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L’Onu cerca il successore di Ban Ki-Moon. Sarà una donna europea?

È dal 31 dicembre del 1981 che alla guida delle Nazioni Unite non siede un europeo. Da quando l’austriaco Kurt Waldheim lascia l’incarico davanti a un’inamovibile Cina che non ne vuol saperne di una sua terza rielezione. Poco dopo, Waldheim, sarà sospettato dalla stessa Onu per il suo coinvolgimento con l’esercito nazista tedesco. Dopo di lui è la volta del peruviano Javier Pérez de Cuéllar, ovvero il primo segretario generale latinoamericano, dell’egiziano Boutros-Ghali, primo presidente africano su proposta dei Paesi non allineati, del ghanese Kofi Annan, e siamo giunti al decennio 1997-2006. Fino a oggi, che il Segretario generale è il sudcoreano Ban Ki-Moon, il cui secondo mandato terminerà il 31 dicembre, tra meno di sei mesi. Chi prenderà il suo posto? La lista dei candidati è lunga, oltre cento i nomi in lizza (qui l’elenco in ordine rigorosamente alfabetico).

kristalina_georgieva_at_ep_hearingChi è Kristalina Georgieva

Al 47esimo rigo troviamo un nome da ricordare: Kristalina Georgieva, bulgara, Banca mondiale nel cv e uno sponsor che ha già cominciato a fare lobby per lei, l’ex presidente della Commissione José Manuel Barroso. Lui di Georgieva si fida, è stata Commissario europeo per la Cooperazione internazionale, gli Aiuti umanitari e la Risposta alle Crisi dal 2010 al 2014, mentre lui era a capo (per la seconda volta) della Commissione europea. Economista e politica bulgara, Kristalina Georgieva è attualmente vicepresidente della Commissione europea e Commissario europeo per il bilancio e le risorse umane in seno alla Commissione Juncker.

Ha una lunga esperienza alla Banca Mondiale, Georgieva, dove inzia a lavorare nel 1993, quando ha appena 40 anni, come economista ambientale per l’Europa e l’Asia centrale. La sua scalata termina nel 2004 (e fino al 2007), quando diventa rappresentante permanente della Banca Mondiale in Russia, poi torna a Washington fino alla chiamata di Barroso. Che oggi la sponsorizza. «Non commentiamo teorie di cospirazione o rumors che circolano sulla stampa», ha fatto retromarcia la Commissione per bocca della portavoce Mina Andreeva. Per poi, però, riaprire la questione: «Quello che posso confermare è che il presidente Juncker e la vicepresidente Georgieva hanno discusso la possibilità che questa questione si potrebbe presentare», e che Juncker «ha grande ammirazione per l’esperienza internazionale, le capacità negoziali e lavorative di Georgieva, specialmente in questo periodo della crisi dei migranti in cui sta organizzando il bilancio per gestire la crisi».

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l’ex presidente della Commissione europea, Manuel Barroso

Perché è importante chi guida l’Onu
Il “direttorio” delle grandi potenze per governare gli affari mondiali conta 193 Paesi più altri due soggetti presenti con lo status di Osservatori permanenti: la Palestina (rappresentata prima dall’Olp e poi dall’Anp) e il Vaticano rappresentato dalla Santa Sede. Tutti gli Stati presidiano all’Assemblea generale, l’organo rappresentativo, ma solo 15 compongono il Consiglio di sicurezza, di cui 5 sono i membri permanenti (Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia, Cina) e 10 vengono a rotazione ogni due anni. Il Consiglio di Sicurezza ha il compito di adottare tutti i provvedimenti per mantenere la sicurezza internazionale, deve intervenire per evitare che i contrasti fra i Paesi degenerino in conflitti e, in caso di guerra, deve fare il possibile per ristabilire la pace. Decidere se sospendere le relazioni diplomatiche e applica sanzioni economiche, tra cui gli embargo. Infine, di altri organi ancora si è dotata l’Onu in questi 70 anni: segretariato, consiglio economico e sociale, consiglio per i diritti umani, corte internazionale di giustizia. E altre istituzioni come l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr).

Orlando: Trump contro i musulmani. L’ipocrisia repubblicana su gay e armi

La strage di Orlando è destinata a cambiare la dinamica della campagna presidenziale Usa? Certamente per qualche giorno. Le indagini ci diranno quanto e come la vicenda impatterà sull’opinione pubblica: se Omar Mateen avesse avuto contatti diretti con l’Isis, fosse stato reclutato online, i repubblicani avrebbero più argomenti, viceversa, se si trattasse come sembra oggi, di un lupo solitario affascinato dalla propaganda del Califfato e dai video sulle esecuzioni dei gay, il tema sarebbe quello della circolazione delle armi e della necessità di regolarla. Certo è che Donald Trump prova immediatamente a passare all’incasso, rilanciando la sua proposta di vietare l’ingresso ai musulmani nel Paese fino a quando non verrà sconfitto l’Isis. Proposta delirante che il miliardario newyorchese rivendica con una serie di tweet nei quali chiede anche le dimissioni del presidente Obama per non aver parlato di islam radicale durante il suo video-messaggio alla nazione (il primo tweet).

Qui sotto Trump dice: «Grazie per ricordare come avessi ragione sull’islamismo radicale… ho chiesto per primo il bando dei musulmani, ma non voglio congratulazioni, voglio fermezza, la nostra leadership è debole e inefficace». Peccato che Omar Mateen fosse un cittadino americano nato negli Stati Uniti: cosa fare, espellere tutti i musulmani d’America dal Paese per motivi religiosi? Anche le decine di migliaia di afroamericani aderenti alla Nation of Islam o Mohamed Alì?

Trump ha anche parlato a Fox News spiegando mescolando le persone che entrano nel Paese con lo stragista di ieri, nominando l’Isis come se davvero avesse organizzato la strage di Orlando e spiegando che «se non ci svegliamo e agiamo le cose non faranno che ». Trump ha anche attaccato la debolezza di Clinton e Obama.

Il comunicato di Hillary Clinton non è una risposta ma affronta la questione da tre fronti: terrorismo, regole per le armi e cordoglio per la comunità gay colpita dall’odio. Sensato e scontato, come pure la risposta di Bernie Sanders, che rilancia anche lui la necessità di votare in Senato un bando per le armi automatiche e semi-automatiche.

La verità è che i repubblicani avrebbero di che vergognarsi per due motivi: oggi commemorano vittime omosessuali delle quali dicono qualsiasi cosa e alle quali cercano in ogni modo di negare diritti uguali agli altri, mentre in Congresso hanno bocciato ogni tentativo di rendere più complicata la circolazione di armi automatiche da combattimento.

Quella qui sotto è un AR-15, l’arma usata per la strage di Orlando. Cosa ha di speciale? È l’arma preferita dagli stragisti americani. È stata usata in cinque delle ultime stragi, da Orlando, Aurora, Sandy Hook, San Bernardino e all’Umpqua Community College. Le armi erano sempre state acquistate legalmente. Per dieci anni, sotto l’amministrazione Clinton, ne era stata ristretta la circolazione con delle limitazioni, poi nel 2004 il bando alle armi automatiche è scaduto e ogni tentativo di rinnovarlo è stato bocciato dal Senato. L’ultima volta dopo la strage di Sandy Hook, nel 2013. L’ultimo voto contrario dei repubblicani – e di un democratico – riguarda una legge che vieta alle persone sospette o indagate per contiguità al terrorismo di comprare armi.

AR15

Il senatore della Florida ed ex candidato alle primarie repubblicane Marco Rubio ha rilasciato un’intervista Tv nella quale non nomina la parola “fucile”. Lo stesso si dica per Ted Cruz – che assieme agli altri pretendenti alla nomination Bobby Jindal e Mike Huckabee – ha anche partecipato nel 2015 a un raduno convocato da un pastore dell’Iowa che sostiene che la Bibbia dica che le persone omosessuali vadano uccise – per quanto conceda loro la possibilità di pentirsi. Crociati da un lato e ben pagati dalla lobby dei fucili dall’altro. Ventidue senatori repubblicani hanno anche votato contro una legge che includeva la violenza contro gli omosessuali nella categoria degli hate crimes, reati motivato da odio razziale o ideologico, che rappresenta un’aggravante al reato violento commesso.

Il senatore Tom Tillis ha votato contro la legge che vieta di vendere armi ai terroristi l’anno scorso ha preso più di due milioni dalla Nra, la National Rifle Association, la lobby delle armi. Paul Ryan, lo speaker della Camera neppure nomina le armi nel suo comunicato, ma se la prende con la «cultura dell’odio» dei terroristi, di soldi dalla Nra ne ha presi meno, 35mila dollari. Una cultura dell’odio che soggiorna in alcune frange repubblicane nei confronti della comunità LGBTQ. Le leggi sui bagni pubblici sono proprio questo, non tanto perché sia grave vietare a una persone di frequentare il bagno che ritiene giusto, ma per l’idea che ci sta dietro: discriminare le persone sulla base dell’orientamento sessuale e fare di questi temi un oggetto della battaglia politica.

Nei prossimi giorni assisteremo a un’ondata di propaganda repubblicana sul terrorismo. La verità è che i lupi solitari come (forse era) Omar Mateen si cibano della retorica anti-islamica che alimenta il loro odio e hanno un accesso così facile alle armi che in casi come questo l’intelligence non serve a nulla: a differenza che a Parigi, per fare una strage non serve organizzarsi, comprare armi al mercato nero, aggirare i controlli. Basta entrare al supermercato.

Dal Congo alla Siria, le guerrigliere raccontate da Wu Ming 5 e Tosarelli

Lieutenant Marimakile Kiakimuakisubua is training with her comrades. She does not declare her age. She studied until the second year of the secondary school. The main reason of her decision to join Mai Mai Shetani/FDP has been an attack from FDLR: they raped her mother and sister, she managed to escape. A week later she left school and joined the rebel group. Buramba military base, Nyamilima, North Kivu, DRC

Nel libro Ms Kalashinikov  (Chiarelettere) la fotografa Francesca Tosarelli indaga un lato poco conosciuto della guerra, quello che vede impegnate in prima linea donne guerrigliere, in varie parti del mondo. In questo volume scritto con Wu Ming 5 racconta in presa diretta, con linguaggio veloce, quasi cinematografico, i suoi incontri con donne che hanno imbracciato il fucile per difendere se stesse e il Paese dove vivono. Scopriamo così che esiste un battaglione tutto al femminile per la liberazione della Siria e che in Congo sono sul campo M23 e Mai Mai Shetani, due gruppi ribelli del Kivu Congo. Sono donne con storie molto diverse fra loro, ma le loro vicende per quanto si svolgano a centinaia di chilometri di distanza, al fondo rivelano alcuni aspetti simili.

Francesca Tosarelli, cosa accomuna queste guerrigliere al fondo?
Sono tutte donne che nascono o crescono in luoghi dove si stanno combattendo guerre legate alle risorse e provengono da un contesto sociale e culturale storicamente patriarcale. Come la maggior parte degli esseri umani avrebbero altri sogni nella vita, ma l’opzione di entrare in un gruppo armato è una tra le poche che hanno per resistere, per non essere (solamente) vittime e per prendere in mano la propria vita. Hanno background, formazioni, ideologie differenti ma ognuna di loro riveste un ruolo in qualche modo di rottura e rivoluzionario. Tutto questo lo ricavo dall’aver lavorato a lungo in Congo con diversi gruppi ribelli. Mentre per quello che riguarda altre milizie – come lo Ypj in Siria o il Kia in Myanmar – per ora è stato un lavoro di studio e ricerca. Grazie a lavori di antropologia, ho scoperto analogie con donne in movimenti di resistenza di altri periodi storici.

Major Masika’s bedroom. In the frame is the younger sister Denadine. Masika, 26, has a business and accounting degree. She has fought in the rebel group Mai Mai La Fontaine and then in M23. In October 2012 she was severely beaten by Mai Mai rebels because of her decision to join M23 and now she can’t sleep at night in her house because of the danger of a repeat attack. Kiwanja, (territory controlled by rebel group M23), North Kivu, DRC
di Francesca Tosarelli, Major Masika’s bedroom. Kiwanja, North Kivu, DRC

La politicizzazione, la lotta contro l’oppressione, sono per queste donne strumento di riscatto anche personale, nonostante il fatto di dover imbracciare le armi?
In alcuni conflitti, contemporanei e non, la mancanza di autorità, la transitorietà dei soggetti al potere, il terremoto nelle esistenze delle vite delle persone crea paradossalmente una possibilità di esplorare differenti modi di essere. Così, in un contesto storicamente patriarcale, per motivi spesso di natura logistica e di necessità, anche le donne sono ‘ammesse’ al fronte. Affrontano un’esperienza che cambierà la loro identità in maniera radicale: sperimentano – nell’estremo del conflitto – direttamente attraverso i loro corpi. La complessità delle loro azioni condiziona, cambia i rapporti con gli uomini e con la collettività. Durante il periodo della guerriglia si assiste, a mio avviso, ad un esperimento che accade in itinere: donne e uomini che erano dentro un contesto non paritario si trovano improvvisamente di fronte a un terremoto di ruoli che mette in discussione pratiche di oppressione millenarie. Questo non significa che automaticamente alla fine del conflitto le condizioni di queste donne miglioreranno e il patriarcato sarà sradicato. I cambiamenti culturali, se avvengono, impiegano generazioni, se non centinaia d’anni. Le esperienze di queste donne però condizionano le loro comunità, il rapporto con gli uomini e la percezione di sé. A seconda di quanto si prolunga la guerriglia e di quanto si accompagna ad un percorso di maturazione e di analisi politica, credo che essa lasci nelle generazioni a venire un portato di cambiamento. Tutto questo, se ci pensiamo, non vale solo per alcuni movimenti di resistenza contemporanei, ma è una dinamica che ha caratterizzato anche altre epoche storiche.

Major Mathilde Samba, 31, and her husband Colonel Jean-Marie Labila, 49. Mathilde and Jean-Marie defected from the army and national police and joined M23 in November 2012. They sent their four children to Kinshasa. M23 compound, Rutshuru, (territory controlled by rebel group M23), North Kivu, DRC
di Francesca Tosarelli Major Mathilde Samba,, and her husband Colonel Labila, 49 , North Kivu, DRC

Tu eri già stata in territori di conflitto, usando l’arma pacifica della fotografia e del racconto. Il fatto di aver visto da vicino la durezza della guerra ti ha permesso di avvicinarle e di guadagnarti la loro fiducia, per farti raccontare le loro storie?
Le avevo studiate sui libri ma era la prima volta che incontravo guerrigliere in carne ed ossa, non sapevo cosa aspettarmi e non avevo nemmeno troppi anni di esperienza alle spalle in zone di conflitto. Ciò che ha reso l’accesso più personale, è stato aver condiviso le mie motivazioni anche politiche, le ragioni più profonde di questa ricerca.
Qual è stato l’incontro più toccante?
È stato emozionante ascoltare il colonnello Fanette Umuraza, mia coetanea con laurea in Scienze politiche, braccio destro del leader militare Sultani Makenga, che mi parlava del suo ruolo rivoluzionario, lì, in mezzo alla giungla del Kivu. Così come lo è stato l’incontro con Marimakele, adolescente che aveva perso il padre durante un attacco ribelle al suo villaggio, e sentire il suo disperato bisogno di prendersi quello che rimaneva della vita nelle proprie mani. Anche quello è stato un bagno di realtà. Devo dire anche che nella condizione di Fanette probabilmente avrei scambiato la mia macchina fotografica per un AK47. Quell’incontro è stato importante per capire che non posso giudicare la scelta della resistenza armata dalla mia comfort zone, che per altro è intrecciata direttamente con le cause dei conflitti contemporanei. E’ il nostro modello consumistico e tutto ciò che serve per mantenere il nostro stile di vita a rendere massacrante l’esistenza di milioni di persone.

Ms kalashnikov
Ms kalashnikov

Il tuo modo di fare fotografia, senza la sicurezza di una agenzia, rifiutando il sensazionalismo, ma anzi cercando di stabilire rapporti, puntando sull’ascolto, chiede un grosso investimento di tempo, di risorse. Come riesci a gestirti? Il tuo successo internazionale fa pensare che c’è ancora posto per il fotogiornalismo di qualità.
In realtà ho praticamente smesso di collaborare coi magazine internazionali sui quali pubblicavo, non c’era più spazio per la tipologia di storie e lo stile che proponevo. E appartenere a un’agenzia non è comunque una sicurezza, gli spazi per i reportage di approfondimento calano di giorno in giorno. Ciò che continua a vendere sono quasi solo le news ma in ogni caso il mainstream ha un’agenda politica rigida con la quale ho fatto sempre più fatica ad interagire: sono interessata a narrare conflitti più nascosti e con punti di vista diversi. Per me è centrale lavorare con le persone protagoniste delle storie in maniera più paritaria possibile, senza reiterare lo stereotipo neocoloniale delle povere vittime. Dici “successo”. Sì, forse lo è portare avanti ricerche di questo tipo in maniera indipendente e trovare il modo di poterle condividere con un grande pubblico. Cosa che accade a me come a tanti altri bravi colleghi. Però il paradosso è che questo “successo” non è accompagnato da un riconoscimento economico. La maggior parte di noi vive vite al limite della precarietà.

Francesca Tosarelli
Francesca Tosarelli

Ti esprimi e racconti attraverso le immagini. Come è stato passare alla scrittura con Wu Ming 5?
Lavorare con Wu Ming 5, Riccardo Pedrini, è stata una delle avventure più ricche che mi sia capitata. È un visionario, una persona di grande spessore intellettuale, umano, politico. Questo romanzo è anche un atto di onestà: ci mettiamo a nudo entrambi, nelle nostre riflessioni, analisi e contraddizioni. Essere compagni di un percorso ha portato durante la scrittura a farci da specchio l’un l’altro, questo si è tradotto in una profonda intimità sulla pagina. E questo colpisce e coinvolge il lettore in prima persona.

Wu Ming 5
Wu Ming 5

E ora abbandonerai la macchina fotografica?
No, la macchina fotografica continua ad essere mio fondamentale mezzo espressivo. Anche se Riccardo mi ha insegnato a scrivere non sono diventata una scrittrice.
Ma forse ho capito che sono capace di raccontare in maniera efficace le mie esperienze, che sono un mix tra ricerca antropologica visuale, storytelling, giornalismo, nomadismo, partecipazione. In questo processo pongo delle domande, a me stessa e al lettore, che chiamo in causa direttamente.
Il mezzo della scrittura, e in questo caso nella forma mista autobiografia/flusso di coscienza, ha radici nella tradizione ma rientra perfettamente nella costellazione di Ms Kalashnikov perché, così mi dicono, l’esperienza della lettura di quel libro è immersiva e coinvolgente. Ciò che vorrei fare è proprio questo creare esperienze che uniscono l’aspetto conoscitivo, emozionale e narrativo e possa no raggiungere un pubblico diverso, senza steccati.

IN TOUR

Francesca Tosarelli e Wu Ming 5 presentano il libro Ms Kalashnikov oggi, 13 giugno, alla Feltrinelli  Libri e musica Duomo a Milano, alle ore 18,30. E il 28 giugno alla Libreria Minerva di Bologna

Le foto pubblicate in questa intervista sono di Francesca Tosarelli e fanno parte del book di Ms Kalashnikov.  Maggiori info su www.mskalashnikov.com

La “nuova stagione” del Teatro Valle: «Spazio alle pratiche di gestione comune»

Un’azione dimostrativa sabato scorso – con una nuova occupazione e l’immediato sgombero da parte della polizia – e un’assemblea cittadina il primo luglio per riaccendere i riflettori sullo stato d’abbandono in cui versa il Teatro Valle di Roma a quasi due anni dall’interruzione dell’occupazione (era il 10 agosto 2014) durata 37 mesi. Nel pieno della campagna elettorale per il ballottaggio, mentre i candidati sindaci Raggi e Giachetti si confrontano, tra l’altro, anche sul tema delle occupazioni, gli artisti e attivisti che hanno animato l’esperienza del Teatro Valle occupato sono tornati sabato 11 giugno ad accendere le luci in sala, anche se per poche ore.

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«Da 669 giorni e 669 notti il Teatro Valle è chiuso. Per il restauro non esiste ancora un progetto. I fondi non sono mai arrivati, i lavori non sono cominciati, la manutenzione non è stata fatta. Qui dove si sono sperimentate forme di partecipazione viva, da due anni il buio in sala non annuncia nessuna apertura di sipario» spiega in una nota il collettivo del Valle, denunciando l’immobilismo della politica locale e nazionale sulle sorti della sala settecentesca al centro della Capitale. «A Roma le politiche culturali e la progettualità artistica non sono mai state così disastrose. La volontà dell’amministrazione, e della sua successiva gestione commissariata, è stata quella di chiudere spazi piuttosto che aprirne di nuovi».

Mentre fuori le forze dell’ordine tentavano di aprire la porta, all’interno del teatro si diffondeva l’aria delle Nozze di Figaro di Mozart. A sottolineare, spiegano gli attivisti, il «tempo scaduto rispetto alle promesse disattese che hanno indotto l’uscita dallo spazio nell’agosto 2014. Tempo scaduto sull’accordo tra Mibact e Comune di Roma, annunciato dal luglio 2011 e mai avvenuto».
Da qui, la denuncia dello stato di abbandono del teatro e della mancanza di vere e nuove politiche culturali, ancora legate alla «retorica del bando» e alla «consuetudine delle nomine dall’alto» e che «non sono state un tema di discussione neanche in questa campagna elettorale».

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L’azione dell’11 giugno vuole dunque portare l’attenzione su pratiche di gestione comune – l’esempio più citato è la sperimentazione dell’ex Asilo Filangieri a Napoli – e sulla necessità di autogoverno delle comunità. «Volevamo fare un’assemblea pubblica in teatro ed è stato impedito. Eravamo disposti a farla in strada ed anche questo non è stato permesso. Invitiamo pertanto tutte/i a partecipare il primo luglio a un’assemblea cittadina che si interroghi su queste questioni». Giovedì 16 giugno alle 19 si svolgerà un incontro preparatorio (a Sparwasser, via del Pigneto 215).

IL VIDEO
Luci in sala. Breve cronistoria di poche ore di ossigeno

Brexit, il pressing dell’Europa e i timori dei britannici

Nigel Farage, leader degli euroscettici britannici dell'Ukip, alleati del Movimento Cinque Stelle a Strasburgo a margine di un evento referendario a Londra in favore della Brexit, 7 giugno 2016. ANSA

I mercati tremano per Brexit ma anche in Gran Bretagna, a dieci giorni dal voto del 23 giugno sull’uscita dall’Unione europea, la tensione sale. Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha spiegato che se gli elettori scelgono di lasciare l’Ue, il Paese avrà davanti sette anni di limbo. Secondo Tusk, anche se i negoziati con gli altri Stati membri per definire le condizioni dell’uscita potrebbero essere completati entro due anni, la ratifica del nuovo status della Gran Bretagna potrebbe richiedere molto più tempo.

Dopo la Brexit andrebbero infatti affrontate questioni come la determinazione delle tariffe che l’Ue applicherebbe alle merci inglese o le restrizioni alla libera circolazione. «Ogni singolo Stato membri, nonché il Parlamento europeo, dovrebbe approvare il risultato complessivo. Ci vorrebbero almeno cinque anni e, temo, senza alcuna garanzia di successo», ha detto Donald Tusk in un’intervista alla tedesca Bild.

Come la pensano i britannici sulla Brexit. ANSA/CENTIMETRI
Come la pensano i britannici sulla Brexit.
ANSA/CENTIMETRI

Mentre i sondaggi confermano l’incertezza dell’esito del voto, gli attivisti di Vote Leave, i pro Brexit, si dichiarano invece più ottimisti sul processo e sui tempi di uscita, considerandolo più semplice di quanto lasciano presagire i loro avversari, e puntano tutto sulla possibilità di stipulare nuovi accordi commerciali con gli Stati non appartenenti all’Ue. Dall’altra parte della barricata, però, trovano il fuoco di fila dei leader europei, a cominciare proprio dal loro premier, David Cameron, che parla di «un decennio di incertezza» nel caso di Brexit.

La cancelliera tedesca Angela Merkel ha aggiunto che l’uscita dall’Ue ridurrebbe il potere negoziale del regno Unito nei confronti dei Paesi extraeuropei e il suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble ha aggiunto che Brexit  sarebbe una perdita pesante per l’Europa ma significherebbe la fine dell’accesso al mercato unico europeo per i britannici. «In è in, out è out» ha commentato Schäuble.

L’ultimo allarme è giunto da un deputato conservatore britannico, Andrew Tyrie, che presiede il comitato ristretto del Tesoro, che ha analizzato l’impatto economico della Brexit. Il deputato ha spiegato che si avrebbe nell’immediato uno shock economico, riducendo il volume degli scambi e a ricasco il tenore di vita dei britannici. Nel lungo periodo le previsioni sono meno univoche ma un dato di fondo sembra emergere con chiarezza: la riduzione degli scambi con i Paesi partner del mercato unico europeo sarebbe superiore all’eventuale aumento delle relazioni commerciali con i paesi extra Ue.

Cosa sappiamo di Omar Mateen, lo stragista di Orlando

Il terrorismo del lupo solitario e la guerra culturale contro i diversi a Orlando, Florida. La dinamica della strage del Pulse, locale gay della città, luogo di ritrovo fondato dalla sorella di un ragazzo morto di Aids, ormai la conosciamo: Omar Mateen, guardia giurata, è entrato nel locale ed ha aperto il fuoco con due pistole e un fucile a ripetizione AR-15, un’arma automatica che negli Usa si può comprare anche se non si è un marine destinato alle zone di guerra. Come al Bataclan di Parigi l’arrivo della polizia ha trasformato la situazione in un assedio con ostaggi concluso con l’intervento delle SWAT, le squadre speciali, e la morte del terrorista.

This undated image shows Omar Mateen, who authorities say killed dozens of people inside the Pulse nightclub in Orlando, Fla., on Sunday, June 12, 2016. The gunman opened fire inside the crowded gay nightclub before dying in a gunfight with SWAT officers, police said. (MySpace via AP)
Omar Mateen (MySpace via AP)

La seconda cosa che sappiamo, è che la strage del Pulse è da annoverare assieme nella categoria degli attacchi terroristici e a un atto di follia. Le informazioni lasciano intendere che Mateen, che pure si è dichiarato fedele all’Isis in una telefonata al 911 prima di compiere la strage, abbia agito da solo. Nel 2013 e 2014 era stato interrogato e scandagliato dall’Fbi per un legame vago con Moner Mohammad Abusalha, il primo kamikaze americano in Siria, che abitava anche lui a Fort Pierce, in Florida. Legame incidentale, avevano concluso le indagini, che pure avevano rivelato che Mateen si fosse spesso lasciato a andare a commenti estremisti e battute filo Isis sul posto di lavoro.

 


 

La terza cosa che sappiamo è che Mateen picchiava la moglie. Sitora Yusifiy, ex moglie del terrorista, ha tenuto una specie di conferenza stampa (il video qui sopra) nella quale racconta di essere stata picchiata più volte per motivi futili («Tornava a casa e mi picchiava per cose come non aver fatto la lavatrice») e parla di una «persona instabile e bipolare» ma non particolarmente religiosa. Mateen ha un figlio da una seconda donna, che però non ha commentato la vicenda e che, anche lei sembra averlo lasciato.

Un’immagine di uno dei video caricati sulla pagina Facebook del “governo provvisorio dell’Afghanistan” guidato da Sadique Mateen

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Che la strage non abbia a che vedere con la religione lo sostiene  il padre di Mateen, Sadiq, che sostiene che tempo fa il figlio si fosse adirato di fronte alla vista di due uomini che si baciavano davanti ai suoi figli. Di Sadiq, invece, sappiamo che conduce una trasmissione su una Tv satellitare afghano-americana durante il quale a volte inneggia ai talebani e a volte parla come se fosse il presidente dell’Afghanistan, insistendo molto sul tema della necessità di cancellare la linea Durand (il confine tra i due Paesi che divide le tribù Pashtun).

Mateen era cresciuto in Florida dopo essere nato a New York, aver finito le scuole e conduceva una vita normale. Lavorava come guardia giurata, aveva una licenza per armi da fuoco – il fucile a ripetizione e le altre armi sono state comprate la scorsa settimana – e passava molto tempo in palestra e in moschea. L’imam parla di un uomo tranquillo che arrivava per le funzioni religiose, pregava e se ne andava. Un frequentatore della moschea ha raccontato a un media locale che Mateen aveva spesso scatti d’ira e voleva diventare poliziotto.


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Il governo e il brutto vizio della mancetta

Non bastavano gli 80 euro. Evidentemente a qualcuno non è ancora chiaro che un lascito o una promessa del governo nazionale a ridosso delle elezioni è sempre di cattivo gusto specialmente se arriva da Presidente del Consiglio autoproclamatosi statista e invece sempre più concentrato sul prossimo quarto d’ora. C’è un’inopportunità che rasenta il voto di scambio ogni volta che un politico quantifica con sospetta precisione il beneficio in grado di elargire in tempi strettissimi. Non è un reato, certo ma è una cosa schifosa. Schifosa sì.

A Roma Giachetti s’è sparato la campagna elettorale tirando fuori ciclicamente la propria vicinanza a Renzi e al governo: i suoi “chiederò a Renzi” pronunciati con la faccetta di quello che gigioneggia sulle sue amicizie che contano hanno trasformato la campagna elettorale in un bisticcio sul “mio padre è più bravo del tuo”, quelli da asilo, quei duelli che solitamente si conclude con qualcuno che sibila “io sempre uno più di te” e niente. Vince lui. Dibattiti profondi, insomma.

Oggi ci cade anche la Boschi, ovviamente: se a Torino non vince il PD, dice, Torino perderà 250 milioni. Poi si corregge ovviamente chiarendo come si riferisse in realtà ad un progetto che il M5S aveva detto di non voler fare. Smentito anche questo: la Appendino (candidata sindaco per il M5S, appunto) dichiara di non essersi mai espressa così. Tante scuse. Tutto finito. Con Fassino che parla di fraintendimento. Olè.

Di certo sembra che oggi “essere del PD” o meglio ancora renziano sia un prerequisito fondamentale per candidarsi in una città che possa ottenere un occhio di riguardo dal governo. Sempre la solita storia del merito di essere vicino a qualcuno che conta. A proposito di meritocrazia. E con questa abitudine di essere solidali soprattutto con i propri sodali. Come Salvini. Come una banda. Un clan.

Il Giappone costruisce la sua classe operaia

Nel 1995, il film di animazione Ghost in the Shell aveva prefigurato un futuro distopico in cui le macchine sviluppavano forme di controllo sugli esseri umani. Ambientato nel 2029, mostrava androidi dotati di anima; uomini con organi o arti meccanici; cervelli dotati di estensioni cibernetiche costantemente connessi in Rete, e quindi vulnerabili ad attacchi informatici; insiemi vastissimi di dati alla base di modi di ricordare e di percepire l’esistenza diversi da quello umano.

Il futuro del film di Mamoru Oshii è forse troppo estremo. Eppure, sembra ormai chiaro che entro il 2030, le macchine potrebbero sostituire l’uomo in molti ambiti.
Da almeno due anni a questa parte, Tokyo punta forte sullo sviluppo di intelligenza artificiale e della robotica. La commissione per la competitività economica del governo giapponese ha recentemente sottolineato quanto questa sarà fondamentale per raggiungere l’obiettivo dei 600 trilioni di yen (circa 5mila miliardi di euro) di Pil entro il 2020.

A causa del rapido invecchiamento della popolazione, nel 2060 il Giappone avrà probabilmente a disposizione metà della forza lavoro attuale. Ad oggi, i robot sembrano offrire una valida alternativa per evitare che la terza economia mondiale scivoli in basso nei ranking globali.
Un discorso che sembra già avviato è quello dell’assistenza agli anziani e ai malati. Al momento, secondo il ministero del Welfare giapponese nel Paese-arcipelago ci sono 1,7 milioni di impiegati nel settore dell’assistenza agli anziani.Tra qualche anno potrebbero non bastare più.
E a fronte di politiche migratorie restrittive e difficoltà burocratiche per le lavoratrici straniere del settore, l’inserimento dei robot rimane per il governo una delle strade più facilmente percorribili per evitare ripercussioni politiche.
Sempre secondo il ministero del Welfare, che nel 2013 aveva condotto un sondaggio tra più di 1.800 persone, il pubblico vede di buon occhio i robot-badanti. Questi ridurrebbero il peso fisico, psicologico e finanziario delle cure sui familiari, e, al tempo stesso, avrebbero un effetto positivo sull’indipendenza dell’assistito. Insomma, in termini di efficienza, i robot avrebbero un notevole vantaggio rispetto all’uomo. Rimane, però, il loro aspetto freddo e inquietante.

Per ovviare in parte al problema, a febbraio 2015, il Riken, uno dei più prestigiosi istituti di ricerca scientifica del Paese, ha presentato Robobear, un automa con tutte le funzioni per l’assistenza sanitaria – in particolare, sollevare e spostare una persona dalla sedia a rotelle al letto, o alla vasca da bagno, e viceversa – ma dall’aspetto rassicurante. I suoi 140 chili di cavi e ingranaggi sono sormontati da una testa metallica da orsacchiotto in stile fumetto giapponese.

Negli ultimi due anni, i robot hanno fatto il loro ingresso anche in altri settori, come l’assistenza ai clienti, l’ospitalità alberghiera e perfino il cinema. Da aprile 2015, Nao, progetto di punta – insieme a Pepper, il robot in grado di “leggere le emozioni umane”, in vendita da giugno dell’anno scorso – della joint-venture tra Softbank, il primo operatore telefonico di rete mobile giapponese, e la francese Aldebaran, accoglie i correntisti della Ufj Mitsubishi in due filiali a Tokyo offrendo loro informazioni sui servizi della banca in cinque lingue. Ad agosto, in un parco divertimenti nei pressi di Nagasaki, Giappone sud-occidentale, ha aperto un hotel interamente gestito da automi: lo Henna (“strano”, in giapponese) Hotel.

Questo articolo continua sul numero 24 di Left in edicola dall’11 giugno

 

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