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Hollande sull’omicidio dei due agenti: «Un atto terroristico»

Ha ucciso a coltellate il comandante del commissariato di Mureaux poi è entrato nella sua abitazione, a Magnanville nel dipartimento di Yvelines, alla periferia di Parigi e poi si è barricato dentro, ha preso in ostaggio la moglie, 36 anni, segretaria d’amministrazione nel commissariato di Mantes-la-Jolie, a due chilometri dal luogo dell’attacco.

Quando le teste di cuoio hanno fatto irruzione nell’appartamento, dopo aver ucciso nel conflitto a fuoco l’omicida,  hanno scoperto il corpo ormai senza vita della donna, uccisa, si è saputo questa mattina, con un taglio alla gola. Per fortuna il killer ha risparmiato il figlioletto della coppia di tre anni. Il doppio omicidio è avvenuto ieri sera verso le 20.30, mentre tutta la Francia seguiva il campionato europeo.

Il presidente Hollande non ha dubbi: «È un atto incontestabilmente terroristico», ha detto questa mattina. «Noi dobbiamo agire insieme, la lotta al terrorismo non la fa un solo Paese, occorre un’azione internazionale risoluta, un monitoraggio delle persone», ha detto nella riunione di questa mattina. La Francia ripiomba così nel terrore, dopo gli attentati a Charlie Hebdo e al Bataclan dello scorso anno.  Il killer dei due agenti, dovrebbe essere un combattente dell’Isis: la rivendicazione – ma la cautela è d’obbligo –  è arrivata a tarda notte attraverso l’Amaq, l’agenzia di stampa del Califfato, citata dal Site, la società che monitora le attività online delle organizzazioni jihadiste.

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Secondo quanto si apprende dai media francesi, l’autore del doppio omicidio era già stato condannato, nel 2013, insieme con altre 7 persone, per aver favorito la partenza di jihadisti per il Pakistan.
Immancabili le polemiche, perché, come nel caso del killer di Orlando, Omar Mateen, anche Larossi Abbalia, era finito nelle maglie delle forze dell’ordine. Inutilmente. Questa mattina, a proposito di lotta al terrorismo, la presidente della regione Ile-de France ha annunciato di voler cofinanziare un centro “contro i radicalismi”. Lo stesso premier Manuel Valls aveva annunciato che organismi simili saranno creati in ogni regione da adesso fino al 2017.

La rivolta del piccolo Gaza figlio di un trafficante di vite umane

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Linguaggio schietto, vivo, ritmato. Che schiocca come un colpo di frusta. E al tempo stesso ammalia con la musicalità interna delle frasi. È una prosa poetica e insieme feroce quella che lo scrittore turco Hakan Günday usa per mettere a nudo i criminali che lucrano sulle speranze dei migranti. Lo fa nel romanzo Ancòra (Marcos y Marcos) raccontando chi scappa da guerre e fame, rischiando la vita per cercare di raggiungere l’Europa. Lo fa indagando i carnefici, senza fare sconti a nessuno.

E la vicenda del romanzo è tanto più dirompente perché è vista con gli occhi di un bambino, Gazâ, figlio di un trafficante, Ahad, che gli insegna a tenere a bada i migranti da trasportare in camion fuori dalla Turchia. Il padre lo educa a diventare spietato nel fare la guardia alle persone che aspettano un barcone senza sapere nulla di quel che accadrà.  «I trafficanti sono gli unici a sapere cosa c’è al di là dell’attracco. E cinicamente mercanteggiano illusioni» dice Günday  che martedì 14 giugno apre il Festival Letterature di Roma, insieme a Claudio Magris in una serata di “Memorie migranti”.
cover Hakan-Gunday2La micidiale lezione che Ahad dà a suo figlio è “rassegnati”, “la legge della sopravvivenza è vita mea mors tua“. Gazâ obbedisce. Arrivando a lucrare sulle bottigliette d’acqua che avrebbe dovuto distribuire gratis, avendo osservato che i migranti in quelle condizioni non possono ribellarsi e sono disposti a tutto. Sembra drammaticamente aver perso gli affetti, il senso dell’umano, si sente morto dentro. Ma proprio quando precipita così in basso, accade qualcosa, riesce a vedere la disperazione di queste persone e a vergognarsi di se stesso. E allora scappa lasciandosi alle spalle il padre e la sua educazione alla disumanità. Con in tasca un origami, una rana di carta verde, che gli ha regalato un piccolo clandestino afghano, Gazâ inizia un lungo viaggio, che è anche interiore, alla ricerca di se stesso. Che Hakan Günday scandisce capitolo per capitolo prendendo a prestito termini dalla pittura “sfumato”, “chiaroscuro”, “cangiante”…A poco a poco nella mente di Gazâ rifioriscono colori, emozioni, passioni che aveva “dimenticato” . «Ho immaginato che quel viaggio per lui potesse essere come una rinascita» racconta lo scrittore che da alcuni anni è tornato a Istanbul , dopo aver vissuto  in Europa .

«Gazâ è come un bambino soldato in Africa –  approfondisce -. Un bambino che nasce in queste condizioni può cambiare la sua situazione? Il suo è un viaggio verso lo specchio, il suo passato è così mostruoso che non riesce a vedere se stesso, non riesce a vedere chi è veramente, viaggia per poter diventare un uomo diverso dal padre. Come se quel viaggio  fosse per poter vedere il proprio volto, sapere chi è davvero, al di là di tutte le aspettative culturali, familiari che lo avevano modellato fino a quel momento. E come se dovesse liberarsi del ruolo di mostro che gli è stato assegnato dagli adulti». La scelta di un protagonista del romanzo così giovane, del resto non è casuale, sottolinea l’autore di Ancòra. «Perché i bambini fanno domande, chiedono perché. E gli adulti sono chiamati a rispondere. Anche se più spesso, dicono “questo lo capirai da grande”, che in verità sottintende “a questo ti abituerai quando sarai grande”».

E invece Gazâ non chiude le orecchie, non si rassegna a quel ripetuto “daha” dei migranti. In turco significa “ancòra”, una delle poche parole turche che le migliaia, se non a milioni, di migranti trasitati in Turchia nel corso degli anni e pronunciano, per chiedere acqua, cibo, una possibilità.

Hakan Gunday
Hakan Gunday

«Ho scritto questo libro nel 2013 – ricorda Hakan Günday  -, all’epoca ai naufragi di migranti erano dedicate poche righe sui giornali, non c’erano informazioni, non c’erano i loro nomi, né perché emigravano. L’unica identità che avevano era quella di morto. Dopo aver attraversato migliaia di chilometri e diventavano visibili agli occhi dei più solo da cadaveri. Sui giornali non si diceva nulla neanche di quelli che trafficavano con la loro vita. Scrivere questo libro è stato per me un po’ come studiare come funzionano le dittature e il linciaggio.

Volevo ridare un volto e un’identità a chi era diventato solo un trafiletto». L’Occidente e la stessa Turchia hanno una responsabilità in tutto questo?  «Le persone che vediamo all’addiaccio fuori dalla nostra finestra sono il risultato di secoli di disuguaglianze. Molte tragedie che vediamo adesso in tv ci vedono responsabili. Siamo stati noi a distruggere la Siria, mandando armi, partecipando al conflitto di quel paese, appoggiando ora l’uno ora l’altro. Ma siamo stati responsabili anche con il nostro silenzio. Abbiamo creato un vacuum, un vortice di violenza, ora tocca a noi ricostruire la Siria dopo aver combinato tutto questo».

Ceta, l’Italia sta con la Commissione e il Ttip si avvicina

Per il governo italiano, il Ceta (fratello gemello del Ttip) può passare senza alcuna ratifica da parte dei Parlamenti nazionali. Il 15 giugno, alla Camera dei deputati sarà l’occasione per ascoltare il ministro per lo Sviluppo economico Carlo Calenda, in attesa della decisione del Consiglio europeo del 28-29 giugno sulla competenza degli accordi. Dopo la denuncia di Greenpeace del 10 giugno, anche la campagna StopTtip Italia torna a puntare il dito contro il ministro in merito al trattato commerciale con il Canada, il primo grande accordo con una potenza economica occidentale. Secondo la testimonianza di un diplomatico europeo, raccolta dall’agenzia Reteurs, l’Italia vuol evitare il voto dei Parlamenti degli altri Stati membri, incluso quello italiano. «Calenda ha sostenuto, con un documento presentato a nome del governo italiano, che l’Italia è favorevole a tagliare fuori e il suo Parlamento e quelli di tutti gli Stati dell’unione dal processo di ratifica», rendono noto i promotori della campagna StopTtip. «Mentre altri governi dell’Unione, come Lussemburgo e Francia, rivendicano il potere di ratifica dei propri Parlamenti nazionali sui trattati commerciali misti, come il Ceta con il Canada e il Ttip con gli Usa, Carlo Calenda sostiene la Commissione europea nella richiesta che la partita si giochi tutta a Bruxelles e le Assemblee degli Stati membri non possano avere voce in capitolo». In merito, la Vallonia – che è una delle tre regioni che formano il Belgio e costituisce il 32% della popolazione belga – si rifiuta di dare pieni poteri al governo federale per firmare l’accordo.

 

 

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Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo economico del governo Renzi

Possono i Parlamenti, che rappresentano la popolazione, essere privati del diritto di esprimere su temi così delicati? Dipende. Se si tratta di accordi misti, no. In caso contrario, sì. Ed è No secondo i promotori della campagna StopTtip: «Nel mandato negoziale definito nel 2011, i governi dell’Ue hanno sottolineato che il Ceta non può essere considerato un accordo su cui la Commissione possa vantare competenza esclusiva. In tema di investimenti, ad esempio, soprattutto per quanto riguarda la temibile clausola Isds, la competenza dev’essere mista, cioè prevedere la ratifica di tutti i Parlamenti degli stati membri». Infine, un invito ai parlamentari italiani: reagite, con tanto di lettera aperta ai presidenti di Camera e Senato e ai parlamentari italiani. Inoltre, sulla piattaforma Progressi.org è attiva la petizione “L’Italia consenta una discussione democratica sul Ceta” A raccogliere l’appello della rete StopTtip, il gruppo della sinistra in Europarlamento: «Già dai prossimi giorni ci batteremo affinché il Parlamento Europeo e il Parlamento italiano adiscano la Corte europea di Giustizia nel caso in cui il Consiglio dell’Unione europea decida di espropriare i cittadini europei, gli Stati membri e i loro rappresentanti democraticamente eletti, del diritto di esprimersi sul futuro dei nostri regolamenti, dei nostri diritti e della qualità della nostra democrazia», ha annunciato l’eurodeputata Eleonora Forenza del Gue/Ngl. «Consideriamo l’esclusione dei rappresentanti del popolo una modalità antidemocratica e contraria ai trattati dell’Unione europea».

European Trade Commissioner-designate Cecilia Malmstrom of Sweden adjusts her glasses as she waits for her hearing before the European Parliament's Committee on International Trade at the EU Parliament in Brussels September 29, 2014. REUTERS/Francois Lenoir (BELGIUM - Tags: POLITICS BUSINESS) - RTR486MU

Cecilia Malmström, commissario europeo per il Commercio

Ceta, favorevoli e contrari. Chi lo sostiene promette vantaggi commerciali per 5,8 miliardi di euro l’anno, con un risparmio per gli esportatori europei di 500 milioni di euro annui dovuta all’eliminazione di quasi tutti i dazi all’importazione. Sul mercato del lavoro, poi, uno studio congiunto di Ue-Canada ipotizza 80mila nuovi posti di lavoro. Tra le preoccupazioni, invece: «Con il via libera al Ceta, la maggior parte delle multinazionali americane, già attive sul territorio canadese, potranno citare in giudizio nei tribunali internazionali privati le aziende europee, avvalendosi della clausola Investment court system (Ics, il sistema giudiziario arbitrale per la difesa degli investimenti), omologo dell’Isds inserito nel Ttip, che tanti Paesi Ue stanno osteggiando». Sono già 42mila le aziende operanti nell’Unione che fanno capo a società statunitensi con filiali in Canada, con l’approvazione del Ceta queste imprese potrebbero intentare cause agli Stati per conto degli Stati Uniti senza che il Ttip sia ancora entrato in vigore, assicurano i promotori. Dopo cinque anni di negoziati, dal 2009 al 2014, per il via libera al Ceta manca solo il voto finale, e quindi la firma. In caso di approvazione entro il 2016, da parte del Consiglio e del Parlamento europeo, il Ceta potrebbe entrare in vigore all’inizio del 2017 previa approvazione dei legislatori, canadesi.

La misericordia è un reato. Alla faccia del Giubileo

A  Udine tre persone risultano indagate per avere aiutato alcuni profughi della rotta balcanica disorientati in città. Un aiuto breve: i tre si sono permessi (pensa te) di lasciare il proprio numero di telefono mettendosi a disposizione per qualsiasi evenienza. E (criminali!) si sono addirittura avventurati nel lasciare le indicazioni per raggiungere la Caritas locale. Che schifo. Che vergogna. Già.

Favoreggiamento di immigrazione clandestina: questa è la dicitura del reato dell’Italia che si lamenta dei fili spinati degli altri e poi ogni giorno subisce la bava di una durezza del cuore che esonda nell’abbandono per decreto. Quindi da domani sarà favoreggiamento di minore sfamare una ragazzina (ma scoparsela è tollerato), sarà associazione a delinquere Emergency e Amnesty e incarceremo per peculato ogni medico che cura senza chiedere i documenti.

Poi evidentemente cominceremo a pensare che essere diversi sia imputabile di apologia delle differenze (punibile con la sparatoria dentro al bar), conieremo il reato di “intralcio all’interesse multinazionale” o il “vilipendio al prepotente”. E continueremo così, in un declino allegretto ma non troppo che disporrà il delitto di essere minoranza e l’obbligo d’esame di dialetto provinciale per accedere alla mensa scolastica.

Avremo partiti che inneggiano all’odio, poteri che lucrano sulla povertà, grandi gruppi che esportano la fame e il premio di maggioranza per il cazzaro più cazzaro del quinquennio. Saremo un Paese bellissimo: inchiodato alla televisione mandandosi a memoria le canzoncine inneggianti al re.

E i bisognosi? Basta, finalmente. Vietati per legge. Però un Giubileo di tanto in tanto non si negherà a nessuno. Figurati al Papa. Avanti così. Buon martedì.

 

 

Usa, ci sono 6 venditori di armi per ogni Starbucks e 40mila in più che scuole

C’è una bella mappa online che compara il numero di negozi dove gli americani possono compare armi al numero di Starbucks (la vedete qui sopra come immagine, la trovate qui per giocare con i dati), la catena di caffè che troviamo in ogni angolo d’America. «L’idea era quella di mostrare come e quanto fosse pervasiva la presenza di armi nel Paese e per farlo abbiamo deciso di comparare il dato con quello di qualcosa alla quale ciascuno è abituato, gli Starbucks». L’hanno prodotta quelli di 1pont21 interactive per mostrare questa realtà e fare una campagna sul tema mostrando i dati.

Nella loro analisi, quelli di 1point21 Interactive hanno scoperto che ci sono sei venditori di armi da fuoco per ogni per ogni Starbucks (che negli States erano 10.843 nel 2013). I venditori di armi sono anche più dei negozi di alimentari (37.716 nel 2014), dei McDonald (14.350 nel 2014), e dei caffè (55.246 nel 2016). Se poi sommiamo anche i venditori di pistole d’epoca, i produttori e gli importatori, tutti gli imprenditori coinvolti nella vendita, insomma, arriviamo a 138.659 imprese. Circa 40mila in più delle scuole pubbliche, che erano 98.328 nell’anno scolastico 2011-12 e il doppio delle farmacie.

Michela Marzano: «Eravamo tutti Charlie e ora? Perché non siamo tutti Orlando e LGBT?

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È indignata Michela Marzano, indignata dopo la strage di Orlando, per quello che è accaduto certo, ma anche per la reazione meno accorata che in occasione di altre tragedie altrettanto terribili come Charlie Hebdo e il Bataclan. Ecco il commento che la deputata ex Pd ha diffuso su Facebook: «Siamo stati tutti ‪#‎Charlie‬. Prima di essere tutti ‪#‎Paris‬. E poi anche ‪#‎Bruxelles‬. E ora? Perché non siamo tutti ‪#‎Orlando‬? Perché non siamo tutti ‪#‎LGBT‬? Che succede? La vita di un gay o di una lesbica hanno meno valore? È colpa loro? Avrebbero fatto meglio a restare in casa piuttosto che andare a ballare? Dovrebbero continuare a nascondersi perché sono sbagliati, diversi, inferiori?
Non sono solo delusa, oggi, per questa reazione timida e assolutamente inadeguata del nostro Paese. Oggi sono profondamente triste. Anzi, inconsolabile. Perché sono i nostri fratelli e le nostre sorelle ad essere stati massacrati solo perché omosessuali. Sono i nostri figli e le nostre figlie ad essere stati cancellati solo perché qualcuno ha deciso che l’omosessualità è sbagliata. Con tutto il corredo di intransigenza che, molto spesso in nome della fede, scaglia le leggi come norme e disprezza la vita. ‪#‎JeSuisOrlando‬»

I Paesi europei e l’appoggio a Brexit. Il sondaggio di Showt

La Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, che sarà valutata dai cittadini britannici nel referendum del prossimo 23 giugno, gode di un buon sostegno a livello europeo. Secondo Showt, una compagnia irlandese che si occupa di comunicazione e media, la maggioranza della popolazione dei Paesi membri è favorevole all’uscita di Londra dalla Ue. Il sondaggio è avvenuto online, e non ha valore statistico. Ma si basa comunque su grandi numeri, e per questo può essere considerato realistico. Così, pur non potendo votare, la cittadinanza europea ha potuto esprimersi sulla spinosa questione che deciderà le sorti del vecchio continente e del mondo intero.

Il sondaggio di Showt
Il sondaggio di Showt

Innanzitutto in alcuni paesi il fronte del «sì» è schiacciante: tra questi vi sono Grecia (77%), Slovenia (76%), Croazia (71%), Polonia (64%) e Austria (64%). Anche Germania e Francia, i due paesi più popolosi e più potenti in termini di Pil dell’Ue sposano le tesi degli euroscettici inglesi, con rispettivamente il 55% e il 57% di favorevoli all’uscita di Londra dalla Ue. Altri Paesi in cui i «sì» sono la maggioranza: Slovacchia (60%), Ungheria (57%), Lussemburgo (57%), Belgio (53%), Spagna (54%), Bulgaria (52%), Lettonia (51%) e Lituania (51%). A pari merito i due fronti nei Paesi Bassi. Tra gli Stati più «europeisti» vi sono innanzitutto l’Irlanda, in cui solo il 21% dei votanti si schiera pro-brexit, seguita da Romania (31%), Portogallo (32%), Repubblica Ceca (41%), Malta (44%), Italia (47%), Estonia (48%), Svezia (49%), Cipro (49%), Danimarca (49%).

Il sondaggio fornisce anche una tabella riassuntiva con i vantaggi, Paese per Paese, di entrambi i possibili esiti. Il principale benefit in caso di vittoria del «sì» sarà la possibilità di riforma dell’Unione europea, in quanto il Regno Unito cerca di stipulare accordi spesso a lui favorevoli, poco conciliabili con gli altri Paesi, e quindi difficili da raggiungere. In caso di uscita sarà più facile trovare posizioni comuni tra le varie nazioni.

Tra i vantaggi in caso di vittoria del «no», il mantenimento della libertà di movimento di persone, il contributo dato da Londra alla crisi dei rifugiati, il ruolo finanziario della City per il continente – difficilmente rimpiazzatile – il vantaggio per l’Unione europea di poter stipulare accordi commerciali favorevoli a causa del mercato interno inglese, ampio e dinamico.

 

L’elettorato pare sempre meno fedele e i faccia a faccia non aiutano il Pd

29/01/2014 Roma, assemblea straordinaria dell'ANCI sulla Tasi, nella foto Piero Fassino

A Torino il Pd ha perso metà del suo elettorato nel corso degli ultimi 15 anni. Lo sostiene l’Istituto Cattaneo, secondo cui il 31 per cento degli elettori che nel 2011 avevano votato per Piero Fassino al primo turno lo hanno tradito per la concorrente diretta al ballottaggio, Chiara Appendino. Secondo il medesimo studio, il Movimento 5 stelle si sta trasformando in “asso piglia tutto”, mostra, cioè, una capacità trasversale di attrarre voti dalla sinistra, ma anche dal centro e dalla destra. Una sorta di Anti Partito della Nazione, una forza politica che approfitta della scelta, fatta da Matteo Renzi, di personalizzare lo scontro politico – «se vince il No vado a casa» – e di radicalizzarlo contrapponendo caos e ingovernabilità al partito dei buoni, come egli dice, al partito di «chi vuol bene all’Italia». Se le cose stanno così è davvero incomprensibile la campagna che il Pd sta conducendo in vista dei ballottaggi. Nel faccia a faccia Appendino-Fassinno, il sindaco uscente ha avuto la sua battuta migliore quando ha accusato la concorrente di essere No Tav: «Torino – ha detto – quando perse il suo statuto di capitale del Regno, seppe puntare sul traforo del Frejus». La Appendino ha insistito sul tema della povertà, dell’occupazione della città divisa e, neanche a farlo apposta, lo stesso giorno un altro studio, questa volta di Ilvo Diamanti, mostra come sia proprio l’occupazione la principale preoccupazione dei torinesi.
Stesso copione nel confronto Giachetti-Raggi.
Roberto Giachetti incalza sulle Olimpiadi, Virginia Raggi sulla ordinaria manutenzione. E lo studio di Diamanti rivela che è la pessima manutenzione delle strade l’emergenza che più angustia gli elettori romani.
Insomma, il rottamatore rischia di rottamarsi. E lo strumento perfetto sono proprio i ballottaggi. Infatti in un sistema che non è più bipolare e sembra invece caratterizzato da una crescente insoddisfazione per i risultati, ritenuti modesti, dell’azione del governo, è più che probabile che una forza trasversale e piglia tutto faccia il pieno dei voti.

I numeri dell’omofobia in America e la strage nel club gay a Orlando

Una donna piange di fronte a un memoriale a New York per commemorare le vittime della strage di Orlando (AP Photo/Andres Kudacki)

«Un atto di terrore e di odio». Barack Obama ha descritto così la strage di Orlando. Un atto di terrore e di odio che aveva un obiettivo specifico: la comunità LGBT, perché l’attentatore, Omar Siddiqui Mateen, non ha scelto una piazza affollata o un locale come tanti, non ha voluto colpire tutti indiscriminatamente, ha scelto con precisione: un locale gay in Florida nel mese in cui ogni anno in tutto il mondo si festeggia il Pride.
A Los Angeles probabilmente poteva accadere qualcosa di molto simile, visto che la polizia, a quanto riporta L.A Times, ha fermato un uomo che si stava recando alla parata del Gay Pride con un auto carica di armi e esplosivo, un vero e proprio arsenale.
E proprio l’odio nei confronti della comunità Lgbt è una delle chiavi per capire davvero cosa è successo a Orlando domenica sera durante la più terribile sparatoria di massa nella storia degli Stati Uniti. «Una sparatoria senza precedenti – scrive la rivista statunitense The Atlantic – in termini di numero di vittime coinvolte (50 ragazzi uccisi e 53 feriti) e di violenza, ma non nella scelta dell’obiettivo. Questo infatti è un esempio extra ordinario di una tipologia di aggressioni che invece sono molto comuni negli Stati Uniti: quelle motivate da un odio profondo nei confronti delle persone Lgbt».

Dei fiori e un cartello lasciati all'esterno dell'ambasciata deli Stati Uniti a Bangkok in Thailandia per commemorare le vittime di Orlando (AP Photo/Mark Baker)
Dei fiori e un cartello lasciati all’esterno dell’ambasciata deli Stati Uniti a Bangkok in Thailandia per commemorare le vittime di Orlando (AP Photo/Mark Baker)

Per capire quanto sia diffuso il fenomeno basta guardare infatti ai dati diffusi dall’Fbi sui cosiddetti hate-crimes, i crimini che hanno come movente l’odio razziale, religioso o sessuale. In un’analisi realizzata nel 2011 dal Southern Poverty Law Center a partire dai dati rilasciati dall’intelligence emerge, per esempio, che fra il 1995 e il 2008, su un totale di 88 mila 463 aggressioni, 15mila 351, ben il 17,4% di tutti gli hate-crimes rilevati, sono avvenute contro persone Lgbt. Confrontando questi numeri con quelli degli altri gruppi sociali si scopre che lesbiche, gay, bisessuali e trans sono in media vittime di violenza 2,4 volte in più rispetto a una persona di origine ebraica, 2, 6 volte in più di uomini o donne di colore, 4,4 volte in più di un musulmano, 13,8 volte in più rispetto a messicani e persone di etnia latina, ma soprattutto ben 41,5 volte in più rispetto agli eterosessuali bianchi. Si tratta una semplice questione di matematica: la comunità Lgbt americana è più piccola rispetto agli altri gruppi etnici o religiosi che compongono la società statunitense e questo fa sì che il numero di crimini che colpisce persone Lgbt impatti maggiormente a livello statistico. Dando uno sguardo anche ai dati diffusi dall’Fbi nel 2013 emerge inoltre che i reati e le aggressioni che avevano come movente principale l’odio erano motivati da questioni legate all’orientamento sessuale ben nel 20% dei casi. L’orientamento sessuale dunque è, ad oggi, l’unico fattore che sembra ancora contare di più della “razza” nello scatenare la violenza e fa riflettere che la maggior parte di questi crimini non sono stati commessi da degli estremisti islamici, ma che sia quindi qualcosa che scorre, nemmeno troppo sotto traccia, nella stessa America che rende legali in tutti i suoi stati i matrimoni gay.

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Non è la prima volta che un club gay diventa un obiettivo per attacchi violenti e aggressioni, nel 2014, per esempio un uomo, Musab Masmari, aveva tentato di incendiare un locale Lgbt di Seattle il giorno della vigilia di Capodanno. Nel bar c’erano 750 persone, fortunatamente nessuno rimase ferito.
Il dato che conta però è che, per tutti questi episodi eclatanti e ben visibili, esistono, e sono la maggior parte, una gran quantità di casi isolati e micro aggressioni, dal pestaggio per strada ad azioni di bullismo nelle scuole, che dimostrano come la discriminazione nei confronti delle persone Lgbt sia ancora molto diffusa e comune. «Molto spesso chi è omosessuale viene diffamato con affermazioni volgari e pesanti» spiega Mark Potok del Southern Poverty Law Center «i gay vengono destritti come pervertiti, pedofili, persone che sono invischiate in pratiche ripugnanti e innaturali. Ci sono tante forme di odio nei confronti di gruppi specifici o minoranze in questo Paese (basta pensare a quanto sta avvenendo con la comunità afroamericana ndr), ma raramente ci si riferisce a loro apostrofandoli in modo così umiliante».
E questa non è una caratteristica propria solo degli integralisti religiosi, siano essi musulmani che inneggiano a Isis perché schifati dal fatto che due uomini si possano baciare per strada, o ferventi e bigotti cristiani convinti di essere portavoce della parola di un qualche dio bianco e altrettanto bigotto. Questa è una forma di discriminazione che fa parte di quel composito Dna di cui sono fatti gli Stati Uniti, un melting pot nel quale agli elettori di Clinton e Sanders si mescolano quelli repubblicani e quelli razzisti e intransigenti di Trump. Nel 2014, secondo dati diffusi dal Public Religion Research Institute, la maggior parte degli Americani riteneva che il sesso omosessuale fosse “moralmente inaccettabile” e il 14% si diceva convinto che l’Aids potesse essere “una punizione divina per aver avuto dei comportamenti sessuali immorali”.

Un luogo di commemorazione per le vittime in Australia (AP Photo/Rick Rycroft)
Un luogo di commemorazione per le vittime di Orlando in Australia (AP Photo/Rick Rycroft)

«Ovviamente non c’è un automatica relazione fra l’odio nei confronti dei gay e le sparatorie di massa – si legge sempre su The Atlantic – ma la retorica e i sentimenti anti Lgbt, che non sono poco comuni, sono parte integrante di gran parte del contesto sociale di cui si compongono gli Stati Uniti» e anche con questa compagine dovrà, deve, fare i conti la politica americana, soprattutto in questi mesi di campagna elettorale e in particolare quando in corsa per la Casa Bianca c’è un candidato come Donald Trump che a aggressioni fondate sull’odio risponde fomentando altro odio.
Ma numeri e dati dell’omofobia negli States uniti a quanto successo con la strage di Orlando aprono la riflessione anche fuori dai confini degli Stati Uniti e ricordare, soprattutto a quelli che “abbiamo tanti problemi più urgenti da risolvere dei diritti Lgbt”: si tratta di una questione di democrazia, vitale (e urgente) quanto tante altre per distinguerci da chi democratico non è.