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Chi è Salah Abdeslam. Identikit del “perfetto” foreign fighter

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È l’uomo più ricercato d’Europa. Il nemico pubblico numero uno. Lui, Salah Abdeslam, l’unico degli attentatori di Parigi ad essere rimasto in vita e ora in fuga per l’Europa ricercato dalla polizia e forse, dagli stessi miliziani dell’Is, per i quali il giovane francese di orgine marocchina residente in Belgio potrebbe essere un traditore. Reo di non essersi fatto saltare in aria, di aver mancato l’ultimo mortale obiettivo probabilmente fissato nel XVIII arrondissement. Le operazioni antiterroriste compiute ieri e questa mattina a Bruxelles, con un totale di 21 fermi, non hanno portato all’arresto di Salah Abdeslam. Dopo gli attacchi di Parigi infatti Salah è riuscito a sfuggire a un controllo dei gendarmi francesi alla frontiera franco-belga ed espatriare, ma resta il mistero su come effettivamente siano andate le cose dopo gli attentati. Ma Salah non è l’unico in famiglia a essere coinvolto negli attacchi di Parigi, con lui c’era anche il fratello Brahim, morto kamikaze dopo essersi fatto esplodere – lui sì – sulla terrazza del bar Comptoir Voltaire nell’ XI arrondissement. Negli ultimi giorni se da un lato si è scatenata una vera e propria caccia all’uomo, dall’altro emergono sempre più particolari sulle vite dei terroristi prima e dopo la “riconversione” all’islam più radicale. Dettagli che segnano un identikit comune fra i foreign fighters arruolati in Europa da Daesh.

I fratelli Abdeslam. Una vita dissoluta poi la svolta radicale.

Salah ha 26 anni, il fratello Brahim Abdeslam ne ha 31. Entrambi sono nati a Bruxelles, figli di immigrati marocchini con cittadinanza francese, vivono a Molenbeek, un quartiere situato a ovest del centro di Bruxelles, caratterizzato da una grande concentrazione di stranieri provenienti dal Nordafrica e più in generale dai paesi arabi. I genitori di Salah e Brahim hanno vissuto in Algeria quando era sotto il controllo della Francia, sono cittadini francesi. Anche Salah e Brahim sono cittadini francesi come gli altri due fratelli Abdeslam e la sorella. Abdaramane è un autista della metropolitana in pensione, e Yamina fa la casalinga, la gente del suo quartiere la descrive come «una persona gentile, allegra e carina». L’altro fratello è Mohamed, è stato un impiegato del municipio di Molenbeek per circa dieci anni. Il suo capo lo ricorda come un uomo garbato, che è stato anche membro del gabinetto dell’ex sindaco Philippe Moureaux, una di spicco per la vita del quartiere.

Chi lo conosceva parla di Brahim come di un tipo tutto sommato tranquillo, fumava cannabis e, sì, in passato aveva fatto qualche stupidaggine, ma sostanzialmente era un ragazzo a posto, non era un violento. Aveva studiato come elettricista, ma poi non aveva esercitato il mestiere. Si era sposato, secondo il rito civile e non secondo quello religioso, con una ragazza di nome Niama. Il matrimonio era durato due anni poi i due si erano separati. L’ex moglie intervista dal quotidiano britannico Daily Mail lo definisce come una persona più che altro pigra, con un buon carattere e che non aveva mai manifestato atteggiamenti violenti. Le sue giornate erano tutte uguali, le passava a fumare cannabis e a dormire. Brahim era il proprietario di Le Béguines, un bar a Molenbeek. 9 giorni prima degli attentati, il locale è stato chiuso a seguito di un’ordinanza della polizia che ha imposto un fermo dell’attività per 5 mesi, dopo che nella struttura era stata trovata della cannabis. Piccoli guai con la giustizia che si ripetevano periodicamente, lo scorso maggio Brahim era stato colto sul fatto durante una rapina a un bar-tabacchi, il suo arresto era stato addirittura ripreso dalla tv belga.

Salah Abdeslam, il fratello minore, oggi in fuga per l’Europa, era il direttore del bar del fratello. A 26 anni conduceva una vita di eccessi. Molte delle testimonianze degli amici lo descrivono infatti come una persona in perenne stato di eccitazione, sempre alla ricerca di qualcosa di estremo. Non valeva la pena andare a trovarlo a casa prima delle tre del pomeriggio, passava il suo tempo a dormire perché in genere usciva e rientrava a tarda notte o il mattino seguente. Secondo qualcuno «era sempre fatto e conduceva una vita dissoluta. Ossessionato dalle donne, ogni sera ne portava a letto una diversa».
Eppure tra le molte voci c’è anche chi lo descrive come «un ragazzo carino, timido e gentile» come ha fatto il presidente di un centro giovanile di Molenbeek, Moustafa Zoufri.
Per Mohamed Abdeslam, uno dei suoi fratelli non coinvolti negli attentati, Salah è soprattutto un tipo molto intelligente. Intelligente e irrequieto.
Fin da giovane, infatti si era contraddistinto per avere un animo piuttosto turbolento tanto da aver causato in passato l’incendio della sua stessa casa di famiglia. Incapace di condurre una vita stabile. Prima di lavorare come direttore del locale del fratello Salah era impiegato in un’azienda di trasporti a Bruxelles da cui fu licenziato nel febbraio 2011 dopo aver commesso troppe assenze ingiustificate.
Tutti e tre i fratelli, Brahim, Mohammed e Salah hanno avuto dei guai con la legge già all’inizio del 2000 ed erano stati chiamati a comparire di fronte al tribunale di Bruxelles per traffico di droga.
Il percorso di radicalizzazione di Brahim e Salah inizia però solo 5 anni fa, nel 2010, dopo che Salah trascorre un periodo in carcere scontando una condanna per furto con scasso e traffico di droga. È allora che comincia a frequentare Abdelhamid Abaaoud, considerato l’architetto degli attacchi terroristici di Parigi e degli ultimi attentati attribuiti a Is che erano stati organizzati e non erano andati a buon fine. Salah entra a far parte delle milizie dello Stato Islamico nel 2013, impara tutto quello che c’è da sapere sulla clandestinità, su come eludere i servizi di sicurezza e il monitoraggio dell’intelligence. Sia lui che Brahim avevano smesso di bere e di fumare da tre mesi, avevano iniziato a comportarsi in maniera regolare e a fare sport. Qualcuno del quartiere sostiene che si stessero preparando alla guerra, altri invece affermano di non essersi accorti di nulla. Il fratello Mohammed vedeva Salah e Brahim cambiati: «non bevevano più, non fumavano più e andava alla moschea», ma non credeva – assicura in un’intervista televisiva – che quello fosse il segno di una loro radicalizzazione. Non credeva che dietro ci fosse un piano, un progetto come quello messo in atto il 13 novembre a Parigi. Le tracce seguite dagli inquirenti aprono la prospettiva di un probabile viaggio in Siria di Salah che sarebbe proprio quest’estate passato per l’Italia per poi da Bari imbarcarsi su un traghetto per la Grecia e successivamente, ad agosto, rientrare in Belgio sempre attraversando da sud a nord il nostro Paese. Un viaggio che se venisse confermato andrebbe a ribadire ancora una volta l’esistenza di un “profilo comune” fra i terroristi.

La fantasia di Paolo Echaurren conquista la Gnam

Alla contropittura di Pablo Echaurren la Galleria d’arte moderna (Gnam) di Roma, fino al 3 aprile 2016, dedica una inaspettata retrospettiva. Accade così di trovare  in uno dei più prestigiosi musei italiani gli immaginifici fumetti, collage neo Dada e murales di questo irriverente protagonista, non solo della scena underground, ma della migliore cultura italiana degli ultimi quarant’anni.

Si tratta tuttavia – lo diciamo subito – di una celebrazione che non museifica affatto l’opera. Anzi. Semmai è la vivace produzione di Echaurren a far ritrovare al museo romano la memoria degli anni in cui,  nell’immediato dopo guerra, sotto la direzione di Palma Bucarelli, era aperto alle novità e alle provocazioni come la merda di artista di Piero Manzoni (che costò alla colta funzionaria di Stato perfino una interrogazione parlamentare dai banchi della Democrazia Cristiana).

Come a voler stabilire un nesso con quel brioso passato della Gnam, la neo direttrice Maria Cristina Collu che ha già diretto il Mart di Rovereto e il Man di Nuoro si è presentata al pubblico romano lo scorso 20 novembre presentando questa mostra curata da Angelandreina Rorro che ripercorre tutta la carriera di Echaurren, dagli esordi ispirati al dadaismo e baciati dalla fortuna di una mostra a 19 anni nella galleria di Arturo Schwarz, fino ai lavori più legati all’impegno sociale e politico.

Un filo rosso che attraversa tutto il lavoro di questo intellettuale della contro cultura, capace di mandare a gambe all’aria luoghi comuni e pregiudizi, capace di abbattere con ironia e vitale coraggio bellimbusti imposti dal mercato dell’arte e accademici polverosi. Il talento di Pablo Echaurren infatti non si è applicato solo alle arti figurative ma anche alla narrazione e al graphic novel, linguaggi con cui ha riletto in maniera inedita  la storia. Imperdibili, in questo senso, le sue biografie a fumetti, che raccontano la vera storia del poeta Majakovskij, “suicidato dal regime sovietico” e di Filippo Tommaso Marinetti che Echaurren mostra nella sua realtà di parolaio e invasato interventista che credeva nella «guerra come sola igiene del mondo». Entrambe le biografie sono pubblicate da Gallucci, così come la sua irresistibile Controstoria dell’arte. @simonamggiorel
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Processo Vatileaks: in Vaticano va a processo la libertà di stampa

Domani, martedì 24 novembre inizia in Vaticano il processo contro i giornalisti Gianluca Nuzzi e Emiliano Fittipaldi. Il reato ipotizzato dal magistrato vaticano è quello di diffusione di notizie e documenti riservati. Nuzzi, autore del libro Via Crucis si è rifiutato in nome della libertà di stampa di andare all’interrogatorio previsto in Vaticano qualche giorno fa, Fittipaldi autore di Avarizia si è presentato e ha ribadito le sue ragioni invocando il segreto professionale. Oggi su Repubblica è pubblicata una sua lettera in cui afferma come abbia lavorato «per il primario interesse dei lettori» aggiungendo che «non è un caso che la libertà di stampa e il diritto di essere informati sia tutelato in ogni Paese che si vuole democratico».

Sulla vicenda Left ha chiesto il parere di Alberto Spampinato, direttore e fondatore di Ossigeno per l’informazione, l’Osservatorio promosso dalla Federazione della stampa e dall’Ordine dei giornalisti per monitorare i cronisti minacciati e le notizie oscurate, un record negativo, ricordiamo, per l’Italia. «Io non parlerei di attacco alla libertà di stampa, ma di leggi che mancano da almeno 70 anni», sottolinea Spampinato. «Il Vaticano è uno Stato assolutistico che sta cercando di innovarsi ma  è molto indietro. Purtroppo però, anche l’Italia non scherza con le sue leggi. Se consideriamo che uno Stato assolutistico ha norme che prevedono anche otto anni di carcere e in Italia  fino a sei, mi pare che siamo più indietro noi di loro, per assurdo». Spampinato, mentre si augura che il Vaticano faccia rapidamente un aggiornamento delle leggi, focalizza un aspetto cruciale della vicenda Vatileaks. «Il punto vero è che nella legge anche in Italia bisognerebbe dire chiaramente che in caso di diffusione di informazioni coperte da segreto – a meno che non si commetta un altro reato – va perseguito chi doveva mantenere il segreto e non lo ha mantenuto, non chi lo utilizza per assolvere un dovere come fa il giornalista e cioè diffondere le notizie nell’interesse pubblico». Insomma, continua Spampinato, «questo è un episodio che rivela che da noi queste cose non sono protette: tutti in giro senza casco e quando uno cade si dice ci vorrebbe il casco. La legge è così, ma da 70 anni».

Intanto, mentre oggi è arrivata la richiesta al Vaticano da parte della rappresentante dell’Osce per la libertà dei media di ritirare le accuse penali, come riporta Ossigeno (qui), ecco lo scenario che attende i due giornalisti-scrittori. Lo spiega molto bene sempre l’Osservatorio Ossigeno (qui). «Lo Stato della Città del Vaticano adotta dal 1929 i codici penale e di procedura penale dello Stato italiano: si tratta dei testi del 1889, le cui norme sono state aggiornate nel luglio 2013, primo anno del Pontificato di Papa Francesco». Proprio lui, Francesco, il papa illuminato che incarnerebbe la modernità nella Chiesa. Come scrive Alessandro Gigioli nel suo blog Francesco spende tante belle parole sulle diseguaglianze come ha fatto nella sua Enciclica Laudato sì ma poi manda a processo due giornalisti che fanno il loro lavoro di informazione.

Spiega ancora Ossigeno, gli articoli in ballo sono «l’articolo 4 e l’articolo 10 della Legge del 2013 dello Stato del Vaticano contenente le “Modifiche al codice penale”. Articolo 4: se per i reati contro lo Stato commessi da stranieri in terra straniera è prevista una pena minima non inferiore a tre anni di reclusione il soggetto è punito secondo la legge dello Stato Vaticano. Articolo 10: tratta il reato di “divulgazione di notizie e documenti”. Se questi riguardano “gli interessi fondamentali o i rapporti diplomatici della Santa Sede e dello Stato si applica la pena della reclusione da quattro a otto anni”».

In ogni caso, se dovesse arrivare la condanna, bisognerà vedere se lo Stato italiano concederà l’estradizione. Come scrive oggi su Repubblica Fittipaldi da noi esiste un articolo della Costituzione, l’art. 21, che, ricordiamo, dice: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».

La marijuana dopata e perché liberalizzare conviene

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Cosa ci fanno fumare? Se preferite – magari perché non siete tra i 4 milioni di italiani che fanno uso saltuario di marijuana – potreste domandarvi “cosa gli fanno fumare?”, magari pensando ai vostri figli o a quelli di qualcuno che conoscete. Non fa molta differenza, la domanda andrebbe rivolta assieme a molte altre a chi continua a ritenere il proibizionismo come l’unica politica contro le droghe, magari omologandole tutte: la marijuana con il crack, l’hashish con l’eroina e la cocaina. dicembre
Che questa sia una strada senza uscita lo dimostra la storia di questo mezzo secolo e la scelta che molti altri Paesi stanno facendo verso vie alternative allo spaccio clandestino.
Alla domanda, a ogni modo, abbiamo tentato di dare una risposta noi del Test, a modo nostro. Dopo esserci improvvisati anonimi acquirenti, abbiamo “fatto acquisti” nelle principali piazze di spaccio italiane e abbiamo portato la marijuana in un laboratorio specializzato in scienze forensi. I risultati delle prove, pubblicati sul numero in edicola dal 24 novembre, hanno sorpreso anche gli analisti più esperti. Per riassumerli prendiamo in prestito le parole del dottor Oscar Ghizzoni, che per il nostro giornale ha realizzato lo studio e che così ci ha descritto quanto vedeva al microscopio: «Sembrava di osservare i muscoli di un culturista che ha assunto notevoli quantità di aminoacidi e si è sottoposto a un allenamento intenso. Le foglie avevano un aspetto “pompato” quasi fosforescenti, molto grasse. Sembravano finte». Una marijuana dopata, insomma, che poco ha in comune con quella che circolava 10 o 15 anni fa. Un’erba molto potente, difficile da definire “droga leggera” con il suo contenuto del 10% di Thc.
Non solo. A prescindere dalla piazza di spaccio, l’erba era praticamente identica: chiaramente frutto di una modificazione transgenica, per farla crescere velocemente in grandi serre, illuminata 24 ore al giorno, con la stessa logica degli allevamenti industriali di galline ovaiole. Di fatto, di questo si tratta: di un’industrializzazione del mercato dove non c’è più alcuna differenziazione geografica del prodotto; che si coltivi in Albania, nel Nord Europa o in Africa del Nord i semi sono accuratamente scelti tra gli Ogm e i produttori sono costretti a utilizzarli. Una precisa scelta di mercato. Difficile non concordare con le parole del senatore Luigi Manconi: «La cannabis, come conferma l’inchiesta del Test, diventa tanto più nociva quanto più è illegale». Un ragionamento lineare che contraddice clamorosamente uno dei punti cardine della teoria proibizionista: «Chi è contrario alla legalizzazione è su questo che insiste, al punto da aver elaborato e diffuso l’argomento che “le canne non sono più quelle di una volta”», sottolinea Manconi. «Ma questa affermazione ha le gambe corte perché questa nocività non conferma le loro teorie, ma è l’esatto contrario: è il regime proibizionistico che l’ha prodotta». Manconi, insieme al sottosegretario Benedetto Della Vedova, proprio in questi giorni porterà a Montecitorio il suo disegno di legge sulla legalizzazione: dieci articoli per ridurre il mercato illegale, la spesa per la repressione (e i costi sociali immensi che ha) e i danni per la salute delle droghe leggere. Non sappiamo se alla Camera e al Senato i tempi siano maturi per un cambio radicale di politica. Di certo lo sono nel Paese.

*Riccardo Quintili è il direttore del mensile Il Test che nel numero di dicembre in edicola a partire dal 24 novembre pubblica un lungo approfondimento sulla Marijuana e i risultati dei test di cui si parla in questo articolo. Inoltre i risultati verranno presentati anche durante un evento che avrà luogo al Pigneto, una delle principali piazze di spaccio a Roma.

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23 novembre 1980, la terra trema

Un paese completamente distrutto dal terremoto in Irpinia del 23 novembre 1980. ARCHIVIO / ANSA

Il 23 novembre del 1980, alle 19,34, dall’Irpinia al Vulture, la terra trema. È domenica e la scossa – 6,9 gradi della scala Richter –  dura circa 90 secondi. Quel terremoto fu l’occasione di una grande mobilitazione di solidarietà e di una serie di scandali: fondi per la ricostruzione sprecati e lungaggini inimmaginabili: nel 2010 c’era ancora gente che viveva nei container. Ecco i numeri del sisma e le foto dell’epoca.

L’area colpita a cavallo tra le province di Avellino, Salerno e Potenza è di 17.000 km²
506 Comuni su 679 danneggiati, il 74% dei comuni dell’area interessata dal sisma. 3 le province più colpite: Avellino (103 comuni), Salerno (66) e Potenza (45).
100.000 alloggi distrutti o gravemente colpiti.
280.000 sfollati
8.848 feriti
2.914 morti
30 miliardi di euro di fondi pubblici per la ricostruzione, dati aggiornati al 2011. I fondi stanziati dallo Stato (con la legge 219/81 approvata dal Parlamento) in questi anni sono stati oggetto di diverse inchieste della magistratura.
«Fate presto» aveva detto il Presidente Pertini una volta giunto nei luoghi del sisma.
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«Perché viviamo?», ce lo spiega l’Unità

Devo confessare che ormai leggere l’Unità, nella rassegna stampa quotidiana, ha assunto un non so che di quasi mistico per la spiazzante capacità di essere bollettino di governo come quei fogli ciclostilati di qualche anno fa che venivano stampate nei piccoli paesi del nord Italia per celebrare le gesta del sindaco. Kim Jong, il dittatore della Corea del nord, nelle sue follie autoritarie, in confronto sembrerebbe un dilettante della propaganda di Stato.

Così, questa mattina, in un profondissimo reportage sulla crisi (e ovviamente sulla ripresa) intitolato “Dov’è finita la Middle Class italiana?” i giornalisti del quotidiano pararenziano lanciano un’arguta analisi che dovrebbe spiegarci come in 13 anni le persone “che si autodefiniscono così” siano scese di 28 punti. Per l’appendice renziana a forma di quotidiano, in pratica, già nel 2002 in Italia esistevano dei piccoli borghesi (anglofoni) che vivevano con una naturale consapevolezza di essere “classe di mezzo” e che dopo più di un decennio passato a subire l’onta della crisi solo ora con Renzi stanno recuperando finalmente la fiducia.

Al di là della spassosa foga indagatrice di un reportage sulle persone che si “autodefiniscono” (una modalità che potrebbe eliminare quasi totalmente l’evasione fiscale o la corruzione alla prossima autointervista) l’articolo contiene alcune verità esplosive:

«Il ceto medio ha addirittura rischiato di essere superato dal ceto medio-basso come classe sociale più rappresentata. Con la fine della crisi e l’inizio della ripresa – seppur ancora timida – è proprio il ceto medio a sentirla per primo, dimostrandosi più ottimista delle altre classe sociali.” – scrive l’ombra del quotidiano fondato da Gramsci“Quella che una volta si sarebbe chiamata borghesia vede la ripresa per il 60 per cento contro il 49 della media personale”.

E da qui in poi giù con una serie di grafici e diagrammi che mostrano come la fiducia sia esplosa negli ultimi mesi trasformando la piccola borghesia in una comunità di monaci felici che intravedono la luce. Evviva, evviva. E se serve dare un’aggiustatina ai numeri basta sommare un po’ di “molta” con un mestolo di “abbastanza” per un maquillage perfetto:

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Siano avvisati i gufi, i pessimisti o i terrorizzati: all’abbeveratoio del Governo ci sarà sempre un tweet, un messaggio vocale su WhatsApp oppure un’indagine de l’Unità pronta (e prona) a dimostrare che siete una minoranza. Dove c’è Lui c’è prosperità, quello è il comandamento. E chissà che ne direbbe Gramsci.

Buon lunedì.

L’orrore di Parigi spiegato ai bambini

Bambine e bambini vi scrivo da Parigi, la città dove abito e che venerdì scorso è stata colpita da numerosi attentati: degli uomini violenti, dei terroristi, hanno ucciso molte persone facendo esplodere delle bombe e sparando con dei fucili alla gente che era fuori nei bar o in un teatro dove erano andati a sentire un concerto di musica. Sono morte 129 persone, più di 300 sono state ferite, 7 terroristi sono stati uccisi dalla polizia e altri sono stati arrestati il giorno dopo. È stata una notte di terrore, proprio quello che cercano di diffondere i terroristi. Molte persone sono sconvolte da quello che è accaduto, hanno paura e si fanno tante domande. La prima è: perché lo hanno fatto?

Non è facile rispondere a questa domanda eppure delle ragioni ci sono. Questi terroristi dicono di appartenere a un’organizzazione chiamata “Stato Islamico”. Lo Stato Islamico non è un vero stato, è un gruppo di persone che controlla un territorio che si trova tra l’Iraq e la Siria. Sono molto arrabbiati con noi occidentali perché partecipiamo a delle operazioni militari in Siria dove da quattro anni c’è una guerra terribile e molto complicata perché lo stesso governo siriano attacca i suoi cittadini. Molti siriani sono dovuti scappare e cercano di raggiungere l’Europa dove sperano di trovare la pace e una vita migliore. I terroristi non vogliono la pace e non accettano il nostro modo di vivere. Non accettano la nostra libertà, il fatto che possiamo esprimerci e disporre di noi stessi, che uomini e donne siano uguali e molti altri valori delle nostre società.

I terroristi dicono di agire in nome della loro religione, l’Islam. Sono quindi dei musulmani ma interpretano la religione in un modo radicale, credono che per imporre le loro idee agli altri servano la violenza e la guerra, dicono di partecipare alla guerra santa, la jihad, sono perciò dei jihadisti. La grande maggioranza dei musulmani non ha niente a che vedere con questo, i musulmani vorrebbero soltanto vivere in pace come tutti gli altri.

La radio, la televisione, internet e gli adulti parlano molto di quello che è successo a Parigi. È normale: quando succedono dei fatti così gravi, la gente ha bisogno di dire quello che pensa, di sentirsi vicino agli altri, ma non bisogna esagerare. Spesso le notizie che vengono date non sono vere o precise e servono soltanto a aumentare il senso di paura che è già presente. Per questo è giusto informarsi ma è anche importante verificare l’attendibilità delle notizie. Ogni tanto è importante spegnere la televisione e pensare con la propria testa, parlare con gli adulti che si occupano di voi, genitori, insegnanti, e con i vostri amici.

La cosa spaventosa del terrorismo è che ci porta a pensare che tutti potremmo essere colpiti in qualsiasi momento: sia che abitiamo a Parigi che a Roma o Milano o in qualsiasi altra città o luogo dell’Europa. Per esempio per due giorni la città di Bruxelles è stata completamente chiusa per paura degli attentati. È come dover combattere contro un fantasma; una minaccia invisibile che pesa sulle nostre teste e dalla quale non sappiano come difenderci. Questo produce delle emozioni molto negative, ci sentiamo spaventati e impotenti, non riusciamo a addormentarci la sera, abbiamo paura di uscire e di continuare a fare la nostra vita normale: andare a scuola, fare sport, incontrare gli amici, vivere la città. È proprio quello che vogliono i terroristi, vogliono metterci paura. È giusto essere prudenti ma bisogna anche trovare la forza di reagire.

Qui a Parigi, davanti al teatro dove sono state uccise molte persone, hanno messo un pianoforte. Chi vuole può sedersi e mettersi a suonare. La musica aiuta a tirare fuori le emozioni, molte persone portano un fiore, accendono una candela, si abbracciano e si sorridono oppure piangono. Questi piccoli gesti sono molto importanti perché ci permettono di sentirci vicini gli uni agli altri, di tirare fuori quello che abbiamo dentro anche quando ci sentiamo tristi o confusi o impauriti. Questi piccoli gesti ci permettono di riprendere a vivere normalmente, che è una cosa molto importante. La paura è pericolosa perché ci porta a chiuderci in noi stessi, ad avere delle reazioni sbagliate come per esempio pensare che tutti i musulmani siano violenti, che stiamo per entrare in guerra e che la nostra vita cambierà. Dopo gli attentati molti governi hanno deciso di chiudere le frontiere ai rifugiati, come se fossero loro i responsabili di quello che è successo!

La guerra, quella vera, è ben altra cosa. Fatevela raccontare dai vostri nonni o bisnonni. In realtà siamo molto fortunati perché dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Europa ha vissuto e vive in pace. Ma la pace non è una cosa scontata, ce ne accorgiamo in questi giorni, la pace va protetta e difesa, è un bene prezioso che molti bambini in altri paesi del mondo non hanno mai conosciuto.

C’è anche qualcos’altro che dobbiamo difendere. Una delle principali risorse dello Stato Islamico è il petrolio. Il petrolio è per il momento la principale fonte di energia usata nel mondo. Ma sappiamo che prima o poi si esaurirà e che è in parte responsabile dell’inquinamento che sta soffocando la terra. Consumare di meno, prendersi cura della natura, rispettare il pianeta è un modo per combattere le guerre e il terrorismo, per ridurre la distanza tra i ricchi e i poveri. Ognuno di noi può farlo nel suo piccolo. Tanti piccoli gesti messi uno accanto all’altro diventano un grande gesto. In fondo anche gli alberi più grandi nascono da un piccolissimo seme. Certo, ci vuole del tempo, ma se nessuno pianta quel seme, non ci sarà nessun albero.

Molti anni fa, un importante intellettuale italiano, Antonio Gramsci aveva scritto: “Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza. Studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza.” Queste parole mi sembrano molto attuali. Sono proprio il contrario di ciò che cercano i terroristi che ci vorrebbero isolati, chiusi, spaventati e ignoranti.
A Parigi la vita ha ripreso il suo corso. Ci sono molti poliziotti e molti militari che hanno il compito di proteggerci. Ma quello che farà davvero la differenza è il nostro spirito e il nostro comportamento.
“Bon courage les enfants” direbbero qui a Parigi.

Donald Trump e il marine musulmano che lo ha messo a tacere

Le primarie repubblicane sono finite in un territorio scivoloso. Quello del fango. Per ora non c’è ancora lotta fratricida, il fango finisce in faccia ai musulmani e ai rifugiati.

Il punto più basso lo ha toccato, in due occasioni, Donald Trump, che i sondaggi continuano nonostante tutto (e le opinioni di tutti) a dare in testa. Ormai manca poco al voto vero e l’establishment del partito trema all’idea di vederlo continuare così. Dopo essersela presa con i messicani spacciatori, il miliardario di New York ora ha eletto i musulmani a suo nuovo bersaglio. Nei giorni scorsi ha detto che l’11 settembre «ho visto le torri collassare e a Jersey City migliaia di musulmani che vivono in alcuni dei quartieri festeggiare». Una bugia per varie ragioni: la prima è che a Jersey City non ci sono quartieri a grande maggioranza musulmana: ci sono molti indiani e bangladeshi impiegati nella finanza e nel software, persone che vogliono essere americane come pochi altri, e anche molte persone di origine araba ma non siamo in un posto con enclave musulmane (4% della popolazione). Tutt’altro. La seconda è che a Jersey City, sull’altra riva dell’Hudson rispetto a Manhattan, proprio davanti alle torri gemelle, non si è affatto festeggiato, come ha spiegato il sindaco Steven Fulop in un comunicato: «La città è stata la prima a spedire soccorsi»

La seconda battuta di infimo livello di Trump riguarda le carte di identità. Negli Usa non sono obbligatorie, ma lui ne creerebbe una apposta per i musulmani. Ovvero schederebbe i musulmani come gli ebrei nella Germania nazista. C’è un aspetto inquietante nella vicenda: Trump guadagna nei sondaggi grazie a delle balle sull’11 settembre e i musulmani e diversi candidati che gli corrono dietro – Ben Carson, che è secondo nei sondaggi, o Huckabee che manda comunicati stampa che portano come titolo “Obama vuole far imparare agli americani i versi del Corano”.

C’è per anche un aspetto positivo. C’è un ex marine di nome Tayyb Rashid che ha risposto a Trump su Twitter. “Hey Donald, sono un musulmano americano, questa è la mia carta d’identita, tu ne hai una così?”, scrive. La carta è quella che vedete qui sotto, il tesserino di un marine americano. Il tweet, mentre scriviamo è stato rilanciato 32mila volte e oggetto di molti articoli. «Ho fatto quel tweet appena ho saputo della frase  di Trump. Pensavo a qualche like, non a questo successo», ha detto.

L’altra buona notizia è che dietro a Rashid in tanti, musulmani americani, hanno cominciato a twittare usando il tag #muslimID (qualche esempio qui sotto), ad avere voce e a raccontare una realtà diversa: medici, diplomatici, avvocati, volontari, che rispondono scherzando nonostante siano oggetto di una campagna xenofoba e razzista. C’è da augurarsi che l’anno prossimo vadano anche a votare.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/minomazz” target=”on” ][/social_link] @minomazz

Quei volti che raccontano il dolore di Parigi e la voglia di andare avanti

Il fotografo William Daniels vive a poche centinaia di metri dal Bataclan. La sera del 13 novembre, come tanti suoi coetanei, era uscito a cena. Quando ha sentito della notizia degli attacchi terroristici non se l’è sentita di imbracciare la macchina fotografica e immortalare l’orrore che stava sconvolgendo Parigi. «Mi chiedevo se andare a lavorare o meno, alla fine non ci sono andato. Credo perché gli attacchi si sono verificati in luoghi molto vicini a me. Il mio quartiere, i miei amici, quello che costituisce la mia vita parigina» ha raccontato Daniels a un giornalista del Time, testata con cui spesso collabora come fotografo «probabilmente avevo paura anche io».
Il giorno dopo però migliaia e migliaia di persone si sono radunate in Place de la Republique e lì Daniels ha iniziato a scattare: «nonostante la paura, la gente non si fermava, continuavano ad arrivare persone. Quella notte però sono riuscito a restare solo un’ora in piazza. Qualcuno dice che un fotografo funziona meglio “se è toccato dalla storia”, ma questo è vero solo fino a un certo punto». Nei giorni successivi però Daniels comincia a fotografare i volti delle persone. Non gli esterni dei locali, non i fori delle pallottole, le candele, i fiori o i messaggi lasciati per strada in segno di cordoglio: i volti. Come se fossero uno specchio o delle lenti per vedere tutto il resto, tutto quello che era successo e tutto quello che ciò che era successo aveva causato:

«Qualcuno piangeva, altri restavano immobili con uno sguardo fisso pianto, altri ancora si abbracciavano, cercavano di consolarsi tra le braccia del compagno o della compagna. Tutto, ogni gesto, in silenzio».

Ecco qualcuno degli scatti che lo stesso Daniels ha postato sul suo profilo Instagram:

 

Place de la Republique, Paris. More on TIME Magazine Lightbox: http://time.com/4116765/paris-terror-attacks-portraits-of-parisians-in-mourning/

Una foto pubblicata da William Daniels (@williamodaniels) in data:

Place de la Republique, Paris. See more on Time Lightbox http://time.com/4116765/paris-terror-attacks-portraits-of-parisians-in-mourning/

Una foto pubblicata da William Daniels (@williamodaniels) in data:

Place de La Republique, last night. Una foto pubblicata da William Daniels (@williamodaniels) in data:


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La strana morte dalla finestra del Monte dei Paschi

Banche, segreti e morti. Lo strano suicidio di David Rossi (l’ex capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, morto il 6 marzo 2013 proprio nel pieno della bufera sull’istituto guidato in quegli anni da Giuseppe Mussari) è ufficialmente oggetto di nuove indagini, dopo che la Procura di Siena ha deciso di riaprire un caso che frettolosamente era stato bollato come “suicidio”. Poco più di un anno fa la Procura aveva rigettato la richiesta della riapertura delle indagini presentata dalla vedova di Rossi, Antonella Tognazzi, con l’avvocato Luca Goracci. Ma ormai sono troppi i punti oscuri di una morte accaduta in un momento sicuramente “opportuno”: David Rossi poche ore prima di quel salto nel vuoto dalla finestra del suo ufficio, aveva scritto al suo superiore una mail in cui dichiarava di voler dire in procura tutto ciò che sapeva dello scandalo Mps. Ma non ne ha avuto il tempo.

Sono tre i foglietti accartocciati ritrovati nel cestino dell’ufficio di David Rossi in cui, a prima vista, sembrava giustificare il suo gesto e chiedere scusa alla moglie. Eppure proprio lei, Antonella Tognazzi, fin da subito ha nutrito una serie di dubbi per il tono con cui il marito le si rivolgeva che, a suo dire, sembrò subito molto diverso dal suo solito. (…)

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