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Malek Adly, avvocato per i diritti umani in Egitto: «Non sono in prigione, almeno non ancora»

Egyptian president Abdelfattah al-Sissi takes part in a press conference following his meeting with his French counterpart at the al-Qubaa palace in Cairo on April 17, 2016. French president Francois Hollande is on a two-day visit to Egypt to oversee the signing of several economic agreements, but a press conference with Sisi was dominated by the Egyptian leader's human rights record. / AFP PHOTO / KHALED DESOUKI

Vi avevamo raccontato le vicende di Malek Adly, avvocato che fornisce assistenza legale contro le violazioni dei diritti umani in terra egiziana e che abbiamo intervistato su Left qualche tempo fa in merito al caso Regeni. «Scrivi il mio nome. Io faccio il mio lavoro. Io non ho paura. Il mio nome è Malek Adly» ci aveva detto. Poi una prima notizia lo dava fra gli arrestati della retata del 25 aprile, notizia che fortunatamente è lo stesso Malek a smentire, spiegandoci quale sia al momento la sua situazione nel Paese di al Sisi: «Confermo. Non sono in prigione…non ancora. È stato emesso un mandato d’arresto contro di me e molti miei colleghi. Significa che ci inseguono, non siamo sicuri nelle nostre case, con le nostre famiglie». Il suo mandato d’arresto è stato firmato dal procuratore generale Tamer Alfergany. Malek è in fuga per non finire in manette e si rende invisibile alle autorità in Egitto. A suo carico sono state fabbricate false accuse. In Egitto la custodia cautelare viene utilizzata per trattenere i cittadini in carcere. Ahmed Abdallah, presidente ECRF, consulente legale dei Regeni, rimarrà in prigione altri 15 giorni. Malek ha aggiunto: “io e altri colleghi siamo coinvolti in un caso giudiziario che vede imputato il presidente Al Sisi per l’incostituzionale e illegale cessione delle due isole egiziane all’Arabia Saudita. Io e altri colleghi abbiamo agito a nome di centinaia di giornalisti, attivisti, comuni cittadini egiziani. Il 17 e il 24 maggio verranno prese importanti decisioni dalla Corte che si occupa del caso”, dice Malek.

Torna l’Italia del Sì, noi votiamo No

Renzi e Napolitano lanciano la volata per il Sì

“Torna l’Italia del Sì”. Quando ho sentito Matteo Renzi che lo diceva, tre foto mi hanno preso la mente. L’Italia in camicia nera che diceva sì a Mussolini, Eia,eia, alalà. L’Italia di Pio XXII, che portava in giro madonne pellegrine e scomunicava comunisti e braccianti del sindacato. L’Italia che saltellava al grido “chi non salta comunista è” lanciato da Berlusconi, sul palco con Fini e Casini. Amo un’altra Italia, quella di “chi vide sotto l’etereo padiglion dotarsi più mondi e il sole a irradiarli immoto”: era un toscano, nativo di Pisa. E di chi “temprando lo scettro ai regolatori, gli allor ne sfronda e alle genti svela di che lacrime grondi e di che sangue”: questi nacque addirittura a Firenze. L’Italia di Cesare Beccaria: “Dei delitti e delle pene”. Di Antonio Gramsci: “ mi piace essere l’acido corrosivo dell’imbecillità”. Di Vittorio Foa: “essere a sinistra vuol dire essere qua e altrove, vivere oggi e contemporaneamente domani”.

Berta Cáceres, a due mesi dall’omicidio quattro arresti in Honduras

Sono quattro gli uomini arrestati in Honduras in connessione con l’omicidio di Berta Cáceres, l’attivista dei diritti umani vincitrice del premio Goldman 2015, assassinata in casa sua la notte fra il 2 e il 3 marzo scorso, esattamente due mesi fa. Due delle persone tratte agli arresti sono legate all’impresa che sta costruendo la diga di Agua Zarca, sul fiume Gualcarque, contro la quale l’esponente degli indigeni Lenca si batteva assieme la Copinh, l’associazione per la tutela dei diritti umani e ambientali di cui era cofondatrice.

Ieri mattina le forze dell’ordine hanno arrestato, tra gli altri, l’ingegnere della Desa (Desarrollos Energéticos SA) Sergio Ramón Rodriguez, assieme a un ufficiale militare in pensione ed ex capo della sicurezza di Desa, Douglas Geovanny Bustillo. L’ingegnere avrebbe minacciato la leader del Copinh pochi giorni prima dell’omicidio, durante una manifestazione di protesta sulle sponde del Gualcarque, fiume sacro ai Lenca, e l’attivista aveva denunciato l’accaduto alle autorità accusando l’impresa Desa di ricorrere a teppisti locali per intimidirla. Le altre due persone detenute per presunte connessioni con l’assassinio di Cáceres sono Mariano Díaz Chávez e Edison Atilio Duarte Meza. Prima di arrestarli la polizia honduregna ha eseguito contemporaneamente dieci perquisizioni alle prime ore del mattino, nella capitale Tegucigalpa e nelle città costiere di La Ceiba e Trujillo.

Nell’intervista a firma di Loredana Menghi che sarà pubblicata sul numero di Left in edicola sabato 7 maggio, la figlia 25enne di Berta, Bertha Isabel Zúñiga, ha raccontato come le indagini si siano rivolte inizialmente verso gli attivisti del Copinh e contro il leader ambientalista messicano Gustavo Castro Soto, unico testimone e sopravvissuto all’attentato. «Durante le decine di interrogatori a cui è stato sottoposto, non è stato trattato da testimone ma da indagato. Gli è stata negata l’assistenza legale e il rilascio delle copie delle sue deposizioni. Gli sono state mostrate soltanto le foto segnaletiche dei membri del Copinh. Fortunatamente lo stato di fermo è stato revocato ed è tornato in Messico, grazie alle pressioni della comunità internazionale».

Gli arresti sono probabilmente proprio una conseguenza della pressione dei familiari di Berta Cáceres e degli attivisti del Copinh, sostenuti dall’opinione pubblica internazionale al grido si #JusticiaParaBerta, per l’avvio di un’inchiesta indipendente. Il governo dell’Honduras ha finora respinto l’offerta da parte della Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) di inviare un team di esperti per indagare sull’omicidio di Berta e altri attivisti di alto profilo.

Per quanto riguarda la leader Lenca, già dal 2009 la Cidh aveva disposto misure cautelari, dopo che il suo nome era comparso in cima alla lista nera degli squadroni della morte per aver supportato l’ex presidente Manuel Zelaya, espulso dal Paese a seguito di un colpo di Stato. Il rapporto Global Witness ha definito il suo caso “emblematico”. E neanche il premio Goldman per l’ambiente 2015, ricevuto per aver bloccato la costruzione della diga Agua Zarca ha scoraggiato le minacce.

Nonostante con il Copinh fosse riuscita ad estromettere dal progetto di Agua Zarca il braccio privato della Banca mondiale, l’International Finance Corporation e la cinese Sinohydro, la più grande società costruttrice di dighe al mondo, la Desa ha spostato a valle il cantiere. Le proteste delle 600 famiglie indigene della comunità di Rio Blanco sono ricominciate. E con loro gli scontri, i pedinamenti, le aggressioni, le intimidazioni da parte della polizia, dei militari e delle autorità locali. Fino all’omicidio di Berta, per il quale ora ci sono quattro sospettati ma non ancora la verità.

Questi l’hanno già rimesso in funzione, il Colosseo.

Mi è capitato ieri, per lavoro, di ascoltare le parole del comitato organizzatore della manifestazione di questo sabato 7 maggio a Roma (trovate tutte le informazioni qui) per cui alcune persone diversamente impegnate nell’ambito della cultura, dello spettacolo e dei beni culturali hanno deciso di impegnarsi per aprire un dibattito pubblico sulle conseguenze della riforma del Ministro Franceschini  oltre che sui decreti d’attuazione dello Sblocca Italia e della legge Madia. Tomaso Montanari (che è stato uno dei primi ispiratori della manifestazione) mi spiega che stiamo assistendo (accorgendocene pochissimo) ad una premeditata azione di smontaggio dell’articolo 9 della Costituzione.

«La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.»: il 9 è uno di quegli articoli a cui non prestiamo attenzione, dandolo per scontato senza nemmeno immaginare quanta fatica ci sia dietro alla salvaguardia, alla protezione e alla tutela. Che mica per niente sono i verbi di un buon padre di famiglia. E mentre questi professionisti raccontano con passione quasi devota come s’indebolisca la bellezza attraverso i perversi effetti di commi che loro riescono a rendere subito copioni quotidiani mi sono reso conto, guardandoli, di quanta poca attenzione dedichiamo a quelli che hanno chiamato “magistratura indipendente della tutela del territorio”. Ce n’era presente qualcuno e ha raccontato come la scissione tra tutela e valorizzazione nel Ministero serva soprattutto ad alimentare il solito fanfaronismo renziano della tutela (lui la chiama inconsapevolmente burocrazia perché così fa più presa) che rallenta la valorizzazione. E vengo a sapere che i dirigenti dei nostri musei “migliori” di qualche mese fa, quelli che dovevano essere il fiore all’occhiello della meritocrazia di questo governo,  hanno fatto sì che a Taranto ci sia un’esperta di Medioevo, alla Reggia di Caserta un esperto di cimiteri (che sta pensando di invitare la Pellegrini a nuotare alla Reggia, giuro), e come il resto del mondo stia ridendo di questa politica che, oltre che nella mafia, si infiltra anche nell’arte e nella bellezza. «Chiudono biblioteche, chiudono gli archivi, chiude tutto ciò che non è funzionale al profitto», si dicono tra loro. Siamo alla mercificazione della bellezza ad uso e consumo dei potenti: questi l’hanno già rimesso in funzione, il Colosseo.

E mentre li osservavo mi è venuto da pensare a quanto sia cambiata la funzione del patrimonio in Italia: dall’energia alternativa che poteva (e doveva) essere è diventato (anche lui) la bomboniera del governo, il souvenir di questi che sono capitati in gita per caso a guidare un Paese. «Franceschini sta facendo da ministro più danni di Sandro Bondi» ha detto uno di loro. E mentre lo diceva aveva tutto il dispiacere di dirlo perché davvero sembrava impossibile che il peggio non fosse passato, almeno su certi argomenti. E per un attimo ho provato le vertigini che incorrono tra la competenza e la propaganda. Chissà che magari prima dell’estate non lo inauguri, Renzi, il Colosseo.

Buon martedì.

Piano nazionale della ricerca: dopo l’annuncio di Renzi ecco i fatti

Il premier Matteo Renzi (C) durante la riunione del Cipe a Roma, 1 maggio 2016, ANSA/BARCHIELLI/UFFICIO STAMPA PALAZZO CHIGI ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

Dall’annuncio alla realtà. Il primo maggio, con la riunione “simbolica” del Cipe in un giorno particolare come la festa del lavoro Matteo Renzi aveva annunciato 2,5 miliardi per la ricerca (più uno per la cultura). Oggi, più prosaicamente il ministro Giannini durante la conferenza stampa di presentazione del Pnr (Piano nazionale della ricerca) 2015-2020 ha spiegato che in realtà, la novità sono i 500 milioni del Fondo di sviluppo e coesione (Fsc) che il Cipe ha assegnato alla ricerca. Mario Calderini, consigliere del ministro, aveva precisato poco prima a Tutta la città ne parla su Radio Rai 3 che non era affatto scontato che quella somma andasse alla ricerca. Insomma, dai 2 miliardi e mezzo annunciati con la grancassa si passa al 25 % in più con i famosi 500 milioni. «Basta? Forse no, ma è un primo passo», ha detto Stefania Giannini. Naturalmente la responsabile del Miur – al quale spetta il compito di gestire la strategia generale della scelta delle aree e della ripartizione dei fondi in collaborazione con gli altri ministeri interessati – non ha accennato a quanto invece scienziati e docenti universitari avevano fatto notare subito alla notizia dei 2,5 miliardi. Per esempio Giorgio Parisi, fisico e scienziato di livello internazionale, nonché promotore di una fortunata petizione su Change.org “Salviamo la ricerca italiana”, ha subito postato il 1 maggio su Facebook: «I mitici 2.500 milioni sono il finanziamento del Piano nazionale della ricerca, che bisogna fare ogni tre anni. Il Piano precedente era di 2.700 milioni. Abbiamo quindi un TAGLIO di 200 milioni senza contare l’inflazione». Anche Calderini ha dovuto ammettere che l’intervento finanziario del Pnr è solo «un freno» alla tendenza degli ultimi anni che hanno visto penalizzati gli investimenti pubblici nel settore Ricerca & Sviluppo (1,31 del Pil, rispetto alla media Ue del 2,01%.

Il Pnr annunciato da Renzi in realtà era quello 2014-2020 scritto dal ministro Carrozza durante il governo Letta. Era il gennaio 2014, dopo un mese il premier Letta sarebbe stato “sostituito” dal segretario Pd. E

addio Pnr. Per circa due anni è rimasto nel cassetto. Solo a luglio arriva la notizia che una bozza di Pnr approda al Consiglio dei ministri.
Per avere l’approvazione del Cipe con la copertura finanziaria delle varie voci si sono dovuti attendere ancora molti mesi. In sostanza dei 2 miliardi e 428 milioni, 1,9 miliardi di euro sono carico del bilancio del Miur e del Pon ricerca e i 500 milioni di euro arrivano dal Fsc 2014-2020. Quindi in sostanza erano già stati stanziati.
Ma ecco il Pnr spiegato dal ministro Giannini la quale oggi era affiancata da uomini chiave, per l’attuazione del Pnr. Ovvero, Massimo Inguscio, presidente del Cnr a rappresentare gli enti pubblici di ricerca, il rettore Gaetano Manfredi, presidente della Crui, la conferenza dei rettori, in rappresentanza degli atenei italiani oltre a Massimo Gay, a testimoniare il rapporto con Confindustria.
«Mai più interventi a pioggia o microfinanziamenti», ha esordito Giannini. Sono 12 le aree specializzate del Pnr, il ministro ha posto l’accento soprattutto su 4 di queste: Spazio, Agrifood, Salute e Industria 4.0. «Sono sei le azioni prioritarie – ha aggiunto – in ordine decrescente per quanto riguarda la ripartizione di fondi».

Ecco i “sei pilastri”.

Il capitale umano: un miliardo e 20 milioni per il personale, il dottorato di ricerca «considerato anche come il terzo livello della formazione superiore, collegandolo sempre più al mondo del lavoro», ha detto Giannini. In pratica si tratta di 6mila nuovi posti tra dottorati di ricercatori nei prossimi sei anni, 2700 subito nel primo triennio.

Internazionalizzazione della ricerca: per cui si tratta di creare le condizioni affinché i vincitori per esempio dei prestigiosi Erc (European Researc Council) che spesso sono italiani possano scegliere di portare avanti i propri progetti in Italia senza rimanere all’estero. A questo proposito vale la pena ricordare la polemica a distanza tra il ministro e una linguista italiana vincitrice di un Erc in Olanda.Insieme ad altri interventi sulla squadra della ricerca e le carrieri individuali questo settore prevede 150 milioni.

Infrastrutture della ricerca: «l’architettura del sistema», secondo il ministro: 340 milioni.

Cooperazione tra pubblico e privato: Qui entrano in gioco le imprese. «C’è sempre stata in Italia una timidezza del privato a investire in ricerca», ha detto Giannini, accennando a 500 milioni in cui dovrebbero esserci anche «incentivazioni per quelle aziende che fanno innocìvazione». Marco Gay ha parlato della necessità di collegamenti «tra l’economia reale, la ricerca e i dottorati», con uno stretto rapporto tra dottorati e imprese. «L’impresa è l’unico settore che crea sviluppo», ha detto il rappresentante di Confindustria, accennando anche all’attivazione del made in Italy. Rimane da capire come si orienteranno i dottorati industriali e quale rapporto ci sarà tra ricerca di base e ricerca applicata, tra innovazione e produzione, ma soprattutto quali settori della produzione saranno privilegiati.

Un quinto “pilastro” è dato dagli investimenti per il Sud (450 milioni) e infine l’ultimo tema, «una briciola nel ricco vassoio», l’ha definito il ministro. Si tratta della Quality spending, cioè un piano di controllo, rendicontazione della ricerca anche per l’assegnazione dei fondi (32-35 milioni).
Infine i tempi, l’execution”. «Entro l’estate ci saranno i bandi per i dottorati di ricerca e i ricercatori, mentre per le infrastrutture i bandi usciranno dopo l’estate dopo un raccordo nella Confereza Stato-Regioni».
«Il tempo è cruciale», ha fatto notare Gaetano Manfredi, che oltre a essere presidente della Conferenza dei rettori universitari è anche rettore della Federico II di Napoli. ««Noi abbiamo un sistema di regole a volte eccessivamente bizantino, per questo dobbiamo spingere per rendere tutto più semplice. Meglio un ricercatore che lavora in un laboratorio che un ricercatore che riempie dei moduli».

#TtipLeaks, è braccio di ferro tra Washington e Bruxelles su ambiente e salute

Con 240 pagine, rese pubbliche questa mattina, Greenpeace accende i riflettori sul Ttip, (il trattato di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti): «Gli Usa vogliono eliminare le regole dell’Unione su ambiente e salute», denuncia l’organizzazione. «Questi documenti trapelati ci consentono uno sguardo senza precedenti sull’ampiezza delle richieste americane, che vogliono che l’Ue abbassi o aggiri le sue tutele dell’ambiente e della salute pubblica nell’ambito del Ttip», ha detto Jorgo Riss, direttore di Greenpeace per l’Unione europea.

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In ballo c’è l’unione delle due economie Usa e Ue. Se il Ttip andasse in porto, si creerebbe la più grande area di libero scambio del pianeta: oltre 800 milioni di persone, più del 46% del Pil mondiale. Dalle carte – visionate da alcuni media come Le Monde, The Guardian, Eunews – emerge il braccio di ferro: per chiudere l’accordo su maggiori importazioni di prodotti agricoli e alimentari americani in Europa, Washington minaccia di bloccare le facilitazioni sulle esportazioni per l’industria automobilistica europea. Gli americani, poi, attaccano il «principio di precauzione» che è alla base della tutela del consumatore europeo e che, al momento, protegge 500 milioni di consumatori dall’ingegneria genetica negli alimenti e dalla carne trattata con ormoni.

«La posizione europea è brutta, ma quella americana è terribile» ha commentato Jorgo Riss: «Si sta spianando la strada a una gara al ribasso negli standard ambientali, della salute e della tutela dei consumatori». Ecco svelato perché i negoziati – in corso da tre anni e giunti al 12esimo incontro – vanno a rilento. Le differenze «inconciliabili», lamentate dai negoziatori, altro non sono che i paletti regolamentari sui temi della salute e della tutela dell’ambiente.

Cena di gala per Merkel e Obama al castello di Charlottenburg

Se Obama, prima di cedere definitivamente lo scettro, si è augurato una rapida firma dell’accordo, non è lo stesso per i candidati alla guida degli Usa. Tutti i candidati, a destra e sinistra, hanno alla fine espresso dubbi e critiche sul Ttip. Ancora peggio in Europa, dove il Trattato è vissuto come un tornado che rischia di spazzare via le norme europee in tema di salute, ambiente, protezione dei consumatori. E, poi, la segretezza nella quale sono avvolti i negoziati e la clausola Isds (Investor-state dispute settlement), quella che permetterebbe alle multinazionali americane di citare presso una corte arbitrale gli Stati europei rei di limitare la loro attività. Tanti dubbi, soprattutto in Europa. Dopo l’avvertimento lanciato alla Gran Bretagna dal Nobel Joseph Stiglitz, e le 250mila persone scese in piazza nei giorni scorsi in Germania, il 7 maggio è la volta di Roma. Un appuntamento immancabile, a questo punto: «La documentazione resa pubblica oggi dimostra quello che da tempo la campagna Stop Ttip denuncia: il Ttip è un attacco generalizzato ai diritti e alla democrazia», ha ribadito Marco Bersani, tra i coordinatori della Campagna Stop Ttip Italia.

 

Ecco alcuni punti segnalati da Greenpeace stessa:

Dal punto di vista della protezione dell’ambiente e dei consumatori, quattro aspetti sono seriamente preoccupanti:

Tutele ambientali acquisite da tempo sembra siano sparite

Nessuno dei capitoli che abbiamo visto fa alcun riferimento alla regola delle Eccezioni Generali (General Exceptions). Questa regola, stabilita quasi 70 anni fa, compresa negli accordi GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) della World Trade Organisation (WTO – in italiano anche Organizzazione Mondiale per il Commercio, OMC) permette agli stati di regolare il commercio “per proteggere la vita o la salute umana, animale o delle piante” o per “la conservazione delle risorse naturali esauribili”. L’omissione di questa regola suggerisce che entrambe le parti stiano creando un regime che antepone il profitto alla vita e alla salute umana, degli animali e delle piante.

La protezione del clima sarà più difficile con il TTIP

Gli Accordi sul Clima di Parigi chiariscono un punto: dobbiamo mantenere l’aumento delle temperature sotto 1,5 gradi centigradi per evitare una crisi climatica che colpirà milioni di persone in tutto il mondo. Il commercio non dovrebbe essere escluso dalle azioni sul clima. Ma non c’è alcun riferimento alla protezione del clima nei testi ottenuti.

La fine del principio di precauzione

Il principio di precauzione, inglobato nel Trattato UE, non è menzionato nei capitoli sulla “Cooperazione Regolamentare”, né in nessuno degli altri 12 capitoli ottenuti. D’altra parte, la richiesta USA per un approccio “basato sui rischi” che si propone di gestire le sostanze pericolose piuttosto che evitarle, è evidente in vari capitoli. Questo approccio mina le capacità del legislatore di definire misure preventive, per esempio rispetto a sostanze controverse come le sostanze chimiche note quali interferenti endocrine (c.d. hormone disruptors).

Porte aperte all’ingerenza dell’industria e delle multinazionali

Mentre le proposte contenute nei documenti pubblicati minacciano la protezione dell’ambiente e dei consumatori, il grande business ha quello che vuole. Le grandi aziende ottengono garanzie sulla possibilità di partecipare ai processi decisionali, fin dalle prime fasi.

Se la società civile ha avuto ben poco accesso ai negoziati, i documenti mostrano che l’industria ha avuto una voce privilegiata su decisioni importanti. I documenti pubblicati mostrano che l’UE non è stata trasparente rispetto a quanto grande sia stata l’influenza dell’industria. Il rapporto pubblico reso noto di recente dall’UE ha solo un piccolo riferimento al contributo delle imprese, mentre i documenti citano ripetutamente il bisogno di ulteriori consultazioni con le aziende e menzionano in modo esplicito come siano stati raccolti i pareri delle medesime.

Chicco Testa, l’ex ambientalista “comodo” sarà ministro dello Sviluppo economico?

Il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi con Chicco Testa, in occasione della presentazione del libro di Testa "Contro (la) natura", a Loro Ciuffenna, in provincia di Arezzo, 24 aprile 2015. ANSA/ MAURIZIO DEGL'INNOCENTI

In pole position, a quanto pare c’è lui. Se succederà a Federica Guidi, Chicco Testa sarà il primo ministro dello Sviluppo economico italiano ad aver guidato un’associazione ambientalista. Ma il suo percorso politico e manageriale – fino all’attuale ruolo di presidente di Assoelettrica, che unisce le imprese del settore elettrico aderenti a Confindustria – racconta una storia che con le posizioni ecologiste ha ormai poco a che fare. Anti-nuclearista e strenuo avversario del ricorso al carbone quando era presidente di Legambiente, Testa è riuscito sempre a trarre vantaggio dal suo essere “ex”, diventando per i media e per certa politica una sorta di “pentito di lusso” da sfoggiare all’occorrenza con articoli di giornale e comparsate televisive per difendere le posizioni – e gli interessi – dell’industria più inquinante.

Segretario e poi presidente di Legambiente fino ai tempi di Chernobyl e del referendum anti-nucleare, Testa è poi stato deputato del Pci-Pds dal 1987 al ’94, quando è passato alla guida dell’Acea a Roma. Lo aveva nominato il sindaco Francesco Rutelli, mentre con Walter Veltroni è entrato nel consiglio d’amministrazione di Roma Metropolitane e con Pier Luigi Bersani ministro dell’Industria è finito alla guida di Enel. Quando gli hanno chiesto perché avesse partecipato alla cena di Matteo Renzi, Testa – rubrichista dell’Unità dalla sua riapertura, lo scorso anno – ha candidamente fatto notare che prima di quella del premier, aveva già partecipato alle cene di finanziamento per Rutelli, per Veltroni e pure per Bersani.

Da imprenditore privato ha puntato su efficienza e rinnovabili (e relativi incentivi), ma quando si è trattato di prendere posizioni pubbliche prima sul nucleare, poi sul carbone, sulla Tav, sull’acqua pubblica e – più recentemente – sulle trivelle, ha espresso opinioni diametralmente opposte a quelle della galassia ambientalista. Un (ex) ambientalista “comodo” si potrebbe definire, buono – grazie alla sua innegabile capacità di intessere relazioni – per ammantare di verde scelte di fondo che non determinano una svolta decisa in chiave sostenibile. Nel 2013, il Chicco Testa presidente di Assoelettrica è stato destinatario di un sacco di carbone da parte dell’associazione che ha guidato da giovanissimo: Legambiente gli contestava le sue posizione eco-scettiche e di «aver dimenticato la sua lotta contro il vecchio e inquinante carbone», esponendo foto che lo ritraevano anni prima nelle vesti di manifestante contro la fonte fossile più inquinante.

Chicco Testa cotnro il carbone

Anche sul nucleare Testa ha cambiato idea repentinamente. Ai tempi di Chernobyl aveva contribuito a promuovere il referendum contro l’atomo, mentre nel 2010 lo abbiamo visto alla guida del Forum Nucleare, associazione (ormai defunta) pro energia atomica sostenuta ai tempi dai big dell’industria energetica. L’anno successivo è poi arrivato l’incidente alla centrale di Fukushima, in Giappone, che lo stesso Forum ha inizialmente provato a ridimensionare, e a seguire il referendum che ha detto nuovamente no all’atomo.
La battaglia è persa ma la guerra è ancora tutta da combattere, avrà pensato il manager milanese: così lo abbiamo trovato impegnato tra gli Ottimisti e razionali a contrastare il Sì alla recente consultazione sulle trivelle. Ancora una volta dalla parte giusta, quella dell’industria delle fossili, alla faccia degli obiettivi di riduzione dei gas serra e dell’esito dell’accordi sul clima di Parigi. E ancora una volta dalla parte del manovratore, tanto da meritarsi la nomination e forse la poltrona di ministro dello Sviluppo. Una cosa è certa: se la nomina arriverà, dall’ex ambientalista “comodo” sapremo cosa aspettarci.

L’Italia che preferisce pensare, invece di credere. Il nuovo libro di Carcano

manifestazione Uaar

È un libro che aiuta a capire l’Italia di oggi e ad aprire gli occhi sulle pesanti ripercussioni che ha sulla vita dei cittadini la mancanza di laicità che affligge la politica, l’informazione e ma anche la scuola in Italia. Scritto con un linguaggio diretto, che pesca nella propria esperienza di cittadino a lungo impegnato nella Uaar ma anche in dotti studi e ricerche, Le scelte di vita di chi pensa di averne una sola (Nessun Dogma) di Raffaele Carcano, più che dare risposte, invita a pensare criticamente con la propria testa. Abbiamo rivolto all’autore qualche domanda, anche in vista della presentazione del libro il 9 settembre nel giardino della Casa internazionale delle donne, a Roma ( dalle 17,30), in dialogo con il poeta Franco Buffoni  a cui avremo il piacere di partecipare.

In Italia oggi i media sono in gran parte genuflessi davanti a Bergoglio. Anche grazie a giornalisti che si erano detti laici come Scalfari. Ma come tu sottolinei nel libro la dottrina non cambia, i dogmi sono sempre gli stessi, così come la condanna dell’aborto che sarebbe assassinio, mentre nulla è stato fatto in concreto da Bergoglio per rispondere all’Onu che, dopo lo scandalo pedofilia, accusa  la Chiesa di non proteggere e rispettare i diritti dei minori. Perché i giornali mainstream non lo riportano?

L’assenza di critiche è ormai un dogma. Bergoglio non viene attaccato per definizione, nemmeno quando sarebbe doveroso farlo, per giornali che si definiscono “laici”: per esempio quando, oltre a condannare l’aborto, incita i farmacisti all’obiezione di coscienza. Non è questione di clericalismo, o non soltanto: in fondo Ratzinger la sua piccola parte di critiche la ricevette. È che ormai è dilagata la convinzione che questo papa piaccia così tanto alle masse che formulare anche solo dei rilievi sia controproducente. Anche nel mondo politico la papolatria imperversa: la sinistra inneggia al suo pauperismo e la destra appoggia le sue frequenti uscite contro i diritti lgbt. La Chiesa ottiene quindi ciò che vuole e continua a restare centrale, tanto centrale da condizionare il riconoscimento di qualunque diritto civile in Italia.

R.Carcano, Nessun Dogma

Nel volume riporti alcuni sondaggi da cui emerge che molti credenti dicono di credere «per educazione» e «tradizione». Si deve credere e non pensare, viene detto, perché altrimenti il mondo andrà in rovina. C’è riscontro a questa tesi?
Nessuna. La Chiesa dipinge scenari apocalittici, ma se la sua morale viene meno il mondo non crolla. Ben pochi, anche in Italia, si comportano effettivamente come Chiesa comanda, e per quanto il nostro Paese non se la passi benissimo (anche a causa della stessa Chiesa) dubito che qualcuno rimpianga i secoli del Medioevo o della Controriforma, quando essere cattolici era obbligatorio e la morale cattolica era legge, e legge durissima. I paesi in testa alle classifiche Onu sono anche i più secolarizzati: non è un caso. E forse non è nemmeno un caso se la presa clericale è più forte laddove il progresso sociale è minore.

Un’altra tesi diffusa è che le relione cristiana sarebbe portatrice di valori morali in politica. Come spiegare allora una lobby affaristica, politica e sprituale come Comunione e Liberazione, che oggi ha anche le benedizione di Bertinotti?
Bella domanda. La risposta che mi viene spontanea è che Cielle rappresenta ormai un potere così enorme che chi ricopre un incarico politico ritiene di non poter fare a meno di avervi rapporti. Anche se spesso tali rapporti finiscono poi per interessare la magistratura. Ma la questione morale non è più di attualità, nel nostro paese: e anche quando lo è stata, in passato, non lo è certo stata per merito del mondo cattolico. Anzi…

Nel 2001 una ricerca sociologica riportava che solo 1, 3 per cento si definiva religioso. Perché sono ancora pochi quelli che si dicono atei? L’alienazione religiosa di cui parlava Marx non è stata risolta?

A mio avviso non la sarà mai. Auspicare soluzioni sovrannaturali per problemi umanissimi è qualcosa di inscritto nel nostro Dna: possiamo senza problemi fare a meno della fede, ma che sia facile farlo lo si comprende soltanto dopo averne fatto a meno. L’ateismo è una scelta controintuitiva. Ma lo sono anche l’alfabetizzazione e la scienza: si può essere ottimisti, insomma, senza però pensare che la religione prima o poi scomparirà. Mi auguro anzi che non accada: costituisce comunque (anche se non sempre) uno stimolo dialettico.

Dopo tante conquiste delle donne, in un Paese come l’Italia «imperniata da quasi due millenni sul culto e sull’imitazione della vergine Maria, decidere di non avere figli è una ancora una clamorosa rottura», tu scrivi. La Chiesa è ossessionata dal corpo delle donne e dal bisogno di controllarne la sessualità?
Tutte le religioni (i monoteismi in particolare) mirano a controllare la sessualità umana e, in particolare, la vita e le scelte delle donne. Ci sono varie ragioni alla base di questo atteggiamento: i retaggi di una cultura patriarcale, l’attaccamento alla tradizione e ai testi sacri (che invito caldamente tutte le donne a leggere), una leadership religiosa quasi esclusivamente maschile, la constatazione che la maggior indipendenza delle donne è invariabilmente correlata a un maggior livello di libertà e civiltà di una società. Sarà una mia mancanza, ma non mi viene in mente alcun diritto che le donne abbiano conquistato grazie all’aiuto di qualche comunità di fede.

Ad incipit di un capitolo riporti un’ironica frase di Ascanio Celestini che dice: «Sono d’accordo con Berlusconi, la scuola pubblica ha un’influenza deleteria e propaganda culture politiche, ideologie e interpretazioni della storia che non rispettano la verità. Infatti mio figlio ha appena 4 anni e invece di di avere un insegnante che gli parla inglese, ne ha una che gli fa religione». Istruzione clericale e tv confessionale pesano molto oggi in Italia diversamente che in altri Paesi?
Più che sulle coscienze, pesano sul condizionamento sociale che ne scaturisce. Gli italiani non sono molto credenti, sono ben poco praticanti, sovente sono addirittura anticlericali. Però poi la maggioranza di essi si sposa in chiesa, fa battezzare i figli, fa loro frequentare l’ora di religione… è la logica conformista del “così fan tutti”. Che in alcuni casi può ritorcersi contro la Chiesa stessa: andare a messa la domenica comincia, in molti contesti, a sembrare ormai fuori moda. Sarebbe bello vivere in un paese in cui tutti facessero le scelte che realmente vorrebbero compiere. C’è molto da lavorare perché accada, ma non è detto che prima o poi non ci arriveremo. @simonamaggiorel

Come è successo che gli Usa presero Osama?

Cinque anni fa un commando americano uccideva Osama bin Laden ad Abbottabad, in Pakistan. Ieri l’account Twitter della Cia ha twittato la dinamica del raid per come è andato. I tweet li vedete in ordine qui sotto e hanno suscitato qualche polemica in rete: inopportuno e un po’ ridicolo (oppure no? i tweet sono stati rilanciati centinaia e migliaia di volte). E il resto?

Ovvio no? Osama bin Laden è vivo e fa il giardiniere nel ranch della famiglia Bush. No, è morto, ma ad ucciderlo sono stati i nordcoreani, che del resto sono i responsabili, assieme alla Cia, del crollo delle torri gemelle. Macché, Osama è al Baghdadi, che gli americani hanno preso e spedito in Iraq ad organizzare il califfato, come del resto ha ammesso molte volte Hillary Clinton (questa la ripetono spesso Trump e Putin).

Ma torniamo a bin Laden che fa il giardiniere da Bush. Se credete a cose così, non continuate a leggere questo articolo. Se invece non vi ricordate come 5 anni fa un gruppo di Navy Seal delle forze speciali americane sono entrate in un compound di Abottabad, in Pakistan, e hanno ucciso l’uomo più ricercato del mondo – che come Abdelsalam se ne stava più o meno dove era probabile trovarlo – allora continuate. Non offriremo la versione ufficiale, ma ripasseremo tutti i dubbi.

La versione ufficiale, per grandi linee è: gli Usa individuano una figura, Ibrahim Saeed Ahmed, che potrebbe essere il corriere che faceva da tramite tra Osama bin Laden e il mondo. Le spie e le tecnologie americane seguono Ibrahim Saeed Ahmed per mesi, ne studiano modalità di comunicazione e spostamenti e sospettano fortemente che il luogo in cui si reca ad Abottabad sia il nascondiglio del capo di al Qaeda. Quindi decidono di andare di persona a verificare – non bombardare per avere prove della morte e, secondariamente, non fare vittime civili. Si va, si uccide, si torna con un elicottero distrutto e lo scalpo. Tre cose importanti: 1. il Pakistan non sapeva nulla – non è “complice” degli Usa e quindi non deve temere più instabilità di quanto già non ne soffra; 2. le informazioni per arrivare a Osama non sono frutto di tortura ma di lavoro di intelligence – quindi i metodi ripudiati da Obama non sono serviti e Bush non può prendersi parte del successo.

Poi c’è la versione di Seymour Hersh, uno dei grandi giornalisti investigativi americani, l’uomo che ha rivelato il massacro di Mai Lai in Vietnam e Abu Ghraib. Secondo Hersh i pakistani sapevano eccome e la rivelazione sulla località dove bin Laden si trovava veniva da un ufficiale dell’ISI (i servizi militari, da sempre amici dei talebani) che proteggevano Osama e sapevano perfettamente dove fosse. La prima parte è la più credibile: Abottabad è una città piena di militari e copertura radar, arrivarci con due elicotteri e perderne uno prima del raid senza che nessuno muovesse un dito suona strano.

Diverse inchieste successiva smontano in larga misura quella di Hersh (un esempio è questa del New York Times) – che è basata fondamentalmente su tre fonti – ma, approfondendo su ciascun tema, lasciano anche diversi dubbi: c’è chi sospetta che il Pakistan sia stato avvisato prima del raid, ma dopo che tutto era stato organizzato, e che abbia scelto di sposare la tesi del “non sapevamo nulla” per timore di reazioni interne. A sua volta il Senate Intelligence Committee guidato dalla senatrice Feinstein ha prodotto un rapporto sull’uso della tortura da parte degli Usa che spiega che l’uso di “tecniche di interrogatorio potenziate” non è servito a trovare nessuna informazione rilevante. Nemmeno nel caso bin Laden – il verdetto è stato violentemente osteggiato dalla Cia.
Infine i file diffusi da Edward Snowden, la gola profonda che ha fatto sapere al mondo del programma di controllo di quasi tutto e tutti da parte della NSA. Qui non si trovano conferme chiare della versione ufficiale e i riferimenti a fatti e personaggi legati alla cattura – ad esempio Ibrahim Saeed Ahmed è citato di striscio, ma si dice che potrebbe avere informazioni sul nascondiglio di Osama. I file di Snowden smentiscono (ma non ha che vedere con le modalità della cattura), che tra i documenti trovati ci fosse materiale decisivo: bin Laden era isolato e lontano dall’Iraq e dai mutamenti impressi da al Zawahiri ai metodi di al Qaeda laggiù.

Difficile alla fine poter dire come è andata. La morte di Osama non ha cambiato la storia se non in America. Nel 2012 Obama non ha vinto per questo, ma quella versione dei fatti (Obama decide da solo per il raid dopo aver riflettuto sulle informazioni) contribuì ad elevarne la statura con una parte di elettorato che non lo ama. E la morte di bin Laden fu una sorta di sospiro di sollievo, fine di un periodo storico orrendo per l’America. Ciascuna di queste versioni non cambia il risultato né getta una luce sinistra sulla vicenda: che il Pakistan sapesse o no cambia le cose allora, non più. Quanto al fatto che gli Usa non abbiano nemmeno cercato di processare bin Laden, beh, lo avevano sempre detto. Non è un granché se confrontiamo la scelta con quel che dovrebbe essere uno Stato di diritto, ma gli anni dopo l’11 settembre sono stati un tale pantano che immaginare una fine diversa da quella del 2 maggio 2011- con tanto di dubbi sulla dinamica – è molto difficile.

Chissà se gli orchi poi li digeriscono, i bambini

Domenica Guardato, Mimma come la chiamano i familiari, 27 anni, madre di Fortuna, la bambina di 6 anni per la cui morte, dopo gli abusi sessuali, e' stato arrestato un vicino di casa, in una foto del 15 ottobre 2014. ANSA / CIRO FUSCO

Ci sono paludi che ci vuole cuore, temerarietà e uno stomaco forte per andare a raccontarle. Ci sono delitti che zittiscono anche i professionisti dell’opinione su tutto per tutti a tutti i costi e così succede che sulla morte di Fortuna, la bambina volata dal balcone per non essersi fatta assaggiare dall’orco, si alza un velo di polvere spessa, di silenzio che sa di smarrito e di disgusto quasi alimentare. Povera Fortuna, dicono tutti, con il gioco feroce delle parole accoppiate dal destino.

Poi c’è la scintilla della vendetta che vorrebbe berne il sangue, quelli che castrerebbero, quelli che condannerebbero a morte, quelli che nessuna pietà e così i due eserciti, gli schizzinosi silenziosi e i vendicatori, reagiscono tenendo comunque le distanze dall’orrore. Perché, in fondo, ci viene così comodo pensare e convincerci che Fortuna sia quella storia rinchiusa nel quartiere così calzante per essere la scenografia dell’omicidio: non so se avete notato che ci sono drammi a cui riusciamo a partecipare con il perfetto cordoglio dell’alieno come una volta si usava per i mafiosi che si ammazzano tra loro, come per le donne picchiate che sono sempre mogli degli altri e come la guerra che è diventata una spezia straniera.

Mentre tutti scrivono di Fortuna e dell’orco, mi viene da chiedermi, questa mattina di lunedì mattina, cosa fanno oggi gli altri bambini. Gli altri bambini che abitano lì dove gli orchi sono il risultato naturale della desolazione, dell’abbandono, dell’animalità e delle regole che banalmente non riescono ad essere nemmeno un centimetro più alte dei bisogni. Mi domando, forse sbaglio, se davvero basti la contrizione generale per un paio di giorni. E poi nient’altro.

Più osceno di quell’uomo che si sdraiava sulle bambine è il silenzio pervertito tutto intorno di chi tacendo rende potabile l’orrore: in Italia esistono madri che contano i soldi dei propri figli a dondolo, in Italia esistono luoghi (lo racconta Luca Mattiucci per il Corriere) in cui i preti durante la messa chiedono ai genitori “di smetterla di abusare i vostri figli”: siamo un Paese in cui ci sono nonne poco più che ventenni.

Il Consiglio d’Europa dice che un bambino su cinque è vittima di vare forme di abuso o di violenza sessuale (la campagna è qui). Uno su cinque. Tanto per avere idee di quante Fortuna ci sono sparse in giro. Il “patto con il Sud” migliore che si possa firmare, subito, anche per il Centro e per il Nord, è decidere di aprire il naso e mettere le mani dentro fino in fondo a quel gorgo che disegna zone e quartieri che diventano isole senza legge, senza speranza e senza nemmeno un alito di riscatto possibile. Piuttosto che le commemorazioni funebri forse adesso sarebbe il tempo, politica in testa, che ci sforzassimo di capire com’è successo che una bambina vada ad abitare in un condominio che è lo stomaco degli orchi. Sarebbe il caso di ascoltare qualcuno che si prenda la responsabilità di darci una chiave di lettura del degrado collettivo, al di là delle lacrime per l’occasione.

La sensazione, qui fuori, è che mentre siamo ancora dilettanti nel capirli, loro, gli orchi, ormai si siano già digeriti i bambini. E che la politica abbia deciso (ancora) che questa storia fa troppo schifo per avvicinarsi ad analizzarla.

Buon lunedì.