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Renzi contro gufi (e giornalisti) anche a Capodanno

Italian Prime Minister Matteo Renzi during his "end of the year" press conference in Rome, 29 December 2015. ANSA/CLAUDIO PERI

Una conferenza stampa di fine anno con le slide è già cosa nuova. Con le slide con i gufi disegnati sopra è nuova e un po’ triste, converrete. Ma è la propaganda del premier, che viene ripetuta uguale anche a Capodanno. Lo aveva fatto nell’ultima e-news, lo fa davanti ai giornalisti parlamentari: «Dall’articolo 18 alla legge elettorale, dalla tassa sulla prima casa all’Expo, dalla flessibilità al bicameralismo paritario, ci sono alcuni argomenti di cui i politici prima di noi hanno parlato per anni senza realizzare granché». Lui le cose le ha invece fatte, alla faccia dei gufi. Detta anche un titolo ai giornalisti, il premier: «Se dovessi fare un titolo», dice, «direi: politica batte populismo 4 a 0».

Italian Prime Minister Matteo Renzi during his "end of the year" press conference in Rome, 29 December 2015. ANSA/CLAUDIO PERIMatteo Renzi si presenta con le slide, dunque, per riassumere i risultati dell’anno 2015. Risultati che ci sono, è innegabile, e fuori dai piani, tra l’abolizione dell’articolo 18 e una legge elettorale super maggioritaria, è rimasta solo la riforma costituzionale che avrà il suo ultimo voto a gennaio (e il referendum, è l’annuncio di giornata, a ottobre 2016), e la
legge sulle unioni civili. Su questa il premier dice di volersi impegnare e però non esclude di poter cedere alle pressioni degli alfaniani, stralciando quindi la stepchild adoption dal provvedimento: «La stepchild», dice, «è una proposta che nasce alla Leopolda, ma ovviamente su questo e su altro ci sono posizioni diverse».

Il premier ha rivendicato la legge di stabilità appena approvata, ovviamente. «Non è vero cheItalian Prime Minister Matteo Renzi during his "end of the year" press conference in Rome, 29 December 2015. ANSA/CLAUDIO PERIdichiaro guerra all’Europa, non lo scrivete più», ha detto, «ma mi chiedo perché c’è chi può avere un disavanzo commerciale di otto punti». Ha rivendicato i bonus ai diciottenni per i consumi culturali, gli 80 euro ai militari, e altre novità. L’abolizione della tassa sulla prima casa, non poteva mancare, quella indifferenziata per tipologia e per reddito (rimane solo per i castelli, come noto). Tra i vari vanti si segnala lo scontro con Tito Boeri sul versante pensioni (su cui Renzi lascia intendere che non ci saranno contro riforme, rispetto agli scatti della legge Fornero). Sono così confermati – con un passaggio sulle pensioni d’oro – gli attriti tra il presidente del Consiglio e quello dell’Inps, che ha più volte sollecitato il rispetto di quella che era una promessa del renzismo delle origini: «Una cosa son le pensioni d’oro, altro sono le pensioni sopra i duemila euro. Io una pensione da tremila euro netti non la considero d’oro», ha detto però il premier.

La conferenza stampa è durata più di due ore e mezza. Si è parlato perfino dei botti diItalian Prime Minister Matteo Renzi during his "end of the year" press conference in Rome, 29 December 2015. ANSA/CLAUDIO PERIcapodanno. Una certa tensione è stata sempre presente tra il premier e il presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino. E non perché Renzi abbia ricordato la sua storia posizione sull’abolizione dell’Ordine. Renzi e Iacopino si sono attaccati sulla situazione del giornalismo in Italia. Renzi, a differenza del rappresentante dei giornalisti, non vede «né piaggeria», soprattutto verso il governo (!), «né sfruttamento» nei giornali italiani. Iacopino aveva invece denunciato aprendo la conferenza stampa le retribuzioni bassissime che troppo spesso gli editori corrispondono ai colleghi. 1, 2, 3 euro ad articolo. O anche niente, che si fa prima. Il premier ha però preso le parti degli editori: «Siamo più sereni», ha replicato stizzito Iacopino evocando l’equo compenso difeso dal governo, «ora che sappiamo che si può vivere con 4920 euro l’anno».

Editoria indipendente, uniti si vince

L’acquisizione di Rizzoli da parte di Mondadori ha determinato la nascita di un colosso editoriale che non ha pari in Europa. In Gran Bretagna Penguin più Random House controllano il 25 per cento del mercato. Mondazzoli arriva a toccare quote che si avvicinano pericolosamente al 50 per cento in alcuni importanti segmenti. Il marchio, in un settore strategico per il Paese come l’editoria scolastica, andrebbe a coprire il 25 per cento, tanto per fare un esempio. Com’è noto, la nascita di questo colosso, su cui si dovrà a breve pronunciare l’Antitrust, nel frattempo ha già determinato alcuni importanti cambiamenti. Massimo Vita Zelman ha ricomprato le sue quote in Skira e Roberto Calasso quelle di Adelphi, tornata così a essere indipendente. Mentre una parte consistente degli autori Bompiani ha scelto di seguire Elisabetta Sgarbi che si è dimessa da direttore editoriale per fondare insieme a Eco, Nesi ed altri la nuova casa editrice La Nave di Teseo, che pubblicherà, per esempio, un autore importante del catalogo Bompiani come Hanif Kureishi, l’autore di Intimacy e de Il budda delle periferie.
E se – come abbiamo raccontato nei mesi scorsi – il mondo della piccola e media editoria denuncia un possibile abuso di posizione dominante, come vive questa novità il gruppo Mauri Spagnol (Gems) che riunisce in confederazione una dozzina di marchi, fra i quali Guanda, Longanesi, Chiarelettere, Garzanti? Lo abbiamo chiesto a Stefano Mauri, presidente del gruppo Gems che, ad oggi, copre il 10,2 per cento del mercato. «Io penso che l’Antitrust dovrebbe aprire l’istruttoria. Perché non ci sono in Europa situazioni confrontabili con questa. E non ci sono, non perché nessun gruppo ci abbia provato, ma perché quando ci hanno provato l’Antitrust lo ha impedito».
Gems è il primo gruppo editoriale indipendente in Italia, che significa per lei questa parola?
Come tanti altri gruppi internazionali, oltre all’attività editoriale, il nostro ha una propria distribuzione, che offre anche a editori terzi. Ma è un gruppo indipendente perché l’azionariato è impegnato nell’editoria e i suoi interessi coincidono solo con interessi editoriali. Non facciamo automobili, non abbiamo un ruolo nella politica, non abbiamo una tv, non facciamo scarpe. Questa è una attitudine molto importante. Significa che i nostri autori sono liberi di esercitare il diritto di critica su tutto ciò che vogliono.
Ogni marchio fa le proprie scelte?
Sì assolutamente. Io sono responsabile del gruppo editoriale Mauri Spagnol, che al suo interno ha numerosi editori, che oltre a svolgere il loro lavoro sono dentro la proprietà. Ogni marchio ha il suo direttore editoriale ed editore. Mai e poi mai io ho detto a Luigi Brioschi di Guanda a Lorenzo Fazio di Chiarelettere o a Luigi Spagnol per Salani e Vallardi cosa pubblicare o meno. E questo proprio perché siamo indipendenti e non abbiamo altri interessi da tutelare. Non c’è una linea unica, ma ci sono tante linee quanti sono i direttori editoriali e gli editori.
In un pamphlet edito da Guanda, Alessandro Banda dice che la letteratura in Italia è diventata un lusso e che non riesce a entrare neanche più nelle scuole: «Siamo dei carbonari della letteratura anche in quanto insegnanti». Cosa ne pensa?
Pubblichiamo molti titoli letterari, a differenza di quello che si dice. Non dobbiamo confondere la domanda con l’offerta. Tutti gli editori che conosco vogliono trovare sia il libro che venderà tanto sia il libro di cui essere orgogliosi, che possa dare un contributo all’avanzamento nella divulgazione scientifica, nella letteratura o in altri ambiti. Se in classifica vanno certi titoli non è certo colpa degli editori ma dei lettori che li scelgono. In realtà, i libri colti, anche in perdita, li pubblicano quasi tutti gli editori perché sanno che quell’autore che magari non riceve grande attenzione oggi, domani potrebbe passare alla storia. L’editoria è così.
Tenere vivo il catalogo è importante?
Prima che i libri abbiano successo può capitare di dover aspettare dieci anni. Gli editori veri pazientano anni e anni per un libro importante. Il lavoro dell’editore è su un registro di lungo periodo e credo che mosse isteriche dovute alla crisi, cambi repentini anche nel management, abbiano fatto solo danni.
Quanto conta la collaborazione fra marchi strutturati come confederazione?
Quando, negli anni Ottanta, io e Luigi Spagnol siamo entrati in Longanesi, erano stati appena acquistati i marchi Salani e Guanda. Quindi Longanesi era una casa editrice media che fatturava meno di quello che fattura oggi Sellerio o Il Castoro. Noi abbiamo avuto il privilegio di crescere con la nostra casa editrice, abbiamo cercato nel tempo di cogliere i vantaggi delle maggiori dimensioni, ma lasciando l’attività editoriale con differenti direzioni, con unità creative non troppo numerose, analoghe a quelle dei piccoli editori. Abbiamo cercato di cogliere il meglio delle varie realtà. Abbiamo mantenuto una cura artigianale nel fare libri. Avendo però vantaggi dal punto di vista dello scouting internazionale, sul lato commerciale e sui costi industriali per via delle dimensioni date dalla somma di tutte queste case editrici. Così usciamo da questi quattro anni di crisi con un bilancio in perfetto equilibrio finanziario, avendo anche guadagnato in termini di quota di mercato.
E ora, progetti futuri?
Vediamo come cambia il paesaggio con questa concentrazione, e se l’Antitrust la concede e con quali vincoli. I nostri progetti alla fine sono quelli dei nostri autori. E se poi si presenta una buona possibilità di acquistare una casa editrice o un buon catalogo noi non ci tiriamo mai indietro. I contabili sono fissati sulla programmazione, per alimentare improbabili piani triennali. Io penso che dobbiamo soprattutto farci trovare pronti.

Left_50_coverQuesta intervista compare sul numero 50 di Left, in edicola fino al 31 dicembre 2015

CHI E’ Stefano Mauri è presidente del gruppo Gems e vicepresidente di Messaggerie italiane.  Ha ideato e fortemente voluto il festival Bookcity.  Suo padre, Luciano Mauri, nel 1983 ha fondato la Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri. Il seminario 2016 si terrà dal 26 al 29 gennaio a Venezia, presso la Fondazione Giorgio Cini nell’Isola di San Giorgio Maggiore. La giornata del 29 gennaio, in particolare, sarà dedicata al tema “La civiltà del libro”, con interventi, fra gli altri di Giovanni Peresson (Aie),  diAntonio Prudenzano (Il Libraio), della scrittrice ed editrice Nottetempo Ginevra Bompiani. A seguire la tavola rotonda “Librai straordinari” moderata da Stefano Mauri e Giovanna Zucconi. E molto altro. (Qui il programma completo:www.scuolalibraiuem.it).

 

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Nel 2016 ne sentirete parlare: Samantha Cristoforetti, lo spazio e i confini dell’Umanità

Samantha Cristoforetti

Questo 2015 è indubbiamente stato l’anno dello spazio, siamo andati al cinema a vedere Interstellar e abbiamo seguito Matt Damon sopravvissuto in The Martian. Incollati allo schermo abbiamo guardato le nuove foto di Plutone, assistito alla scoperta dell’acqua, e quindi della potenziale vita, su Marte. Soprattutto abbiamo sentito parlare di Samantha Cristoforetti. Samantha, classe 1977, passerà alla storia perché è la prima donna italiana ad essere andata nello spazio e vi ha trascorso ben 220 giorni, anche questo un record. La rivista Time ha voluto assolutamente intervistarla: «con equipaggi ancora prevalentemente maschili, rimane solo un soffitto di cristallo tra la Terra e l’ orbita, e sono le donne, non gli uomini, a doverlo sfondare» scriveva Jonathan D. Woods il 10 agosto di quest’anno presentando l’astronauta italiana. Il Financial Times addirittura la indica, unica italiana insieme alla scrittrice Elena Ferrante, nella lista delle donne del 2015, forse proprio per quel record di permanenza nello spazio conquistato sulla Stazione Internazionale. Lei che per arrivare lassù ha superato una selezione fra altri 8500 candidati. Lei che volente o no, quest’anno, tra un tweet dal suo account @AstroSamantha e un altro, sempre mentre era ancora in orbita, è diventata un simbolo nazional popolare tanto da essere stata ospite in collegamento dalla Iss durante il Festival di Sanremo. Tanto da essere invitata da Matteo Renzi  – uno che alle cose che hanno anche solo un sentore di nazional popolare non sa resistere – alla Leopolda 6. Invito a quanto pare rispedito al mittente dall’ingegnere trentina.
Sicuramente quella della Cristoforetti è una storia che ci piace raccontare perché parla di un’Italia fatta di eccellenza e meritocrazia, ma Astrosamantha è anche qualcosa di più. È un simbolo, inconsapevole, che in qualche modo racchiude in sè i desideri, le aspirazioni e le difficoltà dell’anno appena trascorso.


Lanciare una navicella nel buio lassù ci entusiasma e ci galvanizza, è il trionfo dell’illuminismo, un piccolo passo per un uomo, enorme per una donna, sicuramente: “un grande passo per l’Umanità”


Samantha Cristoforetti non ci ha appassionato così tanto perché eravamo consci dell’importanza scientifica della sua missione, ma perché per noi la sua era un’impresa epica, un viaggio oltre il confine dell’atmosfera che su di noi, poveri profani rimasti con i piedi sulla terra, ha avuto lo stesso fascino della conquista del West. Ha mostrato la possibilità concreta di pensare come valicabile un confine che sembrava invalicabile. “Sfondare il soffitto di cristallo” di cui parla Jonathan D. Woods sulle pagine di Time.
Se, infatti, indubbiamente questo è stato l’anno dello spazio, altrettanto indubbiamente, è stato anche quello dei confini. E lo stesso spazio è questione di confini, limiti tecnici e fisici, che vengono superati (pensate all’atmosfera o alla gravità). Lanciare una navicella nel buio lassù ci entusiasma e ci galvanizza per questo, è il trionfo dell’illuminismo, un piccolo passo per un uomo, enorme per una donna – dopo tutto che saranno mai 8.500 concorrenti – sicuramente: “un grande passo per l’umanità”.
L’umanità, ecco, un’altra cosa che, soprattutto quest’anno, ha avuto a che fare con i confini. Quelli segnati dal filo spinato varcati dai rifugiati; quelli liquidi del Mediterraneo solcati dai migranti; quelli rivendicati dai kurdi impegnati nella resistenza contro Daesh; quelli che, dopo Charlie Hebdo e gli attentati di Parigi, le destre populiste hanno tentato di tracciare tra noi e “loro”, come se la vita fosse un film hollywoodiano dove esistono solo buoni e cattivi. Quest’anno ha avuto a che fare con i confini europei – quelli di un’Unione che vorrebbe essere forte, ma spesso si dimostra fragile – per cui la Grecia doveva essere dentro o fuori. E con le “frontiere” ambientali discusse a Parigi che, più che confini, sono limiti da rispettare e traguardi a cui tendere. Infine, quest’anno ha appunto avuto a che fare con la linea di confine tracciata dall’idea di spazio dove è finita Samantha Cristoforetti e che, forse per una banale questione metaforica di micro e macro o per il fatto altrettanto simbolico che in tutte quelle foto il globo lo vediamo dall’alto e per intero, potrebbe includere tutti quanti gli altri. Quasi si trattasse di un monito e di un memento.
A dicembre, nell’ultimo numero di Left abbiamo inserito uno degli scatti di Samantha nel nostro portfolio di fine anno e abbiamo titolato l’immagine così: “Se da lassù a guardarci è una donna”.
Ecco, “se da lassù a guardarci è una donna”, forse si finirebbe con il pensare che no, non è vero che l’Umanità ha dei confini. Che dividere il mondo in noi e loro è solo una questione di prospettiva, ridotta. Che per questo 2016 dovremmo impegnarci a guardare il mondo dalla prospettiva di AstroSamantha.
In fondo: «Visto da lassù il Mediterraneo è una pozzanghera. Non ha senso barricarsi» parola di astronauta.

Illustrazione: Antonio Pronostico

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Tutti si pentono un attimo prima di morire

Dicono che in fondo succeda sempre così, che basti l’ultimo respiro fatto in coscienza per pentirsi di tutti i peccati e poi andarsene. Di per sé risulta anche abbastanza comodo, a pensarci bene: è come vivere tutta la vita tenendosi in tasca il bigliettino del «pentiti gratis» in un Monopoli a grandezza naturale. I cattolici vedono in quell’estrema conversione un’occasione di riscatto mentre i cinici laici sanno bene quanto conti la possibilità di uscirne puliti anche all’ultimo metro.

La conversione di Bondi invece rientra nella metafisica, ai bordi della patologia, se è vero che l’ex ministro più pubblicamente servile dell’epoca Berlusconi ha deciso di annunciare la propria conversione con un’intervista che risuona come un miserere: “Berlusconi pensa ai suoi interessi” ha dichiarato il Sancho Panza tradito estraendo dal cappello anche una similitudine tra Silvio e il Conte Ugolino tanto per ricordare a tutti la sua buona cultura generale. E tutti gli altri giù con gli insulti: “vergognati!”, “traditore!”, “Caino!”. A vederla da fuori sembra il miglior presepe politico degli ultimi vent’anni.

Pensa te se domani succedesse davvero che in Parlamento si pentano tutti: Berlusconi con le mani in alto che ci dice a reti unificate «sì, è vero, ho fatto i cazzi miei però ci ho sempre tenuto che voi foste divertiti abbastanza», oppure Sacconi che a colpi di cilicio ci confessa di avere preso le difese della famiglia tradizionale solo «perché il presepe e i marò erano già tutti occupati», oppure Sgarbi che ci scrive una lettera in cui confessa che «nonostante l’arte e la bellezza è sempre la parolaccia a far ridere tutti» e provate ad immaginare Angelino Alfano che, davvero libero, si siede a penzoloni a bordo palco per poter piangere e urlare tutti gli scherzi subiti in aula in tutti questi anni. Sarebbe da scovare forse anche Matteo Renzi, che probabilmente a quel punto davvero si slaccerebbe i pantaloni per poter liberamente lasciare andare la pancia lasciandosi andare in un «avete visto? altro che sfigato» mentre metà del Parlamento sarebbe libera di mettersi in una sporta di iuta anche i soprammobili prima di andarsene via.

Ecco: la conversione di Bondi è la prova che tutti in fondo siamo umani e fatichiamo comunque a tenere il nostro personaggio per tutti questi anni. Ci grattiamo, pensiamo cose insulse e al riparo da occhi indiscreti non riusciamo a non compatirci. Bondi è la prima grande riforma del 2015: un decreto per tenere a mente di non prendersi mai troppo sul serio. E pure di non prenderli troppo sul serio.

2015, l’anno della Grecia e di Alexis Tsipras per immagini

epa04816696 A graffiti on the wall of an old house shows an EU flag on one side and a desperate expression on the face of an elderly person on the other in Athens, Greece, 24 June 2015. Greek Prime Minister Alexis Tsipras is set to conduct yet another round of crisis talks with representatives of the country's creditors, ahead of a crucial meeting of eurozone finance ministers where all sides hope a solution can be found to save the country from bankruptcy. EPA/SIMELA PANTZARTZI

Un anno vissuto pericolosamente quello della Grecia e di Alexis Tsipras. Per mesi il mondo ha assistito a un estenuante braccio di ferro con Bruxelles, a tre campagne elettorali, al protagonismo (forse eccessivo) del ministro delle Finanze Varoufakis e al cannoneggiamento di una parte importante dei media internazionali contro il governo di sinistra greco. Tsipras ha vinto sempre, ha ceduto molto ad Angela Merkel e qualcuno dice che abbia tradito il suo mandato. Solo tra qualche anno sapremo se la vittoria di Syriza ha portato alla Grecia quel cambiamento che tutti auspicavano.

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Leggi anche: Can this man save Europa? e Le opinioni dei grandi economisti sul referendum

 

 

 

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Nel 2016 ne sentirete parlare: Marisa Matias che vuole cambiare il Portogallo e l’Europa

Una donna di sinistra si aggira per l’Europa, garofano rosso in mano e bellezza decisa di stampo lusitano. Il 2016, tra i suoi protagonisti, avrà certamente Marisa Matias, candidata alla presidenza del Portogallo. Quarant’anni il 20 febbraio prossimo, Marisa Isabel dos Santos Matias è nata a Coimbra, centro universitario del Portogallo, nel 1976. «Questo è il mio villaggio», racconta Marisa. «È qui che sono cresciuta ed è qui che ho scoperto la mutazione straordinaria del Paese. Ricordo quando l’elettricità arrivò per la prima volta nella casa in cui vivevo. E dell’arrivo dell’acqua, del telefono, della scuola e dell’estensione del diritto alla salute. Ricordo di questo progresso che si basava su un’idea di uguaglianza».

Biografia | Marisa MatiasDe onde venho, algum do trabalho que fiz e as razões da minha candidatura.#conquistaaesperança #presidenciais2016 #marisa2016

Posted by Marisa Matias on Mercoledì 16 dicembre 2015

Matias è una ragazza ostinata, e decide di studiare presso la storica Università di Coimbra (fondata nel 1290 a Lisbona e trasferita a Coimbra nel 1537): «La gente del mio villaggio è gente che lavora e che non desiste. Devo a questa gente e alla mia famiglia quello che ho imparato, perché senza di loro non avrei potuto studiare». Qui, si laurea in Sociologia e si specializza in Salute pubblica e Ambiente, studiando anche negli Stati Uniti e in Brasile. Dopo la laurea, Matias intraprende la carriera universitaria, dal 2004 è ricercatrice del Centro di Studi sociali dell’Università di Coimbra. E vive anche una parentesi nel mondo dell’editoria, nel biennio 1998-2000 è segretaria di redazione della Revista Crítica de Ciências Sociais. Pubblica articoli scientifici e libri, nazionali e internazionali, sempre sulla relazione tra ambiente e salute pubblica, scienza e conoscenza, democrazia e cittadinanza.

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Marisa Matías (Bloco de Esquerda), Juan Carlos Monedero e Pablo Iglesias (Podemos), Alexis Tsipras (Syriza) durante l’assemblea de Podemos del 15 novembre 2014

Ma nelle aule universitarie del suo villaggio, Matias inizia pure a partecipare ai movimenti civici: qualità della vita in città, cause ambientali e lotta per la depenalizzazione dell’aborto. Diventa membro del tavolo nazionale del Bloco de Esquerda e vicepresidente del Partito della Sinistra europea. La sua attività politica cresce fin quando, sei anni fa, viene eletta al Parlamento europeo (rieletta nel 2014) tra le fila del Bloco de Esquerda e aderisce al gruppo GUE/NGL. In Europa, racconta Matias, «sapevo già che non avrei ritrovato quello che avevo in mente come un progetto democratico e solidale». A Bruxelles e Strasburgo, secondo Matias, quel progetto si è trasformato «in una macchina che pone sempre gli interessi della finanza davanti a quelli della vita delle persone». Alla delusione, Matias, ci arriva preparata e si organizza per contrastarla: «Mi sono confrontata con i protagonisti di questa trasformazione: Manuel Barroso, Angela Merkel, Mario Draghi e tanti altri. Ho sempre pensato che il mandato politico deve realizzarsi fuori dalle stanze del gabinetto e insieme alle persone. Nel lavoro legislativo, ci sono cose di cui posso andare orgogliosa». È il caso della strategia europea per la lotta all’Alzheimer (di cui è responsabile), della prima risoluzione approvata per combattere l’epidemia del diabete, della direttiva per combattere le falsificazioni mediche. «Queste vittorie, che vanno a diventare legge in ogni parte dell’Unione europea il prossimo anno (2016), sono certa che salveranno molte vite».


Leggi anche: la nostra intervista a Maria Matias


 

Matias è anche presidente dell’intergruppo sui Beni Comuni (risorse naturali, in particolare acqua, ma anche spazi sociali, orti urbani e beni immateriali come la cultura, il pensiero, la creatività, i beni comuni digitali). E presidente della delegazione per le relazioni con i Paesi del Medio Oriente (Libano, Egitto, Siria e Giordania), il 25 settembre del 2014 ha presieduto la presentazione delle conclusioni della sessione straordinaria su Gaza del Tribunale Russell nell’Europarlamento, insieme a Ken Loach, Roger Waters, Vandana Shiva, David Sheen, Richard Falk, Max Blumenthal, Mohamed Omer e Michael Mansfield.

In Portogallo il 2015 è stato un anno storico. Dal 24 novembre un governo di sinistra-sinistra guidato dal socialista Antonio Costa con il sostegno del Bloco de Esquerda, dei comunisti e dei verdi, ha messo in piedi un governo anti-austerità, riuscendo a strappare la guida del Paese al ben più filoeuropeo e gradito Passos Coelho.

Il 2016 sarà anche l’anno di Marisa Matias che avrà appena 40 anni quando si sottoporrà al voto per la guida del suo Paese: «Per rappresentare tutte le persone che credono in una forma differente di fare politica», dice Matias. «Qualcuno che garantisca l’indipendenza e la sovranità del Portogallo». Una garanzia che in tempi di Troika non è poca cosa.

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L’Aquila, il Museo dell’Abruzzo rinato fa il pieno di visitatori

La Madonna e santi di Giovanni Paolo Cardone, proveniente da una chiesa distrutta, il trittico di Beffi, capolavoro tardo gotico e il duecentesco Cristo deposto proveniente dal Duomo di Penne, che pareva irrecuperabile, sono alcune delle opere restaurate dopo il terremoto del 6 aprile 2009 a L’Aquila e ora esposte nel nuovo Museo nazionale dell’Abruzzo (Munda) insieme ad opere del Solimena, del Cerruti , del Preti. Gran parte della collezione della fortezza spagnola ancora non utilizzabile ha trovato posto  nella nuova sede, un complesso di archeologia industriale. Un ex mattatoio comunale, ristrutturato e dotato di strutture antisismiche, che si trova in un luogo denso di storia come Borgo Rivera, dove fiorirono i laboratori  tessili e del cuoio fra Trecento e Quattrocento grazie ai molti canali d’acqua che rifornivano anche la Fontana delle 99 cannelle, che divenne simbolo della rinascita della città dopo la sconfitta che le aveva inflitto Manfredi di Svevia.

L’impresa non è stata facile, perché- come documenta il drammatico video L’arte salvata (qui sotto) molti pezzi parevano irrimediabilmente rovinati. Durante il sisma molte sculture lignee, in pietra e in terracotta, caddero a terra andando in pezzi, mentre tante tele, danneggiate dal terremoto, rimasero poi esposte alle intemperie per la spaccatura che si era aperta nella struttura del Castello. ” Il 75 per cento della collezione è stata danneggiata dal terremoto, ci è voluto del tempo, ma oggi  i restauri sono finiti ed è stata completata la ristrutturazione museografica” ha detto Lucia Arbace del polo museale di Abruzzo presentando il nuovo Munda che nei giorni successivi all’inaugurazione del 19 dicembre ha registrato la presenza di più di 1500 visitatori.

 

Il nucleo forte del nuovo allestimento è di circa cento opere, fra le più importanti del vecchio museo che aveva sede nella fortezza spagnola. L’esposizione multidisciplinare si dipana in un lungo arco temporale, si va dalla sezione paleontologica  (che conserva uno scheletro di  Mammuth) per arrivare – nella sezione di storia dell’arte – fino al XVIII secolo. Qui sono conservate alcune delle più antiche Madonne d’Abruzzo, come la Madonna di Lettopalena del XII secolo e la Madonna “de Ambro” della prima metà del XIII secolo. E poi opere del maestro di Beffi e quattro dipinti di Mattia Preti che facevano parte della collezione Cappelli insieme ad altre tele del Seicento napoletano. Altre opere restaurate, ma non ancora esposte, si trovano nei depositi del museo preistorico di Celano, che già all’indomani del terremoto era diventato una sorta di pronto soccorso per le opere danneggiate. ” Il  museo nazionale dell’Abruzzo esiste dal 1951, fu inaugurato dall’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi e le raccolte sono rimaste nella fortezza spagnola fino al sisma del 2009″,  ricorda Mauro Congeduti, direttore del Munda. ” Per molti anni è stato la principale sede museale della Regione e prima del sisma aveva una media 50mila visitatori all’anno”. L’obiettivo oggi è fare in modo che i musei archeologici di Chieti il castello di Celano e gli altri centri d’arte formino una  rete che fa capo al museo aquilano,  anche per stimolare il pubblico a continuare il viaggio per scoprire il patrimonio d’arte diffuso nel  territorio.

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Un giorno si scuseranno di governare con i sondaggi

matteo renzi sondaggi

Ne parla Ignazio Marino nella sua intervista di ieri all’ Huffington Post: “Renzi governa sulla base dei sondaggi, come Berlusconi” dice l’ex sindaco di Roma, mentre parla dell’espropriazione del proprio ruolo politico alla guida della capitale. Ma non è di Roma che mi interessa parlare, ora, quanto piuttosto di un’idea che comincia a circolare e consolidarsi anche tra i renziani di primo pelo che oggi, a microfoni spenti, non nascondono i dubbi su un governo che sembra avere un fumoso progetto politico a lungo raggio affidandosi piuttosto ai sondaggi e alla pancia. Proprio ieri un componente di governo, in uno scambio di battute privato, mi confessava di essere convinto che lo stesso “bonus ai giovani” sia figlio più dei sondaggi che di un progetto.

E non è un caso che l’articolata strategia di comunicazione renziana abbia una concezione della volontà popolare molto simile a quello che è il sentiment per i professionisti della rete: se per i professionisti dei social la misurazione del “brand sentiment” si basa su un algoritmo tra Twitter, Facebook e gli altri social in rete per i renziani, in modo non dissimile, conta ciò che si dice e si pensa non tanto come valutazione dell’operato di governo ma anche (e soprattutto) come suggeritore delle azioni di governo. È un bene? Forse è presto per riuscire a dare una valutazione che sarà la storia a formare ma certamente questo esser proni ai sondaggi sminuisce non poco la figura dello statista che debba avere tra le sue capacità principali quella di riuscire a vedere più lontano degli altri. Messa così, insomma, il Presidente del Consiglio risulta essere piuttosto un attento ascoltatore degli stomaci piuttosto che l’interprete di un tempo. E questo, detto così su due piedi, non mi sembra un granché.

Ma c’è qualcosa di più che mi inquieta in questa mania di trasformare le percentuali in religione, tra l’altro in un tempo così delicato nel riconoscimento delle dinamiche sociali e affettive: il feticismo per i sondaggi ha portato negli ultimi anni all’inseguimento da parte del potere dell’urlaccio più forte e dell’indignazione più urticante. Cos’è il populismo se non confondere il popolare con il giusto? E questo populismo, imborghesito dall’aritmetica impaginata per bene, è pericoloso come lo sono tutte le minacce difficili da riconoscere.

C’è una bella tesi universitaria di Giovanni Salvatore Sanna, laureato alla Luiss nel 2012, che si intitola «Governare i sondaggi» (la trovate qui) e si chiude così:

Riprendendo lo schema di Bernard Manin, se il XIX è stato il secolo delle “democrazie parlamentari”, il XX è il secolo delle “democrazie dei partiti”, il XXI sarà invece il secolo delle “democrazie del pubblico”. Dalla fine delle culture politiche tradizionali, i partiti trovano sempre più difficoltà nel riuscire a rappresentare le diverse identità in cui si riconosco i cittadini, alimentando così l’instabilità ed il fenomeno della volatilità elettorale. Nelle democrazie contemporanee c’è una tendenza crescente da parte dei leader politici di voler rappresentare la maggioranza della popolazione attraverso la propria persona, senza che vi sia alcun intermediario tra loro e i cittadini. In questa prospettiva l’opinione assume un ruolo sempre più importante e insieme ad essa il sondaggio demoscopico si rivela lo strumento più rapido per intercettarla. Nella “democrazia dell’opinione” l’uso (distorto) dei sondaggi comporta tuttavia dei grossi rischi: la perdita di credibilità del settore demoscopico, la deriva populista, “l’equiparazione della misurazione istituzionale del consenso, rappresentata dalle elezioni, con la misurazione virtuale del consenso, rappresentata dal sondaggio”184, la confusione tra l’opinione pubblica e l’opinione pubblicata.

Se invece la politica sarà capace di assegnare ai sondaggi solamente il ruolo di comprensione e analisi delle dinamiche della società, senza mai delegargli un ruolo decisionale, il sistema democratico non potrà che beneficiarne.

Ecco, io credo che un giorno si scuseranno di avere voluto governare con i sondaggi. Piuttosto che governare i sondaggi.

 

A Locri il calcio a cinque chiude per ‘ndrangheta

Eppur è una storia piccola quella raccontata da Lucio Musolino che ancora una volta ha il fiuto e i guanti per raccogliere il tortuoso fine anno dello Sporting Locri, la squadra femminile di calcio a 5 che ha deciso di «chiudere per dignità» come ha scritto sul proprio sito.

Una scelta che cade proprio nel bel mezzo della sordità soffusa procurata dalle vacanze natalizie mentre si dovrebbe, per buon costume medio borghese e mediamente cattolico, mantenere al minimo le brutte notizie. E invece il presidente della squadra, Ferdinando Armeni, dopo avere costruito in soli sei anni un progetto che sta lì in cima tra le grandi rivelazioni nazionali, ha deciso che non vale la pena continuare a rischiare dopo l’ennesima minaccia, una gomma forata e un biglietto anonimo che dice «Forse non siamo stati chiari. Lo Sporting Locri va chiuso.» Una situazione pesante che si protrae da qualche mese e che rende per ora il tutto ancora più difficile da codificare poiché non è chiaro che interessi dovrebbe avere la criminalità organizzata nei confronti di un gruppo nato “per hobby” e che difficilmente interessa gangli economici e di potere. O forse, ancora una volta, a Locri si consuma più semplicemente la solita prepotenza per ribadire potenza e tessere la pesante cappa che soffoca lo sviluppo sociale.

“Siamo senza parole – dice Armeni, il presidente – dal momento che il nostro è solo un hobby, una passione per lo sport calcistico. Non è accettabile che si possa correre il rischio di essere colpiti anche nei nostri affetti più cari. Certo, può darsi che si tratti di una bravata, ma davvero non ce la sentiamo di andare avanti. Inutile nasconderlo, c’è rammarico nel dover chiudere dopo anni di successi che ci hanno consentito quest’anno di diventare la squadra rivelazione del campionato nazionale di serie A. Non riusciamo a capire, tuttavia, quali interessi ci possano essere da parte di chi vuole ostacolare un’attività sportiva come questa”.

Nell’annuale classifica dei minacciati di “serie a” o “serie b” possiamo stare certi che una squadra di calcio, a cinque e per di più femminile manchi di tutti gli ingredienti per aspirare anche ad una minuta sollevazione popolare, rischiando di finire più nelle pagine di costume piuttosto che di cronaca. Eppure sarebbe bello, vuoi per il clima di festa, cominciare a prenderci cura di tutte le storie e forse proprio di quelle che sembrano più piccole e deboli. Per dirci che davvero non si accettano vessazioni. Di qualunque tipo.

Pronti così. Per chiudere l’anno.

Quei film che piacciono al Moma

Sullo schermo una giovanissima Stefania Sandrelli in bianco e nero ripete una battuta che parla di un cinema sulla linea di confine tra la commedia all’italiana e il ritratto sociale. Le immagini sono quelle, in anteprima mondiale al Museum of Modern Art (Moma) di New York, della versione restaurata di Io la conoscevo bene, film del 1965, Nastro d’argento nel 1966, che apre la rassegna dedicata dal Moma al regista Antonio Pietrangeli. Una scelta tutt’altro che scontata: poco noto anche in patria, il regista scomparso all’età di 49 anni è praticamente sconosciuto all’estero. «La scoperta non si limita al nuovo cinema» spiega Rajendra Roy, curatore dei film del programma Celeste Bartos del Moma. «È la possibilità di presentare al pubblico americano un importante autore italiano, che abbiamo perso troppo giovane, è stata una scelta naturale». I film di Pietrangeli sono l’avanguardia di un macro-genere in cui si inseriscono molti autori contemporanei di casa nostra, che sonda il reale con leggerezza e gusto per l’assurdo tipicamente italici.

Non è la prima volta che il Moma rende omaggio al nostro cinema: in passato ci sono state retrospettive su Marco Bellocchio, Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci, Dante Ferretti e altri. Ma quest’anno, in concomitanza con la rassegna su Pietrangeli, il museo newyorkese lancia uno sguardo al contemporaneo con il programma Italian Film 21st Century Style: A Tribute to Rai Cinema, una selezione di 10 film degli ultimi 15 anni prodotti dalla Rai e regalati al Moma.

Un’iniziativa inedita, che riporta la cinematografia più recente del nostro Paese nell’olimpo dei capolavori da conservare e ricordare. «Il pubblico americano trova diverse ragioni per avvicinarsi alla varietà e ricchezza della produzione cinematografica italiana» dice ancora Rajendra Roy, «ma forse quello che apprezza in particolare, anche se può sembrare un po’ un cliché, è la passione degli sceneggiatori, dei registi e soprattutto degli attori. Al pubblico piace emozionarsi per le storie e i personaggi». Nella selezione di Rai Cinema per il Moma ci sono pellicole che hanno vinto importanti premi internazionali, come La stanza del figlio di Nanni Moretti, capolavori incontestati come Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi, ma anche opere più recenti e sperimentali come Sacro Gra di Gianfranco Rosi e Le meraviglie di Alice Rohrwacher.


 

Questo editoriale lo trovi nel numero 50 di Left in edicola dal 24 dicembre

 

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