgravio.

La proposta, che per i primi tre anni dovrebbe partire in via sperimentale, avrebbe dunque il vantaggio di esonerare dalla restituzione del prestito i lavoratori più in difficoltà e di obbligare alla restituzione soltanto quelli con pensioni più elevate, con un sostanziale effetto retributivo la cui portata sarà da verificare quando si capirà che cosa si intende per detrazione fiscale per «i soggetti più deboli e meritevoli di tutela».

«Lo strumento – ha spiegato il suo ideatore, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini – è molto flessibile. La detrazione fiscale potrà essere modificata per categorie diverse». Chi ha perso il lavoro sosterrà costi più ridotti rispetto a chi invece decide volontariamente di lasciare il lavoro prima del raggiungimento dell’età prevista dalla legge Fornero per la pensione di vecchiaia.

L’idea di Nannicini apre però la strada all’ingresso degli istituti finanziari nel nostro sistema previdenziale (si interfacceranno direttamente con l’Inpps) e se incassa un tiepido consenso dei sindacati, legato soprattutto alla disponibilità del governo a confrontarsi nel merito della legge Fornero, non piace affatto ai deputati di Possibile, con in testa Pippo Civati, che parlano di «una proposta indecente» che comporta «un’uscita a pedaggio», dal momento che costerebbe ai lavoratori «una mensilità per ogni anno di anticipo del pensionamento».

I deputati civatiani citano uno studio della Uil secondo il quale un lavoratore in uscita anticipata che percepisce 1.000 euro mensili di pensione ne perderebbe 898 l’anno. E aggiungono: «Banche, assicurazioni e istituti finanziari (i veri azionisti del governo Renzi) gestiranno un bell’affarone, con tassi di interesse remunerativi e zero rischi».

Qual è il vero volto del potere? A Roma la retrospettiva del fotografo Olivier Roller

«Chi non ha mai assaporato il profumo inebriante del potere non può immaginare l’improvvisa scarica di adrenalina che irradia il corpo da capo a piedi, che scatena l’armonia dei gesti, che cancella ogni fatica e ogni realtà contraria al vostro piacere, l’estasi della sfrenata potenza di chi ormai non deve più lottare, ma soltanto godere di ciò che ha conquistato, gustandosi all’infinito l’ebbrezza di incutere timore».

Lo racconta così il potere la scrittrice francese Muriel Barbery, come qualcosa che segna il corpo, il volto e lo sguardo. E Olivier Roller con i suoi ritratti a modelle, imperatori della Roma antica, attrici e re riesce a catturare perfettamente quel movimento, travolgente e irrefrenabile, che chiamiamo “potere” e che attraversa chi, da semplice essere umano, è asceso all’Olimpo degli dei di ieri e di oggi.

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Un lavoro, quello del fotografo francese, che dal 16 giugno al 17 luglio è esposto a Roma, al Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps con “Immagine di Potere”, la prima retrospettiva in Italia di Olivier Roller, a cura di Guillaume Maitre e Paulo Pérez Mouriz e presentata nell’ambito de “La Francia in scena”, la stagione artistica dell’Institut français realizzata su iniziativa dell’Ambasciata di Francia in Italia, con il sostegno della Fondazione Nuovi Mecenati. 18 opere del fotografo francese attraverso le quali assaporare un sentimento tanto effimero quanto eterno come il potere.

Olivier Roller, Sconosciuto I (Musée du Louvre - Paris), 2010, chromogenic print, 140x92,5cm, Ed. di 8 + 2 PA

Due i filoni principali che possono essere tracciati durante la mostra: da un lato i ritratti, spesso non convenzionali, dei potenti del mondo di oggi, protagonisti della politica, dei media e della finanza internazionale; dall’altro, la ricerca sulla scultura classica che si traduce in una serie di primi piani di statue romane. Proprio questi lavori di Roller sono nati quando il Louvre di Parigi commissionò al fotografo vari scatti a pezzi della collezione del museo. Il risultato convinse poi altri fra i più importanti musei al mondo, uno fra tutti il British Museum, a fare lo stesso con le proprie collezioni di arte antica.

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Olivier Roller, Divinità Femminile (Musei Capitolini, Centrale Montemartini), 2012, chromogenic print, 140x92,5cm, Ed. di 8 +2 P.A.

L’effetto è strabiliante, i volti immortalati di Roller fluttuano in una dimensione temporale che allo stesso tempo sembra connotarli come immersi nella storia, perché hanno fatto la storia, ma assolutamente estranei al tempo storico. In una parola: eterni, perché parte di una ciclicità che si ripete all’infinito. Ed è soprattutto la luce il segno attraverso il quale l’artista francese riesce ad evidenziare e far esplodere tutte le sfumature del potere umano nelle sue radicali contraddizioni: maestosità e capacità di sedurre che convivono con evanescenza e caducità.

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Immagine di Potere esalta i tratti distintivi della poetica di Roller: il suo realismo estremo, radicalità dello sguardo, la sua spinta di resistenza. In un’epoca segnata dall’egemonia culturale del “selfie”, infatti, rimettere al centro dell’attenzione il concetto di ritratto è decisamente questo: un atto di resistenza culturale, sovversivo quanto coraggioso.

l'empereur Lucius Verus - co-empereur de Marc Aurle de 161 ˆ 169ap jc Markouna, prs de Lambse, AlgŽrie entre 161-169ap JC - marbre frre par adoption de Marc aurle missions Renier 1851 et HŽron de Ville Fosse 1874 n¡dentrŽe NMB780 n¡ usuel MA1095