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Quelli che elogiano la Francia e subappaltano le pensioni alle banche

epa05127412 France's worker union CGT leader Philippe Martinez (4-L) and FO union secretary general Jean-Claude Mailly (1-L) lead a demonstration of union workers against austerity measures affecting working conditions, salaries and pension plans, in Paris, France, 26 january 2016. Labor unions called for anti-austerity measure protests against the French government economic policies. EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON

Cari lavoratori francesi che siete in piazza contro quella vergognosa proposta di legge che legalizza la turboprecarizzazione dei lavoratori (e che qui da noi è già legge di Stato), scusateci. Proprio non riusciamo ad essere all’altezza di uno scontro sociale che qui sembra essersi addormentato nell’indifferenza generale tra la gente e con la compiacenza di un sindacato che s’è imborghesito anche nelle lotte, oltre che nelle tasche.

Scusateci, cari colleghi francesi, se da noi ha attecchito una normalizzazione lenta e dolorosa che ha smussato gli intellettuali, sfinito i lavoratori, asfaltato la sinistra e si è arenata alla condivisione di link da social network. Scusateci se il nostro grado massimo di partecipazione si riduce all’esultare di fronte ad una foto in digitale davanti allo schermo o al darsi di gomito per i “compagni” francesi.

Scusateci se ascoltate qualche dirigente italiano dire ce sì, che siete bravi, che noi avremmo dovuto fare di più e fare meglio, che dovremmo sostenervi e poi ieri li avete visti uscire dal “tavolo con il governo” (quel tavolo dove il governo tiene sempre il banco) mentre con moderata soddisfazione dicono che forse la legge Fornero si può aggirare con l’aiuto delle banche. Con un mutuo da portarsi nella tomba per fare tutti felici e contenti.

Cari lavoratori francesi, scusateci. Ci proviamo anche, noi, ad alzare la voce. Ma ci sono anche gli Europei. È la congiuntura che ci porta sfortuna.

Francia, gli scontri e il governo Hollande

“I giorni di fuoco della Francia”, Repubblica. “Nella morsa della violenza”, La Stampa. Nei titoli, come negli articoli dei giornali in edicola, si tengono insieme più fatti: un terrorista islamico che ha ammazzato una coppia di poliziotti sotto gli occhi del loro figlio, scontri molto aspri a Parigi tra giovani anti sistema e polizia, una grande manifestazione sindacale contro il jobs act e persino le violenze dei tifosi durante gli europei del calcio. Provo a mettere le cose in ordine, naturalmente secondo il criterio che è il mio.

Un recente sondaggio dice che solo 16 francesi su 100 apprezzano Hollande e il suo governo. Sorpreso dagli attentati del 13 novembre, che venivano dopo quelli a Charlie Hebdo e a l’ipercacher, Hollande ha provato a rubare il mestiere alla Le Pen presentando una legge su la déchéance de nationalité (in pratica, i francesi con genitori magrebini, e dunque con doppia nazionalità, se sospettati di avere qualcosa da spartire con l’islamismo, si sarebbero visti togliere passaporto e diritti di cittadinanza in Francia). Il Parlamento si è diviso, Hollande ha dovuto far marcia indietro.

Lo stesso governo, subito dopo, ha imposto con il 39-3 (una super fiducia che evita ogni confronto parlamentare sulla legge) una riforma del code du travail subito ribattezzata Jobs act francese. Gli imprenditori ottengono il diritto di licenziare per motivi economici, di pagare meno gli straordinari (che qui scattano dopo le 35 ore settimanali) e di spostare la contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale. Un sindacato, la Cfdt (che somiglia alla nostra Cisl) ha approvato, altri, la Cgt (Cgil) e Force Ouvriere, hanno indetto scioperi e manifestazioni che proseguono da oltre un mese. Forte è stata la mobilitazione degli studenti, mentre a Parigi è nato un movimento di giovani, di precari (les intermittents) dello spettacolo, di intellettuali che si è chiamato Nuit debout e che dal 31 marzo occupa, con iniziative politiche e musica, la centrale Place de la Repubblique, luogo simbolo anche perché teatro degli attentati terroristici del 13 novembre.

La polizia è stata molto dura con i giovani: a St Malo, ove decine di genitori hanno denunciato violenze selvagge contro i figli liceali, a Rennes, a Nantes, con le camionette che si sono lanciate, a rischio di investirli, sui manifestanti, a Parigi, dove un funzionario ha lanciato una grenade de decencerclement (bomba a mano che libera proiettili di caucciù e può uccidere). Nei cortei da tempo si leggono cartelli e si sentono slogan che invitano alla violenza contro i flic, che spesso non sono una “risposta” alle violenze de la police ma riecheggiano gli slogan degli anni 70, in particolare del 77 italiano. Il governo ha fatto orecchie da mercante, sperando che l’arrivo dell’estate, delle vacances scolaires e degli europei di calcio sgonfiassero la protesta e calmassero gli animi. Intanto la polizia sottovalutava la minaccia degli hooligans, i quali hanno potuto devastare Marsiglia, seconda città ella Francia. Nè ha potuto – la polizia- impedire a un terrorista kamikaze e solitario di celebrare il Ramadan con il massacro di due poliziotti, moglie e marito, che abitavano vicino casa sua.

Ieri la manifestazione contro il jobs act era molto grande. I sindacati, esagerando, hanno parlato di un milione di persone, ma un corteo così, da Nation fino a Invalides, non lo ricordo da tempo. Il servizio d’ordine della Cgt non ha fatto niente per isolare i giovani anti police, anzi ha lasciato che aprissero il corteo. Segno che considera un certo grado di violenza reazione inevitabile alle “provocazioni” del governo Valls. In serata, poi, un corteo di 300 arrabbiati, ha manifestato e provocato scontri in un’altra zona di Parigi, da République a Belleville. Ricordo che l’anno prossimo, nel 2017, si vota per le presidenziali. La candidata dell’estrema destra, Marine Le Pen, è sicura di arrivare al ballottaggio, la destra Repubblicana non sa ancora se il suo candidato sarà Nicolas Sarkozy, o Alain Juppé (il primo è il padrone del partito, il secondo è dato vincente, a mani basse, contro qualunque avversario), la sconfitta dei socialisti è dunque annunciata. Una parte dei deputati ha provato a presentare una mozione di sfiducia contro il governo Valls, Montebourg potrebbe candidarsi in alternativa a Hollande, Martine Aubry, ex segretario socialista e figlia di Jacques Delors, si oppone con forza al jobs act.

C’è già un candidato a sinistra del Ps, Jean-Luc Mélenchon, accreditato del 12% contro il 14% di François Hollande. A me pare che la dirigenza francese social-liberista, o della Terza Via, si candidi al suicidio. In Spagna, dove domenica 26 giugno sono previste nuove elezioni a se mesi dalle precedenti che nessuno aveva vinto, Pablo Iglesias ha “prevalso”, secondo El Pais, nel confronto con gli altri tre leader, il premier di destra Rajoy, il capo di Ciudadanos, Rivera (destra rinnovata e movimentista) e il segretario del Psoe, Sánchez. Unidos-Podemos propone un governo di sinistra e, per ottenerlo, Iglesias evita di attaccare i socialisti. Succede intorno a noi.

Clinton e Sanders trattano.
Orlando mette nei guai Trump

Sanders e Clinton si parlano, dopo mesi di confronto è una notizia. Arriva dopo la vittoria della ex senatrice di New York nelle ultime primarie della stagione, quelle della capitale federale Washington DC. E proprio in città, a due passi dalla Casa Bianca, i due hanno avuto un incontro di 90 minuti al termine del quale non hanno detto nulla ai cronisti.
Poche ore prima, il senatore del Vermont che ha sorpreso l’America con i milioni di voti presi attorno a una candidatura indipendente e molto a sinistra della tradizione democratica degli ultimi decenni, aveva ribadito la sua volontà di andare alle convention per portare una ventata di novità. Durante una conferenza stampa aveva detto: «Porteremo tra i 1.900 e i 2.000 delegati a Philadelphia, e lasciate che vi dica quello che vogliono. Vogliono vedere il partito democratico trasformato. Vogliono vederlo confrontarsi con i ricchi e potenti, e lottare per le persone che stanno male». La campagna del senatore del Vermont ha annunciato un videomessaggio sul futuro della battaglia politica intrapresa per giovedì: come si va avanti e si cambiano i democratici? Questo weekend a Chicago circa 2500 persone si vedranno per organizzare il dopo primarie 2016 della sinistra democratica.
Le campagne dei due candidati alle primarie hanno fatto sapere che alcuni dei temi cruciali per Sanders sono stati toccati durante l’incontro con Clinton, la quale è già in assetto da battaglia contro Trump. Salario minimo a 15 dollari, sanità su un modello europeo tra i temi che Sanders chiede di mettere all’ordine del giorno. Possibile che su alcune questioni, dalla riforma dell’immigrazione, su quella della polizia e della giustizia, al salario minimo si trovino intese. Non sulla sanità. Il tema spinoso, sono probabilmente le banche e la finanza. È quello che aleggia negli Usa da Occupy Wall Street in poi, è quello che ha portato molti americani a votare Sanders. Cosa avrà da dire Clinton? Saprà rompere con l’ortodossia che spinse il marito presidente ad abolire il Glass-Steagal Act, la legge che separava le banche d’affari da quelle commerciali e che è alla base della bolla finanziaria che ha portato alla crisi del 2007? Questo è un tema interessante e da osservare con attenzione. Se come e quanto Clinton saprà rispodere su questo è il vero grande tema attorno al quale capiremo se la gente che ha seguito Sanders non solo voterà Clinton, ma si darà da fare per eleggerla presidente.

Lo scontro Obama-Trump, i mal di pancia repubblicani

A dare una mano a Hillary ci hanno pensato in queste ore sia Obama che Trump. Il secondo con la sua serie di sciocchezze in fila dette dopo la strage di Orlando. Dopo essersi complimentato con se stesso per aver espresso posizioni anti-islamiche, aver criticato il presidente e aver accennato che lo stesso «o non capisce o capisce meglio di tutti», il candidato repubblicano si è visto sparare addosso da diverse figure di primo piano del partito che punta a rappresentare. Lo speaker della Camera Ryan ha preso le distante per la seconda volta dalle frasi inappropriate sui musulmani d’America. Almeno sei senatori, quelli che si occupano di questioni di intelligence e politica estera hanno detto che Trump sbaglia: fa allontanare per sempre i musulmani dal partito (sono l’1% della popolazione, destinata ad aumentare) e contribuisce alla propaganda e al reclutamento. Insomma un disastro: molti hanno paura di non essere rieletti e prendono le distanze da TheDonald.
Sul tema abbiamo visto anche un Obama furioso: con un discorso su Isis e Orlando, il presidente ha parlato di Trump senza nominarlo (nel video qui sotto dal minuto 12.30): «Mi dicono che non uso la definizione Islam radicale e che questo sia grave. Ora qualcuno mi spieghi che policy è questa, cosa cambierebe di preciso! Sconfiggeremmo l’Isis se usassi quella formula? È una strategia militare che porterebbe più alleati contro il terrorismo? Niente affatto…questo è posizionamento politico». Obama, che appariva furioso con Trump, ha ricordato di come e quando, dopo l’11 settembre, l’aver scelto la strada dell’estremismo (torture, Patriot Act) abbia reso l’America peggiore.


Perché Obama non usa la formula Islam radicale ma radicalismo islamico?
Semplice: non vuole che si confonda una parte con il tutto. Non è l’Islam a essere radicale, ma una parte dei musulmani e visto che l’odio anti-Islamico, l’islamofobia sono parte integrante della propaganda dell’Isis (ci odiano, dobbiamo combatterli), dare strumenti di propaganda al nemico, è considerato un errore.


Il discorso di Obama è un chiaro segnale di come e quanto il presidente possa fare contro il repubblicano: questa settimana era prevista la prima apparizione pubblica assieme a Clinton, cancellata dopo Orlando. Ma il tono è segnato: Obama picchierà su Trump con forza e, visto che è un oratore niente male, con efficacia. I risultati si cominciano a vedere: in due sondaggi consecutivi il vantaggio di Clinton aumenta, l’ultimo sondaggio Bloomberg parla di 12 punti percentuali. E l’inchiesta è stata fatta prima di Orlando.

Brian Eno ne fa di tutti i colori

 Ha sperimentato a tutto raggio nel mondo dell’arte il mago della musica Brian Eno. E non pensiamo solo al suo essere stato l’iniziatore del glam rock con David Bowie, anticipatore della new wave con i Roxy Music, della dance elettronica e della  ambient-musice molto altro  Questa volta  ne ha fatte di tutti i colori letteralmente realizzando un’opera di video arte per Mantova capitale della cultura.

In questi giorni  Eno sta ultimando la messa a punto dell’installazione visiva 77 Million Paintings for Palazzo Te, un’opera spettacolare che, attraverso la proiezione di una combinazione di immagini in continua evoluzione, crea una di “pittura di luce” sulla facciata rinascimentale del museo. Con quest’opera, che sarà inaugurata ufficialmente il 25 giugno, il polistrumentista e compositore inglese insegue il sogno dell’opera totale, caro a Kandinsky, mettendo insieme linguaggi artistici diversi, cercando un effetto di sinestesia e di grande impatto emotivo.
1 - frame 77 Million di Brian Eno per Palazzo TeIl progetto è stato concepito dall’artista inglese come un’opera di “musica visuale”, grazie all’uso di un software generativo di immagini. Alla base di 77 Million Paintings c’è la ricerca sulla luce come mezzo artistico  che Brian Eno  sviluppa da dieci anni a questa parte e dalla volontà di  le nuove possibilità estetiche offerte dalla tecnologia.

 - frame 77 Million di Brian Eno per Palazzo Te

Tutto cominciò nel 2006 con opere di videoarte per piatti televisivi e monitor  oscurati e inutilizzati e poi ha preso la strada di  grandi installazioni nei musei e negli spazi pubblici di tutto il mondo.

3 - frame 77 Million di Brian Eno per Palazzo Te “Mi piacerebbe che queste opere aiutassero a lasciar andare il mondo di cui dobbiamo far parte ogni giorno, per arrenderci ad un altro tipo di mondo pieno di immaginazione”  racconta  il compositore inglese.
4 - frame 77 Million di Brian Eno per Palazzo TeDopo la presentazione dell’opera a Sidney e Rio de Janeiro,  a Mantova, 77 Million Paintings è allestito nel Giardino dell’Esedra di Palazzo Te ( aperto in notturna fino alle 24)  e a Mantova si arricchisce di inediti confronti fra arte contempoanea e  arte rinascimentale.
In contemporanea, le Fruttiere di Palazzo Te accolgono l’installazione sonora The Ship, dall’ultimo album di Brian Eno: una sonorizzazione estesa che esplora il rapporto tra composizione musicale e ambiente.

I media non ne parlano, ma le tute blu scioperano anche in Italia

Mentre le colonne dei giornali nostrani raccontano la rivolta dei sindacati in Francia narrando le violenze e non le ragioni, nessuna o pochissime righe sullo sciopero dei sindacati in Italia. Eppure il 15 giugno è la terza giornata di sciopero dei metalmeccanici, questa volta in Sicilia, Calabria e Sardegna. Alle prime due giornate – del 9 in Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Veneto, Abruzzo e Molise e del 10 in Umbria, Liguria, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Lazio, Campania, Puglia e Basilicata – le adesioni hanno raggiunto anche il 100%, con una media tra l’85 e il 90 per cento delle tute blu.

In migliaia hanno scioperato e manifestato in queste settimane per sostenere la vertenza con Federmeccanica-Assistal sul rinnovo del Contratto nazionale dei metalmeccanici, ovvero il contratto nazionale più grande d’Italia che riguarda 1,6 milioni di famiglie. I leader di Fim, Fiom e Uilm – Marco Bentivogli, Maurizio Landini e Rocco Palombella – denunciano il blackout di informazione sulla questione a cui, in verità, Left ha dedicato una storia di copertina sul n. 4 di gennaio 2016. Da allora, i negoziati tra sindacati e Finmeccanica – iniziati a novembre 2015 sono all’impasse. Al centro del contendere, ricordiamo, il salario. Con Federmeccanica che chiede di superare la forma del contratto nazionale di lavoro e propone una concezione nuova e diversa delle relazioni industriali. In sintesi: che il contratto resti solo per fissare il minimo salariale sindacale e per concertare alcuni strumenti di garanzia formativa e assistenziale; e che tutto il resto si contratti azienda per azienda, tenendo conto dei margini, se ci sono, di concessioni salariali e stringendo la cinghia per evitare che l’azienda soffra.

Davanti al “rinnovamento” proposto da Federmeccanica, Cgil, Cisl e Uil hanno portato al tavolo delle trattative un documento unitario, consapevoli che non si possa andare avanti con le mansioni ferme al 1973. Ma non sono disponibili a cedere sul Contratto. Numerosi incontri dopo, l’obiettivo dei sindacati resta quello di mantenere la struttura del contratto nazionale (che tutela l’85 per cento dei lavoratori), di stabilire regole più chiare e avere la garanzia di poter partecipare alle scelte aziendali.

Oggi, con Maurizio Landini a Palermo e si chiude il ciclo di scioperi proclamati unitariamente il 24 maggio. Per la cronaca, alle due giornate di sciopero unitario del 9 e 10 giugno proclamate da Fiom, Fim e Uilm si è registrata un’adesione altissima: il 100 per cento a Pomigliano e Caselle, il 95per cento a Nola, il 90 a Torino, fino al 75 di Venezia e Venegono (tutti stabilimenti del settore aeronautico), al 70 di Firenze e Genova (settore elettronica per la difesa) e al 90 per cento di Anagni (settore elicotteri). A Brindisi, per esempio, nel settore elicotteri, si è registrato il 91 per cento delle adesioni tra gli operai e il 55 tra gli impiegati.

«Queste piazze dimostrano che Federmeccanica deve cambiare posizione», tuona il segretario Fiom. Basteranno?

Decine di migliaia a Parigi contro la Loi Travail
La polizia usa la mano dura

A woman argues with riot police officers during a demonstration in Paris Tuesday, June 14, 2016. Protesters in Paris threw projectiles at police officers, who responded with tear gas, amid demonstrations by tens of thousands of people opposed to a proposed labor law. (AP Photo/Francois Mori)

Decine di migliaia a Parigi, in un corteo attraversato da sconti provocati dai black bloc e alta tensione, ma anche allegria ed entusiasmo a causa di una partecipazione sopra le aspettative. Altre migliaia a Marsiglia, Rennes, Tolosa e Lione. La Francia continua a rispondere ai richiami, per la prima volta unitari, della Cgt, di Force Ouvrieres e di Solidaires: la legge di riforma del lavoro non piace ai lavoratori organizzati e sindacalizzati (servizi pubblici, raccolta rifiuti, ma anche portuali, come quelli di Le Havre ritratti nella foto qui sotto). I sindacati hanno parlato di un milione di persone, probabilmente erano di meno, ma certo il presidente Hollande e il premier Valls sono in grande difficoltà.

Scontri duri a Parigi, dove alcuni manifestanti hanno ironizzato sulla ritrovata durezza della polizia contro i cortei dopo che tre giorni fa a Marsiglia, il CRS (la celere francese) era scomparsa mentre hooligans inglesi e russi mettevano a ferro e fuoco la città.

Il corteo aperto proprio dai portuali è partecipato e tendenzialmente tranquillo, e sono gruppi esterni, sia a Nuit Debout, che ai sindacati, che vanno e vengono e provocano scontri. La polizia sembra aver reagito con durezza, si conta qualche ferito. Intanto la legge è finalmente approdata alla discussione dell’Assemblea nazionale. Qui sotto il video della partenza della manifestazione, più sotto le foto degli scontri e non solo.

Riot police officers take position during a demonstration in Paris, Tuesday, June 14, 2016. Street protests are planned across France, rail workers and taxi drivers are going on strike and the Eiffel Tower is due to be closed as part of a protest against a reform aimed at loosening the country's labor rules. (AP Photo/Francois Mori)
(AP Photo/Francois Mori)

Riot police officers take position during a demonstration in Paris Tuesday, June 14, 2016. Protesters in Paris threw projectiles at police officers, who responded with tear gas, amid demonstrations by tens of thousands of people opposed to a proposed labor law. (AP Photo/Francois Mori)
(AP Photo/Francois Mori)

Youth throws objects while clashing with police forces during a demonstration in Paris Tuesday, June 14, 2016. Protesters in Paris threw projectiles at police officers, who responded with tear gas, amid demonstrations by tens of thousands of people opposed to a proposed labor law. (AP Photo/Francois Mori)
(AP Photo/Francois Mori)

(AP Photo/Francois Mori)

(AP Photo/Claude Paris)

(AP Photo/Francois Mori)

(AP Photo/Thibault Camus)

Trump chiude i comizi al Washington Post, scegliendo l’avversario sbagliato

Donald Trump proprio non sembra in grado di gestire una campagna elettorale per le presidenziali. Dopo il discorso improbabile e le dichiarazioni a vanvera sui musulmani pericolosi che «arrivano a centinaia e sono potenzialmente più pericolosi del maniaco di Orlando», TheDonald ha deciso di tenere lontani dai suoi comizi i reporter del Washington Post. La ragione l’ha spiegata su Facebook: «Non amo Obama, ma il titolo del Post “Trump suggerisce che Obama sia coinvolto nella sparatoria di Orlando” dimostra quanto quel giornale sia falso».

Non è la prima volta che accade: già Politico.com, Huffington Post, il Des Moines Register dell’Iowa erano stati banditi. Trump, insomma, siccome il giornale diretto da Marty Baron ha deciso di forzare un po’ un titolo sul suo sito, sceglie di imporre una censura preventiva sul giornale politico più influente d’America, uno dei quattro quotidiani più importanti e forse il migliore in quanto a copertura delle campagne elettorali. Cosa farà quando, se eletto presidente, verrà incalzato in conferenza stampa?

Ma veniamo alla sostanza: davvero il titolo del Post era forzato e falso? In parte, ma era un modo di smascherare una modalità di comunicazione del candidato repubblicano. Parlando a Fox News, la Tv all news conservatrice che nutre gli istinti bassi del pubblico americano, Trump ha detto: «Siamo guidati da un uomo che o non è duro abbastanza, o non è intelligente, o ha qualcos’altro in mente…La gente non può credere che il presidente Obama stia agendo nel modo in cui agisce, senza nemmeno menzionare le parole terrorismo islamico radicale». Parlando ancora a Fox News, Trump ha detto: Obama non capisce oppure capisce le cose meglio degli altri, in entrambi i casi è inconcepibile». Capisce le cose meglio degli altri è un’allusione, lo hanno scritto in molti (persino noi su Left), e il Washington Post, facendo quel titolo, prende alla lettera quello che Trump dice tra le righe, per far capire a chi all’idea dell’Obama complice dell’islam radicale crede, ma senza timore di essere smentito per dire qualcosa di simile apertamente.

Il caso, come i precedenti, ci parla di un candidato disabituato a giocare al gioco della politica grande. Le primarie repubblicane sono state difficile da vincere, ma non hanno nulla a che vedere con le elezioni vere. C’è un pezzo di America che si entusiasma alle battute, alle allusioni sessuali, alle allusioni e alle frasi muscolari. Ma non è la maggioranza. Ce lo dice anche un sondaggio di ieri che mostra come, dal giorno in cui ha raggiunto la maggioranza dei delegati democratici, Hillary Clinton abbia guadagnato 5 punti percentuali. Il balzo in avanti avviene prima della strage di Orlando. I prossimi giorni e la risposta dei due candidati ci dirà come ha reagito il pubblico americano. Certo è che Clinton ha dalla sua anche il fatto di essere avvertita – dai suoi critici – come un falco in politica estera. In questo caso e di fronte alle sparate di Trump, avere qualcuno che di questioni internazionali se ne intende e sa di che parla, può essere un vantaggio.

Ma torniamo alla censura: la risposta di Martin Baron, il direttore del Washington Post è stata affidata anche a un tweet: «La decisione di Trump non è altro che il rifiuto del ruolo libero e indipendente che la stampa deve svolgere».

 


C’è un aspetto importante e da non sottovalutare sul ruolo che il Post svolge e riguarda proprio il suo direttore, considerato spesso uno dei migliori in circolazione in epoca contemporanea. Un esempio del lavoro di Baron lo conoscono quasi tutti, se ne è parlato molto nell’anno in corso perché Baron, con la faccia di Liev Schreiber, è uno dei protagonisti di Spotlight, il film sull’inchiesta del Boston Globe sulla pedofilia nella diocesi della città del Massachusetts. Lo scorso anno il giornale diretto ha pubblicato due storie Pulitzer che sono proprio figlie del coraggio di Baron: la rivelazione da parte di Edward Snowden del programma di sorveglianza dell’Nsa, la National Security Agency, in un articolo di Barton Gellman nel 2013, articolo proposto anche ad altre testate e giudicato da altri direttori troppo pericoloso da pubblicare e, di tutt’altra forma, il lavoro di raccolta dati e rappresentazione grafica dei morti afroamericani ammazzati dalla polizia negli ultimi anni con tutti i nomi e tutte le storie. Ora, il Post avrebbe indagato e scavato nella vita e nella politica di Trump comunque. Negli Usa i giornali fanno questo e competono per le notizie. Lo faranno anche con Clinton. Certo è che decidere di dare del falso cialtrone a un direttore coraggioso è un errore. Anche tattico.

Da Napoli al Benin, la resistenza delle madri. Ecco “Mothers” di Fabio Lovino

Da Napoli ai villaggi contadini del Benin e del Nepal. Dal Borgo Vecchio di Palermo alle abitazioni fatiscenti degli indios del Ceara nella zona dei Sem Terra in Brasile. Italia, Benin, Cambogia, Nepal e Brasile. Ovunque parlano i volti delle donne. «Qual è il colore della violenza?», chiede loro Fabio Lovino, regista di Mothers che oggi viene presentato in anteprima al Taormina FilmFest: «È nero», rispondono a qualsiasi latitudine si trovino. Un filo percorre il film, girato in un anno di viaggio attraverso i luoghi dove opera WeWorld, la Ong che lo ha prodotto insieme a Reggatta Production e allo stesso Lovino.

Il quale racconta come si sia preparato a questa avventura «con gli occhi di un bambino che per la prima volta vede una cosa nuova». Perché “quel” viaggio era impegnativo, un tuffo nella vita negata di centinaia e centinaia di donne e dei loro figli. Ma è stata anche un’immersione nella straordinaria resistenza e volontà di lottare per migliorare la propria vita, e soprattutto quella dei loro bambini. Queste donne spesso nei Paesi come quelli asiatici o in Brasile sono coloro che mandano avanti la casa, e al tempo stesso sono vittime di violenza da parte dei mariti.

_D0B9991∏fabiolovinoRacconta lo stesso Lovino che «in villaggi per mesi isolati dalle piogge, alle donne ci sono voluti anni per superare questo isolamento, per poter capire e successivamente riuscire a denunciare cosa subivano, per superare quella abitudine, quella normalità culturale, per far approvare la leggi sulla violenza».

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Maria de Pena, Erbenia, Summina, sono i nomi di alcune di loro che hanno reagito e denunciato, anche grazie agli operatori della Ong che attraverso il microcredito e l’insegnamento cerca di operare un vero e proprio empowerment.

Mamma con figlio, Villaggio Lotin
Mamma con figlio, Villaggio Lotin

Lovino, fotografo noto per i suoi lavori nel mondo del cinema, della musica e nelle arti in generale, rivela cosa abbia rappresentato questo viaggio – le cui foto rimarranno in mostra al Palazzo dei Congressi di Taormina dal 14 al 18 giugno -: «un anno intenso, doloroso, gioioso, faticoso, fondendo pensieri e culture diverse per uno straordinario confronto con persone distanti ma così vicine a noi».

Berlusconi ha un cuore nuovo. Ma Forza Italia ancora no

Berlusconi ha un cuore nuovo. Ma Forza Italia ancora no. Questa è la sintesi della giornata politica nel centrodestra. L’operazione del leader è infatti andata bene, durata quattro ore, passate «a cuore aperto», come specificato dai medici. La lieta notizia l’ha data il fido Gianni Letta. «Supererà anche questa», ha detto poi Fedele Confalonieri, pensando alle 48 ore di terapia intensiva che attendono Berlusconi, che solo poi potrà tornare nella suite riservata del San Raffaele.

E così però, per ingannare l’attesa, non sarà più «di cattivo gusto» – come ha detto nei giorni scorsi Nunzia De Girolamo – osservare le manovre con cui il centrodestra si prepara alla vita post operatoria, senza Berlusconi, vivo ma sugli spalti. Il problema principale da affrontare è la consapevolezza che potrebbe aver ragione Gianfranco Rotondi quando dice: «Qualcuno faccia notare agli aspiranti successori che Forza Italia, senza Silvio, vale quanto il fu Ccd di Casini». La verità, anzi, è che i dati delle amministrative dicono che anche con Berlusconi il consenso è poco più ampio. E che Mara Carfagna e Stefano Parisi – i due nomi per ora più gettonati – non andranno lontano senza passare per una nuova sigla che metta tutti insieme. E spinga sull’ottica tripolare, centrodestra, Pd, 5 stelle.

Per gli sviluppi bisogna far passare l’estate. E dopo il referendum che ancora, nonostante i problemi di Renzi, tiene separati tra loro pezzi di centrodestra. Subito, invece, capiremo quanto inciderà l’avventura del cuore di Silvio Berlusconi, sui ballottaggi. Poco, niente? Tutta conta vista la breve distanza che separa Sala e Parisi a Milano. Figurarsi un Berlusconi che torna, per una vicenda finalmente umana, ad occupare le edizioni dei tg. Potrebbe essere l’ultima magia del Corpo del Capo, come da titolo del prezioso saggio di Marco Belpoliti (Guanda, 2009). Avrete visto Francesca Pascale, affacciata al balcone, innamorata e commossa. Non pecchiamo di cinismo a notare che conoscono troppo bene le riviste di gossip, dalle parti della famiglia Berlusconi, per non sapere che se non ci si vuole far immortalare in un momento di privata debolezza, basta non piangere in favore di camera.

Orlando, Omar Mateen era gay? Nuovi particolari sull’uomo della strage

Omar Mateen era una figura complessa e contraddittoria. Più particolari emergono sulla vicenda personale dell’americano-afghano 29enne che ha fatto una strage al Pulse, il locale gay di Orlando e più la sua vicenda somiglia a quella del tipico autore di stragi alle quali si assiste periodicamente negli Stati Uniti. Certo la propaganda islamista, certo, il fascino e la retorica del lupo solitario, ma, a meno di clamorose svolte nelle indagini, sembra di capire che l’islamismo radicale dell’Isis sia solo la forma presa dalla rabbia e magari dal conflitto con se stesso che il giovane viveva.
Una serie di testimonianze, infatti, riferiscono ad esempio della possibile omosessualità di Mateen: almeno due persone presenti al Pulse l’altra notte hanno riferito che Omar era presente su Jack’d, una app per incontri omosessuali già un anno fa ed era stato in passato visto al Pulse. Molti mesi fa, non nei giorni scorsi, quando avrebbe potuto essere in loco per organizzare la strage. Samuel King, poi, una drag queen che lavorava come cameriera in un ristorante nei pressi di un posto di lavoro di Mateen racconta di un ragazzo cordiale che mangiava e scherzava spesso e che si fermava spesso a chiacchierare con il personale del ristorante «pur sapendo bene che si trattava di lesbiche».
Poi ci sono le testimonianze dei compagni di scuola, una scuola per giovani con problemi comportamentali, che ricordano come l’11 settembre 2001 Mateen fosse contento e imitasse il rumore degli aerei che cadono sulle torri «Non saprei se lo faceva per attirare l’attenzione, visto che non aveva amici» ha detto uno di loro al Washington Post. Un amico, Kenneth Winstanley, racconta però che Omar non ha mai dato segni di radicalizzazione: «Mi ha spiegato qualche cosa dell’islam, ma sembrava più un fatto di tradizione familiare che non fervore religioso». Tutti dicono che spesso Mateen veniva preso in giro o sottoposto a bullismo per essere l’unico ragazzo di origini straniere della scuola.
La rabbia nei confronti dei colleghi è la ragione per cui Omar avrebbe fatto commenti sull’11 settembre anche con i suoi colleghi di lavoro, commenti che gli costarono un’indagine da parte dell’Fbi. L’agenzia federale ha fatto sapere ieri per bocca del suo direttore James Comey che in quell’occasione vennero fatti tutti i passi per verificare se e come l’assassino di Orlando avesse contatti con organizzazioni terroristiche o radicali. Niente, nemmeno dopo che una finta esca aveva tentato di reclutarlo.
L’Fbi ha in mano anche gli account e il telefono di Omar Mateen, farà una richiesta perché venga decriptato e vedremo se emergeranno particolari su eventuali contatti con reclutatori dell’Isis. Tutto quanto gli investigatori hanno scoperto fino ad ora, sembra però parlarci di una persona piena di contraddizioni e problemi. Anche l’ex moglie ha raccontato di violenze e cambi di umore che non avevano nulla a che vedere con la religione. Del resto, Mateen appare come totalmente americanizzato e viene da una famiglia che anche essa vive senza essere troppo ligia alle tradizioni: le sorelle non si sono mai coperte il capo o il volto con vestiti tradizionali.
Ha un bell’urlare contro i musulmani, Donald Trump, la sua retorica forse pagherà ma in questo caso davvero non sembra aver nulla a che fare con la strage di Orlando. Il lupo solitario Mateen non appare nemmeno come una figura tipica delle periferie europee, che passa dalla marginalità sociale per poi trovare una identità nella religione. Più passano le ore e più la strage di Orlando appare come l’ennesima tragedia americana, quella generata dalla possibilità per chiunque, che abbia problemi di salute mentale o che sia sospettato di terrorismo, di comprare un’arma automatica.