Sul numero di Left in edicola pubblichiamo un reportage a firma di Marco Omizzolo sulle condizioni di vita dei braccianti sikh impiegati nei campi agricoli della provincia di Latina e sulla loro mobilitazione contro lo sfruttamento da parte di caporali indiani e “padroni” italiani. Qui un’anticipazione per immagini dello sciopero, delle assemblee e delle abitazioni malsane e fatiscenti in cui abitano alcuni lavoratori indiani.
(Foto di Umberto Feola e Marco Omizzolo)
Un’immagine dello sciopero del 18 aprile scorso: duemila lavoratori indiani in piazza, davanti alla Prefettura di Latina, per chiedere «paghe eque e più umanità». (u.f.)
«Siamo per la pace e non vogliamo creare problemi, ma non siamo più disposti ad abbassare la testa dinnanzi alle prepotenze e violenze di alcuni padroni» dice a Left Gurmukh Singh (a destra), che guida la protesta dei braccianti indiani. (u.f.)
Dopo lo sciopero i lavoratori hanno continuato a organizzare presidi e assembleee in tutta la provincia, non senza conseguenze: in qualche caso si sono registrate aperture da parte dei datori di lavoro, in altri casi licenziamenti e aggressioni. (u.f.)
Una delle assemblee preparatorie. I lavoratori hanno discusso delle forme e dei contenuti della protesta con il sostegno di Flai Cgil e In Migrazione. (u.f.)
La “contabilità” fai da te di un bracciante del Pontino, che su un quaderno ha annotato le ore effettivamente lavorate, ben superiori a quelle dichiarate ed effettivamente retribuite dal datore di lavoro. (m.o.)
Una delle baracche fatiscenti, senza riscaldamento né acqua calda, in cui vivono i braccianti. (m.o.)
Il tetto in Eternit – le lastre di amianto sono spesso rotte – sotto il quale vivono alcuni lavoratori indiani. (m.o.)
Beppe Grillo durante lo spettacolo ''Grillo vs Grillo'' presso il teatro 'EuropAuditorium' di Bologna, 30 aprile 2016.
ANSA/GIORGIO BENVENUTI
Stretta fra il Partito della Nazione (il Pd di Renzi, e le sue recenti annessioni di ex-berlusconiani) e il Movimento della Nazione (il M5S, ambiguamente estraneo alla dicotomia destra/sinistra), orfana della destra – federata a suo tempo dal Cavaliere ma ora divisa fra moderati ed estremisti -, l’Italia ha bisogno di Sinistra. Di un quarto polo che sparigli il sistema politico, che ora si divide tra forze del sistema (il Pd e vari pezzi della destra) e forze antisistema (M5S e Lega), restituisca alla politica la sua complessità, e faccia ri-emergere la dicotomia destra/sinistra, oggi oscurata ma non scomparsa.
Per realizzare questo obiettivo strategico il partito nuovo della sinistra deve farsi carico di alcuni compiti. Il primo dei quali è ripoliticizzare la società, ovvero dare orientamento, direzione, coerenza, al malessere – all’apatia, alla ribellione, alla disaffezione, alla paura, alla sfiducia – che la attraversa, alimentato dalla crisi strutturale del neoliberismo e dell’ordoliberalismo che all’euro è sotteso: una crisi che produce scarsità di lavoro, disoccupazione, povertà, disuguaglianza, e accorciamento delle aspettative di vita. Finora questo malessere si è espresso secondo le coordinate del neoliberismo imperante: come insoddisfazione individuale rivolta contro i politici in quanto personalmente corrotti, con l’implicita accettazione dell’attuale assetto dell’economia in quanto “naturale”. Una ribellione passiva, quindi; che si manifesta o con l’astensione elettorale o con il voto a un movimento antisistema o ancora con la protesta estremistica di destra – alimentata dall’emergenza migranti che si somma con l’emergenza sociale -. Una ribellione che deve diventare attiva.
Il secondo compito è democratizzare la democrazia, che va sottratta alla trasformazione da democrazia parlamentare – prevista dalla Costituzione vigente – in democrazia d’investitura, o in democrazia plebiscitaria, quale è disegnata dalla riforma renziana. Da democrazia dei partiti, cioè della partecipazione e della mediazione, in democrazia del Capo e del suo rapporto immediato (in realtà, attraverso i media, di cui è l’assoluto padrone) con le masse passive. Una deriva che è da bloccare con fermezza e inventività.
Questi compiti devono certo acquistare sostanza attraverso “politiche” – su salute, scuola, lavoro, pensioni, sicurezza – ma hanno a che fare con la riattivazione della “politica” stessa, e con la sua forma tradizionale: il partito. Grazie al quale l’insoddisfazione diffusa possa diventare mobilitazione, orientata da analisi non mainstream, e organizzazione efficace che aggreghi lotte, destini, speranze. Un partito che abbia un’identità ma che non sia di testimonianza, che rifugga da reducismi e da velleitarismi, che sia radicale senza essere estremista; che si candidi a intercettare i voti degli elettori di sinistra delusi dal Pd e di chi vuole protestare contro l’attuale assetto della società e dell’economia, ma non si fida dei “cinquestelle”. Un partito non “della Nazione” ma che esprima un “punto di vista”, un interesse collettivo determinato.
La 25enne Bertha Isabel Zúñiga si trovava in Messico, dove frequenta un master per diventare insegnante, quando ha appreso la notizia della morte di sua madre Berta Cáceres, leader del Consiglio civico popolare degli indigeni dell’Honduras (Copinh). La chiamata di un parente è arrivata all’alba del 3 marzo, il giorno prima del 45esimo compleanno della sua mami, come la chiama lei, poche ore dopo il delitto. Una scarica di proiettili ha travolto nel sonno la coordinatrice del Copinh, da lei cofondato nel 1993 per fermare le speculazioni dell’industria mineraria, idroelettrica e del legno ai danni dei Lenca, una delle più antiche e povere etnie indigene del Mesoamerica, relegata in condizioni di estrema povertà e oppressione nell’area sud-occidentale del Paese. Due colpi hanno ferito il messicano Gustavo Castro Soto, di Altri Mondi-Amici della Terra, relatore in quei giorni, assieme all’attivista premio Goldman 2015, al Foro di Energias Alternativas organizzato dal Copinh. Mentre la salma veniva chiusa in un sacco, gettata su un pick up e portata in elicottero all’obitorio di Tegucigalpa, Berthita faceva ritorno in Honduras grazie alla solidarietà internazionale. In migliaia hanno accompagnato il feretro per le strade polverose di La Esperanza. Corpo esile e sguardo determinato, da allora Berthita non si è più fermata. Con la famiglia e il Copinh ha intrapreso una campagna – #JusticiaParaBerta – per chiedere di far luce sull’omicidio e l’istituzione di una commissione d’inchiesta indipendente sulle indagini, che pochi giorni fa hanno condotto a quattro arresti. «Non hanno ucciso solo mia madre, ma la madre di un popolo intero» ci dice la giovane via Skype. Chi sono i responsabili del suo assassinio?
Le circostanze della sua morte sono legate al progetto idroelettrico Agua Zarca. Riteniamo che l’impresa Desarrollos Energéticos S.A., la Desa, sia coinvolta e con lei le istituzioni finanziarie che la sostengono. Anche il governo e le istituzioni repressive hanno le loro responsabilità. Contravvenendo alla convezione sul diritto alla consultazione dei popoli indigeni, lo Stato ha espropriato territori ancestrali, svendendo risorse preziose alle multinazionali straniere, proteggendo i loro interessi e non la vita di chi difende l’ambiente e i diritti umani. Come procedono le indagini?
Considerando che il Ministerio Pubblico ha secretato l’inchiesta, negando il nostro diritto come familiari ad essere informati, non abbiamo avuto modo di verificare se i quattro arresti sono il risultato di un procedure esaustive. È stata respinta la nostra richiesta di accesso agli atti, di svolgere l’autopsia e le indagini in presenza di esperti indipendenti della Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh). Le uniche informazioni che abbiamo sono quelle fornite dal testimone Gustavo Castro Soto, secondo cui le prove sono state raccolte con scarsa professionalità. È vergognoso dover apprendere le notizie sul caso dai media, che non esitano a screditare mia madre, riducendo un assassinio politico a un crimine passionale o frutto di conflitti interni all’organizzazione. Illazioni orchestrate per spostare l’attenzione pubblica. Si cerca quindi di criminalizzare il Copinh?
Per settimane hanno interrogato i membri del Copinh e non chi la chi minacciava mia madre. Eppure il diritto internazionale prevede che, in caso di omicidio di un difensore dei diritti umani, la linea investigativa debba partire proprio dal lavoro condotto dalla vittima. La causa dell’assasinio è da cercare nella battaglia, sua e del Copinh, contro il modello criminale dell’estrazione mineraria, neocolonialista e femminicida promosso dall’estrema destra. L’Honduras è un Paese violento e corrotto, dove regna l’impunità. Temiamo che altri omicidi possano ripetersi. Com’è stato per Nelson Garcia, ucciso pochi giorni dopo l’omicidio di Berta?
Esatto. Benché operasse nella difesa del diritto alla casa della comunità di Rio Chiquito, nel dipartimento di Cortes, era un membro del Copinh. Prima di essere ucciso, aveva preso parte a un presidio contro lo sgombero di 150 famiglie indigene. Le operazioni sono state presidiate da un folto dispiegamento di agenti di polizia e militari della Dgic, corpo speciale al servizio dell’esecutivo, che non ha mosso un dito per indagare.
L’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis è fra gli intellettuali che negli ultimi anni hanno maggiormente contribuito a riportare al centro del dibattito culturale la Costituzione, anche come lungimirante manifesto politico che attende ancora una piena attuazione. Lo ha fatto scrivendo sferzanti pamphlet come Italia s.p.a. (2007) contro la svendita del patrimonio d’arte. E poi saggi come Paesaggio Costituzione, cemento (2010) contro la deregulation, l’abusivismo e il consumo di suolo che va contro la salvaguardia del paesaggio e Costituzione incompiuta (2013) in cui sviluppa – con Montanari, Maddalena e Leone – la riflessione di Calamandrei che già il 2 giugno del 1951 scriveva della festa della Repubblica comeLa festa dell’incompiuta. Ma il docente della Normale e presidente del comitato scientifico del Louvre si è occupato di Costituzione anche in numerosi articoli e interventi, molti dei quali (comprese le 15 tesi per l’Italia apparse su Left nel 2013) sono ora raccolti nel volume Costituzione!, pubblicato da Einaudi come i libri precedenti. Il volume è stato presentato al Salone del libro di Torino il 15 maggio. L’autore e il giurista Gustavo Zagrebelsky hanno dialogato sul tema Costituzione! Perché attuarla è meglio che cambiarla in una sala dei 500 gremita di pubblico. E i dibattiti su questo libro continuano ad essere molto partecipati, in vista del referendum del 4 dicembre 2016. (Il 2 dicembre Settis partecipa a Emergenza Costituzione le ragioni del no in Campidoglio)
Costituzione! è certamente il libro più politico di Salvatore Settis, non solo perché fin dall’introduzione il professore entra direttamente nel dibattito sulla riforma costituzionale. Quello compiuto dal governo Renzi non è il primo attacco alla Costituzione, precisa il professore, che nel volume ricorda molti precedenti compreso la riforma Bossi-Berlusconi del 2005 (che prevedeva lo Stato federale e il rafforzamento del presidente del Consiglio e del governo) fino alla modifica dell’art.81 da parte diMario Monti. Venendo al presente non possiamo dimenticare che «la riforma della Costituzione Renzi Boschi è partita con il governo Letta e, come tutti sanno, è stata stimolata da Giorgio Napolitano», dice Settis a Left. «Ma il tema della Costituzione è troppo importante per accontentarsi di prendersela singolarmente con il premier Renzi e con il ministro Boschi o con chiunque altro. Bisogna parlare delle ragioni per cui, in un momento storico come questo, anziché applicare la Carta nei suoi punti più importanti, per esempio il diritto al lavoro e il diritto alla salute, dobbiamo invece cercare di modificarla per dare più forza al governo, dicono loro».
Poi, però, viene da pensare che le cose non stiano neanche esattamente così dal momento che perfino «un renziano convinto» come l’ex presidente della Consulta Ugo De Siervo ha firmato contro la legge Renzi-Boschi «perché sostiene, giustamente, – sottolinea Settis – che la cosiddetta riforma del Senato renderà il lavoro del Parlamento molto più complicato». Nel frattempo Renzi punta a tranquillizzare le coscienze minimizzando, dicendo che è solo una riforma tecnica, che serve a migliorare la governabilità. «Anche dal punto di vista tecnico questa riforma è molto sgangherata» attacca l’archeologo ed ex presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali. «Basta guardare alla distribuzione dei lavori fra Camera e Senato. Non è affatto vero che si abolisce il bicameralismo, restano due Camere». La Camera dei deputati però sarebbe l’unica titolare della fiducia. «Ma è altrettanto vero che il Senato è autorizzato a chiedere la ridiscussione di tutte le leggi che potrebbero essere discusse solo dalla Camera. A ben vedere – aggiunge Settis – l’articolo 70 che stabilisce le competenze della Camera e del Senato nella Carta vigente è di nove parole, mentre nella versione della riforma Renzi-Boschi, se sarà approvata nel referendum di ottobre, le parole sono 434. Sostenere che in questo modo tutto si semplifica è davvero impossibile». Giuristi come Zagrebelsky sostengono che in questa proposta di cambiamento della Carta i diritti della persona finiscono per essere meno importanti delle leggi di mercato.
Professor Settis qual è il pensiero sotteso alla riforma Renzi-Boschi? «Il pensiero sotteso è seguire l’ordine di scuderia, che viene da lontano. Molti citano il documento della società finanziaria JP Morgan che in questo libro anche io ho riportato, perché le sue parole somigliano molto al documento programmatico firmato dal governo Letta. In realtà neanche a J.P. Morgan si deve la primogenitura. Tutto questo viene da Margaret Thatcher e da Roland Reagan. “Non c’è alternativa” amava dire la signora Thatcher. Per lei esisteva un solo modello di economia, quello neo liberale spinto», ricorda Settis. «Un modello che impone che i diritti della persona vadano adeguati, cioè ristretti perché altrimenti l’economia si ferma». Una minaccia che non corrisponde alla realtà. «Avendo diminuito i diritti della persona non è affatto vero che l’economia sia ripartita. La disoccupazione giovanile è al 37,8 per cento. Non è un bel segno per l’economia italiana. Sono anni che ci dicono che gestendo a modo loro il mercato del lavoro si rimette in moto. È semplicemente falso». Allora da dove ripartire? «Penso che il lavoro da fare oggi non sia tanto dare addosso ai politici, che si chiamino Letta, Boschi, o Renzi, Alfano o Quagliarello, quanto piuttosto interrogarsi sul perché questi politici, Napolitano compreso, abbiano sposato in toto le teorie reaganiane considerandole come novità, quando sono cose vecchie come il cucco. Non c’è nessuna innovazione in questo discorso». L’interrogazione più profonda, dunque, riguarda l’economia neoliberista che ci viene propinata “come dato di natura”. «L’economia è certo molto importante – dice Settis – ma non c’è un unico modello di sviluppo economico. Non c’è solo quello iper liberale per cui lasciando a mano libera il mercato andrebbe tutto a posto. Non abbiamo visto tutti i disastri dell’economia e della finanza? Nonostante tutto questo ci continuano a dire che un giorno o l’altro questo Dio mercato metterà a posto le nostre vite e la nostra società, quando i fatti dimostrano il contrario»
Settis Costituzione
Rispetto a questo tipo di ideologia liberista che innerva la riforma Renzi-Boschi, incentrata sul vecchio modello di Homo oeconomicus, l’impianto della Carta varata nel 1948 sembra straordinariamente moderno e lungimirante, lasciando intendere in filigrana una visione articolata e complessa dell’essere umano, che non ha solo bisogni materiali ma anche esigenze più profonde. Pensiamo per esempio all’art 3 della Carta che parla di uguaglianza ma anche di «pieno sviluppo della persona umana» (art. 3 secondo comma), che parla di libertà di pensiero e di parola (art. 21), libertà dell’arte, della scienza e del loro insegnamento (art.33), di diritto alla cultura alla conoscenza e alla ricerca (art. 9) e così via. «La nostra Carta così come è e, se vinceremo il referendum, continuerà ad essere, ci garantisce dei diritti che oggi purtroppo vengono violati in continuazione» chiosa Settis. « La Carta, così com’è oggi, è un’arma per rivendicarli. Quando leggo, in relazione ai tagli alla sanità, che la durata media della vita degli italiani si è ridotta e in modo molto sensibile al Sud penso: ma è davvero questo che vogliamo? È questo che farà ripartire l’economia? È questo che renderà i cittadini più felici? Oppure dobbiamo tornare a una più rigorosa applicazione dell’art. 32 sul diritto alla salute e al diritto ad un ambiente sano? L’art. 32 che parla di diritto alla salute e l’art. 9 che tutela il paesaggio vanno di pari passo, sono la stessa cosa, Non faremmo meglio a considerare la Costituzione che c’è per vedere se la possiamo applicare? È stupefacente che mentre cambiano la Carta non gli venga nemmeno in mente di dire che ci sono alcuni articoli non attuati» Qualche esempio? «Se l’art. 32 fosse applicato migliorerebbe la sanità. Invece tagliano. Basterebbe migliorare la pubblica istruzione. Invece tagliano. Migliorare la ricerca invece tagliano». Anche l’ultimo sbandierato finanziamento del Cipe di 2,5 miliardi di euro per università e ricerca, in realtà, come è stato notato da più parti, nasconde che il fondo ordinario passa da 2,7 a 2,5 miliardi, con un taglio di 200 milioni di euro.
«Senza contare che la riforma in corso è solo un passaggio, se noi cittadini non riusciamo a fermarla – paventa Settis – non può che essere il primo atto di una demolizione totale della Costituzione». Per questo come il professore auspicava nel libro Azione popolare (2012) occorre una appropriata capacità di reagire da parte dei cittadini, serve una ampia mobilitazione dal basso. Anche per questo il 7 maggio il mondo della cultura è sceso in piazza a Roma per Emergenza cultura. Molti storici dell’arte, archeologi e professionisti dei beni culturali si mobilitano in difesa dell’art. 9. «Va benissimo – commenta Settis – ma l’art.9 non è un mazzo di fiori in una stanza vuota. È un pezzo di una architettura che comprende anche il diritto all’istruzione, il diritto al lavoro, all’accesso alle cure sanitarie e così via». Molte altre manifestazioni seguiranno. Giustizia e libertà ne annuncia già numerose fino al referendum di ottobre. «Un fatto molto positivo è il documento firmato da 56 costituzionalisti contro questa riforma. Fra loro ci sono 11 presidenti emeriti della Corte Costituzionale, mentre non c’è nessun presidente emerito della Consulta, nemmeno uno, che si sia pronunciato in favore della riforma. Se gli italiani hanno orecchie per sentire e occhi per vedere io credo – conclude Settis – che il risultato del referendum dovrebbe essere un sonorosissimo “No”». @simonamaggiorel
È stato arrestato giovedì sera nel quartiere di Maadi, Cairo l’avvocato per i diritti civili Malek Adly insieme all’attivista Zizo Abdo. Malek si nascondeva lontano dalla sua famiglia e dalla sua casa dopo il mandato d’arresto firmato a suo carico dal procuratore generale Atamer Alfergany. La notizia è stata diffusa dal quotidiano Ahram online e poi ribattuta dal New York Times. Malek dovrà scontare 15 giorni di reclusione, la stessa condanna di Ahmed Abdallah ammanettato durante la retata del 25 aprile scorso. Le accuse contro l’avvocato Adly che aveva denunciato il presidente al Sisi insieme ad altri colleghi, attivisti, cittadini comuni per l’incostituzionale cessione delle due isole egiziane all’Arabia Saudita, sono: incitamento alla protesta, diffusione di false notizie, minaccia alla pace e all’unità nazionale. Adly è adesso recluso nel distretto di polizia di Giza.
Il direttore del quotidiano turco d’opposizione Cumhuriyet, Can Dündar è stato vittima di un attentato davanti al Palazzo di Giustizia dove il governo di Tayyip Erdogan lo ha mandato a processo per l’inchiesta che ha svelato il traffico di armi dalla Turchia alla Siria. Il direttore di Cumhuriuyet era stato da poco rilasciato dal carcere . «Questo attacco è avvenuto mentre siamo usciti ad attendere la sentenza del tribunale», ha scritto su twitter il direttore. «E’ stato diretto contro di me, ho visto l’aggressore», ribadisce Dündar che è in attesa della sentenza nei suoi confronti e del caporedattore Erdem Gul, alla sbarra per aver documentato il passaggio di tir dei servizi segreti turchi carichi di armi, attraverso il confine siriano. E che per questo rischia l’ergastolo.
La situazione dei giornali in Turchia è molto difficile. Il direttore di Cumhuriyet. il mio amico Can Dündar, è in prigione» aveva denunciato pochi mesi fa il Premio Nobel Pamuk in un’intervista a Left. «È uno scandalo che un direttore di giornale, qualunque cosa abbia detto per dispiacere al governo, sia per questo in carcere. La libertà di parola viene tarpata. Non è un bene per il futuro della Turchia. I leader europei stringono la mano al nostro primo ministro perché gli permette di usare le basi contro l’Isis. Ma dovrebbero prestare attenzione anche al venir meno della libertà di parola in Turchia».
Quando nel nuovo romanzo del premio Nobel Orhan Pamuk, La stranezza che ho nella testa (Einaudi) un avvocato di Ankara chiede ad un tassista cosa pensa dei Curdi, lui ne dice il peggio possibile. Ma quando quell’avvocato dice di essere venuto ad Istanbul «per difendere coloro che sono stati torturati in prigione, che sono stati dati in pasto ai cani solo perché parlano curdo», il tassista si rimangia tutto. Di primo acchito aveva negato ciò che pensava davvero. ” Questa è la situazione che si vive in Turchia oggi, bisogna ricorrere a un doppio registro per dire ciò che davvero si pensa. Perché si rischia molto”.
Qui l’intervista completa a Pamuk:https://left.it/left-n-48-12-dicembre-2015/
British Labour party candidate for Mayor of London Sadiq Khan (R) and his wife Saadiya Khan (L) leave after voting at a polling station in south London, Britain, 05 May 2016. Londoners head to the polls to elect the successor to London's current Mayor Boris Johnson. ANSA/HANNAH MCKAY
La notizia è storica: Sadiq Khan, cittadino britannico di origine pakistana, con il 44% batte il candidato conservatore Zac Goldsmith a succedere a Boris Johnson sulla poltrona di sindaco di Londra. I toni eccessivi, le accuse di essere un’estremista, non hanno funzionato. È una vittoria simbolica e importante per il Labour di Jeremy Corbyn che nelle amministrative britanniche ottiene un risultato chiaroscuro.
Il partito del nuovo leader fa malissimo in Scozia, dove trionfa lo Scottish National Party, che è un partito di sinistra. E fa bene in Inghilterra, dove perde molto meno di quanto i sondaggisti si aspettassero. Il risultato scozzese è la ripetizione di quanto capitato alle politiche dello scorso anno, non una sorpresa. E non è un segnale di una fuga di elettori perché il Labour è troppo a sinistra: su alcune questioni – ad esempio il rinnovo del programma dei sommergibili nucleari Trident – lo Snp è d’accordo con Corbyn.
Certo è che con risultati simili a quelli amministrativi il Labour perderebbe le elezioni generali. Ma i risultati suggeriscono anche che un Parlamento eletto sulla base del voto di oggi non avrebbe una maggioranza conservatrice – che invece i tories di Cameron oggi hanno.
I critici di Corbyn si sono precipitati ad attaccarne la leadership e a ripetere il mantra che le elezioni si vincono al centro. Può darsi anche abbiano ragione, ma non è il risultato elettorale di queste ore che dimostra queste teoria. Corbyn è leader da pochi mesi e i risultati di oggi sono meno peggio di quanto chiunque si aspettasse. Il tentativo di referendum sulla sua testa – tentato dagli oppositori di Corbyn – non ha funzionato. E la vittoria, attesa, di Khan, è un buon risultato in termini di rinnovamento dell’immagine del partito – che pure qui e la ha pagato delle sciocchezze fatte dai suoi membri: in un collegio di Liverpool, ad esempio, due consiglieri laburisti hanno perso dopo delle battute ritenute antisemite da parte di Ken Livingstone, ex sindaco di Londra.
Al contempo, Corbyn non può cantare vittoria: la sua leadership non ha dato uno slancio al partito e, se le cose rimarranno come sono, difficilmente il Labour tornerà a Downing Street. Ma per le elezioni generali c’è molto tempo. Il problema die laburisti è quanto e come continueranno a litigare tra loro sulla leadership della persona che gli elettori hanno scelto come loro capo.
Quando la regina Elisabetta, nel novembre 2008, chiese ad alcuni professori della London School of Economics come mai non avevano previsto la crisi appena scoppiata, l’economia aveva appena ricevuto la migliore valutazione accademica tra tutte le discipline del Regno Unito. Quanto al dibattito che ne è seguito, Robert Lucas, premio Nobel e fondatore della moderna macroeconomia, che solo qualche anno prima aveva affermato che «il problema della prevenzione della depressione, per tutti gli scopi pratici era ormai stato risolto», sviluppò un contorto ragionamento secondo il quale la crisi non era stata prevista perché secondo la teoria economica certi eventi non possono essere previsti. Come può sussistere un contrasto così stridente tra l’effettiva capacità di una disciplina di interpretare la realtà e il prestigio di quella stessa disciplina nell’accademia e nell’opinione pubblica? Come mai, a distanza di otto anni, si ricorre ancora a quella teoria per superare questa perdurante fase di crisi?
È attorno a queste domande che scorre uno dei percorsi di ricerca del volume di Francesco Sylos Labini, Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi, appena pubblicato per i tipi della Laterza. Le discipline economiche, ci ricorda Sylos Labini, si sono sempre caratterizzate per la presenza di diverse scuole di pensiero, ciascuna delle quali si associava a differenti concezioni della storia, della società e della politica. Purtroppo, negli ultimi trent’anni, tra di esse ha preso il sopravvento la teoria economica neoclassica. Difficile dare pienamente conto del perché una scuola di pensiero, nata nella seconda metà dell’800 e accompagnata, fin dai suoi esordi, da critiche assai fondate, sia oggi il principale se non unico riferimento per accademici, politici e tecnici. Alcune di queste ragioni possono essere rintracciate nel fatto che, sul piano metodologico, essa è riuscita a presentarsi come interprete dei successi ottenuti in quel secolo dalla fisica newtoniana, imitandone la struttura e il metodo. Da qui scaturiscono i caratteri fondamentali di questa teoria: la riduzione del soggetto ad atomo isolato sul mercato (individualismo metodologico), l’idea della tendenza all’equilibrio tra forze (interessi) contrapposti, l’eliminazione dal campo della teoria pura di qualsiasi problematica non trattabile matematicamente.
In sostanza, è nella scelta metodologicala ragione ultima della devastante emarginazione dall’economia neoclassica di tutti quei temi – culturali, storici, giuridici, connessi alla giustizia sociale – che nel moto dei pianeti non trovano alcun corrispettivo.
Questo nucleo teorico ha affermato la propria egemonia culturale avvalendosi anche di operazioni propagandistiche ai limiti della truffa. La vicenda del cosiddetto “premio Nobel” in economia è particolarmente istruttiva. Alfred Nobel, inventore della dinamite, non voleva che il suo nome restasse associato a uno strumento di distruzione, dunque con i suoi ingenti guadagni istituì un fondo per premiare chi si fosse reso utile all’umanità nei campi della fisica, della chimica, della medicina, della letteratura e per la pace. Nel 1969 la Banca di Svezia, per dare all’economia il prestigio e la visibilità connessi all’assegnazione di un premio di così grande successo, istituì un “premio in Scienze economiche in memoria di Alfred Nobel” con fondi che non hanno nulla a che vedere con quest’ultimo. Recentemente, come ricorda Sylos Labini, Peter Nobel, avvocato e discendente di Alfred Nobel, ha dichiarato che «quello che è accaduto è un esempio senza precedenti di violazione di un marchio di successo».
Sostenuta dunque da un potente apparato propagandistico e da un’immensa disponibilità di risorse private e pubbliche, piuttosto che rendere un servizio utile all’umanità, l’economia neoclassica è riuscita in questi ultimi anni a trasformare una crisi nata nella finanza privata in una crisi causata dall’eccessiva generosità delle retribuzioni e del welfare. Di qui i colpi alla scuola, all’università, e a quelle politiche di austerità che stanno devastando gran parte del continente europeo.
Eppure, lungi dal seguire quelle prescrizioni, quale debba essere la strada per il progresso e il benessere sembra evidente: in una società in continua evoluzione scientifica e tecnologica, dove la competitività dei sistemi produttivi è sempre più legata alla capacità delle imprese di innovare, la centralità dello sforzo pubblico per l’istruzione e la ricerca non dovrebbe neanche essere oggetto di discussione. Assistiamo invece all’assurdo di un ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che esprimendo un modo di pensare assi diffuso tra le nostre classi dirigenti, affermò: «Perché dobbiamo pagare uno scienziato quando facciamo le scarpe più belle del mondo?».
In sintonia con altri Paesi dell’Europa meridionale, l’Italia rischia così di compromettere per generazioni il proprio futuro. Non solo, ma l’assegnazione dei fondi per la ricerca segue criteri che nulla hanno a che vedere con la qualità di quest’ultima: l’analisi impietosa di Sylos Labini dello stato delle discipline economiche e del modo in cui l’economia dominante impedisce lo sviluppo di programmi di ricerca alternativi, non è isolata. Troviamo qui un secondo pregio del volume: emergono con chiarezza i limiti di una concezione della formazione che trascura la ricerca di base per quella applicata e, per distribuire i fondi e valutare studenti, docenti e ricercatori, si affida a improbabili indicatori di tipo quantitativo. L’autore – che è anche co-fondatore e redattore di Roars.it, brillante rivista dedita proprio a discutere dei temi connessi alla ricerca – ci illustra bene quale sorte avrebbero avuto oggi Wittgenstein, Frege, Semmelweis; lo stesso Einstein, il quale fu escluso dall’accademia e trovò posto all’ufficio brevetti di Berna, alla luce dei criteri oggi vigenti per le pubblicazioni scientifiche, nel 1905 si sarebbe visto rifiutare l’articolo in cui espone la teoria della relatività ristretta.
In sostanza, la credenza nel fatto che tutto ciò che ha un valore debba avere una misura quantitativa, che troviamo in economia, investe anche cultura e ricerca. Il metodo neoliberista si costituisce dunque come simbolo di un modo di pensare agli esseri umani e alla società che rischia di inaridire le fonti principali del nostro progresso sociale e civile.
In rivolta contro la miseria del neoliberismo. Dalla Spagna, dalla Grecia, dalla Francia. E dall’Italia: domenica 8 maggio, a Roma, si tiene l’assemblea per il Piano B «contro le politiche delle banche e delle multinazionali». Perché «in Europa le politiche neoliberiste stanno devastando il continente», è scritto nero su bianco sull’invito a partecipare ai lavori. Saranno presenti gli eurodeputati spagnloli Miguel Urban (Podemos) e Marina Albiol (Izquierda Unida), Sotiris Martalis sindacato ADEDY e direzione UP Grecia, Yago Alvarez Barba economista della Plataforma de la Auditoría Ciudadana de la Deuda, Philippe Poutou delegato Cgt Ford in lotta contro il Job act in Francia e Ilaria Fortunato studentessa università di Poitiers, Nuit Debout Francia. Padroni di casa, l’eurodeputata italiana Eleonora Forenza (Altra Europa), l’ex
vicepresidente della Corte costituzionale Paolo Maddalena, il prof. Giovanni Alleva docente diritto lavoro e deputato regionale per Altra Emilia Romagna, l’economista Guido Viale ed Enzo Di Salvatore Comitato nazionale No Triv, docente diritto costituzionale. L’appuntamento è a Roma, in via Santa Croce in Gerusalemme al numero 59 (Spin Time Labs) dalle ore 9,00 , «per costruire in modo aperto e partecipato un percorso di elaborazione italiana del Piano B e la partecipazione alle scadenze di maggio». A cominciare dalla giornata di mobilitazione continentale, il 28 maggio.
Cos’è il PlanB? È il nome del Manifesto “Contro l’austerità e per un’Europa democratica” firmato da centinaia di politici, intellettuali e attivisti (tra cui il regista Ken Loach, il filosofo Noam Chomski, la sindaca di Barcellona Ada Colau). Ha tutte le sembianze di un forum sociale europeo e conta già due appuntamenti: il primo a Parigi nel settembre del 2015 e il secondo a Madrid. L’emergency call è stata fatta da DiEM25, il Movimento per la democrazia in Europa 2025, fondato dall’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis. Al centro l’obiettivo di costruire un PlanB, un’alternativa alle politiche di austerity. Come? Attraverso la formazione di un movimento progressista pan europeo. Il percorso. Prima della tappa italiana, la tre giorni di Madrid dal 19 al 21 febbraio, arriva dopo l’incontro di Parigi lo scorso settembre, quando, durante la Fête de l’Humanité, Varoufakis insieme a Stefano Fassina, il francese Jean-Luc Mélenchon e l’ex ministro delle Finanze tedesco Oskar Lafontaine, presenta il Manifesto. Gli obiettivi del Manifesto. Costruire un’Europa democratica, solidale, accogliente, sostenibile, combattere la sovranità del debito, realizzare un Green new deal, combattere la corruzione attraverso la trasparenza degli atti e delle decisioni prese nelle stanze dell’Ue. Per esempio: live-streaming dei Consigli europei, dell’Ecofin e degli incontri dell’Eurogruppo, divulgazione dei negoziati commerciali come Ttip e Tisa e dei verbali della Bce.
Perché il 28 maggio. Ad annunciarlo è stato l’eurodeputato di Podemos Miguel Urban dal palco di Madrid: tutte le piazze d’Europa dovranno discutere del PlanB contro l’austerità il 28 maggio. La data è stata scelta in omaggio alla Comune di Parigi. E alla rivoluzione dei comunardi francesi, che nel 1871 abolirono l’esercito e lo sostituirono con un’armata popolare e volontaria, proclamarono la totale separazione dalla Chiesa, abolirono i privilegi degli ecclesiastici, costituirono cooperative di operai per gestire le fabbriche abbandonate dai padroni, soppressero il lavoro notturno, sospesero le sentenze di sfratto e morosità, cancellarono ogni distinzione tra figli legittimi e naturali, tra sposati e conviventi. E puntarono sull’emancipazione delle donne.
epa05290503 Turkish Prime Minister Ahmet Davutoglu looks during a press conference following the central executive committee of the ruling party Justice and Development party (AKP) in Ankara, Turkey, 05 May 2016. Davutoglu announced his resignation on the same day. EPA/STR
Ahmed Davutoglu si è dimesso dalla sua carica di primo ministro di Ankara. «Ho portato la bandiera meglio che ho potuto. Non ho interferito nelle decisioni da una prospettiva personale. Il nostro partito sta per entrare in una nuova era». Queste le sue parole riportate dal NYT. La bandiera è quella rossa della Turchia, il partito è l’AKP, le decisioni probabilmente quelle di Recep Erdogan con cui era sempre più divergente nella condotta politica negli ultimi tempi dopo l’arresto indiscriminato di reporter e giornalisti. Senza trovare conferma in dichiarazioni ufficiali, la rottura definitiva è avvenuta per l’ennesima interdizione imposta a Davutoglu di poter scegliere i rappresentanti provinciali del partito, un ennesimo accentramento di potere nelle mani del Presidente neo ottomano.
Credendosi sultano, Erdogan ha sempre seguito la stessa linea di condotta repressiva contro i nemici, arrestando giornalisti, attivisti politici, curdi e oppositori di regime. Essendolo però ogni giorno di più, ha cominciato ad eliminare anche gli amici. Troppo moderato in Patria e troppo debole fuori dalla Patria, ormai troppo inviso a un potere di cui ha sempre fatto parte, Davutoglu ha deciso di dimettersi anche in seguito alla pubblicazione web dei “Pelican files”. Verrà sostituito prima del Ramadan di giugno, dopo il 12 maggio prossimo, dove il congresso straordinario si riunirà per eleggere un sostituto scegliendo probabilmente tra Numan Kurtulmus, vice Capo di Governo, il ministro della Giustizia Bekir Bozgag o addirittura il genero del Presidente Berat Albayrak.
Ministro degli Esteri nel 2009, l’ormai ex primo ministro voleva tornare ai negoziati con il popolo in armi senza patria del PKK, Partito dei lavoratori del Kurdistan. Davutoglu non era amico, ma non abbastanza nemico dei ribelli di Ocalan secondo Erdogan, che continua a bombardare le postazioni dei guerriglieri nel sud e rimane in attesa di poter cambiare la Costituzione il prossimo 14 maggio per poter processare gli esponenti del partito filocurdo HDP per collusione al terrorismo.
Era di Davutoglu il sigillo all’accordo sui migranti EU-Ankara. La faccia non pulita ma più accettabile per la Merkel con cui trattare era quella di questo accademico dai baffi già bianchi e capelli ancora neri. Balcani, Iraq curdo ed Europa avevano risentito dei benefici della sua vecchia linea strategica in politica estera: il suo motto era “zero problems with the neightbours”, nessun problema con i vicini. Il cortile del suo vicinato stava però diventando sempre più ampio. Era questo che l’Economist chiamava Davutoglu effect in un articolo del 2010.
Sei anni dopo era sua la voce più credibile tra quelle del coro politico fedele ad Erdogan con cui trattare per la richiesta di entrata nell’Eu senza visti per i cittadini dello Stato turco in cambio del rispetto dell’accordo con Bruxelles per trattenere i profughi siriani. Un accordo da sei miliardi su cui le recenti dimissioni avranno un effetto imprevedibile e su cui già si interrogano i governi europei adesso che Ankara ha perso l’ultimo volto meno dispotico che aveva.