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Il creativo lessico famigliare di Giartosio

Autobiogrammatica è il nuovo libro di Tommaso Giartosio ( Minimum Fax, finalista al premio Strega). Quasi incredibilmente il titolo, così criptico, corrisponde in maniera esatta a questo libro, e lo descrive. Si tratta infatti di autobiografia, ma la grammatica costituisce il vero filo conduttore, anzi l’intreccio determinante della vita narrata. Ho detto “la grammatica”, ma avrei dovuto dire i grammata, cioè i segni e gli ur-segni alfabetici o para-alfabetici, i glifi, i geroglifici, i monogrammi, gli ideogrammi, i calligrammi, i caratteri che formano le parole, sempre al confine con i disegni (che non a caso, autografi, figurano nel libro); sono cruciali, e molto belli, i tre capitoli dedicati all’alfabeto, frutto dell’intreccio fra un’erudizione vasta e una vera passione. Così il problema di “Cos’è una A?”, che cosa essa è veramente (pp. 296, 351 et passim), può ispirare e percorrere larghe parti del nostro libro.
Il gioco che Giartosio compie fra le diverse lingue moderne da lui possedute non è poi tanto diverso dal gioco di inventare lingue e parole, insomma codici che servono a escludere più che a comunicare (a comunicare un segreto?), anche se questi giochi sono sempre temperati dall’auto-ironia: “il potere di isolamento dell’inglese – la paradossale forza segregante di una forma di comunicazione! – si manifestò in pieno. Entrai in clandestinità.” (p. 26).
Prima di ogni significazione c’è solo la recherche  del linguaggio perduto, un linguaggio puro e meraviglioso (e impossibile), “Come talvolta i baci, come l’òla [il saluto del padre rientrante in casa, NdR]. Anche come i pugni di quello che mena…” (p.404).
Così la quête di Giartosio non muove dall’area del significante verso la significazione, dai segni verso le cose, al contrario sembra indulgere sui segni proprio per impedirsi di accedere al mondo delle cose, cioè ai nomi e soprattutto alle persone. Anche quando finalmente le persone compaiono esse sono come respinte sullo sfondo: è la consueta dialettica fra evocazione e dimenticanza che caratterizza le scritture autobiografiche ma che qui è come drammatizzata da una sorta di trattenimento che forse è una fuga. Deriva da questo movimento l’autoimposta frigidità che percorre le pagine di questo libro, nonostante che esso contenga anche brani strazianti. Come se alla base di tutta l’opera ci fosse uno sforzo, intelligente e colto, di nascondimento, un “non dicendo, dire”.
L’entità che l’autore chiama “papaemmamma” (“i miei continuavano, implacabili, a volere il mio bene”: p.357) è forse il vero centro di questo nascondimento.
Chi ha letto la raccolta di poesie di Giartosio Come sarei felice (Einaudi 2019) sa già tutto quello che c’è da sapere del padre dell’Autore; certo si tratta dell’unico ufficiale di Marina, anche un po’ reazionario, che susciti affettuosa simpatia nel lettore, per la sua dolente e dignitosa compostezza. L’ultimo rappresentante di una classe di cui abbiamo perfino scordato il nome (forse la borghesia?), una classe che, ogni giorno di più, siamo tentati di rimpiangere a fronte della poltiglia infame che ne ha preso il posto (e che – comunque – proprio come Mussolini: “Non sa stare a tavola”). Più nascosta (dunque più presente) è naturalmente la figura materna. Tuttavia è da una linea ereditaria femminile, una nonna, che proviene a Giartosio il dono di un libro di Ezra Pound “con sguardo complice” (p.401), per i diciott’anni!, come un’iniziazione attesa e inevitabile.
La nonna è un’anglista, due lauree e tre o quattro libri pubblicati, che si inginocchia davanti al televisore per ricevere la benedizione di Pio XII. Costei aveva anche intrattenuto una confidente corrispondenza personale con Pound nel ’37-’41, proponendosi di stendere una voce sulle sue opere per il Dizionario letterario Bompiani.
Se le autobiografie hanno un intreccio, l’incontro con Pound è come uno scioglimento che prelude all’epilogo. Il linguaggio della “poesia pura” di Pound, “integralmente vero, autentico, autorevole, assoluto, senza possibilità di menzogna, vergogna, passione, finzione” è la vera, e ultima, tentazione di Giartosio che lo attira e – al tempo stesso – lo terrorizza (“avevo sempre temuto un linguaggio simile. Mi spaventava a morte. Era ciò da cui mi proteggevo con mille scherzi, schemi, schermi”). Questo incontro con Pound e i Cantos pisani sospinge l’autore verso ls lingus cinese, “uno sterminato campionario di caratteri composti, in cui l’elemento rappresentativo, la raffigurazione, si stempera fin quasi a scomparire” (p.405). Così la ricerca che il nostro libro racconta, partita dall’alfabeto di chiuderebbe, come in un cerchio, su un non-alfabeto ideogrammatico misterioso e potentissimo, “caratteri reali e non nominali”. Finalmente fuori dalla significazione storica e inter-umana.
Sull’orlo di questa conclusione (di questo abisso?) Giartosio è trattenuto, non dal fascismo di Pound (“non era un problema”) ma dal disgusto per il fascismo del suo pubblico di ammiratori, che gli si manifesta in una conferenza romana :”Ha concluso: ‘Perché, ricordiamolo, Pound fu un grande fascista!’. Un applauso. Mi sono guardato intorno, incredulo. Tutti quei signori dall’aria serena, con i loro sorrisi e gli sguardi velati da circolo parrocchiale, erano passati in un attimo dal guardare al menare (…) Come in certi romanzi o film di fantascienza il protagonista realizza con orrore di essere circondato di alieni dall’aspetto umano (…)” (p.426-7). La nausea che la beneducata ferocia di questi alieni provoca in Giartosio è sufficiente per interdirgli la – chiamiamola così – “strada Pound”, la strada dell’assoluto cercato/trovato nella poesia pura e irrelata.
Nel Bildungsroman di Giartosio si verifica allora una imprevista quanto decisiva rivincita della storia, anzi addirittura della politica. Questi elementi, che erano stati rigorosamente esclusi dalla vicenda della formazione e dalla vita dell’autore, vi rientrano proprio nel momento conclusivo, e decisivo. Come se la storia e la politica, per quanto denegate, avessero la forza di pervadere tutto, rientrando non da una finestra chiusa male ma da una semplice minima fessura imprevista. “Finiva il tempo degli alfabeti. Ma intanto iniziava il tempo dei nomi” (p.435) cioè delle umane persone e dei loro volti.

 

Frame video di Tommaso Giartosio, scrittore e conduttore del programma di Rai RadioTre Fahrenheit

 

L’antifascismo di Carlo e Nello Rosselli. Una lezione per il presente

Il 9 giugno 1937 vennero assassinati in Francia i due fratelli Carlo e Nello Rosselli,  fondatori di Giustizia e Libertà e tra i principali esponenti del movimento antifascista. Valdo Spini ne ha ricostruito la vita e il pensiero in Carlo e Nello Rosselli. Testimoni di Giustizia e Libertà, il libro di Left di giugno, ripubblicato in collaborazione con la Fondazione Circolo Rosselli. Eccone un estratto.

Bagnoles de l’Orne è cambiata. E non solo per l’inevitabile scorrere del tempo. È una cittadina della Bassa Normandia di circa 2.600 abitanti, distante più o meno 200 km da Parigi, nei cui dintorni Carlo e Nello Rosselli furono assassinati dalla Cagoule, organizzazione terroristica di estrema destra francese, su mandato del governo fascista italiano. È sempre un’importante località termale e turistica (Carlo Rosselli era venuto a curarvi la sua flebite), solo che per le nuove disposizioni normative la maggior parte dei suoi alberghi, a cominciare dal glorioso Grand Hotel, è chiusa o diventata residenza. Così sia l’Hotel Cordier un edificio di foggia tradizionale normanna in cui erano scesi Carlo e sua moglie Marion, raggiunti poi da Nello – sia il più imponente Bel Air – che lo fronteggiava e da dove componenti della Cagoule ne sorvegliavano i movimenti ci sono sempre, ma non sono più attivi. Li abbiamo fotografati, con i loro nomi ben visibili scritti sui rispettivi edifici, perché ne rimanga traccia. E fu proprio dall’Hotel Cordier che i due fratelli uscirono, la mattina del 9 giugno 1937, con la Ford scassata usata da Carlo nella guerra di Spagna. Dopo aver lasciato Marion alla stazione ferroviaria per farla rientrare a Parigi in tempo per festeggiare il compleanno del primogenito John, si diressero ad Alençon, sempre costantemente sorvegliati dalla Cagoule, che aveva pianificato il sanguinoso agguato sulla via del ritorno.
Nel pomeriggio i due fratelli percorrono la strada per tornare a Bagnoles. Verso le 19:30 la Peugeot con a bordo il primo commando di quattro uomini della Cagoule si ferma poco oltre la biforcazione della strada n. 816, a quattro chilometri dal centro di Bagnoles, fingendo un guasto al motore. La macchina dei Rosselli si ferma a sua volta. Sopraggiunge una seconda macchina della Cagoule con a bordo altri tre uomini.
I Rosselli sono in trappola. Vengono barbaramente uccisi a colpi di rivoltella e di pugnale. Pochi giorni dopo, per concludere l’opera e dare conferma dell’avvenuto delitto, tre esponenti della Cagoule si recano il 13 giugno a Torino per consegnare una copia dei documenti sottratti a Carlo Rosselli al «dottor Nobile» (in realtà era l’ufficiale Roberto Navale, comandante del Centro Controspionaggio di Torino del Sim, il servizio segreto militare italiano posto alle dirette dipendenze del Ministero degli Esteri), che teneva i contatti con l’organizzazione. Ministro degli Esteri era all’epoca Galeazzo Ciano. Cagoule in francese significa «cappuccio», un nome che indicava il copricapo con cui questi criminali usavano mascherarsi nelle loro sanguinose imprese.
Oggi a Bagnoles nessuna indicazione, nessun cartello attira l’attenzione sulla presenza di un monumento commemorativo posto sul luogo di quel delitto. Ma la memoria rimane, almeno nei più anziani. Ci sono andato nello scorso agosto (2015) per cercarlo. Sapevo che doveva essere tra Bagnoles e Couterne. Entrato, con i miei familiari, in una boulangerie di Couterne, ho chiesto indicazioni per il monumento. Una signora che aspettava il suo turno per comprare il pane ci disse: «Ah, le monument aux italiens», e ci indicò come arrivare. E un cliente del negozio di fiori dove avevamo comprato le rose per deporle ai piedi del monumento sapeva dell’assassinio, ma non ricordava il luogo.
Anche il corposo volume venduto nella principale libreria del paese a chi vuole documentarsi sulla storia del territorio de l’Orne parla, con qualche inesattezza ma con netta solidarietà, della vicenda del delitto. Tuttavia non bisogna farsi illusioni: il tempo può far svanire questi ricordi se non ne riattiviamo la conoscenza.
Così abbiamo ripercorso la strada, oggi asfaltata, nella stessa direzione di quella seguita dai fratelli Rosselli in quel fatidico viaggio di ritorno e, a pochi chilometri da Bagnoles, abbiamo incontrato il bosco scelto dalla Cagoule come teatro dell’azione criminale. Come dicevo prima, nessun cartello annuncia la presenza del monumento, che è però ben tenuto: una siepe sempreverde, alta poco più di un metro, a forma di ferro di cavallo, aperta verso la strada, circonda un’area pavimentata con un ghiaino colorato, al cui centro è posto il monumento, opera dello scultore Carlo Sergio Signori (1949). Una doppia stele in marmo, formata da due elementi alti e massicci che appaiono come integrati in un solo blocco. In una testimonianza l’artista spiega di aver voluto ritrarre non le sembianze esteriori dei Rosselli, quanto i loro caratteri: «Non la loro fisionomia corporea, ma il carattere morale, e per questo aveva fatto Nello come un pensatore, quindi simile a una colonna, e aveva invece riservato a Carlo l’aspetto di un secondo corpo staccato dal primo in uno stacco dinamico, a voler significare che Carlo era dei due l’uomo di azione». Una testimonianza artisticamente interessante e insolita nei monumenti commemorativi dei primi anni del dopoguerra. Vale la pena ricordare come nelle fila di Giustizia e Libertà, il movimento antifascista fondato e guidato da Carlo Rosselli, vi fosse anche un grande storico dell’arte, Lionello Venturi, padre dello storico Franco (anche lui di Gl). Fu sotto il suo impulso che fu scelta una forma d’arte astratta e non figurativa – un fatto coraggioso per l’epoca. Si voleva sottolineare una dimensione non retorica del ricordo che si protrae oltre la stessa immagine delle vittime. Il monumento fu scolpito a Carrara nello studio Nicòli, e di lì, salutato dalle autorità locali e da antichi compagni dei Rosselli, partì alla volta della Francia. Fu inaugurato a Bagnoles de l’Orne il 19 giugno 1949, in presenza dell’ex presidente del Consiglio Ferruccio Parri e di numerose personalità italiane e francesi.
Un monumento potente e, tutto sommato, ben conservato. Ai suoi piedi due coroncine simboleggiano l’omaggio ai due martiri. Conoscevo la storia dell’opera e avevo visto il bozzetto del monumento quando, grazie a Francesca Nicòli, era stato esposto allo Spazio dei Quaderni del Circolo Rosselli il 9 giugno 2014, in occasione del settantasettesimo anniversario dell’assassinio. Ma un monumento va visto nel suo contesto, nel suo posizionamento e le due alte steli rappresentano in qualche modo qualcosa di ancor più duraturo delle stesse figure, mentre il bosco rievoca la cornice dell’agguato criminale invitando al raccoglimento, alla meditazione, alla presa di coscienza. Una tremenda impressione, viva, ancora palpitante. La materia ha retto bene al tempo.
(Recentemente abbiamo restaurato la lapide. A questa prima visita dell’agosto 2015, è seguita l’inaugurazione del restauro del monumento il 4 giugno 2016, eseguito in collaborazione con lo Studio Nicoli di Carrara e con la municipalità di Bagnoles de l’Orne e la solenne celebrazione dell’ottantesimo dell’assassinio il 9 giugno 2017. Ringraziamo la municipalità di Bagnoles de l’Orne che ha sempre collaborato con grande impegno alle manifestazioni rosselliane. Queste si sono sempre concluse con un ricevimento al vicino castello di Couterne, ospiti del Marchese Monsieur Edouard de Frotte, purtroppo recentemente scomparso).
L’iscrizione è posta in cima alla stele più alta, quella che simboleggia Carlo. Essa suona così:

Carlo et Nello Rosselli
tombès ici pour la justice et la liberté
sous le poignard de la cagoule par ordre
du regime fasciste italien

Parole che non hanno bisogno di alcun commento e a cui possiamo accostare, in logica e coerente sequenza, quelle che Piero Calamandrei scrisse per la loro tomba nel cimitero di Trespiano (Firenze): Carlo e Nello Rosselli/giustizia e libertà/ per questo vissero/per questo morirono. Giustizia e Libertà sono le parole che ricorrono nel ricordo dei Rosselli: sono le parole chiave della democrazia. Non c’è vera libertà senza giustizia, non c’è giustizia se non è vissuta in un regime di libertà. Sembra un accostamento banale, ma ogni volta che questo binomio è perduto o incrinato ci accorgiamo di quanto invece sia assolutamente fondamentale.

(estratto dal libro Carlo e Nello Rosselli. Testimoni di Giustizia e Libertà a cura di Valdo Spini, pubblicato da Left in collaborazione con la Fondazione Circolo Rosselli)

Il libro si può acquistare qui

In viaggio con lo zingaro. Il romanzo pamphlet di Vittorio Giacopini

Il romanzo di Vittorio Giacopini L’orizzonte degli eventi (Mondadori) è una opera picaresca che ha visto la luce dopo aver ricevuto una serie di rifiuti perché considerata “troppo cupa e sarcastica o troppo amara”. Il romanzo-pamphlet dello scrittore (disegnatore e voce di Paginatre su Radio3) ha avuto una vita editoriale “avventurosa”. L’autore l’aveva messo in conto: «È il clima del nostro tempo, lo Zeitgeist: alla lettera si richiede implicitamente di essere consolatori o edificanti. Raccontare la realtà in modo intimista-descrittivo o secondo i canoni scontati dell’Impegno o dell’autofiction serve a poco», dice lui stesso. E aggiunge: «Quando il reale e la storia si fanno grotteschi, lo sberleffo e il grottesco diventano il linguaggio più adeguato. L’artista, l’intellettuale deve trasformare il suo disagio in visione e pensiero. Alla fine la grande scommessa è sempre immaginare il mondo e le cose con un altro sguardo, e vivere e scrivere come se prima o poi fosse possibile una rivoluzione». L’arte, quindi, è un atto politico e non un mero esercizio stilistico. La contestazione contro il verso e le retoriche dominanti del mondo Giacopini la affida al suo scritto: «Questo libro è anche una pacata, divertita invettiva contro quella che potremmo definire l’ideologia italiana. Ma più in generale è un tentativo di riflettere sulla Storia, e sul possibile rapporto tra il soggetto e la Storia, dopo una fase in cui la Storia sembra come essersi spezzata o messa in pausa. La pandemia, il lockdown, e il clamoroso, conformistico intreccio di nuove obbedienze e false rivolte che hanno coinciso con questa situazione inedita sono state un’occasione formidabile per metterci davanti a uno specchio e tornare a ragionare sui nostri modelli di socialità e cultura e politica». Il romanzo non è il risultato di un’illuminazione mistica o di un’ispirazione sacra. Tutt’altro. Semmai è figlio di un’insofferenza che l’autore ha voluto trasformare in livore pensante, in sarcasmo intelligente. Giacopini scrive con stile movimentato e stravagante, costruendo una struttura narrativa intricata e complessa, di quelle ore e di quei giorni che si sono fatti stranamente irreali e paradossali.

Già dal titolo, il romanzo gioca con il paradosso evocando una speranza disillusa di massima apertura che si tramuta nella chiusura più estrema. La metafora scientifica evoca il superamento di un confine intangibile attorno a un buco nero oltre il quale non c’è più modo di uscire. È un viaggio di sola andata ai margini dello Spazio-Tempo in cui viene risucchiato tutto, non soltanto la materia ma anche la sua sostanza, la storia, le idee, le motivazioni. E allora qual è l’antidoto alla disperazione? «È la possibilità – risponde Giacopini – di riscrivere tutte le storie accettando il fantasmatico, il sogno, la fantasia, quell’impasto più profondo di reale e irreale che dischiude orizzonti. L’immaginazione va dove vuole lei senza giustificarsi di niente, senza alcun perbenismo».
L’Io narrante – un uomo di mezza età amareggiato per aver visto svanire speranze, sogni e utopie – ripete come un mantra la frase di Buñuel citata in esergo: «solo verso i 60-65 anni sono riuscito a capire in pieno l’innocenza dell’immaginazione. Mi ci è voluto tutto questo tempo per ammettere che dovevo lasciare andare la mia immaginazione dove voleva, anche se cruenta e degenerata».
«Un romanzo è (o dovrebbe essere) un caleidoscopio spiazzante, un maledetto dedalo, un labirinto». Come quell’intrico che compare sulla copertina, opera dello stesso Vittorio Giacopini. Qui la figura umana pare colta da un senso di incertezza mentre si appresta a entrare in un’altra dimensione. Un’illustrazione realizzata in precedenza e che ora rispecchia i contenuti del libro tra le cui pagine riecheggia per quanto non esplicitata la domanda: “Quale strada imboccare tra molteplici strade?”
L’opera «è una stanza che ha diecimila finestre e almeno altrettante porte», dice lo scrittore. Il suo invito è a entrare liberamente ad affacciarsi. «Vero, in scena in fondo ci sono solo e sempre loro due, l’Io e lo Zingaro. Ma davanti e dentro alla Storia, e a un mucchio di altre storie: hanno occhi, e hanno antenne; vedono, ascoltano. Il canale di Suez è bloccato, si forma una Comune internazionalista di marinai ribelli, un circo misterioso vaga per le terre d’Europa, c’è una missione Oms costruita con criteri di gender equality alla ricerca delle cause del morbo, un’astronave fantasma viaggia nello spazio verso il gran buco nero; Notre Dame va in fiamme e i ghiacciai si sciolgono, i teschi delle nuove danze macabre non mostrano più il ghigno dentato, sono mascherinati.
Io e Zingaro parlano molto e quando non parlano ascoltano i radio-giornali, le news dal mondo». I due personaggi si scontrano e si incontrano in un dialogo diretto, viaggiano lungo le rotte del presente, attraversando la pandemia, la crisi climatica, le migrazioni, lo stimolo costante dell’informazione e il progresso scientifico. Riflettono sulle vicende dell’umanità, si interrogano. Tutto avviene in una dimensione in cui il reale della veglia e il reale onirico si fondono in una sorta di meccanismo del surreale. In pieno clima pandemico c’è l’incipit dell’io narrante, volutamente anonimo, che intraprende «questo viaggio dentro e fuori gli imbrogli del sogno dialogando con lo zingaro perché lo zingaro è altro e diverso da noi, anzi a dirla tutta è diversamente diverso, fa deflagrare ogni schema, ci inchioda al ridicolo. Non lo puoi compatire, non lo puoi biasimare, non si lascia afferrare. Lo zingaro non ha loco né foco, è pura, incandescente erranza ribelle, non lo puoi mai fermare. Immagino che in termini di politically correct già la parola zingaro sia piuttosto opinabile. Lo zingaro, il mio zingaro-occhi-azzurri, viene da lontano e va anche più lontano… riguarda quel che c’è di più vero e sofferto e irrisolto e inspiegato in noi, il nostro Io segreto».
È la personificazione della provocazione che Giacopini rivolge all’umanità ormai disabituata a pensare e a vedere altrimenti. In uno scambio metaforico che supera la dimensione del tempo, Giacopini quasi si immerge in una dimensione inedita e si affida alle parole lontane ma sempre vive di Eraclito di Efeso, ma rovesciandole: «Unico e comune è il mondo per coloro che son desti, mentre nel sonno ciascuno si richiude in un mondo suo proprio particolare». E il salto temporale raggiunge il suo punto più basso e più alto, umano e sociale, per l’autore, con la pandemia: «Il mondo unico e comune s’è mutato in sogno, ovviamente a occhi aperti. Ne sono convinto: è stata anche una circostanza stupenda, un inciampo stimolante. Vivere, pensare, scrivere oltre il confine filisteo che separa il giorno dalla notte, e il sogno dal pensiero».
I capitoli del libro sono inseriti in tre sezioni: sogno, notte e viaggio. Tre parole che guidano la comprensione del testo. Viene demolita la correlazione comunemente attribuita al sogno e alla notte perché la visione onirica continua anche di giorno lasciando intendere che per l’autore il “momento della luce” in questo tempo storico è molto simile a quello delle tenebre. A fare da collante tra il sogno e la notte e la veglia c’è il viaggio: «È l’unica chance che abbiamo di attraversare il mondo – dice lo scrittore – e di capirlo provando a renderlo diverso. Il viaggio è un percorso che si sta compiendo senza particolare razionalità verso un finale catastrofico….» E poi precisa: «Non immagino che l’umanità stia andando a sbattere effettivamente dentro un buco nero, anche se per come stiamo gestendo i rapporti umani e sociali e la natura intorno a noi, è plausibile pensare che una grande catastrofe si stia preparando». A dare respiro alla fine c’è la partenza degli zingari per un altro universo, un’immagine metaforica per dire che altre storie sono possibili.

Qui il sito di Vittorio Giacopini, con tutti i suoi libri

Europee, Maurizio Acerbo: «La guerra è la negazione di tutto ciò per cui lottiamo a sinistra»

Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione comunista – Sinistra europea, è fra i promotori, per le elezioni europee, della lista Pace Terra Dignità, ideata da Michele Santoro e Raniero La Valle, candidato nella circoscrizione Sud. in questo mese di campagna elettorale ha girato molto il Paese. La prima domanda che viene da farle è: come mai il suo partito ha deciso di essere parte molto attiva di questa lista?
«È stata la scelta più naturale. Noi dall’inizio della guerra abbiamo proposto che si costruisse una coalizione pacifista. L’appello di Michele e Raniero era in profonda sintonia con quanto abbiamo sempre sostenuto. La lotta contro la guerra è la nostra storia e soprattutto è l’imperativo del momento».

Maurizio Acerbo (dalla sua pagina fb)

La ragione predominante per cui si è composta questa lista è il rischio che la “guerra mondiale a pezzi”, si trasformi in un conflitto generalizzato. Che scenari intravede e quali elementi potrebbero contribuire a mutare un quadro così cupo?

È evidente che siamo sempre più vicini allo scontro diretto tra Nato e Russia. L’Europa dovrebbe agire per fermare la catastrofe e invece prosegue la deriva bellicista con conseguenze disastrose. Lo spot di Ursula von der Leyen mette paura. Solo i popoli possono fermare classi dirigenti irresponsabili, ma il partito della guerra in Europa è talmente largo e trasversale, dell’estrema destra ai “verdi”, e la propaganda così pervasiva che non riesce a emergere un forte movimento pacifista.

Per quali ragioni, a suo avviso, non è stato possibile far sì che le forze a sinistra che sono contrarie all’escalation bellica, non sono riuscite a realizzare, almeno per questa scadenza un progetto comune?

I vertici di Alleanza Verdi e Sinistra sono stati contrari sin dall’inizio. L’unico argomento è stato che loro hanno già costruito uno spazio politico e chi voleva poteva candidarsi con loro. Si è persa l’occasione per un’unità che non fosse una sommatoria ma una proposta forte rivolta alla maggioranza delle italiane e degli italiani. È evidente che è prevalsa la difesa del monopolio della rappresentanza parlamentare a sinistra del Pd con cui però non bisogna scontrarsi sulla guerra. Mi sembra che abbiano scelto la rendita invece della lotta. Avs non voleva fare una campagna concentrata su un tema che divide dal Pd. D’altronde hanno rifiutato di fare coalizione pacifista anche alle politiche preferendo una coalizione con il guerrafondaio Enrico Letta. Pesano anche le posizioni guerrafondaie dei verdi europei. Sul versante opposto c’è chi come Potere al popolo ha fatto muro dentro Unione popolare, che era nata proprio per aggregare e unire il fronte pacifista. Evidentemente a sinistra non si ritiene che la guerra rappresenti davvero uno spartiacque che richiederebbe unità e determinazione. Prevale la logica dell’orticello, istituzionale o antagonista.

Durante il suo lungo tour, che tipo di atmosfera ha avvertito fra le persone incontrate? Si avverte e in quali settori il rischio derivante dai danni che verrebbero causati dagli scenari evocati da Stoltenberg, da Biden, Macron e da tanti altri capi di Stato?

La nostra è stata una grande campagna contro la guerra, la più grande campagna pacifista da tanto tempo. Mi sembra che ci sia un sentimento popolare contrario alla guerra e ai nostri incontri persone consapevoli della gravità della situazione. Però ho la sensazione che la maggior parte della popolazione non abbia la percezione del pericolo e delle conseguenze che già sta provocando la guerra. Inoltre proprio l’elettorato di sinistra e centrosinistra rimane obnubilato dal bipolarismo. La guerra è in secondo piano rispetto alle schermaglie con Meloni. Lo considero un grave errore. Non vede la connessione tra sdoganamento estrema destra in Europa e guerra. Intanto il Pd vota con il governo per l’invio di armi e si astiene sul Patto di stabilità che impone tagli draconiani alla spesa sociale e l’aumento spese militari. L’Italia antifascista dovrebbe ritrovarsi sul ripudio della guerra della nostra Costituzione.

La seconda parola scelta, nella denominazione della lista è “Terra”, lei e il suo partito come la intendono? Reale difesa dell’ambiente? Necessità di modificare radicalmente il modello di sviluppo, se così vogliamo ancora chiamarlo, per indirizzarlo verso una svolta ecologica capace di coinvolgere l’intero pianeta?

È evidente che guerra, cambiamento climatico e più in generale crisi ecologica sono catastrofi prodotte da un capitalismo sempre più finanziarizzato che dopo decenni di neoliberismo genera contraddizioni sempre più distruttive. L’Europa sta accantonando la transizione ecologica e la destra cavalca il negazionismo nell’interesse dei settori del capitalismo legati alle fonti fossili. Questo progetto ha successo perché se non metti in discussione il neoliberismo le persone tendono ad avere paura dei cambiamenti che le penalizzano. C’è bisogno di una politica climatica del 99% per dare all’ecologia una base popolare. Altrimenti succede come per le proteste degli agricoltori. Se non si mettono in discussione i meccanismi che li rendono poveri sul mercato la loro protesta viene indirizzata contro il divieto dei pesticidi.

La terza, “Dignità” è ad avviso di chi scrive, quella su cui gran parte delle forze politiche hanno mentito durante questa campagna elettorale. Mentre promettevano miglioramenti nelle condizioni di vita per le classi più disagiate, maggiori servizi, una adeguata sanità pubblica, di fatto, approvando il patto di stabilità, consegnavano il futuro ad un Europa in cui si deve spendere per le armi e si deve contrarre la spesa sociale. Quali sono le misure alternative che Ptd intende portare avanti in Europa?

L’economia di guerra sarà la tomba del modello sociale che dal Trattato di Maastricht in poi è bersaglio dell’UE. Ptd ha un programma sociale e economico assai radicale e al tempo stesso di buon senso che coincide con le proposte dei movimenti sociali e della sinistra europea che si è opposta alla distruzione dello stato sociale e dei diritti delle classi lavoratrici. Certo, quelli che votano per la guerra sono gli stessi che hanno votato per tagliare sanità e welfare. E con la guerra e il patto di stabilità si suona il de profundis del modello sociale europeo. Noi proponiamo una piattaforma sociale che è alternativa all’agenda condivisa da destre e governance europea. Bisogna cestinare Patto di stabilità e trattati, la Bce deve finanziare un intervento pubblico e welfare non le banche, bisogna cancellare i 2500 miliardi di debito degli Stati. Invece di fare l’esercito europeo bisogna ricostruire l’Europa sociale e restituire diritti: salario minimo, scala mobile, riduzione a 32 ore dell’orario di lavoro, fine della precarietà, reddito di base, piani per i lavori di cura e la riconversione ecologica, la ricerca, l’istruzione, la cultura.

Nonostante gli spazi che ha avuto, anche per la sua storia, Michele Santoro, sembra che i media mainstream mettano in continuazione la sordina alla lista presentata. Si vuole far passare, attraverso sondaggi poco affidabili quanto attraverso una scarsa volontà di portare il tema della guerra come centrale, questa lista come inutile. Cosa ne pensa?

Di voti utili sono lastricate le vie dell’inferno. Grazie al voto utile siamo l’unico Paese in Europa dove i salari sono diminuiti negli ultimi 30 anni, una legge elettorale che ha consegnato il governo alla destra, portando i neofascisti a divenire il primo partito, la sanità al collasso, l’autonomia differenziata e l’Italia in guerra. Ora dobbiamo fare un referendum con la Cgil per abolire le leggi come il jobs act che sono state approvate grazie al voto utile. In Italia c’è un regime informativo che marginalizza le voci critiche al di fuori dei poli. Va ringraziato Michele Santoro per aver messo la sua visibilità mediatica al servizio della pace. La presenza di Michele in alcuni talk ha bucato e imposto con efficacia una narrazione diversa da quella dominante. Però va denunciato che siamo stati cancellati da Tg e gr che sono la principale fonte di informazione per milioni di italiani e che c’è stato un forte impegno dei media guerrafondai e filoisraeliani nell’oscurarci dopo averci inizialmente denigrato. Repubblica di Molinari è stata indecente. C’è stato un uso manipolatorio dei sondaggi che solo Report ha evidenziato. Nonostante l’oscuramento abbiamo comunque imposto il tema della guerra nella campagna elettorale. Sono diventati tutti per la pace, ovviamente a chiacchiere. Persino Crosetto.

In conclusione, ci prova a fornire ad elettrici ed elettori, una motivazione forte per votare Pace Terra Dignità, magari prendendo spunto dal suo bagaglio di cultura musicale e pop, con un verso che ritiene adeguato?

Joe Strummer, fondatore dei Clash, pianse quando durante la guerra del Golfo vide in Tv i militari americani che scrivevano “Rock the casbah” sulle bombe pronte a essere gettate sulle città dell’Iraq. Una canzone polemica verso i divieti islamisti veniva usata per la guerra tra l’altro contro un regime autoritario ma laico. L’imperialismo occidentale strumentalizza chi lo ha sempre contestato per legittimare le sue guerre. Ora la Nato usa i nostri valori per legittimare la guerra con la Russia, la Cina, il resto del mondo e persino il genocidio a Gaza. Ribelliamoci alla menzogna che la guerra sia per la democrazia, il femminismo, i diritti lgbtqi+. La guerra è la negazione di tutto ciò per cui lottiamo.

Illustrazione di Valentina Stecchi

L’ultimo discorso di Berlinguer, quarant’anni fa

È il 7 giugno 1984, Padova. Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano sta pronunciando davanti ad una grande folla il suo discorso nella campagna per le elezioni europee. Mentre parla dal palco viene colto da un malore, riesce a finire il suo comizio ma poche ore dopo entra in coma. Morirà l’11 giugno 1984. A quarant’anni dalla sua morte a Campi Bisenzio (Firenze), dal 21 giugno (inaugurazione ore 21.30) al 7 luglio presso il circolo Arci Rinascita è allestita la mostra “Il mondo di Berlinguer”, a cura di Adriano Chini. (Info: [email protected]). Durante i giorni della mostra, incontri e presentazioni di libri. Tra gli ospiti, la saggista e giornalista Stefania Limiti e la ex parlamentare Lalla Trupia e molti altri. Il testo che segue è l’ultimo discorso di Berlinguer (Da Collettiva)

Ancora una volta si è dimostrato che non è possibile in Italia salvaguardare le istituzioni democratiche se si escludono i comunisti. E questo non perché esista il cosiddetto potere di veto, di cui va cianciando qualcuno, del Partito Comunista verso i governi e verso i provvedimenti che non gli sono graditi, ma per una ragione più profonda: perché il Partito Comunista ha assunto e difeso una funzione di garante democratico. Chi voglia escludere il Partito Comunista, chi voglia governare contro questo partito, che rappresenta da solo un terzo dell’elettorato ma anche la parte maggiore della popolazione attiva, lavoratrice, impegnata, giovane porta i risultati di dissesto e di caos che in queste ore sono sotto gli occhi di tutti. E questo è il motivo principale per cui noi riteniamo di poter chiedere, con tranquilla coscienza, il voto anche ai militanti ed elettori del Partito Socialista, anche ai cattolici democratici, a una parte grande degli stessi democristiani; a quanti sentono che siamo arrivati a un momento in cui tornano in gioco le questioni essenziali della libertà e della democrazia. I comunisti hanno dimostrato anche negli ultimi mesi di sapersi battere per garantire le libertà e i diritti democratici non solo per se stessi in quanto opposizione ma per tutti, anche per chi non è comunista, anche per chi è avversario dei comunisti!
Vorrei congedarmi da voi, cittadini di Padova, con qualche parola su di voi e sulla vostra città. Negli anni scorsi si è molto parlato di Padova in Italia per le tormentate vicende che essa ha vissuto in conseguenza della concentrazione di forze terroristiche che qui si è formata e per la lotta ampia e tenace contro di esse condotta dalle forze vive della città. In questa lotta decisiva è stata l’alleanza tra i lavoratori e le forze della cultura e dell’Università; decisivo è stato il ruolo che hanno svolto i comunisti padovani. Proprio quella grande lotta democratica contro l’eversione ha rivelato a Padova la presenza di grandi energie, dinamiche, progressiste, sia in campo laico che in campo cattolico. In primo luogo quelle da tradizione universitaria, laica e della libera ricerca, espressione nei secoli di un pensiero che non si piega ai dogmatismi e ai fanatismi. Qui a Padova, nello studio che fu di Galileo e di altri grandi pensatori, vi è una delle radici culturali che da ragione della vigorosa azione svolta dalla intellettualità e dell’Università nell’antifascismo e nella guerra di Liberazione nazionale. I nomi dei comunisti Eugenio Curiel e Concetto Marchesi, insieme a quelli di Silvio Trentin e di Egidio Meneghetti, ne sono emblematica testimonianza. E c’è la Padova dei giovani: nella vostra città ci sono cinquantamila studenti universitari e decine di migliaia di studenti medi che si trovano spesso ad affrontare gravi e pesanti problemi: quelli di servizi, della qualità dello studio, del funzionamento delle strutture scolastiche, della vita culturale e associativa, della liberazione dalla tossicodipendenza: problemi che sono ben lungi dall’essere risolti. E invece, nel mondo giovanile vi sono immense energie e potenzialità; in esso è più che mai viva l’esigenza di prospettive, di cambiamenti, di un futuro per il quale valga la pena di lavorare, di studiare, di lottare.
Le vecchie forze del tradizionale notabilato democristiano non sono più capaci di offrire punti di riferimento, né di suscitare energie, ripiegate come sono su se stesse, in particolare dopo la sconfitta subita nel giugno dell’anno scorso dalla Democrazia Cristiana. Nel mondo cattolico si sviluppano, però, e si esprimono sensitività e iniziative (si pensi al movimento, unico nel suo genere, delle Pastorali del Lavoro o i gruppi che operano per la pace) che si manifestano come popolo autonomo rispetto alla vecchia area democristiana; ebbene, a tutte queste forze della cultura, della scienza, del lavoro, del mondo giovanile, a quelle più vive e aperte della realtà cattolica, i comunisti indicano una prospettiva di pace, in Europa e nel mondo, di risanamento e di trasformazione del nostro Paese, di rinnovamento della politica e dell’organizzazione della società, in una salda garanzia di democrazia e di libertà.
Votando Partito Comunista Italiano si contribuisce a portare in Europa un’Italia diversa da quella a cui l’hanno ridotta i partiti che l’hanno governata finora e che la governano tuttora; si contribuisce a portare in Europa non l’Italia della P2 ma l’Italia pulita, democratica, l’Italia dei lavoratori che hanno detto e dicono no al “Decreto sulla Scala Mobile”, l’Italia della grande manifestazione del 24 marzo a Roma, l’Italia delle forze sane della produzione, della tecnica, della cultura, l’Italia delle donne che vogliono cambiare la società non solo per acquisire una parità di diritti effettiva dell’accesso al lavoro, alle professioni, alle carriere, ma per fare parte della società con le doti generali di cui esse sono le peculiari portatrici dopo secoli di oppressione e di emarginazione.
E ora compagne e compagni, vi invito a impegnarvi tutti, in questi pochi giorni che ci separano dal voto, con lo slancio che sempre i comunisti hanno dimostrato nei momenti cruciali della vita politica. Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini, con la fiducia per le battaglie che abbiamo fatto, per le proposte che presentiamo, per quello che siamo stati e siamo, è possibile conquistare nuovi e più vasti consensi alle nostre liste, alla nostra causa, che è la causa della pace, della libertà, del lavoro, del progresso della nostra civiltà!

Quando un festival fa davvero cultura

Non c’è oggi parola più inflazionata di “creatività”. Un decreto del 2017 impone allo Stato di sostenerla. Tutti hanno l’ obbligo di essere “creativi” per giustificare la propria esistenza!Siamo sicuri che si tratti di un concetto “sano”? Prima di rispondere alla domanda vorrei fare un passo indietro.
Ascoltare Vivaldi in una reggia seicentesca – che ha il parco pubblico più bello d’Italia – è come ritrovarsi dentro l’incanto di un secolo passato, in una cornice storico-fiabesca che modifica l’ascolto stesso della musica. Questa è l’esperienza che si prova andando al Late Spring Musica Festival (30 maggio-2 giugno, direzione artistica di Claudio Pasceri) nella Reggia di Venaria Reale (residenza sabauda a un quarto d’ora da Torino), quest’anno alla seconda edizione. Una manifestazione essenzialmente musicale, che offre concerti di musica classica e contemporanea, lezioni sugli strumenti per i bambini, conferenze, installazioni nel parco, aprendosi però a linguaggio diversi: cinema, fotografia, letteratura, arti visive….
A Venaria ho discusso di creatività con il direttore del Lucerne Festival Contemporary Felix Heri. Anzitutto: la democrazia non può garantire il diritto alla creatività. Deve garantire il diritto all’istruzione, alla assistenza sanitaria, aggiungo al lavoro, a un reddito di cittadinanza, ma nessun Welfare potrà mai assicurare il diritto alla creatività. Certo la repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il “pieno sviluppo della persona umana”(articolo 3 della Costituzione). Però questo “pieno sviluppo” non significa che saremo tutti poeti, come auspicava il poeta surrealista Paul Eluard. Non può esserci una Creatività Minima Garantita come, poniamo, un Salario Minimo Garantito.
Qual è il principale equivoco legato al concetto di creatività? All’interno della economia della conoscenza risulta piuttosto estesa la classe dei “creativi”. Una sterminata classe media che comprende scienziati, informatici, medici, architetti e poi addetti alla comunicazione, redattori, blogger, insegnanti…Per un medico essere “creativo” significa curare al meglio i suoi pazienti. E invece oggi un medico smania di pubblicare un romanzo, come peraltro tanti magistrati, leader politici, conduttori televisivi…! Si moltiplicano le scuole di scrittura creativa ma nessun docente dirà mai a un iscritto che non ha talento letterario! Eppure l’antica università di Salamanca recava scritto, con realismo brutale, sopra il portone d’ingresso “Quello che la natura non ti ha dato non te lo può dare Salamanca”. Bisogna saper riconoscere sia i propri talenti che i propri limiti! Spostiamoci sui festival: sono 400 all’anno in Italia. Tuttavia siamo il Paese che legge meno in Europa. Ha vinto non tanto la cultura quanto i consumi culturali. Nella maggior parte degli eventi la cultura è intrattenimento, chiacchera e passerella. Secondo John Dewey la creatività coincide con la divergenza, con il non adeguarsi a standard di comportamenti e idee. Dunque si può e si deve educare alla creatività. Ma questa può esprimersi in tanti modi. Borges ha detto di essere orgoglioso non dei libri che aveva scritto ma di quelli che aveva letto! La lettura è un esempio di passività altamente creativa. Le scuole di scrittura dovrebbero preparare soprattutto lettori migliori. Ma nessuno spende 15.000 euro per diventare un lettore migliore. Tutti aspirano al quarto d’ora di celebrità, a una creatività intrecciata con il successo: non può esserci un “lettore di successo”!
In che modo può avvenire un rilancio della creatività? Migliorando scuola e università, rendendo gratuiti i musei, etc, ma anche opponendosi a una idea di creatività inquinata dalla cultura del narcisismo. Il pieno sviluppo della persona non reclama l’editoria a pagamento! E anzi: seguendo Dewey qualsiasi gesto non conformista va considerato “creativo”. Nel Late Spring Musica Festival – rara eccezione – l’attenzione capillare alla didattica, il valore dell’interazione, l’approccio interdisciplinare, il formarsi di una grande “famiglia” tra gli artisti partecipanti, si coltiva una idea di creatività divergente.

Hamdi, deportato da copertina

Tre settimane fa Hamdi, tunisino di 21 anni, era sulle pagine patinate di Io donna del Corriere della Sera. “Parlata romana, sorriso incontenibile e un viaggio incredibile alle spalle. Hamdi ha 21 anni, viene dalla Tunisia e attraverso mille peripezie, letteralmente, è arrivato alla scuola di Fondazione Barilla Saranno cuochi”. Inizia così l’articolo di Erika Riggi che racconta del suo viaggio in barcone da Tunisi, della sua speranza di approdare a una vita migliore, prima che in uno Stato. Tre settimane fa Hamdi era tra i venti ragazzi, provenienti da situazioni socioeconomiche svantaggiate, selezionati da Croce Rossa e Comunità di Sant’Egidio per essere avviati al percorso di formazione di Fondazione Barilla e diventare cuochi. 

Oggi Hamdi è rinchiuso in un Cpr, uno di quei buchi neri illegali e disumani, a Potenza, lontano dalla rete sociale che si è costruito in questi anni. Lo fa sapere Baobab Experience, associazione dedita alla compassione in un’epoca di empietà, che spiega come Hamdi da due anni è in attesa di ricevere risposta alla sua domanda di conversione del permesso di soggiorno per attesa di occupazione in permesso di soggiorno per lavoro subordinato. Sì, perché Hamdi ha un lavoro, lavora da anni, perfino con la maturità di evitare lo sfruttamento pretendendo un contratto regolare. 

Perché l’abbiano spedito a Potenza e non a Roma è difficile da capire. Oggi si tiene l’udienza di convalida e Hamdi – come tutti i rinchiusi nei Car – non ha potuto nemmeno parlare con un avvocato. 

La “pericolosità sociale” del ragazzo consiste nell’aver rubato un cappotto quando diciottenne la casa famiglia che lo ospitava l’ha buttato in mezzo a una strada in pieno inverno. La Questura l’ha deciso violando l’articolo 5 del Testo unico sull’immigrazione, omettendo di trasmettere gli atti alla Commissione territoriale. Hamdi è abbastanza italiano per lavorare e avere una rete sociale e finire sulle pagine di un settimanale ma è troppo poco italiano per i rapporti criminali tra l’Italia e la Tunisia di Kaïs Saïed. 

Buon venerdì. 

Foto da pagina fb Baobab Experience

Ambrosini: «La libertà di movimento dei migranti è un diritto e la soluzione»

Europa migranti

L’emigrazione è un fattore evolutivo fin dai tempi di Homo sapiens (come scrivono Pievani e Calzolaio in Libertà di migrare, Einaudi). Si migra non solo per bisogno, ma anche per desiderio di incontro, di conoscenza, per ricerca. Sono molteplici i motivi che spingono a emigrare. Ma la narrazione che se ne fa è sempre è solo come pericolo, problema sociale ecc. Con i suoi libri il sociologo Maurizio Ambrosini ha lavorato alla decostruzione di questi stereotipi. Siamo tornati ora a chiedergli di aiutarci a leggere il presente, mentre l’Europa e l’Italia governata dalle destre alzano nuovi muri ed esternalizzano le frontiere negando i diritti umani.
Nel libro Stato d’assedio, come la paura dei rifugiati ci sta rendendo peggiori (Egea) lei scrive che troppo spesso gli immigrati, quando non apertamente respinti, sono visti con la lente del pregiudizio e vittimizzati. In questo modo si nega la loro possibilità di iniziativa, la loro capacità di creare e realizzare progetti. Professor Ambrosini così si inchiodano le persone a una posizione passiva?
È ciò che accade con le attuali politiche di accoglienza dei rifugiati. Il collo di bottiglia attraverso cui passa l’accoglienza è la vittimizzazione, portata alle estreme conseguenze. Pensiamo per esempio agli accordi di Dublino che obbligano i migranti a rimanere nel primo Paese di arrivo: si nega alle persone il potere di scegliere, si nega che possano avere delle aspirazioni, contatti, conoscenze in altri Paesi. Perché contrastare la loro percezione giusta che ci siano luoghi dove potrebbero avere maggiori opportunità? La stessa redistribuzione in questo non convince come strategia. Che senso ha mandare in Romania dei rifugiati che arrivano dal Senegal e obbligarli a stare lì? Al primo momento utile cercheranno di andare in luoghi dove possono avere una vita migliore.
L’Europa, quando vuole, è capace anche di politiche più avanzate, come quelle attuate per i profughi ucraini?
A loro l’Europa ha dato la possibilità di muoversi liberamente con l’applicazione nel 2022 della direttiva del 2001che era sempre rimasta inapplicata. Ciò che notiamo è un doppio standard: 170mila ucraini sono stati giustamente accolti, i 100mila sbarcati dal sud del mondo nel 2022 e i 157mila nel 2023, non hanno avuto la stessa accoglienza.
Non è la prima volta che l’accoglienza o la chiusura dipendono dal luogo di provenienza e dalla cultura dei rifugiati. Dalla fine degli anni Sessanta a oggi come è cambiata questa variabile discriminatoria?
Alla fine degli anni Sessanta e inizio anni Settanta la politica europea di accoglienza dei rifugiati era basata su un’idea implicita (non la troveremo mai scritta) che il rifugiato appartenesse a élite di intellettuali, esponenti politici contro corrente, artisti. In una prima fase venivano ben accolti rifugiati che fuggivano dal regime sovietico o da Paesi alleati all’Urss, pensiamo al flusso che proveniva dall’Ungheria dopo l’invasione del ’56 e dalla Cecoslovacchia dopo il ’68. Tutto ciò aveva una utilità nella logica dei blocchi dell’epoca. Accogliere i rifugiati voleva dire fare una mossa anti comunista, lo si giustificava come politica di contenimento dell’espansione dell’Urss. Poi negli anni Novanta, con le guerre balcaniche (seppur con qualche mal di pancia) si sono fatte azioni importanti verso i profughi di guerra: erano europei e questo probabilmente ha aiutato. Non solo, molti erano di religione cristiana. Ci fu accoglienza in Italia, arrivarono 77mila persone. Austria e Germania ne accolsero quasi un milione. Più difficile e contrastata si è rivelata invece l’accoglienza di rifugiati dal terzo mondo, da Paesi in via di sviluppo: ecco che di nuovo c’è un sotto testo, ovvero che se i rifugiati di guerra vengono da Paesi poveri del sud del mondo sono un carico sociale considerato difficilmente sostenibile.
L’antropologo della medicina, Didier Fassin, lei ci ricorda, ha detto che siamo passati dall’accoglienza dei profughi politici all’accoglienza della sofferenza, che è diventata l’unica motivazione per riuscire ad aprirsi. È ancora così?
In Francia c’è stata una linea umanitaria di accoglienza delle persone malate, fisicamente sofferenti. Il compromesso precario fra chiusura e apertura era stato trovato nell’accoglienza della sofferenza. Poi le cose sono ancora peggiorate: oggi non c’è più traccia nemmeno di questo. Hanno preso il sopravvento le politiche di chiusura dell’estrema destra.
La situazione peggiora ulteriormente con il Migration pact europeo 2024?
Con il nuovo patto sull’immigrazione e l’asilo le stesse forze politiche mainstream hanno sposato una politica di esternalizzazione delle frontiere e di riduzione degli ingressi, di diffidenza verso le persone che arrivano e chiedono asilo. Sempre più il discorso politico delle destre – e non solo – tende a negare e a criminalizzare un diritto costituzionale come il diritto d’asilo.
E questo come incide sull’opinione pubblica?
C’è un circuito che si rafforza fra percezione diffusa dei rifugiati come minaccia, come carico sociale e un discorso sociale che l’alimenta. Ma la realtà dei fatti ci dice che gli sbarchi si traducono solo in parte in richieste di asilo. Per altro le persone che sbarcano in Italia dal mare cercano di attraversare le Alpi e passare dall’altra parte. E torniamo alla questione della libertà di movimento. Paradossalmente su questo tema dovrebbe insistere maggiormente il governo Meloni se volesse ottenere i suoi scopi.
La presidente Meloni dice che non esiste un diritto a migrare, che ne pensa?
È una affermazione impegnativa. Non mi stupisco, però, che nessuno gliela abbia contestata seriamente. Il diritto a lasciare il proprio Paese è iscritto nella carta dei diritti umani universali. Il problema è che né quella carta né altri documenti stabiliscono un corrispettivo dovere di accoglienza. Quindi rimane un diritto fragile, incompiuto, anche questo spiegabile probabilmente con la guerra fredda. Perché c’era il diritto ad emigrare? Perché c’erano i Paesi del blocco sovietico che impedivano di andar via, che alzavano i muri. E l’Occidente si faceva un vanto della libertà di circolazione. Adesso le cose non stanno più così. C’è un muro ai confini fra Bulgaria e Turchia che era stato eretto ai tempi del regime filo sovietico per impedire l’uscita, ora l’hanno ricostruito per impedire gli ingressi.
La politica del governo Meloni verso i migranti è certamente di esclusione ma anche, lei dice, attraversata da numerose contraddizioni, ci spiega meglio?
La politica di esclusione di questo governo verso i rifugiati è accompagnata (anche se in modo precario), dall’apertura verso la manodopera. Il decreto flussi prevede 450mila nuovi ingressi in tre anni. Sono riusciti per ora a mascherare la contraddizione. Ma prima o poi questo fatto emergerà perché porterà a un significativo aumento della popolazione immigrata, ci saranno anche ricongiungimenti familiari.
Le politiche sempre più securitarie e di esternalizzazione dei confini che innervano il patto con la Tunisia, il decreto Cutro, la costruzione di Cpr in Albania cosa producono?
Come accennavo, il governo Meloni approfitta dell’impreparazione di gran parte dell’opinione pubblica e dei commentatori che non colgono contraddizioni evidenti. Molte persone con cui parlo neanche sanno del decreto sui 450mila nuovi ingressi e non collegano il tema dell’accoglienza dei rifugiati del Sud del mondo con il tema dell’accoglienza dei rifugiati ucraini. Meloni finora è riuscita piuttosto bene a nascondere le faglie, almeno sul piano comunicativo. Ed è un fatto importante per il governo, perché quello dell’immigrazione è un dossier su cui, mostrando i muscoli, riesce ad affermare una linea identitaria.
Non così su altri dossier?
Con tutta evidenza il governo Meloni ha contraddetto le sue promesse elettorali su tanti fronti: si è piegato alla linea della Ue e delle istituzioni internazionali comprese quelle economiche, con la sola eccezione del no al Mes. Abbiamo un governo che parla di rigore di bilancio, parla di adesione alle linee europee riguardo al Pnrr contrariamente a quanto aveva affermato in campagna elettorale. Su quei dossier il governo si è allineato, ricevendo i complimenti di Biden anche riguardo all’Ucraina.
Ma il governo Meloni ha introdotto nuovi reati, ha aumentato pene, mostrando un profilo autoritario anche nella repressione delle manifestazioni dei giovani…
Indubbiamente. Ma il principale dossier su cui il governo Meloni dispiega la sua logica identitaria è l’asilo. Se facessimo una cernita degli articoli, delle dichiarazioni appare evidente l’importanza che il governo vi attribuisce. Lo dimostrano la ricezione e la risonanza che hanno avuto mosse come il decreto Cutro uno e due o il piano Mattei, perché anche chi le critica implicitamente ne riconosce l’importanza.
Quanto agli effetti e all’efficacia dei decreti Cutro e del piano Mattei?
Alcune di queste misure sono alquanto retoriche e avranno poca rilevanza pratica (per esempio il piano Mattei). Anche l’accordo con l’Albania alla fine è un manifesto di comunicazione politica perché i numeri sono modesti. Altri provvedimenti invece avranno una incidenza pratica. Non ho ancora visto dei dati ma la quasi abolizione della protezione speciale disposta dal decreto Cutro inciderà sull’accoglienza delle domande di asilo e produrrà degli sbandati. In questo modo la gente che aveva trovato un lavoro, che cercava di integrarsi viene buttata in mezzo alla strada. Poi, certo, siamo in Italia…
Che intende dire professore?
Che può essere che alcuni di loro possano rientrare nella legalità attraverso i decreti flussi, se hanno la fortuna di passare attraverso il clickday, se i datori di lavoro riusciranno a tentare questa carta per farli rientrare. I decreti flussi sono serviti finora a regolarizzare lavoratori che erano già qui, attraverso quel contorto meccanismo di farli rientrare nel Paese d’origine e poi farli venire con i documenti in regola. Quindi una parte delle persone cacciate via potrebbero rientrare ma si gioca tutto sulla fortuna, sulla capacità dei datori di lavoro di fare la trafila. Tuttavia si tratta di numeri esigui. Il decreto Cutro produrrà un crescente numero di persone respinte, aumentando l’insicurezza delle città. Qualcuno dice che sia intenzionale, io non arriverei a tanto, ma l’effetto sarà quello lì: più mendicanti.
Un altro effetto negativo del decreto Cutro pesa sui minori non accompagnati?
Questo è l’altro aspetto grave. Diminuisce la protezione dei minori non accompagnati che, per esempio, potranno essere trattenuti in centri insieme agli adulti. Cosa che è vietatissima dalle convenzioni internazionali sulla protezione dei minori. Ma il governo tira dritto e non mi sembra ci sia una autorità in grado di fargli cambiare strada.
Il governo Meloni prevede di aprire un Cpr in ogni Regione. Era già un progetto di Minniti. Il libro inchiesta di Left Non Ci Potete Rinchiudere denuncia il loro mal funzionamento: trattenimenti ingiustificati, alto numero di suicidi, sedativi e psicofarmaci somministrati impropriamente agli “ospiti”… Cosa possiamo dire?
Intanto comincerei col sottolineare che hanno fatto una grande confusione, perché una cosa sono i Cpr altro sono i centri di detenzione ai confini per chi arriva da Paesi considerati sicuri. Il governo pensa di trattenere lì le persone per poi espellerle. Mi sembra del tutto velleitario. Di nuovo è un proposito che ha molto a che fare con la comunicazione politica, poiché il tasso di espulsioni è notoriamente bassissimo: 4/5mila all’anno. Poi ci sono i Cpr di vecchio conio per immigrati che hanno ricevuto un decreto di espulsione e che vengono trattenuti per identificazione in vista di una loro futura espulsione. È un problema serio. E non riguarda solo questo governo, perché i Cpr sono stati introdotti dal primo governo Prodi come condizione posta dai partner della Ue per consentire l’ingresso dell’Italia negli accordi di Shengen. Questo governo ha allungato il tempo di permanenza portandolo a 18 mesi, come se queste persone accusate di illecito amministrativo avessero sulle spalle una condanna per un reato serio. Così vengono detenute in strutture che sono peggiori del carcere, perché non hanno servizi rieducativi, strutture sportive, progetti. È una forma di tortura nei fatti, per spingere il migrante detenuto ad arrendersi e ad accettare l’espulsione, ed è questo secondo me che va contestato.

Lasciateli in pace

Qualcosa di assolutamente nuovo sta accadendo. Sta crescendo un nuovo movimento di studenti e ed anche di docenti, con loro solidali, che propone un radicale cambio di prospettiva, rispetto all’ineluttabilità della guerra, che chiede a gran voce il cessate il fuoco a Gaza e uno stop alle ricerche universitarie a fini militari.
C’è una generazione di giovani e giovanissimi che si alza in piedi in difesa dei diritti umani e per la giustizia sociale. Non accadeva da molti anni. Quei giovani che durante la pandemia sono stati descritti come untori, menefreghisti, oppure – e al contempo – accusati di essersi chiusi in un solipsistico mondo web, oggi sono la parte della società più sensibile, più attiva e presente contro la guerra e l’inumana carneficina che si sta consumando in Palestina. Protetti da mascherine, per sfuggire alle schedature, ma anche indossandole simbolicamente per dire di sé, di una generazione cresciuta durante la crisi della pandemia, danno vita a pacifici accampamenti di protesta in Italia, negli Usa, come in tante università del Medio Oriente. Manifestano le proprie idee per costruire un mondo diverso, più giusto, per costruire orizzonti di pace. Lo fanno in maniera informata, nobile, disinteressata, pur sapendo di giocarsi il futuro. Nelle università Usa, perlopiù private, rischiano l’espulsione.
In Germania addirittura di essere denunciati e accusati di antisemitismo, per iniziativa dei cristiani della Cdu, mentre i neonazisti dell’Afd organizzano ronde anti manifestanti.
Peggior sorte ancora tocca ai loro colleghi che osano manifestare in Egitto, lì finiscono direttamente in carcere, dove non c’è stato di diritto, non c’è alcuna considerazione dei diritti umani. Se l’intellighenzia araba nei decenni passati era stata accolta in Paesi come la Germania, ora deve stare bene attenta a quel che dice e a non esporsi per la Palestina per evitare di essere espulsa. Il clima è pesantissimo. Anche intellettuali di chiara fama, dalla filosofa Nancy Fraser all’antropologo Ghassan Hagen, dopo essersi pronunciati per la pace in Palestina, si sono visti cancellare incarichi e contratti. Per non dire delle infamanti accuse di antisemitismo che sono fioccate sul movimento degli studenti, in Italia e in altri Paesi europei, inopinatamente, senza prove. È accaduto anche nei campus Usa dove ben il 30 per cento dei manifestanti che chiede il cessate il fuoco a Gaza è di origine ebraiche. Ma il potere delle lobbies che sovvenzionano le università private americane è molto forte, tanto quanto lo è stata la repressione. Fa ancor più male che avvenga in Paesi governati dal centrosinistra come la Germania guidata dal cancelliere Scholz. Ce l’aspettavamo nella Francia “liberale” guidata da Macron, che insegue la destra di Le Pen. Ce lo aspettavamo e lo abbiamo visto nell’Italia di Meloni, dove le manganellate contro i ragazzi che manifestano pacificamente sono all’ordine del giorno. Ma come raccontiamo in questa storia di copertina gli studenti non si fanno intimorire, non accettano questo mondo alla rovescia in cui chi ha il potere e censura il dissenso fa la vittima. E rilanciano la loro proposta democratica, e nonviolenta, per lottare contro la violenza di governo, palese o meno. Speriamo che dopo aver intrapreso questa loro coraggiosa iniziativa votino alle Europee per far contare la propria voce. Sappiamo che perlopiù non si sentono rappresentati dai partiti in corsa per le elezioni ma si sentono europei e sono cosmopoliti. Su questo numero di Left (e non solo su questo) diamo loro voce. Left sta decisamente dalla parte dei ragazzi. Anche con interventi di docenti e ricercatori che ne sostengono la battaglia e che intervengono nello sfoglio (da Caridi a Della Porta, da Tedesco a Pelletti).
Lo facciamo anche con un ampio dossier (con approfondimenti di Verducci, Cerchia, Alghemo e altri) dedicato al socialista e parlamentare Giacomo Matteotti, che il 10 giugno 1924 fu ucciso dai sicari di Mussolini. Non aveva ancora 40 anni. Accadeva esattamente 100 anni fa.
Fu una data spartiacque della nostra storia in cui la violenza criminale, strutturale (ed eversiva), del fascismo si palesò definitivamente. Crollò lo Stato liberale, sonnambulo e connivente. Il fascismo, da reazione violenta alle conquiste del movimento operaio, diventò potere totalitario.
Matteotti aveva già visto arrivare tutto questo in quel laboratorio politico che era stato il suo Polesine, terra di leghe contadine e rosse dove da politico socialista riformista (ma scevro da compromessi) aveva lavorato per l’emancipazione e il riscatto delle masse popolari. In Polesine già dal 1919 al 1921 si erano moltiplicate le aggressioni ai capi cooperativa e agli amministratori locali, come allo stesso Matteotti. Lui lo aveva denunciato pubblicamente in scritti che avevano avuto risonanza anche all’estero. E lo denunciò in Parlamento, affrontando a viso aperto Mussolini. E anche per l’eco internazionale che aveva avuto il suo j’accuse fu ucciso. Questi in estrema sintesi i fatti, a tutti noti. Da giornalista penso però che oggi vadano ripetuti ad ogni occasione visto il momento di strisciante revisionismo che stiamo vivendo, con una presidente del Consiglio e un presidente del Senato che non si professano antifascisti, benché abbiano giurato sulla Costituzione. Mentre la presidente dei Conservatori europei e presidente del Consiglio, nonché segretaria del partito che conserva la fiamma del Msi nel simbolo, continua a indicare il repubblichino e propalatore delle leggi razziali Almirante come padre nobile. Gli effetti li vediamo: in Italia il dissenso viene silenziato e criminalizzato. Dalla censura di Scurati alle querele temerarie contro docenti universitari, giornalisti e scrittori come Luciano Canfora e Tomaso Montanari. Ma non un dito viene alzato contro i tassisti – storico bacino di voti della destra estrema – che lanciano bombe carta e fumogeni nel centro di Roma per protestare contro il rischio che il loro monopolio venga intaccato.
E soprattutto avanzano provvedimenti dal segno autoritario come il premierato, che insieme all’autonomia differenziata, sovverte gli equilibri costituzionali, degradando la democrazia a capocrazia e cancellando i diritti universali sanciti dalla Carta. Con questo non sto dicendo che è tornato il fascismo di Mussolini. In quella forma fu sconfitto nel 1945 dai partigiani antifascisti, con un alto prezzo di sangue. Ma i segnali di allarme democratico non mancano. Urge una seria riflessione ed è quello che vi proponiamo. Discutiamone.

Quando una mostra si basa su una ricerca

Nella parte conclusiva del suo pionieristico scritto del 1959 su Mostre e musei Roberto Longhi contrappone alle già allora diffuse rassegne «basate su ideuzze pretestuali come “luce e ombra”, “fantastico”, “diabolico”» alle mostre che secondo lui meritano di essere fatte. Ossia le mostre monografiche sui grandi maestri, «le mostre “personali”, che si fanno una tantum, una volta per sempre» (su questa loro pretesa irripetibilità ci sarebbe da ridire…); e «le mostre di ricognizione regionale, che sono debito sacrosanto degli uffici di governo dell’arte e che possono così rivelare spesso opere sconosciute e quasi irraggiungibili le quali, nell’occasione, vengono medicate e sanate». Nel corso degli ultimi anni le mostre dedicate ai grandi artisti, per non parlare di quelle strutturate attorno a “ideuzze” un po’ bislacche, si sono moltiplicate e hanno occupato una porzione sempre più vasta dell’offerta espositiva.
Di rassegne “di ricognizione regionale” se ne fanno meno, ma per fortuna se ne fanno ancora, come prova la mostra Alessandria preziosa, a cura di Fulvio Cervini, in corso fino al 6 ottobre nella cittadina piemontese, in alcune sale di Palazzo Monferrato. Ponendosi in continuità con un’altra mostra importante, Alessandria scolpita, allestita nel 2018-2019 e dedicata alla scultura tra Gotico e Rinascimento, la mostra racconta un territorio e un’epoca, tirando fuori da sagrestie, conventi, piccole raccolte una serie di pezzi poco o per nulla noti, di notevole interesse e di grande bellezza; e spesso restaurandoli, in ossequio a quanto una buona rassegna “territoriale” deve fare, come già sottolineava Longhi. A partire dai pezzi la mostra imbastisce, in maniera lineare e perspicua, un racconto che è indirizzato, sì, all’appassionato, al viaggiatore che, grazie all’esposizione, ha l’opportunità di scoprire una città e un territorio che non sono certo tra i più gettonati dal turismo culturale; ma un racconto che in primo luogo si rivolge ai cittadini stessi di Alessandria e dintorni, che non conoscono la loro storia e si trincerano dietro uno sconsolato “Ad Alessandria non c’è niente”. Invece ad Alessandria, Casale, Tortona c’è molto, e la mostra vuole essere una porta di accesso al territorio, innanzitutto attraverso i pezzi stessi, che rimandano alle chiese e alle raccolte di provenienza, talvolta ubicate in paesini dai nomi inauditi, ma anche raccomandando ai visitatori di proseguire il loro percorso di conoscenza del Monferrato controriformato, mediante visite alle principali testimonianze artistiche di questo territorio.