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Annalisa Gadaleta, assessore di Molenbeek, racconta il suo Belgistan

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«Se io mi affaccio alla finestra vedo il deserto, non c’è nessuno per strada, è un’immagine surreale della città». Annalisa Gadaleta è assessore alla cultura e all’istruzione del comune di Molenbeek, un popoloso centro di 97mila abitanti a pochi chilometri da Bruxelles. È il luogo chiamato anche “Belgistan”, perché qui si è formato il gruppo jihadista che ha portato il terrore a Parigi nella notte del 13 novembre. E sempre qui, nei giorni successivi agli attentati, le forze dell’ordine belghe hanno messo a ferro e fuoco il quartiere alla ricerca dell’ultimo terrorista sopravvissuto, Salah Abdeslam e di complici e reclutatori jihadisti. «Ora siamo al livello 4 di emergenza, ma le scuole riaprono domani (oggi ndr)», dice come sollevata l’assessore. Nata a Bari, con studi compiuti in Italia, dal 1994 è in Belgio e adesso Annalisa ammette di sentirsi belga a tutti gli effetti: «Sono legata a questo Paese, anche per il ruolo che ricopro, anche se in Italia ho amici e parenti». Con lei, immigrata ed esponente di una istituzione che promuove la cultura, parliamo sia dell’emergenza ma anche degli strumenti per battere quel “radicalismo” che può sfociare nel terrorismo. È martedì 24 novembre, Annalisa l’abbiamo sentita al telefono tra una riunione e l’altra: si tratta di organizzare la riapertura delle scuole e degli asili. «E il livello 4 presuppone che ci sia la presenza della polizia. Abbiamo dovuto rinunciare al pre e dopo scuola, perché era difficile garantire la presenza delle forze dell’ordine dalle 7 di mattina alle 18 di sera», dice. Lunedì prossimo, 30 novembre, il livello 4 verrà rivalutato e forse tutto tornerà alla normalità. Ma intanto è importante che gli studenti possano tornare a scuola. «I bambini da sabato si trovano in un clima particolare, di paura. La scuola è un luogo dove invece stanno bene, si sentono al sicuro, quindi è importante che riaprano» continua l’assessore.

Annalisa, adesso il clima che si avverte tra la popolazione è ancora di paura?

La situazione è particolare, perché Molenbeek già nei giorni successivi agli attentati Parigi si sentiva coinvolta e questo aveva creato già un sentimento di paura nella popolazione. Poi è scattato il livello 4 e quindi la paura è diventata generalizzata. I bambini sono stati colpiti prima dagli attentati a Parigi, perché ormai attraverso i media tutti possono vedere quello che accade, poi sapere che erano implicate persone che vivevano qui, ha aumentato la paura. Infine lunedì sono cominciate le prime perquisizioni ed è stato uno choc. Adesso bisogna fare in modo che collettivamente si ritrovi il senso della vita normale, bisogna ritrovarsi nei luoghi collettivi, per questo è importante che le scuole riaprano.

 La cultura e l’istruzione quanto servono per superare conflitti e situazioni difficili come quelle di adesso?

I momenti culturali sono importanti perché offrono alla gente la possibilità di incontrarsi. La scuola poi è un luogo fondamentale di educazione alla democrazia. Quando viene a mancare la possibilità di riunirsi e di incontrarsi in effetti può accadere di cedere all’ideologia del radicalismo.

Molenbleek viene chiamato Belgistan. Perché si è arrivati a questo punto? Si può dire che la politica ha fallito?

 Va detto che il comune è in una situazione socio economica difficile. Ci sono alcuni quartieri in cui la disoccupazione è al 50 per cento con una densità di popolazione elevatissima per cui questo spiega un po’ perché si crea un terreno più fertile a certi processi. Poi c’è il fatto del ripiego identitario di una parte della popolazione. Nonostante una parte dell’immigrazione sia arrivata alla terza generazione non è ancora riuscita a impossessarsi degli strumenti necessari per partecipare all’attività democratica. E questo ha creato, se vuoi, un fondo piuttosto fertile per lo sviluppo del radicalismo. E poi c’è la questione della sicurezza. Tutti ci facciamo delle domande.

Cosa vi chiedete?

 Partendo dal fatto che questi sono dei veri network che si creano, ci chiediamo come mai i servizi di sicurezza non hanno visto il sorgere di queste reti e se le hanno viste perché non sono intervenuti prima. Peraltro bisogna fare un’analisi sul funzionamento delle istituzioni. Qui c’è qualcosa che va cambiato: abbiamo un sistema istituzionale molto complesso, è questo che ha reso difficile rendersi conto di queste cose e intervenire? È una domanda che ci porremo nelle settimane che vengono.

Quanto è avvenuto a Molenbeek potrebbe avvenire in altre periferie, anche italiane? Quali potrebbero essere gli antidoti?

 Per come conosco l’Italia, penso che gli antidoti migliori siano l’istruzione e la difesa dei valori democratici dando contemporaneamente alle persone gli strumenti per appropriarsene. I migranti che arrivano non sono nati e cresciuti in Paesi democratici, spesso fuggono da dittature e guerre. Immaginare che le persone quando arrivano si approprino subito della democrazia è un’illusione. Bisogna veramente fare un lavoro insieme a loro, a cominciare dall’apprendimento della lingua e della cultura democratica. E soprattutto valorizzando anche le loro comunità. Io da giorni sto dicendo che se noi vogliamo marginalizzare e sconfiggere il radicalismo lo dovremo fare insieme alla comunità musulmana, valorizzando i loro elementi positivi. Questo può essere interessante anche per l’Italia. Non si deve dare un’immagine negativa della comunità musulmana e anzi bisogna capire che la comunità musulmana invece ha delle forze e ricchezze intellettuali importanti per uscire da questa situazione.

Ci sono state reazioni della comunità musulmana a Molenbeek?

 Incomincia pian piano a organizzarsi. Qualcosa si sapeva in precedenza anche di questi reclutatori attivi nelle strade che si cercano delle vittime in ragazzi che hanno difficoltà di diverso tipo. Ma mentre prima le persone erano prudenti, adesso capiscono che è necessario segnalare situazioni di questo tipo alle forze dell’ordine. È una presa di coscienza del fatto che questi elementi nuocciono non solo alla comunità ma a tutto il Paese. La sfida per noi, per i poteri locali, è riuscire a trovare dei modi di espressione di questo sentimento anche a livello concreto.

Avete in mente progetti da realizzare insieme alla comunità musulmana?

 Già da tre anni la nuova giunta ci sta lavorando. Faccio un esempio. La comunità musulmana si identifica molto con quanto accade in Medio Oriente, soprattutto in Palestina. Ci sono stati dei giovani che hanno costituito un gruppo per raccogliere fondi: il Comune gli ha teso una mano, ha trovato una sala, siamo andati là per far capire che i giovani che vogliono esprimere solidarietà con altre parti del mondo possono farlo in maniera diversa rispetto alle forme di radicalismo. Abbiamo creato inoltre un consiglio consultivo dei giovani che viene eletto democraticamente da tutti i giovani tra i 16 e i 25 anni. Nei prossimi giorni incontrerò delle donne musulmane per capire quali iniziative concrete abbiano intenzione di fare e vedere come possiamo sostenerle. La parola chiave, che penso possa valere anche per l’Italia, è emporwement. Il nostro ruolo è anche aiutare le persone a riflettere. Piano piano dobbiamo fare un’analisi su quanto non abbiamo visto e che cosa possiamo fare. Sarà il lavoro che ci aspetta nei prossimi tempi. Abbiamo tanto da fare, ma per il momento siamo nell’urgenza. Siamo ancora a livello 4 e dobbiamo pensare alla gestione quotidiana.

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Il modello “Tunisia” fa paura ai fautori del Jihad globale di isis

A man walks past the bus that exploded Tuesday in Tunis, Wednesday Nov.25, 2015. Tunisia's president declared a 30-day state of emergency across the country and imposed an overnight curfew for the capital Tuesday after an explosion struck a bus carrying members of the presidential guard, killing at least 12 people and wounding 20 others. (AP Photo)

Quei morti fanno meno notizia, creano meno sconforto nell’eurocentrismo del dolore, ma al di là dell’aspetto umano, quei morti danno conto di una verità che fa fatica a farsi strada in un Vecchio Continente che s’illude di ritrovare la propria sicurezza portando la guerra in un Medio Oriente in fiamme. La verità  che emerge dall’attentato di ieri a Tunisi contro un bus che trasportava guardie presidenziali (14 morti, 11 feriti) è che lo jihadismo targato Isis o al Qaeda ha anzitutto nel mirino quei Paesi islamici di frontiera, che hanno scommesso sulla possibilità di tenere insieme tradizione e modernità, attraverso un processo di secolarizzazione che s’invera in istituzioni plurali.

È il modello tunisino, quello che più fa paura ai fautori del Jihad globale, il corrispettivo islamista dei neocon americani che “armarono” ideologicamente le guerre in Iraq della dinastia Bush, imbracciando la teoria huntingtoniana dello “Scontro di civiltà”. La Tunisia va colpita, nell’ottica del “califfato”, perché ha rappresentato lo sviluppo, l’unico in attivo, di quelle istanze di libertà che furono a fondamento di quella “Primavera araba” che non a caso ebbe inizio proprio in Tunisia con la “rivoluzione dei gelsomini”. La Tunisia come laboratorio politico-culturale per l’intero Maghreb e il Vicino Oriente fa molto più paura, ai signori della guerra jihadista, dei missili russi o delle bombe francesi.

Per questo la Tunisia va messa in ginocchio, con l’arma del terrore, puntando anzitutto a colpire una delle fonti principali dell’economia del Paese nordafricano: il turismo. Ma ciò che più temono, i jihadisti, è una società plurale che si realizza nella normalità. La riposta del presidente Beji Caid Essebsi all’attentato di Tunisi  è il ripristino dello stato di emergenza per 30 giorni e il coprifuoco a partire dalle 21 alle 5 del mattino. Una scelta obbligata ma che se estesa nel tempo, favorirebbe i disegni dei jihadisti. Gli uomini dell’Isis sono già presenti nel Paese attraverso cellule dormienti capaci del peggio, avverte il ministro degli Esteri e la Tunisia ripiomba così nel terrore dopo le stragi jihadiste al Museo del Bardo e nel resort di Sousse: «Quello che sta accadendo in tutti i Paesi è più che doloroso, è devastante – dice Lajmi Saida, una residente di Tunisi  ai microfoni della Tv di Stato – Dobbiamo rimanere e aiutarci a vicenda. Tutti i Paesi devono essere veramente uniti per combattere contro il terrorismo».

Che la Tunisia faccia paura a coloro che predicano e praticano il Jihad globale,  è evidente nel lungo elenco degli attentati che hanno segnato il 2015 per. A marzo un commando terrorista ha assaltato il museo nazionale del Bardo, nella capitale, uccidendo 24 persone, tra cui 21 turisti (4 italiani) e ferendone altre 45. A giugno, tre uomini armati sono sbarcati sulla spiaggia di un resort turistico a Sousse, massacrando 39 persone e ferendone altre 38. In entrambi i casi, è arrivata la rivendicazione dell’Isis.

Ma quella tunisina è una democrazia giovane, non ancora consolidata pienamente. Ed è terra di contraddizioni: la libertà, certamente, è la cifra principale del suo presente, ma la Tunisia che prima del Bardo era considerato l’unica oasi di sicurezza nell’area, oggi è considerato il principale esportatore di jihadisti: almeno tremila tunisini sarebbero andati a combattere per l’Isis in Siria e Iraq.  Gli emissari del “Califfo” Abu Bakr a-Baghdadi pescano nelle sacche di emarginazione, soprattutto giovanile, presenti nel Paese, così come in una ricerca estrema di identità a cui Isis offre non solo una “missione superiore” in cui inverarsi, ma anche uno Stato su cui realizzare la visione jihadista. Difendere oggi la rivoluzione tunisina significa più cooperazione, riconoscimento, non solo come è avvenuto con l’assegnazione del Nobel per la pace 2015, dell’importanza della società civile e delle sue istanze organizzate nella formazione di una coscienza democratica. Significa più cultura e meno armi. L’esatto opposto di quello che l’Occidente sta facendo in quel campo di battaglia chiamato Medio Oriente.

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Trovi un’intervista al Quartetto tunisino per il dialogo sul numero Left in edicola dal 21 novembre

 

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Rifugiati, anche ad Anna Frank venne rifiutato il visto negli Usa

Il dibattito sui rifugiati negli Stati Uniti prosegue con toni esagerati e folli: il discorso di fondo è sono pericolosi non li vogliamo. Nei giorni scorso sono stati ripubblicati i sondaggi degli anni’30 in cui si mostrava come la popolazione americana fosse contraria all’idea di accogliere gli ebrei. Negli anni della shoah le regole per ottenere asilo vennero infatti complicate. Come allora, c’erano sospetti nei confronti dei nuovi arrivati.

Tra i tanti che cercarono di partire per gli Stati Uniti c’era il signor Otto Frank, la cui vicenda è famosa da decenni nel mondo per via della figlia Anna, che assieme alla moglie Edith e alla sorella Margot visse due anni nascosta in un appartamento di Amsterdam, dove la famiglia era fuggita nel 1933 quando i nazisti presero il potere in Germania. Prima di venire tradita e finire i suoi giorni a 15 anni nel campo di concentramento di Bergen Belsen

 

Mandatory Credit: Photo by Universal History Archive/Universal Images Group/Rex/REX USA (1532967a) Anne Frank's (1929-1945) world famous diary charts two years of her life from 1942 to 1944, when her family were hiding in Amsterdam from German Nazis. The diary begins just before the family retreated into their 'Secret Annexe'. History
Universal History Archive/Universal Images Group/Rex/REX USA (1532967a)

Come ricorda il Washington Post lo storico Richard Breitman ha pubblicato nel 2007 i documenti che mostrano come alla famiglia Frank venisse rifiutato il visto d’ingresso. «Gli sforzi di Otto Frank per ottenerne uno per la sua famiglia si scontrarono con le politiche restrittive volte a proteggere la sicurezza nazionale e la protezione per evitare un afflusso di stranieri durante tempo di guerra», ha scritto Breitman, che ha anche detto in un’intervista alla NPR, la radio pubblica Usa, che oggi Anna Frank potrebbe essere una anziana signora che vive a Boston.

Il New York Times ripercorre la storia segnalando gli scambi di lettere, l’angoscia del signor Frank e il tentativo di coinvolgere suoi conoscenti americani affinché garantissero per loro, anticipassero i 5mila dollari necessari. Tra le persone contattate anche figure influenti come il signor Straus, parente del padrone di Macy’s, il grande magazzino di New York (qui sotto la foto della lettera)direttore della Federal Housing Authority e anche amico di Eleonore Roosevelt.

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Specie dopo la presa della Francia gli americani chiusero le maglie per paura di spie e, nota ancora Breitman come dai documenti traspaia anche la confusione che regnava nella burocrazia americana, con agenzia diverse e uffici diversi che rispettavano criteri diversi.

La storia si ripete: oggi sono i siriani che devono affrontare le stesse difficoltà. Con la differenza che, nonostante quel che dicono i repubblicani per fare propaganda, il percorso per ottenere il visto è chiaro e molto sicuro.

Parigi, perché il Patriot Act di Hollande è pericoloso per l’Europa

Ci si ricorda del Patriot Act e di quanto ne discutemmo dopo l’11 settembre 2001? L’orribile amministrazione Bush, quella che poi scoprimmo aver autorizzato le torture, invaso l’Iraq con un pretesto e costruito un castello ideologico di cui l’America e il mondo ancora pagano le conseguenze, fece approvare delle riforme che ferivano, si disse allora, le fondamenta democratiche del Paese. Dopo l’Act, le guerre (e poi la scoperta della sorveglianza della NSA, autorizzata in quella legge), si è a lungo ragionato sui poteri speciali e le risposte emergenziali. Molto di più e più a lungo di quanto stia succedendo oggi in Francia e in Europa di fronte alla voglia del presidente francese Hollande di imitare Bush in tutto e per tutto.

Andiamo con ordine. Julien Dray, figura di spicco del partito socialista ha detto in un’intervista radio che occorrerebbe che le prediche degli imam nelle moschee venissero fatte in francese. «E’ in quelle che c’è il messaggio violento, che le preghiere siano in arabo è normale, ma il resto dovrebbe essere in francese». Non è un’idea nuova nota Le Monde: lo ha detto anche Marine Le Pen e lo avevano detto ministri dell’UMP di Sarkozy (oggi i Republicains): «Il francese dovrebbe essere la lingua delle moschee» aveva detto il ministro dei Trasporti Thierry Mariani. Qualcuno gli aveva spiegato che proibire a qualcuno di parlare nella lingua in cui vuole è incostituzionale.

 

Lo stato d’emergenza, in una Francia che vede Marine Le Pen viaggiare su percentuali intorno al 30% e sotto choc per gli attentati, non sembra preoccupare troppo i cittadini della Repubblica. Ma sta producendo numerosi episodi di maltrattamenti ed esagerazioni da parte della polizia francese, che vede in ogni persona con la barba, la pelle scura, un potenziale terrorista. Grazie allo stato d’emergenza si usando mezzi spicci per effettuare perquisizioni, fermare, arrestare. Mai usato dopo il 1955 e la guerra d’Algeria – ovvero in un periodo che evoca pessimi ricordi alla popolazione di ascendenza maghrebina e orribili violazioni dei diritti umani in risposta a una guerra anti-coloniale – lo stato d’emergenza consente perquisizioni senza mandato, arresti domiciliari o in carcere per chiunque sia sospettato di rappresentare una seria minaccia, di sciogliere assemblee e vietare riunioni considerate pericolose. Il dopo Charlie Hebdo aveva già aumentato i poteri di sorveglianza elettronica delle polizie e dei servizi segreti. Tutto senza intervento preventivo del potere giudiziario. In pochi giorni sono state condotte quasi 1100 perqusizioni, 139 fermi e comminati più di 200 arresti domiciliari. Human Rights Watch e Amnesty International hanno espresso forti preoccupazioni, dicendo che le misure rischiano di portare a discriminazioni nei confronti di alcuni gruppi e di incrinare lo stato di diritto.

Per farsi un quadro di cosa la reazione securitaria di Holland stia producendo nel Paese, ecco qualche episodio messo in fila:

Una bambina di sei anni è stata ferita al collo da schegge della porta di casa quando alle 4 e trenta del mattino le forze speciali hanno fatto irruzione nella sua casa a Nizza. Risultato della perquisizione? Nessuno: i poliziotti dovevano irrompere nella casa del vicino, non in quella della bambina, che nel frattempo ha assistito al placcaggio del padre.

Un anziano di 67 anni è stato gettato a terra dopo aver accompagnato sua figlia in prefettura per il rinnovo dei documenti. L’anziano ha passato la notte in cella e la sua casa è stata perquisita. Come mai? Al mattino aveva accompagnato la figlia in prefettura e un auto guidata da marocchini ferma davanti a un edificio pubblico è sospetta. In casa, naturalmente, non è stato trovato nulla. Destino simile è capitato a una ragazza di un paesino del Nord: irruzione a notte fonda, madre ammanettata e nessun riscontro alla fine della perquisizione.

Ibrahim Mallouf, il trombettista ritratto nel tweet qui sotto mentre si esibisce su Canal+ dopo gli attentati, è stato fatto scendere dal treno a Parigi e poi fermato di nuovo dalla polizia di frontiera. Così come un giovane, arrestato sul treno ad alta velocità mentre viaggiava e guardava un film. Aveva la barba.

Diverse moschee sono state perquisite in malo modo. A Lille è stata vietata una manifestazione pro-rifugiati e immigrati. Così come è stata cancellata la Marcia mondiale per il clima in occasione dell’inaugurazione del vertice mondiale nella capitale francese. E qui è la è stato imposto il coprifuoco. Chissà cosa succede nei quartieri dove la tensione tra giovani maghrebini e polizia è una costante.

Ciascuno di questi episodi sembra pensato per alimentare la tensione e far crescere nuovi terroristi. Che differenza c’è con quel Patriot Act che i francesi fieramente rigettavano come incivile in uno dei momenti storici in cui l’impopolarità reciproca dei due Paesi che per primi hanno fatto la rivoluzione democratica giunse alle vette massime? Poche e molte: il Patriot Act ha portato arresti basati sul colore scuro della pelle e maltrattamenti gratuiti anche verso non musulmani scambiati per tali. I poteri di sorveglianza elettronica, invece, sono probabilmente meno forti in Francia du quanto non venisse consentito alla NSA prima che il piano venisse rivelato da Edward Snowden. Ma in America l’adunata e il diritto di parola non sono mai stati messi in discussione. Negli Usa, se non si fanno discorsi apertamente razzisti si può dire tutto. Lo sappiamo e spesso rimaniamo sbigottiti da manifestazioni che da noi sarebbero vietate. E’ il primo emendamento, tutela le libertà e nessuno si azzarda a toccarlo.

Usa e Francia, insomma, hanno risposto in modo simile. Solo che negli Usa governava l’amministrazione più di destra che si ricordi dopo Nixon, mentre all’Eliseo siede un socialista. La scelta di Hollande segna un precedente pericoloso nel cuore dell’Europa, specie se si considera il pericolo che a succedergli sia Marine Le Pen. Il terrorismo è una pessima cosa, rispondere con leggi speciali che finiranno con il rendere infernale la vita ai giovani maghrebini e arabi di Francia – dove la polizia non è nota per i suoi guanti di velluto – è un errore. Sottolineare che questo tipo di cose, come le bombe sui civili in Siria alimentano la propaganda dei fanatici di al Baghdadi e di tutti gli altri è persino una banalità. Come lo è ricordare che se l’Europa può ancora avere l’orgoglio di dirsi diversa e migliore è perché qui, bene o male, ai diritti degli individui ci teniamo.

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Se questo è un Nobel (per la pace)

Solo nella giornata di ieri ha dato prima una pacca sulla spalla alla Turchia dicendo che “è nelle cose” sparare ad un aereo che vola dove non potrebbe, in una versione aumentata (e internazionale) del nostro pensionato di Vaprio d’Adda. Sempre ieri ha invitato il Presidente Putin (che è il reietto mondiale con la riabilitazione più veloce del West) ad unirsi con la sua Russia all’allegro bombardamento di Francia e Stati Uniti contro lo Stato Islamico. O forse sarebbe stato meglio dire “sopra” lo Stato Islamico.

Chissà cosa hanno pensato ieri i saggi che hanno assegnato al Presidente Usa Barack Obama il premio Nobel per la pace nel 2009 «per i suoi sforzi straordinari volti a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli», mentre faceva la parte del fratello maggiore della spaurito Hollande parlando di “distruzione”, invitando la Russia ad “avere un rapporto costruttivo partecipando alle azioni di guerra” e indossando la faccia da generale cattivo.

Perché il capolavoro del “fare la guerra per costruire la pace” ha trovato in Obama l’interprete migliore per la sua rispettabilità, la sua postura placida e questa sua capacità di fare sembrare ogni azione militare come inevitabile. “Non c’è altra soluzione che la violenza”: sembra bisbigliarci all’orecchio mamma America e gli Stati Europei si accucciano nel suo ventre, felici della protezione. “Non c’è alternativa” è il nuovo must di questo secolo dove tutti gli sforzi internazionali tendono a costruire “motivazioni di guerra” per spazzare il prima possibile la pace dal campo delle possibilità.

Chissà cosa hanno pensato, i saggi del Nobel, vedendo Obama che ieri che nella parte del “Pierino la peste” a stelle e strisce è sembrato così piccolo rispetto a quello sperduto funerale a Venezia dove un vescovo, un rabbino, un patriarca e un imam rendevano omaggio alla giovane Valeria, in una rappresentazione umile ma fragorosa dell’alternativa che per alcuni non dovrebbe esistere.

 

Le “Lisbon storie” degli italiani

«Qui è possibile essere italiano come negli anni Cinquanta… a Napoli». «Mi sento un po’ rifugiato… e questo è il rifugio più bello del mondo». Dicono due voci nei due minuti e mezzo di trailer di Lisbon Storie, primo documentario sugli italiani a Lisbona (il film è in crowdfunding su Produzionidalbasso).

Mentre il Portogallo vive una complicata vita istituzionale, dopo anni di politiche di austerità e dettami della Troika, la più vecchia democrazia europea sembra voler riconquistare oggi un posto al sole anche sotto i raggi della nuova Europa.
Raccontata in passato come la terra della Rivoluzione dei Garofani ma anche delle Rivoluzioni interiori – se non lo avete mai fatto, fatelo, vedete Lisbon story di Wim Wenders – questa volta la pellicola ci racconterà delle motivazioni degli italiani che hanno deciso di vivere a Lisbona, in Portogallo. Saranno loro a raccontare perché hanno scelto di vivere nella patria di Fernando Pessoa e Jose Saramago. Sono ricercatori, impiegati, attori e si mettono a nudo davanti alle telecamere di Massimiliano Rossi, traduttore freelance, Luca Onesti, videomaker e fotografo, e Daniele Coltrinari, giornalista freelance.

In questi anni sono stati tanti i portoghesi a emigrare dal loro paese in cerca di lavoro. Intanto, dalla metà degli anni 90 a oggi, tanti italiani hanno percorso il viaggio al contrario, verso Lisboa.

Sono le azulejos e l’incantevole voce di Amália Rodrigues, la regina del Fado, sullo sfondo, che – per chi abbia vissuto lì anche solo un pezzetto di vita – incarnano una vera e propria tentazione al ritorno. Quasi un invito a disertare l’Italia e prendere il primo volo per Lisboa.

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L’Unhcr: al confine greco-macedone una nuova emergenza umanitaria

A woman tries to protect her daughter as refugees scuffle with the Greek police in their effort to reach the borderline with Macedonia, near the Greek village of Idomeni, Sunday, Nov. 22, 2015. Over 1,000 migrants gathered in the Greek town Idomeni protested Saturday against the decision by Macedonian authorities across the border to turn away migrants who are not from war zones such as Syria, Afghanistan and Iraq. (AP Photo/Giannis Papanikos)

Sono un migliaio i rifugiati e migranti bloccati presso i principali valichi in Macedonia dalla Grecia a cui le autorità negano l’ingresso per via della loro nazionalità (i siriani passano). Si tratta, secondo l’Unhcr, che oggi ha protestato, di una in violazione del diritto internazionale.

«Siamo alle prese con quella che presto sarà una nuova emergenza umanitaria che ha urgente bisogno di attenzione e intervento – ha detto Adrian Edwards dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) – Le nuove restrizioni riguardano soprattutto persone profilate sulla base della loro nazionalità».

Iraniani, belgalesi e pakistani bloccati alla frontiera sono in sciopero della fame, alcuni di loro, come si vede in decine di foto in rete, si sono cuciti la bocca.

Piles of life jackets used by refugees and migrants to cross the Aegean sea from the Turkish coast remain stacked on the Greek eastern island of Lesbos, on Sunday, Nov. 22, 2015. Greek authorities have started supplementary identity checks on immigrants reaching Athens by ferry from the country's eastern islands, after breaking up a ring that sold fake identity documents to migrants arriving on Lesbos. (AP Photo/Santi Palacios)
Salvagente impilati a Lesbos(AP Photo/Santi Palacios)

Refugees wait to be allowed by the Macedonian police to cross the borderline to Macedonia, near the Greek village of Idomeni, Sunday, Nov. 22, 2015. About 1,300 migrants gathered in the Greek town Idomeni protested Saturday against the decision by Macedonian authorities across the border to turn away migrants who are not from war zones such as Syria, Afghanistan and Iraq. (AP Photo/Giannis Papanikos)
Idomeni, Grecia, la pressione sul confine macedone (AP Photo/Giannis Papanikos)

«Tutte le persone, hanno il diritto di chiedere asilo, indipendentemente dalla loro nazionalità e per le loro storie individuali. Un’adeguata informazione deve essere fornita alle persone interessate dalle decisioni ai valichi di frontiera e una consulenza adeguata deve essere disponibile» dicono ancora dall’Unhcr.

I famosi hot-spot non sono ancora funzionanti, il personale manca e la ricollocazione decisa dalle autorità europee langue. E gli attentati diParigi hanno peggiorato il clima e la situazione lungo le frontiere.

Due buone notizie vengono dal Canada e dal Guardian: mentre negli Usa impazzano le proteste contro il piano Obama di accogliere 100mila profughi, il nuovo governo canadese ha annunciato che accoglierà 25mila persone. Il Guardian, invece, che ogni anno fa un appello alle donazioni per i rifugiati. L’anno scorso un appello del quotidiano raccolse circa mezzo milione di euro.

 

Turchia-Russia sale la tensione dopo l’abbattimento del Jet di Mosca

Quel che tutti temevano è successo ed è destinato ad alzare la tensione tra Ankara e Mosca. Il Governo turco ha abbattuto un Sukhoi-24 russo perché non avrebbe risposto agli avvertimenti degli F-16 di Erdogan. I piloti si sono riusciti ad eiettarsi ma stando alle notizie riportate dalla Cnn turca uno dei due piloti è morto. È comparso infatti un video che risulta attendibile dove i ribelli turcomanni anti-Assad, il dittatore siriano sostenuto militarmente dai russi, mostrano il cadavere.

Il Cremlino ha inviato degli elicotteri sul posto alla ricerca dei superstiti. Secondo il ministero della Difesa russo “presumibilmente” si è trattato di un attacco da terra, i russi hanno inoltre aggiunto di poter dimostrare che il velivolo è rimasto nello spazio aereo siriano per tutta la durata del volo. Immediata la risposta di Ankara: «Ad abbatterlo sono stati due nostri F-16 dopo 10 avvertimenti lanciati in 5 minuti, e inviti, rimasti inascoltati, perché abbandonasse il nostro spazio aereo». Un funzionario turco ha ribadito all’agenzia di stampa Reuters che: «L’abbattimento dell’aereo da guerra russo al confine fra Turchia e Siria non è stata un’azione contro un Paese specifico ma una mossa per difendere la sovranità territoriale turca».

Per Mosca invece l’episodio mostra chiaramente il legame del governo di Erdogan con Isis. Nikolai Levicev (Russia Giusta), vicepresidente della Duma ha dichiarato: «È consigliabile sospendere i voli verso la Turchia ed evacuare i russi presenti nel Paese dato che che adesso è evidente il legame di Ankara con l’Isis». Levicev ha aggiunto che l’abbattimento di un jet militare russo da parte delle forze armate turche è «un atto di aggressione paragonabile all’attacco subito dall’altro aereo russo mentre sorvolava il Sinai. La Turchia sta dimostrando solidarietà ai terroristi proprio mentre la comunità internazionale è impegnata a pieno titolo nella lotta contro i terroristi». Il numero due della Duma ha inoltre suggerito di ritirare l’ambasciatore russo in Turchia per consultazioni.
Il presidente russo, Vladimir Putin, sta preparando una dichiarazione ufficiale sull’abbattimento del caccia Su-34 russo da parte della Turchia. Lo ha reso noto una fonte del Cremlino citata dal portale di informazione Govorit Moskva, rilanciato da altri media russi. Fonti accreditate del Cremlino inoltre ritengono prematura una qualsiasi decisione sui rapporti fra Mosca e Ankara prima che venga chiarito il quadro della situazione. Anche la Nato aspetta di riunirsi a Bruxelles per chiedere spiegazioni al governo di Ankara sull’accaduto. Già ad ottobre la Turchia aveva sollevato di fronte all’alleanza il problema dei caccia russi che spesso sconfinavano nello spazio aereo nel corso delle loro manovre militari in Siria.

Nel frattempo i media locali riferiscono che la Turchia ha convocato l’ambasciatore russo ad Ankara per un primo confronto sull’abbattimento.

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Lo scontro diplomatico fra Russia e Turchia si era già reso evidente durante il recente G20 quando il presidente russo Vladimir Putin aveva esplicitamente accusato 40 Paesi, tra i quali la Turchia di Erdogan, di finanziare le milizie di Daesh, anche esse presenti sul territorio siriano.

Proprio il conflitto civile che sta avendo luogo in Siria infatti vede Mosca ed Ankara schierate su fronti opposti: la Turchia sostiene i ribelli islamici che vogliono rovesciare il regime di Bashar Assad mentre la Russia si è schiarata a fianco del dittatore nel tentativo, almeno stando a quanto ufficialmente dichiarato, di bloccare l’avanzata di Is.

L’ accusa di Putin di una vicinanza fra Turchia e Isis è stata respinta al mittente da Recep Tayyip Erdogan. Il presidente turco ha ufficialmente  preso le distanze da Daesh accusando il dittatore siriano Assad di acquistare greggio proprio da Isis, finanziandolo, per mantenere il controllo del Paese con la scusa di dover combattere la minaccia dello Stato Islamico. Una risposta che appare quantomeno contorta anche alla luce del fatto dell’odio che corre fra le componenti sciite (di cui Assad è un esponente) e sunnite dell’Islam che nella loro corrente radicale si incarnano nel Daesh di Abū Bakr al-Baghdādī.

L’incidente di oggi è la rappresentazione plastica di come i raid non coordinati di Usa, Francia e Russia presentino dei rischi enormi di incidenti tra le grandi potenze che volano sulla Siria. Da settimane i comandi militari si parlano per ragionare su come scambiarsi informazioni sugli aerei in volo. Ma restano diffidenze e scarsa volontà di cooperare. Incidenti che, visti gli interessi e le spinte diverse che hanno portato alle incursioni aeree, sono destinati a provocare nuove tensioni.

Aggiornamento ore 19.26 «Gli accertamenti di diversi alleati hanno confermato la versione della Turchia». Così il segretario Nato, Jens Stoltenberg, ha risposto a chi chiedeva se l’Alleanza potesse affermare che il jet russo abbattuto aveva violato lo spazio aereo turco come sostenuto da Ankara. Fonti Nato confermano che per informazioni concordanti il Su-24 aveva sconfinato quando è stato colpito.

 

L’ISIS, Buddah punk, Marlon Brando e i rifugiati: a Firenze c’è il festival dei popoli

L’arancione vivo di giubbotto salvagente, come quello che s’ indossa per non annegare in mare, è il l’immagine guida della 56esima edizione dei festival dei popoli, la storica rassegna fiorentina di docufilm che quest’anno si svolge dal 27 al 4 dicembre, presentando più di cento opere.  Un’immagine che  introduce lo spettatore a una delle sezioni più interessanti dell’edizione 2015, ovvero “Alì nella città. Derive e approdi dei migranti contemporanei” : un percorso in 19 film che raccontano in modo diverso, lontano dai toni emergenziali  e razzisti di tanti media italiani,  storie dei migranti e rifugiati che arrivano ogni giorno in Europa. Mentre nella “Matinée Senegal” (domenica 29 novembre) sarà presentato I morti non sono morti di Malik Nejmi e Roberto Bianchi, il film dedicato alla memoria di Samb Modou e Mor Diop, i due senegalesi uccisi a colpi di pistola nel mercato di Piazza Dalmazia a Firenze il 13 dicembre 2011.  Ricca anche la sezione incontri  con una una tavola rotonda sul tema dell’emigrazione  e un intervento del giornalista Fabrizio Gatti.

 

La riflessione sul presente continua con il  documentario The Black Flag, (in prima italiana),  un film girato direttamente sul campo, in una zona di scontri non lontana da Baghdad. Il regista Majed Neisi, che sarà a Firenze il 2 dicembre,  ha filmato un gruppo di guerriglieri che combattono l’avanzata dell’Isis, sarà uno degli eventi speciali  della rassegna che si svolge in vari luoghi di Firenze, al cinema Odeon, allo spazio Alfieri e all’Istituto francese. Il documentario è stato  girato a Jorf al-Sakhar, a 60 km a sud di Baghdad e racconta in particolare la storia di Seyyed Ahmad, capo di un reggimento di volontari che hanno abbandonato lavoro e famiglia per combattere l’avanzata dell’Isis. Un film quasi in presa diretta con quel che accade ogni giorno in questa zona del Medio Oriente.

Ci porta idealmente in Uruguay invece il docufilm  Pepe Mujica. Lessons from the Flowerbed di Heidi Specogna (sabato 28 novembre), che ripercorre la storia del “presidente più povero del mondo”, diventato famoso nel 2010, dopo la sua elezione a capo di Stato in Uruguay, per aver rifiutato di vivere nel palazzo presidenziale ed essersi assegnato uno stipendio di meno di mille euro al mese.  Di Corea del Nord si parla in I Am Sun Mu di Adam Sjöberg, sulla storia di Sun Mu, il talentuoso artista pop nordcoreano dissidente e per questo costretto a nascondere il proprio volto e il proprio nome (venerdì 4 dicembre).  In My Buddha is Punk di Andreas Hartmann (lunedì 30 novembre), invece, Kyaw Kyaw, un venticinquenne punk birmano persegue il sogno di far decollare la scena Punk a Myanmar, coltivando allo stesso tempo la sua filosofia buddista.

Ma come sempre importante nell’ampio programma del Festival dei popolo  è la sezione dedicate alle arti. Alla danza: in particolare con la prima italiana di Mr Gaga , che inaugura la kermesse, docufilm dedicato alsul famoso danzatore Ohad Naharin;. Alla musica: con la straordinaria vita del “Re del Soul” James Brown in Mr. Dynamite di Alex Gibney (il 28 novembre),  con la sua energia e il suo  stile James Brown  ha influenzato musicisti e cantanti di più generazioni, dai Public Enemy a Prince. Il film prodotto da Mick Jagger  usa bellissimi materiali d’archivio, anche inediti e testimonianze di coloro che hanno lavorato con Brown e lo hanno conosciuto come musicista e come attivista per i diritti degli afroamericani.  Ancora, per quanto riguarda la musica, in questo caso italiana, a Firenze i Marlene Kuntz  presentano un documentario che ripercorre la storia già più che ventennale del gruppo cuneese guidato dal cantante e scrittore Cristiano Godano. Riprendendo un loro storico brano il docufilm s’intitola  Complimenti per la festa (1 dicembre)  Un giorno prima, il 29  novembre Roy Paci presenta Sicily Jass (29/11), un documentario sull’origine del jazz in Italia.

 

 

Omaggio anche al grande cinema al Festival dei popoli: con un inedito autoritratto di Marlon Brando in Listen to me Marlon di Stevan Riley (29 novembre), che in una folgorante battuta dice di se stesso, come attore e inguaribile bugiardo: “tutti recitiamo perché tutti mentiamo, qualcuno però viene pagato per farlo”.  Il film è composto da molti inediti perché Riley ha avuto accesso al fondo della famiglia Brando potendo visionare trecento ore di girato: super8 familiari e perfino audio della segreteria telefonica. ” il fim racconta il  lungo viaggio intrapreso, nonostante tutto, da questo ragazzo del Nebraska figlio di un viaggiatore di commercio, sempre assente, col vizio del bere e violento e di una donna, affettuosa e divertente, schiacciata però dall’alcolismo e dalla depressione”

 [social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/simonamaggiorel” target=”on” ][/social_link] @simonamaggiorel

Tutti i trailer dell’edizione 2015 del Festival dei popoli, la rassegna nata nel 1959 per iniziativa di  un gruppo di studiosi di scienze umane, antropologi, sociologi, etnologi e mass-mediologi, l’associazione senza scopo di lucro Festival dei Popoli è impegnata da oltre cinquanta anni nella promozione e nello studio del cinema di documentazione sociale.

La rottamata strategia di cambiare le regole per non scegliere

La nuova brillante idea del partito renzicratico è quella di decidere di aspettare a decidere. Quando ciò che accade non si incastra perfettamente con le volontà di Matteo Renzi si agisce per usura; e così Bassolino a Napoli e il centrosinistra milanese ieri sera hanno avuto l’onore di sapere che il Partito Democratico, per nome del suo Segretario e i soliti noti intorno a lui, ha scelto di posticipare qualsiasi decisione sulle primarie a Napoli e Milano a digestione avvenuta, dopo la sbornia natalizia e capodannifera.

Così va a finire che mentre i dirigenti del PD hanno elaborato la sofisticata scelta di alzare la manina e urlare “arimo, fermi tutti!” e anche il sonnacchioso piddino Roberto Speranza riesce ad architettare una stoccata con cui viene difficile non essere d’accordo: «I problemi politici si affrontano con la politica, non cambiando le regole” ha dichiarato il membro della minoranza interna al Corriere della Sera. E ha ragione: l’attendismo rimanda ai machiavellici gesti di un Andreotti qualsiasi piuttosto che allo sfavillante nuovismo che ci era stato promesso.

E così l’assemblea del PD (che ormai ha i contorni di un reality che potrebbe intitolarsi nannimorettianamente “Continuiamo pure a farci modernamente del male”) si trasforma nel manifesto di un partito che appare sempre più svuotato nel suo spessore di democrazia interna mentre due  importanti città italiane come Milano e Napoli vengono parcheggiate come bambini esagitati nel box dei giochi con qualche peluche da spiluccare. E ancora una volta il centrosinistra (anzi: il centrocentrocentrosinistra) riesce a rendere empatico e contemporaneo anche un Bassolino qualsiasi.

Insomma: Matteo Renzi è così nuovo che si è superato dal solo e per ora sembra che la vaporizzazione del PD continui ad essere la sua riforma più riuscita.