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Il premier austriaco Faymann lascia: «Serve il partito alle spalle»

Werner Faymann

«È in gioco tanto, è in gioco l’Austria». Con queste parole Werner Faymann ha annunciato le sue dimissioni da Cancelliere e da capo del Partito socialdemocratico austriaco, SPÖ, durante la conferenza stampa di questa mattina. In carica dal 2008, il Cancelliere Faymann si congeda con parole che suonano come un’accusa: «Questo Paese ha bisogno di un cancelliere che abbia il suo partito alle spalle. Il Governo ha bisogno di una forte ripartenza. Chi non ha un simile appoggio alle spalle, non può sostenere questo compito».

Questo pomeriggio si riunisce la direzione del partito, che dovrà prendere una decisione sul nome a cui affidare l’interim: le ipotesi in campo sono quella più probabile del vice-cancelliere del partito popolare Oevp, Reinhold Mitterlehner oppure – stando a voci di stampa – l’incarico potrebbe essere affidato al sindaco di Vienna, anche lui socialdemocratico, Michael Häupl.

Le dimissioni arrivano in un momento cruciale, ad appena 13 giorni dal secondo turno delle elezioni presidenziali del 22 maggio, che vedranno fronteggiarsi Norbert Hofer, candidato del partito di destra Fpoe, e il verde Alexander Van der Bellen. Elezioni che hanno visto al primo turno un crollo del partito socialdemocratico e del suo candidato, che ha raccolto appena l’11% dei consensi, con la conseguente esclusione dal ballottaggio, e che hanno decretato anche la debacle dei popolari austriaci.

Delle dimissioni del cancelliere Fayamann si era iniziato a parlare già all’indomani del primo turno elettorale. Il suo annuncio di oggi viene immediatamente dopo un incontro con i capi regionali del partito SPÖ. Un esito, spiegano alcuni commentatori, che rappresenta il fallimento della cosiddetta Terza linea, quella che ha puntato sull’elettorato di centro per estendere i consensi, finendo per svilire la propria identità e lasciare campo libero agli estremi.

Penalisti contro la riforma della prescrizione: «Ispirata da settori della magistratura»

La riforma della prescrizione all’esame del Senato non piace ai penalisti italiani, che dal 24 al 26 maggio incrociano le braccia «contro lo slogan “prescrizione più lunga e processi più brevi”, un ossimoro per coprire le carenze organizzative che portano oltre il 70% dei processi a prescriversi nel corso delle indagini preliminari». Con la delibera che annuncia l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria, l’Unione delle Camere penali italiane evoca una «nuova spinta autoritaria, ispirata e alimentata da vari settori della magistratura» e convoca una manifestazione nazionale a Roma il 25 maggio, in concomitanza con il termine fissato per la presentazione degli emendamenti al testo unificato adottato in commissione Giustizia a Palazzo Madama.

Lo sciopero degli avvocati arriva a pochi giorni dall’approvazione del testo unificato presentato dai relatori Felice Casson e Giuseppe Cucca, entrambi del Partito democratico, sulla riforma del processo penale, alla quale sono state agganciate le norme relative alla nuova prescrizione, definite «pesanti» dal presidente della commissione Giustizia, l’avvocato centrista Nico D’Ascola. La necessità di un intervento del legislatore è stata invece evidenziata dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, che chiede di «mettere meglio a regime le norme sulla prescrizione».

Il ddl, che allunga i tempi della prescrizione per i reati di corruzione e pedofilia, era stato approvato in prima lettura a marzo scorso, quando era già chiaro che al Senato bisogna fare i conti con le posizioni centriste per ottenere il via libera al provvedimento. Il 4 maggio in commissione – dopo le polemiche per la partecipazione alla riunione di maggioranza sul tema del verdiniano di Ala Ciro Falanga – il testo è passato con il voto favorevole di Pd, Ap-Ncd e Psi, mentre 5stelle e Gruppo misto si sono astenuti e Forza Italia, Lega, Cor e Idea hanno abbandonato la seduta per protesta.

Il provvedimento interviene anche sulle intercettazioni, individuando i criteri guida della delega che il governo dovrà esercitare in materia. Lo sciopero dei penalisti prende di mira anche la legislazione in materia, «del tutto insufficiente a garantire la riservatezza delle comunicazioni di coloro che occasionalmente (o indirettamente) vengano intercettati».
Nel corso della conferenza stampa sul testo unificato, sabato scorso, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha sottolineato la necessità di affiancare «modelli organizzativi efficaci» alle norme in discussione per ottenere della riduzione dei casi di prescrizione. Evidenziando le differenze tra Nord e Sud in materia, il ministro ha evocato una innovazione organizzativa analoga a quella del settore civile e ha confermato che resta fermo l’obiettivo di portare a casa l’ok delle Camere al provvedimento entro l’estate.

Michael Moore invade i cinema italiani. In sala “Where to invade next”

«Che l’obiettivo degli Stati Uniti sia la guerra infinita è una cosa che mi preoccupa da tempo e che mi ha indotto a tirare fuori la satira che serviva per questo film» dice Michael Moore presentando il suo nuovo film, Where to invade next che arriva nelle sale italiane dal 9 all’11 maggio, distribuito da Nexo Digital e Good Films.
«Negli Usa c’è questa sorta di bisogno costante di avere un nemico – sottolinea Moore -, c’è bisogno di individuare quale sarà il prossimo nemico, in modo da mantenere e alimentare il grande sistema dell’industria bellica, garantendo gli affari di chi fa soldi con questo business». E allora fingendo ironicamente di fare propria questa filosofia guerrafondaia ecco che il regista di Flint parte alla volta dell’Europa e del nord Africa per andare a piantare la bandiera a stelle e strisce, ovunque ci sia una buona idea da rubare e portare in patria. Abbiamo detto idee, non petrolio. E già qui l’invasione progettata dall’americano Moore comincia a farsi piuttosto inedita. Lo sarà ancora di più quando vedremo questo tipico americano dalla taglia over size sgranare gli occhi come Alice nel paese delle meraviglie di fronte alle ferie pagate e al periodo di maternità a cui si ha diritto in Italia; di fronte all‘università gratuita, anche per gli stranieri, in Slovenia; di fronte ai metodi non coercitivi con cui gli insegnanti finalandesi incoraggiano il senso critico e l’autonomia di pensiero degli studenti. A fare da immediato controcanto  dall’altra parte dell’oceano è l‘assenza di un sistema sanitario nazionale gratuito in America, gli altissimi debiti che opprimono gli studenti universitari negli Usa, dove esistono costose università di serie A e università di serie B e via degradando fino a quelle economicamente più abbordabili e meno di qualità.

Andando ad invadere il Portogallo il regista, che qui indossa la maschera dell’ ingenuo sprovveduto, scoprirà che si può anche depenalizzare la droga, senza che per questo aumentino i crimini correlati. Anzi ottenendo precisamente il contrario. A raccontarglielo , cifre alla mano, sono dei poliziotti portoghesi che rifiutano la pena di morte e parlano del rispetto della dignità umana. Così come nel carcere modello norvegese saranno dei poliziotti a spiegargli che l‘obiettivo non è punire e vendicarsi, ma cercare di reinserire socialmente i detenuti. Con il risultato che in Norvegia c’è il 20 per cento di recidiva, contro l’80 che si registra in America, dove le carceri- denuncia Moore- sono delle fabbriche di produzione a bassissimo prezzo :« In questo modo il capitalismo dei bianchi può ancora ricorrere allo schiavismo visto che la maggior parte dei detenuti per droga sono neri a cui è stato tolto il diritto di voto e che non lo riavranno nemmeno quando avranno scontato la propria pena».

Così Michael Moore torna a compiere una disamina serrata dei diritti negati delle minoranze e delle fasce sociali più deboli negli Usa. La pars destruens è drammatica e la denuncia potente: gli aspetti più disumani della società americana emergono con forza. Parlano da sole immagini di neri impiccati e bruciati vivi dai latifondisti del sud America e quelle dello sterminio degli indiani.

Più deboli appaiono le parti del film in cui il regista tratteggia un ritratto  in positivo delle condizioni di lavoro e dei diritti dei lavoratori in Italia, così come del sistema di giustizia norvegese o del cibo da gourmet nelle scuole francesi. Insomma In where to invade next, Micheal Moore manca di quello sguardo profondo che aveva in opere come Bowling at Colombine in cui, rievocando la strage alla Columbine High School del 1999 quando i due studenti Erik e Dylan fecero irruzione armati nella scuola indagava il volto malato dell’America. Manca quel registro di inchiesta serrata e pungente che caratterizzava Fahreneheit 9/11, con cui nel 2004 vinse la Palma d’oro in cui accusava George.W. Bush di aver vinto le elezioni in modo poco limpido e di ipocrisia dei Bush che avevano sempre fatto affari con i Bin Laden. Ma potremmo ricordare anche Sicko in cui raccontava la sanità americana, dove chi è senza copertura assicurativa non viene curato.

Ma se una certa dose di idealizzazione dell’Europa finisce per edulcorare alcune parti del film, l’intenzione di criticare un certo sistema di pensiero americano che antepone il profitto ai diritti da parte del regista è chiara e limpida. E belle ed emozionanti sono le parti del film in cui Moore ripercorre la rivoluzione tunisina, ricordando il ruolo di primo piano che vi avevano giocato i giovani e le donne, che nonostante i conservatori abbiano vinto le prime elezioni libere, sono riuscite a far diventare diritto costituzionale le pari opportunità per uomini e donne e un dovere dello Stato la lotta contro la violenza sulle donne.  E interessante è anche la parte del film dove,  grazie all’uso di documenti d’annata e di interviste dal vivo, il regista ci restituisce entusiasmanti pagine di storia dell’Islanda come lo sciopero delle donne che fece fermare l’intero Paese nel 1975 portando alla elezione della prima presidente donna della storia del Paese. @simonamaggiorel

Crolla la fiducia dei cittadini nella costruzione di una casa comune europea

FILE - In this Sept. 21, 2007 file picture the Euro sign is photographed in front of the European Central Bank in Frankfurt, Germany. Less than three months ago, as its leaders scrambled to assemble a nearly US dlrs1 trillion rescue package for the eurozone, fears were rife that the continent was headed for a debt debacle and a painful economic crash. But upbeat economic signs - including robust German business confidence, predictions of strong second-quarter growth and successful bond auctions by Greece, Portugal and Spain - have helped change the picture. The latest piece in the puzzle: last Friday's release of "stress tests" designed to show how Europe's banks would cope with a deepening economic and debt crisis, which only seven of the 91 institutes surveyed failed. (AP Photo/Bernd Kammerer,File)

L’Europa fortezza non è l’Europa. Sul quotidiano La Repubblica Ilvo Diamanti dà conto in un sondaggio del calo di fiducia degli europei nei confronti della costruzione europea. Solo in Germania – il Paese che ne riceve più vantaggi- l’Europa è apprezzata da una maggioranza, il 53%. In Francia i fiduciosi sono solo il 42%, in Gran Bretagna il 34% e in Italia il 33.

Fra i giovani dai 18 ai 24 anni cambia un po’: Italia 44, Francia 47, Gran Bretagna 55%, Germania 76. In generale il sondaggio è disarmante: quasi un europeo su due preferisce non prendere l’aereo, evitare un viaggio all’estero, non andare a manifestazioni o riunioni in luogo pubblico. Per paura di attentati.

Quanto all’immigrazione una maggioranza risicata, il 52% punta ancora “sull’accoglienza”. E questa è l’unica nota non negativa del sondaggio. Dunque? Dice Marc Lazar: «L’Unione europea è ormai una sorta di capro espiatorio su cui tutti sparano a zero». E questo “tutti” include i partiti socialisti e democratici in cerca di consensi nazionali.

Peppino Impastato, 38 anni dopo. Cronologia di una storia italiana

peppino impastato anniversario

Film, canzoni, fumetti, ricordi d’ogni sorta. Oggi – 9 maggio – sono 38 anni dall’assassinio di Peppino Impastato. E in 38 anni, Peppino Impastato, non sono riusciti a cancellarlo. Anzi. Ma quando la mattina del 9 maggio 1978 il suo corpo esanime fu ritrovato a Cinisi, il fatto passò quasi inosservato. Perché un altro fatto ben più sensazionale era avvenuto in via Caetani, a Roma. Oggi è anche l’anniversario del ritrovamento di Aldo Moro.
Quando ritrovano Peppino, alla ferrovia, il suo corpo è steso sui binari e sotto c’è una carica di tritolo. Suicidio, è la prima ipotesi. Anzi, peggio: stava preparando un attentato, dicono, e ha approfittato per ammazzarsi. Infame due volte: suicida e terrorista. Lo dicono le forze dell’ordine, lo dice la magistratura, lo dicono pure i colleghi di Peppino: i giornalisti.

Sono serviti decenni, le due intere vite – spese da vivi – del fratello Giovanni e della madre Felicia, e il lavoro certosino dei compagni di Peppino, quelli del Centro siciliano di documentazione di Palermo, per mettere nero su bianco quello che “sapevano tutti”:
Che nel 1984 il tribunale di Palermo sentenzia che la matrice dell’omicidio è mafiosa, ma lo attribuisce però ad ignoti.
Che nel 1988, il Tribunale di Palermo invia una comunicazione giudiziaria a Badalamenti.
Che nel 1992 quel Tribunale archivia il caso Impastato, ribadisce la matrice mafiosa del delitto ma esclude la possibilità di individuare i colpevoli pur ipotizzando la possibile responsabilità dei mafiosi di Cinisi alleati dei corleonesi.
Che nel 1994 il Centro Impastato presenta un’istanza per riaprire l’inchiesta, forte di una petizione popolare.
Che nel 1996, dopo le dichiarazioni del pentito Palazzolo, venga indicato Gaetano Badalamenti come mandante dell’omicidio, assieme al suo vice, Vito Palazzolo. Che l’inchiesta viene formalmente riaperta e un anno dopo venga emesso un ordine di cattura per Gaetano Badalamenti.
Che nel 1999 i familiari, il Centro Impastato, Rifondazione comunista, il Comune di Cinisi e l’Ordine dei giornalisti si costituiscono parte civile e Gaetano Badalamenti rinuncia all’udienza preliminare e chiede il giudizio immediato. Che un anno dopo vengano respinte le richieste di costituzione di parte civile del Centro Impastato, di Rifondazione comunista e dell’Ordine dei giornalisti.
Che nel 2001 la Corte d’assise riconosce Vito Palazzolo colpevole e lo ha condannato a trent’anni di reclusione.
Che, infine, nel 2002, l’11 aprile Gaetano Badalamenti venga finalmente condannato all’ergastolo.
Oggi lo sappiamo che lo hanno ammazzato di notte, la notte tra l’8 e il 9 maggio. Proprio quell’anno Peppino aveva deciso di presentarsi alle elezioni comunali, nelle liste di Democrazia proletaria. Quanti voti ha preso non lo saprà mai, non farà in tempo. Ma Peppino è diventato consigliere comunale, gli elettori di Cinisi lo hanno votato anche da morto. Lo avrebbero fatto da vivo? Non lo sapremo mai.

Provate a immaginare che queste righe siano uno dei racconti di Peppino su Radio Aut, in una delle sue puntate di Onda pazza. Rileggetele ascoltando la voce quasi in farsetto che avrebbe fatto per sfottere il potere, anche quello subito da se stesso. Ne avrebbe di avuta di carne da mettere sul fuoco della sua dissacrante ironia.
Tanto più è inverosimile, quanto è vero. Vero come il fatto che lungo le strade del suo paese si sia svolta la prima manifestazione d’Italia contro la mafia. Nel 1979, il 9 di maggio, quando duemila persone hanno sfilato per le strade di Cinisi.

Grecia di nuovo in bilico: ristrutturazione del debito o nuovi tagli?

epa05295287 Riot policemen disperse demonstrators during minor clashes that broke during a protest against reforms to the tax and pension system which are going to be voted on Sunday night in the Greek parliament, in Athens, Greece, on 08 May 2016. EPA/ORESTIS PANAGIOTOU

Il Parlamento greco ha approvato un pacchetto, l’ennesimo, di tagli e risparmi alla spesa pubblica. La misura vale 5,4 miliardi di euro e prevede tagli alle pensioni, la fusione di diversi fondi, l’aumento i contributi previdenziali e aumentare le tasse per i redditi medi e alti. L’approvazione delle misure è stata difesta dal premier Tsipras, che ha sostenuto che così il sistema diventa sostenibile e che solo il 7,5% dei pensionati viene toccato.

Molti greci non la pensano così: sottoposti all’ennesimo pacchetto guidato da una filosofia di austerity non vedono – e con loro la maggior parte degli economisti – come si possa uscire dalla recessione a forza di tagli. In questi giorni il Paese è stato paralizzato da scioperi del settore dei trasporti e da manifestazioni ad Atene e Salonicco. Ad Atene ci sono stati anche scontri tra anarchici e polizia. Su come aiutare il Paese sono divisi anche l’Unione europea e il Fondo Monetario: l’organismo di finanza internazionale guidato da Christine Lagarde ritiene che gli obbiettivi di bilancio fissati da Bruxelles siano eccessivamente duri e che sia ora di parlare di ristrutturazione del debito – ovvero di un ridimensionamento di quanto Atene deve ai creditori. L’Europa chiede un surplus di bilancio del 3,5% entro il 2018, il Fondo ritiene che ci si dovrebbe fermare all’1,5%.

Il voto greco è concomitante, non a caso, con un vertice europeo. Oggi a Bruxelles i ministri delle Finanze discutono di un nuovo prestito. A loro ha scritto una lettera pubblica il ministro dell’economia greco Tsakalos, che spiega: «Nessuno dovrebbe credere che un’altra crisi greca, che potrebbe produrre un default del Paese possa essere utile per qualcuno. Non c’è modo che un simile pacchetto possa essere approvato dal governo attuale, o da qualsiasi governo democratico che sono in grado di immaginare».

Il nodo di oggi e dei prossimi giorni è proprio questo: Tsipras ha fatto quanto gli è stato chiesto ma non può fare di più. Non può per ragioni politiche e di consenso e non può perché il Paese è allo stremo, il Pil si è ridimensionato dle 25% in questi anni e la disoccupazione continua a essere sopra il 20%. Le divisioni tra Fondo monetario e Commissione non aiutano a dare tranquillità ai debitori e aggiungono pathos ai negoziati: il Fondo potrebe decidere di non prestare soldi se l’Europa chiederà misure eccessivamente dure – a Washington sanno che più austerità e nessuna rinegoziazione del debito significa semplicemente aumentare le difficoltà di Atene, anche di restituire una parte dei soldi dovuti.

epa05295361 Greek Prime Minister Alexis Tsipras delivers his speech during a parliamentary debate on the draft bill for tax and pensions reforms in Athens, Greece, 08 May 2016. The second and last day of the debate on a draft pensions and tax reforms bill began in the Greek Parliament on Sunday, and will continue throughout the day until the plenum votes late on Sunday, in a roll-call vote requested by main opposition New Democracy and the Communist Party of Greece (KKE). The draft bill is expected to pass with the support of the ruling majority only, with all the opposition parties declaring that they will vote against. EPA/PANTELIS SAITAS
Epa/Pantelis Saitas

La grande novità del vertice di oggi è che, per la prima volta, si discuterà di una ristrutturazione. Il ministro dell’economia tedesco Sigmar Gabriel (Spd) ha dichiarato alla Reuters: «Tutti sanno che se ne dovrà parlare prima o poi, rinviare è inutile, bisogna interromprere questa spirale»· Naturalmente il potente ministro delle Finanze Wolfgang Schauble non è d’accordo. Il vertice di oggi è cruciale: senza un nuovo finanziamento, la Grecia non sarà in grado di pagare la tranche di debito prevista a luglio e rischia l’espulsione dall’eurozona. Chiedere però nuove misure di austerity in cambio di un prestito sarebbe, come ha sottolineato Tsakalos, ingestibile per la maggioranza guidata da Tsipras. Ci risiamo. Oggi sapremo se l’Europa è capace di cambiare – leggermente – strada.

Carlo Calenda, da “ambasciatore del made in Italy” a ministro dello sviluppo economico

Carlo Calenda

Carlo Calenda prenderà il posto di Federica Guidi, come ministro per lo Sviluppo economico. Lo annunciato il presidente del Consiglio Matteo Renzi nella trasmissione Che tempo che fa, continuando nel “mal costume ” di  fare annunci politici nel salotto  tv di Fazio. «Ho detto che del nome del ministro dello Sviluppo economico dovevo parlare prima col presidente della Repubblica.  L’ho detto in tutte le sedi. Ne ho parlato? Sì. Il nuovo ministro è Carlo Calenda», ha annunciato il Premier in diretta tv. Sconfessando le voci che parlavano di Chicco Testa ( presidente dell’Assoelettrice ed ex presidente dell’Enel) come  uno dei papabili per il posto rimasto vacante  oppure del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti.

42 anni,  laureato in Legge, figlio dell’economista Fabio Calenda e della regista Cristina Comencini, Calenda era stato viceministro nel governo di Enrico Letta  e poi, dallo scorso marzo, è stato rappresentante permanente del governo all’Unione Europea. Ora è chiamato a sostituire la Guidi che si era dimessa dopo la pubblicazione delle intercettazioni  che riguardano il suo compagno Gemelli indagato dalla Procura di Potenza.

«A noi serve uno che sia in grado di maneggiare un ministero importante come quello dello Sviluppo economico,  che abbia l’intelligenza per ragionare del futuro, che vuol dire innovazione, manifattura 4.0, investimenti nelle aree di crisi». Così il premier Renzi ha parlato all’Italia  in prima serata.

I primi commenti a caldo segnalano il profilo da manager di Calenda e il suo essere un ambasciatore del made in Italy che va a braccetto con l’idea renziana di usare l’Italia come “brand”. Altri segnalano che Calenda era stato nominato in fretta e furia a Bruxelles e che richiamarlo ora è un  “piccolo disastro diplomatico” ( Legnini su Repubblica)  perché fa passare il messaggio che la politica europea sia solo una palestra per esperimenti che riguardano la politica interna.

 

Il solito vecchio corso: la politica ai politici, gli altri altrino

Devo subito fare una confessione: sogno di vivere in un Paese intrinsecamente politico. Mi piacerebbe discutere con la mia farmacista delle complicazione e gli interessi che mi sfuggono nel mondo dei farmaci, vorrei potere dedicare qualche minuto in più e un caffè a chi i giornali (che noi scriviamo) tutti i giorni poi li vende e magari chiedere al bar quale sia il “sentiment” fuori dai social, quello che probabilmente il mio barista chiamerebbe il “cosa rode in giro”; mi piacerebbe che davvero fuori da scuola, nei discorsi in attesa dell’entrata e dell’uscita, si capisse che le lamentazioni spesso sono esigenze da farsi riconoscere, diritti da organizzare; vorrei soprattutto, e sempre di più, confrontarmi con coloro che sono lontani dalla realtà che vivo, per lavoro e per situazione, vorrei riuscire a discutere ogni riforma con quelli che dentro la riforma ci vivono per davvero, quelli per cui una legge, al di là della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, gli cambia la quotidianità, gli orari, i modi e le abitudini.

Dico questo perché non c’è niente di più noioso di ascoltare politici che parlano di politica. Secondi solo alla noia degli attori che ascoltano solo quando si parla di loro. E siccome la politica dovrebbe essere la “funzione di occuparsi delle persone” io non ho mai capito perché loro, i politici, insistono in questa misera idea che di politica c’è chi ne può parlare e chi no. Come se domani per decreto potessero parlare di calcio solo coloro che riescono a correre i 100 metri sotto i 15 secondi oppure come se per esprimere le proprie preferenze musicali sia necessario avere un curriculum di almeno 5 concerti nei peggiori bar di Caracas o come se di etica e morale si decida d’improvviso che ne siano detentori solo i preti. Una cosa così.

E forse è proprio per questo che trovo fiacco e stancante il ritornello del governo che urla che la politica è dei politici e che i magistrati si debbano solo limitare a magistrare. Anche perché, di fondo, la politica non è la gravidanza della Meloni, le imprese letterarie di Salvini, i balletti di Obama o i documento sbagliati (ancora, dopo il certificato di residenza di Claudio Fava per le elezioni siciliane) di Sinistra Italiana che rischia (?) ancora di essere l’alleato perfetto del Pd: la politica almeno non è solo questo. Sta in tutto ciò che è nel modo di stare insieme delle persone, nelle regole che ci diamo per tentare di essere il più uguali possibili. E una riforma costituzionale, che piaccia o no, è una riforma che tocca le fondamenta dello stare insieme, che trae ispirazione dalla storia italiana e che tocca le corde della nostra Repubblica. E su un tema di questa portata io, non so voi, ma io vorrei ascoltare tutti: baristi, bidelli, ingegneri, funzionari, piccoli o medi o grandi imprenditori, operai, impiegati, italiani di seconda generazione, attori, musicisti, sovrintendenti, assessori, deputati, senatori, artigiani, tassisti, piloti, geometri, studenti, insegnanti, disoccupati, pensionati, salumieri, fruttivendoli, fattorini, pizzaioli, giornalisti. Figurarsi se rinuncerei di ascoltare anche i magistrati. Chissà perché.

Buon lunedì.

Clamoroso: Fassina escluso a Roma

Con la sua dichiarazione, Stefano Fassina prende tempo e insieme mette le mani avanti, perché poco sembra possa fare: «Abbiamo appreso con stupore che la commissione elettorale ha respinto le nostre liste dalla competizione per Roma», ha annunciato il candidato sindaco di Sinistra Italiana, ex dem, e forse ex candidato sindaco, dunque: «si tratta di una decisione che, se fosse confermata, altererebbe pesantemente l’esito delle elezioni amministrative nella Capitale».

Il destino di Fassina è comune a quello di Giorgia Meloni la cui lista è stata al momento respinta sempre dalla commissione elettorale per le comunali di Milano però, assai meno importanti per il partito dell’ex An, che è anche lei candidata sindaco a Roma: «Presentiamo subito ricorso e nelle prossime ore decideremo quali ulteriori iniziative intraprendere», continua Fassina.

Nel giro della sinistra capitolina però l’umore è a terra e nella mente torna il precedente a sinistra di Claudio Fava che tentò la corsa per la presidenza della regione Sicilia e fu escluso all’ultimo, perché non residente, e quello, da destra, della lista del PdL esclusa per il celebre panino alle regionali poi comunque vinte da Renata Polverini.

Per Fassina dovrebbero essere due i problemi burocratici a cui difficilmente si potrà rimediare. «Inammissibili» sono state giudicate sia la lista civica che quella politica, che raccoglie le varie anime della sinistra, da Rifondazione a Sinistra Italiana, appunto. E così, senza liste di supporto, il candidato non potrebbe andare avanti. In una manca una data, a quanto emerge, nell’altra, quella politica, sarebbero insufficienti le firme in sostegno ritenute valide, perché molte sarebbero state raccolte su vecchi moduli.

In città rimarrebbe dunque un solo candidato della sinistra, Andrea Catarci, candidato presidente nell’VIII municipio, perché fornito di altre due liste civiche personali. Ma è un’eccezione, e così la sinistra si ritrova senza candidati.

Bisogna vedere, adesso, il ricorso sì, ma poi bisognerà capire chi si avvantaggerà di questo clamoroso colpo di scena: se Giachetti, candidato del Pd, o Virginia Raggi dei 5 stelle.

A Torino primo maggio di lotta ed elezioni

A Torino il Primo maggio si fa ancora il corteo, un corteo vero, con in testa i gonfaloni dei comuni della zona e quello della Regione e a seguire le bandiere rosse, dei sindacati e dei partiti, anche di alcuni che non ci sono più. Si fa così, mentre a Roma piazza San Giovanni è ormai più nota per la bandiera coi quattro mori sardi, imprescindibile sventolìo del concertone.
E fa sorridere il cuore al cronista di sinistra, Torino, che ancora lotta, e non solo festeggia, per la festa dei lavoratori. Lotta e si prepara alle elezioni, Torino, che va al voto a giugno come Roma, Napoli, Milano. E il lavoro, più delle buche, è il tema della campagna elettorale, nella città che è ancora nel pieno di una mancata transizione.

Left ha fatto un giro nella città dei festival (il primo maggio si è chiuso anche il Torino Jazz Festival, con le solite polemiche sull’effettivo impatto economico sulla città) e dei vuoti industriali, e ha incontrato i due candidati alternativi a Fassino, l’uscente favorito che si mostra sicuro sui manifesti appesi un po’ ovunque. Nel numero in edicola parliamo dunque di Torino e lavoro, con Chiara Appendino, la 5 stelle che spera nel colpaccio al ballottaggio, mentre dietro di noi scorre il carro di Lotta comunista, perfetto per una foto vintage. Giorgio Airaudo lo incontriamo invece pochi metri più indietro, che tiene lo striscione di Torino in comune, sigla che ha raccolto da subito – caso raro in Italia – tutti i cocci della sinistra, da Si a Rifondazione e Possibile.

Tra auto elettriche e l’idea di un comune voucher free, il racconto di un primo maggio di lotta ed elezioni.

Il nostro viaggio a Torino lo trovi sul n. 19 di Left in edicola dal 7 maggio

 

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