Home Blog Pagina 1151

Sui sentieri incrociati della Fotografia europea. Da Ghirri ai nuovi talenti

Claude Nori, Motociclista, 1985 © Claude NoriCourtesy Biblioteca Panizzi

La fotografia ha attraversato molti confini ed esplora nuove strade, reinventandosi di continuo. E il festival fotografia europea lo racconta dilagando per il centro storico di Reggio Emilia. Intrecciando fotografia d’arte e di ricerca, e tutte le altre forme. Mettendo a confronto generazioni diverse. E se il clou degli incontri con gli autori è in programma dal 6 all’8 maggio, le mostre proseguono fino al 10 luglio.
A Palazzo da Mosto si confrontano nove autori intorno al tema della strada, del viaggio, del confine. In primo piano il lavoro di un reporter dal linguaggio originale come Paolo Pellegrin che racconta con immagini insieme dure e poetiche il confine tra Messico e Stati Uniti. Accanto alle visioni liriche di Ziad Antar e raffinatisse di Paola De Pietri e di atri autori come Michalel Najjar e Maamantai Collective,  Questa nuova onda di talenti da ogni parte del mondo nella edizione 2016 della rassegna sono messi a confronto con maestri assoluti della fotografia di paesaggio, come Luigi Ghirri. A trent’anni di distanza, infatti, viene riproposta Esplorazioni sulla via Emilia (1986), dove lo sguardo poetico e incantato di Luigi Ghirri,  incontra quello visionario di Mimmo Jodice che trasfigura paesaggi degradati in disarmante bellezza e fa sembrare l’archeologia una presenza viva, insieme al racconto civile delle periferie urbane di Gabriele Basilico.
Nel 1984  Ghirri invitò colleghi scelti (fra loro anche Olivo Barbieri, Guido Guidi, Manfred Willmnan, oltre a Iodice e Basilico e altri) a raccontare da un punto di vista personale quell’arteria vitale e antica che innerva la terra emiliana. Il risultato fu di grande qualità artistica come rilevò Italo Calvino chiamato a scrivere l’introduzione ad un’opera letteraria a più mani in cui Gianni Celati, Antonio Tabucchi, Daniele Del Giudice e altri scrittori reinventavano l’esperienza dei viaggiatori che per secoli avevano percorso quella strada.  Che il festival torna ad esplorare «partendo proprio dalla grande arteria romana che va “dal fiume al mare” per approdare alle vie del mondo, ai luoghi di transito e di confine nella società odierna», come scrivono i curatori Diane Dufour (direttrice di La Bal, a Parigi), Elio Grazioli e Walter Guadagnini. Nella storica collettiva che vide la luce nel 1986 ad attrarci sono soprattutto le immagini di Iodice che ci raccontano un’Emilia fatta di atmosfere sospese nel tempo e quelle di Basilico dove la fotografia si fa indagine civile del paesaggio, con un linguaggio rigoroso, essenziale, mai meramente documentaristico. Anzi. L’impressione è che anche i suoi scatti, apparentemente più realistici, di fatto nascano dall’immaginazione. Il progetto Esplorazioni della via Emilia ha segnato un passaggio importante nella storia della fotografia come rilevano Antonella Russo in Storia culturale della fotografia italiana e Gabriele D’Autilia in Storia della fotografia in Italia (entrambi pubblicati da Einaudi). Quell’opera collettiva in cui spiccano tante personalità differenti fece di quegli autori personalità del mondo della cultura e non solo della cultura fotografica.

Il passato,  classici della fotografia come Walker Evans ( protagonista di una personale con 150 foto)  sono squadernate attraverso nuove esplorazioni,  passando da internet,  al digitale,  al virtuale. Ma qualunque sia la tecnica è l’originalità dello sguardo e della  visione a fare la differenza. A fare da filo rosso alle nuove proposte è la riappropriazione del territorio, che diventa materiale per raccontare la propria storia.  Passando da rappresentazioni realistiche a visioni spaziali, blu elettrico, come quelle Davide Tranchina che lo trasfigura poeticamente.

Chiostri di San Pietro

1986. Esplorazioni sulla via Emilia

Klaus Kinold, Vedute di paesaggio sulla via Emilia, © Klaus Kinold Courtesy Biblioteca Panizzi
Klaus Kinold, Vedute di paesaggio sulla via Emilia,
© Klaus Kinold Courtesy Biblioteca Panizzi

Claude Nori, Motociclista, 1985 © Claude NoriCourtesy Biblioteca Panizzi
Claude Nori, Motociclista, 1985
© Claude NoriCourtesy Biblioteca Panizzi

2016. Nuove esplorazioni

Paolo Ventura, Via Emilia #1, 2016, Fotografia dipinta e collages, opera unica, © Paolo Ventura
Paolo Ventura, Via Emilia #1, 2016,
Fotografia dipinta e collages, opera unica,
© Paolo Ventura

Lorenzo Vitturi, Sulla Via Emilia #3, © Lorenzo Vitturi
Lorenzo Vitturi, Sulla Via Emilia #3,
© Lorenzo Vitturi

Exile, Magnum Photos

Arriving immigrants, Haifa, Israël, 1949-50. © Robert Capa / International Center of Photography / Magnum Photos
Arriving immigrants, Haifa, Israël, 1949-50.
© Robert Capa / International Center of Photography / Magnum Photos

Kakuma. Kenya, 2002 © Alex Majoli / Magnum Photos
Kakuma. Kenya, 2002
© Alex Majoli / Magnum Photos

Più di così non possiamo avvicinarci, Libri fotografici in mostra

Andrew Phelps, from Cubic Feet/Sec. 1979-2013, Fotohof, 2015
Andrew Phelps, from Cubic Feet/Sec. 1979-2013,
Fotohof, 2015

Palazzo da Mosto

Dalla via Emilia al mondo

Gulnara Kasmalieva & Muratbek Djumaliev A new caravan saray 2006 Courtesy Laura Bulian Gallery, Milano
Gulnara Kasmalieva & Muratbek Djumaliev
A new caravan saray 2006
Courtesy Laura Bulian Gallery, Milano

Maanantai Collective, Cloudberry, Lofoten, 2012, © Maanantai, Courtesy Galley Taik Persons
Maanantai Collective, Cloudberry, Lofoten, 2012,
© Maanantai, Courtesy Galley Taik Persons

Paola De Pietri, Senza titolo dalla serie QuestaPianura, 2004, © Paola De Pietri, Courtesy Galleria Alberto Peola, Torino
Paola De Pietri, Senza titolo dalla serie QuestaPianura, 2004,
© Paola De Pietri, Courtesy Galleria Alberto Peola, Torino

Paolo Pellegrin, Ciudad Juarez, USA, 2011 © Paolo Pellegrin / Magnum Photos
Paolo Pellegrin, Ciudad Juarez, USA, 2011
© Paolo Pellegrin / Magnum Photos

San Domenico

Nuove strade

Françoise Beauguion, In the Country Nowhere - 06 Tanger, Morocco, 2015 Video caption ⓒ Françoise Beauguion
Françoise Beauguion, In the Country Nowhere – 06 Tanger, Morocco, 2015
Video caption
ⓒ Françoise Beauguion

Palazzo dei Musei

Paolo Gioli, Nature attraverso, Cervone (elaphe quatuorlineata). Sala di zoologia, Musei Civici Reggio Emilia, 2016 © Paolo Gioli
Paolo Gioli, Nature attraverso, Cervone (elaphe quatuorlineata).
Sala di zoologia, Musei Civici Reggio Emilia, 2016
© Paolo Gioli

Fabio Boni Federica, ore 17.25 Reggio Emilia, 2016 Courtesy e © Fabio Boni
Fabio Boni
Federica, ore 17.25 Reggio Emilia, 2016
Courtesy e © Fabio Boni

Galleria Parmeggiani

Giuliano Ferrari, Grand Tour Reggio Emilia 2012 © Giuliano Ferrari
Giuliano Ferrari, Grand Tour
Reggio Emilia 2012
© Giuliano Ferrari

Saverio Cantoni. Famiglia sudcoreana in visita all’Osservatorio di Pace di Ganghwa Isola di Ganghwa, Repubblica di Corea 2015
Saverio Cantoni. Famiglia sudcoreana in visita all’Osservatorio di Pace di Ganghwa
Isola di Ganghwa, Repubblica di Corea 2015

SPAZIO GERRA

Disco Emilia

Gabriele Basilico, Dancing in Emilia, 1978 @ Gabriele Basilico
Gabriele Basilico, Dancing in Emilia, 1978
@ Gabriele Basilico

Palazzo Magnani

Walker Evans. Anonymous

Marcia Due,Walker Evans photographing in Virginia, 1973, Marcia Due and Jerry Thompson collection, Amenia, New York. © Marcia Due, NY
Marcia Due,Walker Evans photographing in Virginia, 1973,
Marcia Due and Jerry Thompson collection, Amenia, New York.
© Marcia Due, NY

Jerry Thompson, Walker Evans photographing susan Thronton, Bethany, CT, 1973, Marcia Due and Jerry Thompson collection, Amenia, New York. © Jerry Thompson, NY
Jerry Thompson, Walker Evans photographing susan Thronton, Bethany, CT, 1973,
Marcia Due and Jerry Thompson collection, Amenia, New York.
© Jerry Thompson, NY

Walker Evans. Italia

Walker Evans Hitchhikers near Vicksburg, Mississippi, 1936 Data stampa 1980 Collezione privata © Walker Evans Archive, The Metropolitan Museum of Art, New York
Walker Evans
Hitchhikers near Vicksburg, Mississippi, 1936 Data stampa 1980
Collezione privata
© Walker Evans Archive, The Metropolitan Museum of Art, New York

Palazzo Casotti

Sideways

Federica Landi, SPECTRUM, © Federica Landi
Federica Landi, SPECTRUM,
© Federica Landi

 

Collezione Maramotti
So near, So far. Paolo Simonazzi

Paolo Simonazzi, Quattro Castella, 2001 da “Tra la via Emilia e il West“ Courtesy Collezione Maramotti © Paolo Simonazzi
Paolo Simonazzi, Quattro Castella, 2001 da “Tra la via Emilia e il West“
Courtesy Collezione Maramotti
© Paolo Simonazzi

CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma

Linea di confine per la fotografia contemporanea

Guido Guidi Bertinoro, 1984 © Guido Guidi
Guido Guidi Bertinoro, 1984
© Guido Guidi

Fondazione Mast – Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia

Walter Niedermayr, Senza titolo, dalla serie TAV, viadotto Modena_2004
Walter Niedermayr, Senza titolo, dalla serie TAV, viadotto Modena_2004

Andrew Phelps, from Cubic Feet/Sec. 1979-2013, Fotohof, 2015
Andrew Phelps, from Cubic Feet/Sec. 1979-2013,
Fotohof, 2015

Gulnara Kasmalieva & Muratbek Djumaliev A new caravan saray 2006 Courtesy Laura Bulian Gallery, Milano
Gulnara Kasmalieva & Muratbek Djumaliev
A new caravan saray 2006
Courtesy Laura Bulian Gallery, Milano

Maanantai Collective, Cloudberry, Lofoten, 2012, © Maanantai, Courtesy Galley Taik Persons
Maanantai Collective, Cloudberry, Lofoten, 2012,
© Maanantai, Courtesy Galley Taik Persons

Paola De Pietri, Senza titolo dalla serie QuestaPianura, 2004, © Paola De Pietri, Courtesy Galleria Alberto Peola, Torino
Paola De Pietri, Senza titolo dalla serie QuestaPianura, 2004,
© Paola De Pietri, Courtesy Galleria Alberto Peola, Torino

Gallery a cura di Monica Di Brigida

Nel 2015 in Europa aumentano le emissioni di CO2. Nonostante Parigi

L’Unione Europea e l’Italia si sono impegnate, con l’Accordo di Parigi, a diminuire l’uso di energia fossile. Ma i dati dimostrano il contrario. Secondo Eurostat, le emissioni di CO2 complessive dei Paesi membri Ue sono aumentate dello 0,7% nel 2015 rispetto all’anno precedente. Il documento, approvato nella capitale francese e ratificato lo scorso 22 aprile al Palazzo di Vetro dell’Onu, prevede il contenimento dell’aumento delle temperature «ben al di sotto dei 2 gradi centigradi».
Il primato negativo tocca alla Slovacchia, che registra un incremento delle emissioni del 9,5%, seguita da Portogallo (8,6%), Ungheria (6,7%), Belgio (4,7%) e Bulgaria (4,6%). Le diminuzioni sono state invece registrate in otto stati, in particolare Malta (-26,9%), Estonia (-16%), Danimarca (-9,9%), Finlandia (-7,4%) e Grecia (-5%).
Stabile la Germania: il Paese più inquinante di tutta l’Unione Europea ha prodotto nel 2015 la stessa quantità di emissioni del 2014. La Gran Bretagna scende invece del 2,9% (incide sul 12,5% del totale), mentre sale la Francia dell’1,7% (con una quota del 9,9%) e la Polonia dell’1,6% (con una quota del 9,2%).
Nella classifica l’Italia si attesta al sesto posto, con un aumento del 3,5% delle emissioni nocive, ed è responsabile per il 10,6% delle emissioni tra i paesi dell’Unione Europea, terza nella classifica dei paesi più inquinanti, subito dopo Germania e Gran Bretagna e prima di Francia e Polonia.
«L’Italia sarà protagonista di questo accordo storico, per i nostri figli e per i nostri nipoti» dichiarava il 22 aprile il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, al Palazzo di vetro dell’Onu a New York, durante la solenne cerimonia in cui ben 175 stati ratificarono il documento approvato a Parigi lo scorso dicembre. Ma il 2015 non è stato un anno particolarmente brillante per le rinnovabili nel nostro paese. Da una parte per il vuoto legislativo venutosi a creare a causa del ritardo del decreto sulle energie rinnovabili con i nuovi incentivi alle fonti del fotovoltaico. Dall’altra per il decremento della produzione di energia elettrica derivante da fonti rinnovabili, diminuita del 9% rispetto al 2014, ed equivalente a ben 11 miliardi di Kilowatt (dati Terna).
Secondo il rapporto «La svolta dopo l’accordo di Parigi. Italy Climate Report 2016», il nostro Paese per mantenere gli impegni presi a Parigi dovrebbe dimezzare le emissioni di gas serra al 2050 rispetto ai valori del 1990 (siamo a -20%), portare il consumo di energia derivante da fonti rinnovabili al 35% (oggi è al 17%) e al 66% dei consumi elettrici (siamo al 38%).
«Le emissioni di CO2 – ricorda Eurostat – sono una delle principali cause del riscaldamento globale e rappresentano circa l’80% di tutte le emissioni di gas serra nella Ue. Esse sono influenzate da fattori quali le condizioni climatiche, la crescita economica, le dimensioni della popolazione, trasporti e attività industriali».
A livello globale nel 2014 e nel 2015, nonostante la pessima performance di Europa e Italia, le emissioni di CO2 sono leggermente calate dello 0,6%, nonostante un aumento del Pil del 3%. Questo è quello che riferisce il centro studi Global Carbon Project. Il leggero decremento del 2014 e del 2015 «è un buon segnale ma non basta, le emissioni devono cominciare a calare per poter mantenere l’aumento delle temperature sotto i due gradi», sostiene, tuttavia, Greenpeace.

L’Italia che applaude il capo, l’altra che punta sul futuro

Rien ne va plus! Si era appena ripreso dall’affare Guidi e gli è caduta in testa la tegola del presidente campano del Pd che telefonava ai Casalesi e li ringraziava per i voti. Aveva giusto risposto alla frase di Davigo, «i politici non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi», quando ecco che arrestano per turbativa d’asta il sindaco Pd di Lodi. La corruzione si banalizza e non conosci antidoti. Così fan tutte! Al grido che fu di Mozart, tanti, troppi amministratori al governo giustificano le loro infedeltà e corrono a baciare le pantofole dei comitati d’affari. Mattarella stigmatizza, i 5 stelle speculano, Renzi corre alla lapide di La Torre ma per dire “l’antimafia non divida unisca”, l’esatto contrario di quel che han fatto Chimici, Falcone e Borsellino, han diviso il grano dal loglio e per questo hanno pagato.
L’Italia ritrova la crescita, il nostro sistema bancario è vivo e lotta insieme a noi, abbiamo creato lavoro, ridotto il precariato: come siamo stati bravi! Ma poi Ilvo Diamanti interroga gli Italiani e scopre che sono in maggioranza Gufi: il 72% ritiene che l’occupazione nel Belpaese “non sia ripartita”, Il 68 che sia aumentato il lavoro nero, il 73 che ci siano più precari, il 67% che il futuro dei giovani sarà peggiore. Poi la borsa rifiuta di quotare la Banca Popolare di Vicenza appena “salvata” e Weindmann, patron di Bundesbank da lezioni di rigore al povero Renzi, quasi fosse uno Tsipras qualsiasi.
Non parliamo di amministrative: secondo i sondaggi Parisi ha raggiunto Sala nella sfida tra uguali, manager contro manager, per Palazzo Marino, tra il Marchini, la Meloni e la Raggi, il candidato renzo-radicale Giachetti rischia di non arrivare al ballottaggio, Napoli è persa, al premier non resta che sperare nella fedeltà a Fassino dei Bogia nen torinesi e in quella alla ditta dei vecchi comunisti bolognesi.
Rien ne va plus per il rottamatore. Non riesce a imporre l’amico e finanziatore Marco Carrai alla cybersecurity, si fa sommergere dalle critiche per la nomina di Toschi – solo per due anni – al vertice della Guardia di finanza. Ha perso il tocco, si sente solo, per fortuna non crede “ai complotti dal tempo di Biscardi” se no, forse, lancerebbe anatemi contro il patto pluto-giudaico-massonico o contro la perfida trama di magistrati comunisti, sindacalisti comunisti, giornalisti pure comunisti. E quasi lo fa.
Per fortuna che c’è il referendum a ottobre. Gli italiani non ne sanno molto e lui gliene vuol far sapere ancora meno. “Dopo 63 governi, si cambia”! Facevano tutti schifo quei 63 governi dell’era repubblicana e il suo che ha fatto di così diverso? Con la riforma, meno indennità: 630 deputati più 100 senatori – tra i quali, magari, qualche consigliere regionale a cui serve l’immunità. Mentre il progetto alternativo dei Gufi (Casson, Tocci , Mucchetti) di indennità ne prevedeva 500, per 350 deputati e 100 senatori. E quanto a me avrei pure abolito il Senato, a condizione di mantenere il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica e della Corte Costituzionale che la riforma ha reso scalabile dal premier.
Torna l’Italia del Sì e Renzi vuole scovarla casa per casa. Le parole sono importanti, diceva Moretti. Quando ho sentito il mio presidente del Consiglio che questo diceva, ho avvertito un brivido per la schiena. L’Italia del Sì, quella che gridava in camicia nera Eia Eia alalà. Quella che portava in giro madonne pellegrine mentre Pio XII scomunicava dirigenti sindacali e comunisti. Quella che saltellava “chi non salta comunista è, è” al comando del Caimano.
Preferisco l’Italia del No, quella che voleva essere l’acido corrosivo della stupidità, Antonio Gramsci. Quella di Vittoria Foa, “essere a sinistra vuol dire vivere oggi e contemporaneamente domani”. Di Galileo, toscano di Pisa, che capovolse il pensiero del suo tempo. E di Machiavelli, toscano di Firenze che alle genti svela di “che lacrime (il potere) grondi e di che sangue” e non a inventarsi un plebiscito per lavare le sconfitte. A proposito, un sondaggio dà i no al 52%.

Questo editoriale lo trovi sul n. 19 di Left in edicola dal 7 maggio

 

SOMMARIO ACQUISTA

Se la legittima difesa diventa un’arma elettorale

Con le amministrative alle porte c’era da aspettarselo. Lo slogan “La difesa è sempre legittima” campeggia sui manifesti delle destre e il refrain delle camicie verdi “Padroni a casa nostra” assume in questa campagna elettorale un nuovo significato. «Se mi entra un ladro in casa e gli sparo se l’è andata a cercare» spiega Matteo Salvini a sostegno dell’ennesimo padrone di casa che ha premuto il grilletto, con il governatore e compagno di partito Roberto Maroni pronto ad accollare al Pirellone – soltanto però, si badi, a beneficio di chi risieda in Veneto da almeno 15 anni – «le spese di difesa del pensionato che, per legittima difesa, ha sparato al ladro romeno entrato in casa sua». Sulle loro posizioni, anche Fratelli d’Italia e gli altri pezzi della destra nostrana. Ma non solo.
Stranieri contro connazionali, ladri contro padroni di casa: la materia – confermano i sondaggi – è di quelle che sollecitano le paure degli italiani e come tale vede i due terzi del Paese schierati con chi non intende punire l’eccesso colposo di legittima difesa e quindi vuole togliere al giudice la potestà di decidere se chi reagisce va oltre i limiti di proporzionalità tra offesa subita e difesa messa in campo.

Nulla di fatto in Aula
Il mese scorso, su questo tema, il dibattito parlamentare si è arenato al punto che, su richiesta dei centristi di Area popolare, l’Aula di Montecitorio ha rinviato alla commissione Giustizia il disegno di legge in discussione. Oggetto del contendere, l’articolo 52 del codice penale sulla legittima difesa, già modificato nel 2006 con l’estensione della liceità di usare l’arma legittimamente detenuta nel caso di violazione di domicilio. Unici limiti: l’inevitabilità dell’uso dell’arma e la proporzionalità tra offesa e difesa.
Ciò nonostante si discute ora di nuove modifiche in senso meno restrittivo per chi usa le armi nel domicilio o sua pertinenza. Le posizioni in campo però sono molto diversificate. La Lega Nord vuole porre fine alla possibilità di una valutazione caso per caso da parte dei giudici: ogni atto compiuto a seguito dell’effrazione di casa, negozio, azienda o studio professionale è legittima difesa. Per il Pd, che ha riscritto il testo scontentando Lega e Area popolare, la colpa può essere esclusa soltanto se l’errore nel valutare la situazione di pericolo è conseguenza di un «grave turbamento psichico, e se è stato causato dalla persona contro cui è diretto il fatto». In mezzo, la posizione di Area popolare, in particolare del ministro per gli Affari regionali con delega alla Famiglia, Enrico Costa, che insiste nel voler ricomprendere nell’ipotesi di legittima difesa il caso di un atto violento esercitato dal padrone di casa in presenza di bambini (dando rilievo alla presenza dei figli e non a quella del coniuge o altri familiari e finendo così per stabilire una assurda gerarchia). Risultato: la patata bollente torna alla commissione competente che dovrà «approfondire».

Un favore ai produttori di armi?
«Quello che è accaduto» taglia corto Daniele Farina, deputato di Sinistra Italiana in commissione Giustizia «è che il Pd ha sostituito la sua versione soft di modifica della legittima difesa alla versione hard proposta dalla Lega. Il Carroccio vuole eliminare ogni proporzionalità tra l’offesa subita e la difesa messa in campo, mentre per il Pd deve rimanere una certa gradualità: entrambi i partiti però non tengono conto del fatto che la legittima difesa è stata già riformata nel 2006 e questa modifica non riguarda soltanto la casa privata ma anche lo studio, le pertinenze, il negozio…». Per Farina l’obiettivo di questi tentativi di intervento legislativo non è soltanto quello di cavalcare le paure dei cittadini, ma – spiega – alcune forze politiche «non la raccontano tutta agli italiani», perché agirebbero con l’intento di favorire i produttori di armi leggere. «C’è un enorme mercato – aggiunge il deputato di Si – e una legge che ha compiuto 25 anni quest’anno prevede un report dettagliato sulle armi leggere che però è sempre più opaco. In realtà la possibilità di esercitare la legittima difesa esiste già e soltanto noi siamo contrari a eliminare ogni regola e proporzionalità. Anche i 5stelle sono un po’ timidini sull’argomento».

L’articolo continua sul n. 19 di Left in edicola dal 7 maggio

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

Brasile, l’Alta Corte sospende Cunha il nemico numero uno di Dilma

Il Supremo tribunale federale brasiliano ha sospeso Eduardo Cunha dalle sue funzioni di presidente della Camera del Brasile. Cunha è il principale fautore della procedura di impeachment contro la presidente Dilma Rousseff.
Una decisione, quella della Corte, arrivata dopo la richiesta della procura generale che accusa Cunha di aver ostacolato l’inchiesta sui fondi neri e le mazzette di Petrobras, società petrolifera pubblica al centro del più grande caso di corruzione della storia brasiliana. Il presidente Cunha è sospettato di aver occultato capitali illeciti in Svizzera, il suo nome compare nella lunga lista degli indagati. «Una banda di ladri», ha definito il New York Times chi oggi punta il dito contro la presidenta.
Cosa succede in Brasile? Ecco l’analisi di Breno Altman, pubblicata su Left del 18 aprile.

In Brasile è in atto un “golpe bianco”, denunciano Dilma Rousseff e i suoi sostenitori. Le strade di San Paolo e Rio sono invase da folle tinte di rosso o di verde oro, a seconda che vogliano difendere la presidente o manifestarle la loro ostilità. «L’onda della mobilitazione della sinistra, che considera il voto della Camera per l’impeachment a Dilma un golpe bianco», dice a Left Breno Altman, direttore del quotidiano Opera Mundi, «crescerà nei prossimi giorni, in forma più organizzata e centralizzata, con grandi concentramenti popolari e scioperi». Dall’altra parte, «le reazioni dell’opposizione di destra e dell’informazione (tutta contro Dilma) appaiono piuttosto guardinghe nonostante la vittoriosa battaglia alla Camera. I settori meno insensati del conservatorismo brasiliano sembrano imbarazzati dal predominio di posizioni fondamentaliste e neofasciste nel voto del 17 aprile, quando in aula si è visto anche un deputato dell’ultra destra, Jair Bolsonaro, dedicare il suo voto contro Rousseff al colonnello Carlos Brilhante Ustra, che durante la dittatura militare guidava l’unità militare che torturava i dissidenti e che torturò la stessa Dilma.

dilma giovane
«Lei non ha rubato nulla, ma sta per essere giudicata da una banda di ladri», ha scritto di Dilma il New York Times il 15 aprile, mentre la presidente denunciava all’Onu il colpo di Stato. Ma perché parlare di golpe se l’impeachment è previsto dalla Costituzione? «Perché la legge prevede l’impeachment solo se vi è un crimine commesso, ma qui», risponde Breno Altman, «non c’è nessun reato che possa esserle attribuito». L’accusa mossa a Rousseff non ha niente a che fare con la corruzione, la presidente è accusata di aver falsificato i bilanci dello Stato allo scopo di mascherare la recessione del Paese, nel corso della campagna elettorale per la sua rielezione del 2014. «Sono pratiche purtroppo comuni a tutti i governi dal 1985 a oggi», riprende il direttore del giornale indipendente, «e persino la Corte dei conti federale ha autorizzato simili forme di maquillage contabile. A carico di Dilma Rousseff non c’è alcun procedimento penale per corruzione, mentre la stessa cosa non si può dire per per chi l’accusa: per il vicepresidente Michel Temer, per esempio, e per il presidente della Camera dei deputati, Eduardo Cunha, accusato di aver ricevuto massicce tangenti da parte di gruppi d’affari. Dei deputati che hanno votato per l’impeachment, in 28 sono imputati per corruzione. E ben 215 dei 367 parlamentari che si sono schierati contro la presidente devono rispondere di reati finanziari».

 

I 25 partiti presenti nel Parlamento brasiliano, spiega Altman, «sono politicamente divisi in quattro aree tra loro relativamente equilibrate, ciascuno con un sostegno approssimativo del 25% della società: la sinistra, la destra, il centro-democratico e il centro-conservatore». Ad abbandonare Dilma Rousseff e rompere l’alleanza di governo sono i parlamentari centristi. «La sinistra, contando sul 20% dei voti e il 25% della rappresentanza parlamentare, era riuscita a controllare la presidenza dal 2003, ma solo alleandosi con le forze del centro-democratico e del centro-conservatore per preservare la governabilità. Ma poi il quadro comincia a cambiare con le elezioni di ottobre 2014, quando Rousseff ha deciso di far sua, almeno in parte, l’agenda economica dell’opposizione di destra». Spiega Altman: «Riconfermata con un margine molto stretto e spaventata dal crollo degli investimenti privati, Dilma ha cercato di stabilire un ponte con i suoi avversari politici e di classe. È stato un vero disastro. Il nuovo assetto ha disorganizzato, smobilitato e diviso la sinistra, mentre consentiva alla destra di recuperare iniziativa politica, di accusare la presidente di frode elettorale, di portare in piazza folle della classe media, che gridavano contro la corruzione, confortate da settori della magistratura, pubblici ministeri e polizia federale». È in questo contesto, in cui Dilma e il Pt (il Partito dei lavoratori) diventano il capro espiatorio dell’insoddisfazione dei ceti medi, che il centro-democratico si sposta a destra e si unisce al centro-conservatore, formando un blocco che sul 70-75% del Parlamento.
Dopo la crescita impetuosa dei primi anni Duemila e le speranze suscitate dai programmi sociali di Lula, la presidente ha dovuto fare i conti con la recessione degli ultimi anni. Le scelte di austerity alla brasiliana le hanno procurato critiche anche da sinistra, critiche non prive di fondamento, analizza Altman: «Il grande errore di Rousseff è stato quello di aver risposto con una politica recessiva all’esaurimento del modello economico sostenuto dal 2003 al 2010. Un modello che aveva permesso di distribuire reddito e aumentare il tenore di vita dei più poveri senza ridurre il potere d’acquisto dei più ricchi. Dal 2011 la situazione è cominciata a cambiare e servivano scelte coraggiose per continuare con una politica di inclusione sociale: aumentare le imposte sul capitale, limitare i trasferimenti di fondi pubblici alle società private, contenere il potere degli oligopoli finanziari». Scelte difficili perché la grande impresa chiedeva, al contrario, sostegno finanziario e tagli ai salari. «La presidente ha resistito alla pressione durante il suo primo mandato, ma ha ceduto dopo la rielezione. Ed è così andata incontro a una perdita enorme di consenso nella base sociale della sinistra, ha indebolito la sua capacità di egemonia, mentre si aggravava la recessione e il Brasile perdeva posti di lavoro e di reddito».
Tuttavia, dice Altman, la presidente «non è attaccata per gli errori che ha fatto, ma perché rappresenta un ostacolo alla contro rivoluzione capitalista invocata dai grandi gruppi d’affari e dai loro portavoce politici. Le forze conservatrici non vogliono destituire Dilma, ma criminalizzare tutte le forze progressiste e dei movimenti sociali, impedendo qualsiasi alternativa di potere che possa disturbare la ricostruzione dell’egemonia borghese». Il golpe branco, per molti, non è che l’anello di una catena che si snoda lungo l’intero Continente: «Il rovesciamento di Rousseff è parte di una strategia geopolitica, il cui principale obiettivo è quello di sconfiggere il processo di cambiamento progressista in America Latina, che è iniziato con l’elezione di Hugo Chavez nel 1998. La crisi internazionale e il consolidamento dei blocchi regionali rende indispensabile al capitalismo americano ritrovare il subcontinente e subordinarlo di nuovo ai propri interessi».

La grande marcia indietro. Anche Hollande dice no al Ttip

Da cavallo di Troia, delle lobby per entrare nelle istituzioni pubbliche, a cavallo di battaglia per le proprie campagne elettorali. Adesso anche Hollande dice no al Ttip. Del Trattato transatlantico di liberalizzazione che ha l’obiettivo di abbattere le frontiere commerciali e dare vita al più grande mercato unico del pianeta (800 milioni di consumatori e 46% del Pil globale), abbiamo scritto tante volte.

Quanto emerso dai TtipLeaks, poi, ci ha dato la conferma che – tre anni e 12 incontri dopo – al tavolo dei negoziati di Usa e Ue sono gli Stati Uniti a fare la voce grossa. Niente di sconvolgente, da tempo i movimenti #StopTtip ne denunciano, insieme alle pericolose conseguenze. Ma, per il momento, in comune sembra esserci solo il terreno sul quale posizionarsi in vista delle campagne elettorale. È così per il britannico Corbyn. È così negli States, dove i candidati democratici alla guida Usa, Sanders e persino Hillary Clinton.

«Allo stato attuale del confronto, la Francia dice di no all’intesa», ha detto François Hollande il 4 maggio, durante un convegno sulla “sinistra al potere” «Perché non siamo per un sistema di libero scambio senza regole. Non accetteremo mai che vengano messi in discussione i principi essenziali della nostra agricoltura, della nostra cultura. E che non ci sia una totale reciprocità nell’accesso agli appalti pubblici». Parole decise che il presidente francese ha evidentemente deciso di usare per lanciarsi verso le presidenziali di maggio 2017.

TOPSHOTS French President Francois Hollande (R) and German Chancellor Angela Merkel attend a ceremony in the Cathedral on July 8, 2012 in the northern French city of Reims, during a day of ceremonies to commemorate the 50th anniversary of renewed Franco-German relations after World War II. France and Germany have worked closely in recent years as they scramble to solve the eurozone's debt crisis and observers are watching with interest to see how the relationship develops between Hollande, a centre-left advocate of growth, and Merkel, a centre-right defender of austerity. AFP PHOTO / POOL / FRANCOIS NASCIMBENI TOPSHOTS-FRANCE-GERMANY-DIPLOMACY-HISTORY-EU
La Cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese François Hollande

Perché l’unica certezza, a questo punto, è che il Ttip non verrà chiuso entro l’anno. E il 2017 sarà un anno elettorale delicato, in Francia e in Germania. Due Paesi “che contano” al tavolo dei negoziati, nonostante le trattative siano condotte dalla Commissione Ue. E anche in Germania, per quanto Angela Merkel sia ufficialmente favorevole, il clima non è così sereno. In 250mila sono scesi in piazza nei giorni scorsi, Sigmar Gabriel (leader socialdemocratico, numero due del governo e ministro dell’Economia) ha dichiarato che «se gli Stati Uniti non vogliono aprire davvero il loro mercato, noi non abbiamo alcun bisogno di questo accordo commerciale». E un sondaggio della fondazione tedesca Bertelsmann, ci dice che il consenso sul Ttip è sceso dal 55% al 17% in Germania. E dal 53% al 15% negli States.

L’Italia? Scenderà in piazza il 7 maggio, a Roma.

Siria, bombe sul campo profughi. Onu: crimine di guerra

epa05289818 A general view shows a boy playing at a refugee camp on the Jordanian side at the north east of Jordan border with Syria, Al-Hadalat crossing point near Royashed Town, Jordan, 04 May 2016. according to the Jordanian Commander of the Borders Guards Brigadier Saber Al-Mahayreh, around 5000 Syrians fleeing from the recent attacks on the Syrian city of Aleppo crossed into Jordan in search of safety, most are exhausted and desperately in need of help and medical treatment. EPA/JAMAL NASRALLAH

Un probabile crimine di guerra. Così ha definito il raid aereo, probabilmente siriano, sul campo profughi di Kamouna, nella provincia di Idlib, in Siria. Nell’attacco aereo sono morte almeno 28 persone e decine sono i feriti. Nel campo c’erano circa 500 tende abitate da altrettante famiglie fuggite da Aleppo, dove anche in questo periodo di tregua si è continuato a combattere.

Il giorno prima le parti in conflitto – Assad e le opposizioni non jihadiste che lo combattono – avevano raggiunto un nuovo accordo per il cessate il fuoco. È chiaro che questo raid rischia di far saltare tutto e che Assad vuole riprendersi Aleppo per, semmai, sedersi a qualsiasi tavolo negoziale da una posizione di forza assoluta. L’idea di una transizione verso un regime diverso non sembra sfiorarlo.

Il dittatore siriano ha scritto in un telegramma al presidente russo Vladimir Putin che il suo esercito non avrebbe accettato niente di meno che «il raggiungimento della vittoria finale» e «schiacciare l’aggressione» dei ribelli ad Aleppo.

La risposta Usa, che assieme a Mosca ha mediato il rinovo del cessate il fuoco, è stata secca: «Invitiamo la Russia a rispondere con urgenza a questa affermazione del tutto inaccettabile», ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato Usa Mark Toner. «C’è un chiaro sforzo da parte di Assad per portare avanti la sua agenda, ma spetta alla Russia di esercitare la propria influenza sul regime per mantenere la cessazione delle ostilità».

Solo pochi giorni fa le forze di Assad avevano colpito l’ospedale di Aleppo sostenuto da Medici Senza Frontiere. Ora le bombe sui profughi sono un segnale ulteriore di una strategia che non prevede pause umanitarie alla guerra. Le Nazioni Unite, in questi giorni, hanno avvertito diverse volte che, senza una cessazione delle ostilità, almeno 400mila persone, ridotte in condizioni disperate, cercheranno di attraversare i confini e fuggire dalla guerra. L’Europa, che non svolge un ruolo serio nel cercare di mediare e premere su Assad, non svolge nemmeno il suo dovere di accoglienza: le ultime misure previste sulle multe ai Paesi che non accolgono rifugiati difficilmente cambieranno le cose.

Gli allegri passeggiatori sul cadavere di Pino Maniaci

Pino Maniaci, il direttore di TeleJato la tv siciliana antimafia oggi, 25 Giugno 2012, a Radio Siani, la radio di Ercolano che trasmette in un appartamento confiscato alla camorra, nell ambito del festival dell' impegno civile. ANSA/CESARE ABBATE/

Se siete rimasti sconvolti dal linguaggio di Pino Maniaci, dal suo essere scurrile, sborone, incazzoso, sboccato come un cane sempre arrabbiato e con il fanculo sulla punta della lingua allora, semplicemente, non conoscete Pino. E per carità non ci sta mica scritto che voi dobbiate conoscerlo per forza ma ci vuole spericolatezza per stendere gli editoriali su ciò che si conosce appena. Perché se, come leggo in giro, siete scandalizzati dai modi sappiate che quelli sono i modi con cui Pino ti chiama dopo mesi per dirti che gli manchi. Così. Uguali. Anzi, con un paio di parolacce in più.

L’imprinting di Pino Maniaci è stato confezionato su misura dalla Procura di Palermo. Nulla di male nel confezionare video chiarificatori sulla dinamica dell’indagine ad uso e consumi di una stampa abituata a stendere reportage con un paio di mail e una ricerca veloce su google: è che io, in quel video, insomma, non trovo il reato. Ma davvero. Vedo Pino prendere dei soldi da un sindaco (quotidianamente massacrato nel suo tg) ma non riesco a capire esattamente quel denaro in cosa consista. E davvero se il sindaco di Partinico ha corrotto Pino (con qualche banconota da 50 euro) per essere trattato bene nei servizi giornalistici, quegli stessi servizi che lo fanno fesso un giorno sì e l’altro pure, allora davvero sono Don Chisciotte e Sancho Panza. In salsa siciliana.

Per il resto sento Pino fare il gradasso come succede a chi cede alla tentazione di farsi fare “simbolo” di una battaglia che, grazie a dio, scalda i cuori. Sento Pino corteggiare (abbastanza pateticamente, caro Pino) una donna in un contesto in cui quel giornalista di provincia è l’unico in zona ad avere frequentato i salotti, roba da film, in certe realtà. In un territorio in cui molti inseguono una carezza del boss o un favore dal sindaco o una buona parola dal don lui, Pino Maniaci, arriva in televisione quella vera. In mezzo al provincialismo si diventa personaggi con un paio di minuti in prima serata. Che roba, eh?

Poi sento Pino esprimere pareri sferzanti (con il suo solito vocabolario dell’orrore) sulle forze dell’ordine e sulla magistratura. Mica tutta, ovviamente, perché Pino ci vive con le informative, le fonti giudiziarie, l’approfondimento dei processi e ci vive fianco a fianco con i carabinieri che lo tutelano. E, Pino, parla consapevole dei carabinieri che hanno depistato l’omicidio di Peppino Impastato, parla sapendo che proprio a Palermo un giudice (la Saguto) è accusata di reati gravissimi e voraci, parla sapendo (come sanno tutti quelli che si occupano di mafie) che un carabiniere corrotto fa più danni di quanti ne possano riparare 100 assemblee di istituto di giovani curiosi.

Poi, nel video promozionale dello sputo su Maniaci, ci si mette dentro anche la telefonata in cui Pino sfancula Renzi. E tutti: o che vergogna! Che se ci ascoltassimo nei nostri giudizi rivolti verso il premier, scommetto che basterebbe tenere per poco un registratore dentro un bar, se dovessimo trascrivere gli epiteti (o semplicemente basta leggere i comunicati stampa di Salvini) Pino sarebbe quasi un analista politico. Di questi tempi.

Poi c’è la vicenda dell’attentato dei cani, di cui non ha detto nulla (perché sono sicuro invece che tutti i sputasentenze di questi giorni farebbero una pubblica conferenza stampa se sapessero di avere fatto incazzare il marito della propria amante) e che, insieme a quella brutta frase che è un’onta alla memoria di  Mario Francese, sono i due gesti che invitano alla delusione più profonda.

Resta, comunque, un video e un’immagine che ci restituisce un Pino cazzone. Com’è Pino del resto. E dovreste vedere quanti professoroni dell’antimafia ha fatto incazzare quando ha smentito fior di luminari con la prova dei fatti, l’andare per strada, il riportare la notizia. Perché Maniaci, segnatelo, ha fatto contro le mafie più di decine di onorevoli sazi. E se l’ha fatto con quest’umanità così debole e a tratti misera, se ha ottenuto quello che ha ottenuto pur essendo il Pino che ci stanno raccontando questo vi dice quanto siano vigliacchi alcuni di quelli che oggi ne celebrano la caduta. Vigliacchetti da conferenza, catering e hotel che vorrebbero imporci la moderazione perché non si notino troppo le differenze. Telejato ha formato una rete di giovani giornalisti per strada, telecamera in spalla, guardando negli occhi con il microfono in mano i famigliari dei boss: quei ragazzi oggi sono un valore che nemmeno la più grande puttanata di Pino Maniaci può minimante schizzare. Chi usa queste intercettazioni per sminuire un laboratorio di giornalismo antimafioso (con Salvo Vitale, con Riccardo Orioles, gente che si porta con sé  una storia per cui il divismo antimafioso contemporaneo non riesce a valere nemmeno un’unghia di quei due) fa il gioco della mafia. Per superficialità (ma non è una buona scusa) converge nei festeggiamenti come festeggia un Messina Denaro o qualche uomo di legge compromesso e corrotto. Sono osceni coloro che passeggiano sul cadavere di Pino calpestando una redazione che c’è, c’è stata, è memoria ed è molto più della faccia del suo direttore.

Detto questo Pino temo che questa volta abbia ceduto alla sua debolezza. Spero di essere smentito ma dovrà essere molto convincente. Dicono che oggi dovrebbe parlare. Ascolteremo. Ma sappiate, e lo dico a quelli che sognano un eroe che si faccia il mazzo per il riscatto degli altri, sappiate che nonostante una narrazione antimafiosa spesso tra il mito o l’arzigogolato, sappiate che nemmeno Peppino Impastato probabilmente vi sarebbe piaciuto. Ci sono antimafiosi che purtroppo non rientrano nei vostri canoni. Per fortuna. Ci sono persone che si intrufolano in battaglie enormi eppure sono più viziosi, più deboli, più stanchi, più cedevoli di coloro che li ammirano. Funziona così. E se vi turba pensare che anche Falcone fosse chiacchierato per qualche vizio, allora sappiate che forse avete semplicemente il fottuto di terrore di capire che dovreste darvi da fare anche voi. Ce la fate anche voi, se decidete di metterci la faccia. Anche con i vostri vizi.

Buon venerdì.

Songs of the future. Se la musica è una roba da scienziati

Come funziona il mercato discografico? Una domanda, infinite risposte. Soprattutto dopo l’avvento dell’era streaming. L’industria discografica che nel passaggio delicato ha registrato un calo del 70%, torna a crescere quest’anno. Cresce negli States, lo dicono i dati di Riaa. E anche in Italia, sostiene Fimi: +21 per cento, per un fatturato di 148 milioni di euro. E questo “entusiasmo” degli italiani riguarda tutti i formati, a partire dalla musica fisica, con una ripresa del Cd con un +17 per cento e ricavi oltre gli 88 milioni di euro; e l’ascesa del vinile con un +56 per cento, ma non saltate sulla sedia… quando si parla di vinili si parla pur sempre del 4 per cento del mercato musicale. Insomma, in Italia a differenza degli States la musica fisica domina ancora il mercato, ma il digitale si conferma un traino sempre più determinante: nel 2015 il digitale si attesta al 41 per cento del fatturato, era del 38 nel 2014. Bando ai numeri e al pallottoliere, è quali sono le dinamiche di acquisto e selezione, e i gusti della gente che tocca capire. Serve una ricerca, e quale migliore occasione per studiarlo se non un contest?

Songs Of the FuTure – sotto la direzione scientifica dei professori Alessandro Panconesi, Marzia Antenore ed Emanuele Panizzi – è un esperimento che punta a trovare la canzone, anzi le canzoni del futuro. Obiettivo audace, che si sono dati i colleghi della rivista di musica ExitWell e due dipartimenti dell’Università La Sapienza di Roma, quello di Informatica e quello di Comunicazione e Ricerca Sociale.

100 band 5 round e 10 mesi di tempo per scoprire chi è l’Artist of the future. Gli artisti che decideranno di partecipare al concorso battaglieranno sulla piattaforma digitale di Songs Of the FuTure e solo in cinque arriveranno alla finale, e cioè coloro che avranno ricevuto più accessi al download/streaming del brano in gara. I finalisti, poi, si esibiranno dal vivo a Roma (una volta concluso il contest online), davanti a una Giuria di Qualità che decreterà per la finale, per aggiudicarsi il titolo di Artist of the future.

Niente target, ninete generi musicali, niente limiti alla partecipazione. L’idea nasce da un precedente tentativo organizzato dai dipartimenti romani, simile ma assai ristretto e rivolto ai soli studenti della Sapienza. «Da studente mi sono interessato alla faccenda e ho lavorato insieme al professor Alessandro Panconesi (docente del dipartimento di informatica) per ampliare il raggio d’azione a livello nazionale e espandere il pubblico e la musica trattata facendone un contest vero e proprio», spiega Riccardo De Stefano che del contest è il direttore artistico. «Ci lavoriamo da circa un anno, insieme ai professori Emanuele Panizzi (informatica) e Marzia Antenore (comunicazione e ricerca sociale). E poi con la società DevAppers per la parte tecnica».

Songs Of the FuTure è un esperimento, ma è anche un’occasione per le giovani band, per farsi conoscere in un mercato nuovo. Attraverso la simulazione di un mercato virtuale dove emerge chi sa meglio vendere la propria musica. Saranno gli utenti a decidere quale sarà la canzone migliore Il contest avrà luogo su una piattaforma digitale realizzata dai dipartimenti universitari, e ogni artista/band ha a disposizione uno spazio personalizzabile, dove presentare il suo progetto musicale e proporre un brano in download o streaming. Con una bio, un video, una galleria fotografica, il testo del brano – per convincere gli utenti, affinché scelgano il loro brano. Non in denaro, ma in softy (la moneta virtuale interna di Songs Of the FuTure) è possibile al costo virtuale di 1 softy.

Per partecipare al contest, basta accedere al portale tramite il proprio profilo facebook, navigare attraverso le pagine delle band e scegliere quali brani premiare, utilizzando il budget virtuale di 4 softy. Buon contest.

La poesia di Carmen Yáñez e la memoria di Neruda. Nel recital con Sepùlveda

Giovanissima, Carmen Yáñez fu catturata degli uomini del dittatore Pinochet e rinchiusa  nell’inferno di Villa Grimaldi a Santiago del Cile dove fu torturata. Ma non sono riusciti a mettere a tacere questa donna dall’aspetto minuto e fragile e dalla voce poetica potentissima. Come sa chi ha avuto l’occasione di leggere i suoi libri di poesia pubblicati in Italia da Guanda o di ascoltarla dal vivo nel reading poetico che la vede accanto al marito Luis Sepùlveda, con musiche dal vivo del Ginevra Di Marco trio (composto dalla cantante dei C.S.I., Francesco Magnelli e Andrea Salvadori). Il 5 maggio va in scena al festival di letteratura spagnola e latinoamericana Encuentro a Perugia. Che diventa anche per noi l’occasione per incontrarla. Per farsi raccontare il suo percorso,  gli anni duri di resistenza alla violenza di regime e come è  riuscita a rinascere con la letteratura.
«Il periodo di reclusione a Villa Grimaldi fu – e non poteva essere altrimenti – una esperienza unica e dolorosa. Non eravamo detenuti, le donne e gli uomini lì erano sequestrati, senza diritto a nulla. La nostra situazione era di desaparecidos nelle mani del terrorismo di Stato messo in atto dalla dittatura di Pinochet», racconta Carmen Yáñez . «Poi, quelli di noi  che hanno avuto la fortuna di sopravvivere, sono  stati liberati non avendo nessun capo di accusa. Molti altri hanno avuto sorte peggiore e sono ancora oggi restano desaparecidos.

Come siete riusciti a sopravvivere, non solo dal punto di vista fisico, quanto psicologico alla condizione di deprivazione e tortura?

Come siamo sopravvissuti a quell’ inferno? Eravamo giovani, la mente viva. Avevamo la convinzione che la nostra lotta fosse giusta, vedevamo che i nostri torturatori erano aguzzini di un sistema politico ed economico che si imponeva con la forza contro un popolo che aveva avuto il coraggio di sfidare il potere. Credevamo nei nostri sogni. E ci crediamo ancora oggi, nonostante il passare degli anni. Quella fu la nostra forza.

Riuscendo poi a non morire  poi di rabbia e odio…
In me non c’è odio. Odiare è farsi male da soli. L’odio lo lascio a chi disprezza e odia gli esseri umani, a chi non è capace di amare, a chi non ha empatia verso i più deboli,  la parte vulnerabile della società. Non odio, ma anche per un senso di giustizia  sono stata sempre dalla parte di chi soffre denunciando. Si vive anche per questo, perché ci sono ferite aperte da sanare. Il mio linguaggio poetico è propio questo, uno strumento per sistemare i conti con l’orrore con tutta la tenerezza della quale sono capace. Sembra una contraddizione, ma non lo è.

Nel suo volume  più recente uscito in Italia, Cardellini nella pioggia, c’è  l’amore, la memoria, l’esili. I suoi versi  che rifiutano il tono ermetico e l’oscurità.  Nelle sue poesie, molti critici, hanno trovato risonanze di Neruda. È stato un riferimento importante per lei?
Mi imbarazza essere messa a confronto con il grande maestro Pablo Neruda che è stato ed è il mio riferimento morale, politico e letterario. Ciò che posso dire riguardo la mia poesia è che se scrivo è per il mio bisogno di cercare parole ai sentimenti che sveglia in me la vita e la sua quotidianità, lo stupore che scopro nelle leggi della natura e dell’essere umano. Niente di ciò che scrivo è senza il motore dei miei sentimenti.

Nel silenzio dei maggiori media in Italia si sta celebrando il processo Condor che  vede alla sbarra torturatori che sono stati il braccio violento dei regimi latino americani sostenuti dalla Cia, a cominciare da quello argentino.
È uno dei maggiori drammi della nostra storia latinoamericana ancora non risolta. Mi sembra importante che in alcuni Paesi si facciano passi in avanti per mettere un punto finale su questo genocidio, trovando i colpevoli, tutti i colpevoli, anche i civili che furono complici. Se non ha avuto una diffusione mediatica come dovrebbe essere è perché la società è inerte e non vuole aprire gli occhi sul  passato.

(traduzione di Gabriela Pereyra)

Il festival Encuentro  La terza edizione del Festival delle letterature in lingua spagnola, si svolge a Perugia dal 4 all’8 maggio con Paco Ignacio Taibo II, Luis Sepúlveda, Leonardo Padura Fuentes,aco Ignacio Taibo II, Arturo Pérez-Reverte,  Bruno Arpaia, Antonio Soler, Alfonso Mateo-Sagasta, Angel Cappa, Juan Cruz Ruiz (il vice direttore de El Paìs), Pino Cacucci e molti altri.  Il recital di Carmen Yáñez va in scena il 5 maggio in piazza IV novembre a Perugia, alle 21,30.  Qui il programma completo