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Tra circo e affari la settimana della politica alla prova di Parigi

Matteo Salvini durante il corte contro l'immigrazione clandestina partito da Corso Venezia con destinazione finale piazza del Duomo a Milano, 18 Ottobre 2014. Sono in migliaia le persone scese in strada per manifestare ''contro l'invasione e le moschee'', Milano, 18 Ottobre 2014. ANSA/ DANIELE MASCOLO

I primi momenti, lo sgomento. Poi il circo. Poi, piano piano i nodi politici che vengono al pettine, con il premier che non vuole parlare di guerra e nella sua periodica e sentimentalissima Enews invita tutti a «non perderci in polemiche di parte», e il ministro della Difesa Roberta Pinotti che difende il lavoro delle aziende che in Italia producono armamenti, e li vendono anche in Medio Oriente, anche in Paesi scossi dai conflitti.

Una carrellata della settimana, giustamente monopolizzata dagli attentati di Parigi, dal susseguirsi di allarmi bomba, stazioni della metro chiuse, stadi evacuati, deve però cominciare dagli orrori che hanno accompagnato lo sgomento. Dalla polemica tra l’editorialista de l’Unità Fabrizio Rondolino e Emergency, dagli status di Matteo Salvini. Tutte cose che ci saremmo risparmiati volentieri, come i titoli di Libero (Bastardi islamici) e del Messaggero (Massacro islamico) o quello del Tempo di due giorni dopo, con la mano che brandisce un crocifisso in prima pagina. Ma facciamo un breve riassunto. Rondolino, ad esempio, ha scritto: «Emergency è un’organizzazione politica antioccidentale mascherata da ospedale ambulante. Va isolata e boicottata» e «Peggio di Belpietro oggi c’è soltanto Gino Strada». In una successiva intervista a La Zanzara di Radio24 ha argomentato meglio, dicendo che lui il 5 per mille lo dà a Medici senza frontiere, perché «fa la stessa cosa senza fare politica». E per politica si intende predicare la pace. Salvini, invece, ha da subito, con Giorgia Meloni, invocato un intervento militare. Salvini non ha perso occasione per amplificare gli allarmi né per alimentare bufale. Beccandosi, nei giorni successivi, una reprimenda non diretta da parte del candidato del Front National alla presidenza della regione parigina: «Non diremmo mai certe cose dei musulmani, chi le dice è uno stronzo». Che (ahinoi) il FN crede di poter vincere le elezioni francesi e per farlo serve non spaventare troppo i moderati. Al resto ci pensa l’ISIS, nemico e alleato naturale.

Proprio al leader della Lega risponde Matteo Renzi nella citata Enews. «Chi fa politica non può concedersi il lusso della superficialità», dice il premier che però non va oltre l’ovvio invito alla prudenza: «Questa partita è molto più complessa di come in tanti la raccontano. Interventi spot possono creare danni ancora più grandi come accaduto in Libia, vicenda di cui noi italiani conosciamo bene le conseguenze. E a quelli che dicono: “chiudiamo le frontiere dell’Europa” voglio ricordare che gli attentatori di Parigi erano francesi, che il boia dell’Isis in Siria – appena ucciso da un drone americano – era un cittadino inglese, che le ricerche di queste ore si stanno concentrando in Belgio e nelle periferie della capitale transalpina, non in Medio Oriente». Renzi si mostra prudente così come prudente è stato Paolo Gentiloni relazionando in parlamento dove ha assicurato che «faremo di più come Paese, perché la situazione lo merita e lo impone», che «reagiremo uniti insieme alla Francia, e possiamo e dobbiamo fare molto di più», ma che «non è il momento dei dettagli».

Più concreta è invece la posizione di Roberta Pinotti e di Mauro Moretti, ad di Finmeccanica chiamati in causa per commentare quanto noi di Left come altre testate abbiamo notato. Sono più concreti, quindi, ma perché interpellati su un aspetto specifico della vicenda, sul paradosso dell’occidente che si trova spesso a combattere gruppi che egli stesso ha armato, armi che ha prodotto e venduto. La polemica è stata ripresa dai parlamentari di Sinistra Italiana e dai 5 stelle, soprattutto da Di Battista. Il Movimento 5 stelle si è però caratterizzato per una posizione più sfumata sulla questione delle frontiere. Come sempre l’immigrazione è un tema scivoloso per Grillo & Co.

Moretti, comunque, della polemica non ne vuole sapere: «I tre episodi, Parigi, Beirut e l’aereo russo, sono stati causati da strumenti poverissimi», dice da Roma, «È così, e in Italia il dibattito e sul commercio delle armi. Ma di cosa stiamo parlando?». Il ministro Pinotti «è tutto nel rispetto della legge» dice invece a proposito del carico di bombe – di componenti, in realtà – prodotte in Italia e partite per l’Arabia Saudita. Avrete visto le foto del cargo 747 partito dall’aeroporto di Cagliari. Il giornalista di Repubblica Francesco Giovannetti, la segue a margine di un convegno e le chiede un commento più politico e meno formale: «Non è che bisogna valutare la possibilità di essere meno ricchi ma più sicuri?». Nessuna risposta. Moretti parla di più. Il collega gli ricorda di quando in commissione al Senato disse «il pacifismo è bello ma ha dei costi». E lui risponde: «Noi siamo un’impresa che lavora secondo le leggi. Abbiamo 50mila persone da dover alimentare come lavoro».


 

Leggi anche: La sharia in Arabia Saudita e quella dell’ISIS, con i primi facciamo affari, i secondi li chiamiamo barbari

«Così abbiamo fermato il terrore». Parla il premio Nobel per la pace

epa05017897 Representatives of the organizations that were part of the Tunisian National Dialogue Quartet (L-R) Houcine Abassi secretary general of the Tunisian General Labor Union, Mohamed Fadhel Mafoudh head of the Tunisian Bar Association, Abdessattar Ben Moussa president of the Tunisian Human Rights League, and Wided Bouchamaoui president of the Tunisian employers, attend a ceremony organized on the occasion of awarding the Nobel Peace Prize 2015 to the Tunisian National Dialogue Quartet, at Carthage Palace, Tunis, Tunisia, 09 November 2015. The Tunisian National Dialogue Quartet was awarded the 2015 Nobel Peace Prize in October for 'its decisive contribution to the building of a pluralistic democracy' and averting civil war in the North African country. EPA/STR

Esplosivo e colpi di mitra contro i luoghi dello svago e della cultura. Ma anche una guerra al terrore e il cambiamento della Costituzione. Tragedie simili eppure con epiloghi diversi, quelle di Francia e Tunisia. Gli attentati di Parigi riportano alla memoria la strage sulla spiaggia di Sousse e quella al Museo del Bardo, a Tunisi. Luoghi che l’avvocato Abdelaziz Essid, premio Nobel per la Pace 2015 assieme alle altre componenti del cosiddetto Quartetto per il dialogo nazionale tunisino, definisce «semplicemente luoghi di vita, di quella gioia consapevole che spaventa i terroristi». Anche per lui, raggiunto al telefono da Left, «le analogie sono evidenti». Però, commenta amaro, è soltanto il segno che «ormai tutto il mondo è Paese».

Avvocato Essid, che cosa intende con questa espressione?
Intanto mi lasci dire che come Ordine tunisino degli avvocati abbiamo espresso la nostra vicinanza ai colleghi di Parigi, Marsiglia, Lione. Poi, le ricordo che a Parigi sono stati uccisi tre miei connazionali assieme a qualche marocchino, qualche algerino, un egiziano, addirittura qualche libanese… Il terrorismo ormai colpisce tutti, non guarda in faccia nessuno. Ora purtroppo è evidente che anche la risposta non è soltanto un problema degli americani o degli arabi.
In Tunisia, però, dopo gli episodi più eclatanti, la battaglia è all’ordine del giorno.
Da noi è in corso una guerra aperta. Ci sono atti violenti ogni giorno: sulle montagne, alle frontiere… ieri (domenica 15 novembre, ndr) abbiamo avuto un soldato ucciso, prima ancora un pastore è stato decapitato. Ma credo di poter dire che ormai abbiamo capito come combattere il terrorismo, intanto evitando di porre troppa enfasi. Abbiamo imparato a stare uniti contro questo male che crediamo non sia soltanto tunisino né arabo, né mediterraneo né mediorientale. È un fenomeno internazionale, questo cancro dell’Isis devono combatterlo tutti.
I fatti non stanno così però: non tutti i Paesi sono schierati contro lo Stato islamico.
Mi creda, se i Paesi arabi avessero la stessa potenza dei Paesi occidentali sarebbero già lì in Siria a combattere contro lo Stato islamico che non ha niente di islamico, niente.
A giudicare da alcuni quotidiani italiani, invece, la colpa è dei «bastardi islamici».
Il Daesh non appartiene al mondo islamico né alla cultura mediorientale. Ho amici dappertutto nel mondo e sono un musulmano praticante: se la mia religione contemplasse atti di terrorismo non l’avrei mai accettata.
Quali sono le cause di questo fenomeno?
Onestamente, è sbagliato sostenere che ci siano cause che in qualche modo giustificano il terrorismo o riconoscerne delle ragioni. È assurdo uccidere degli innocenti per realizzare un obiettivo politico o di qualunque altra natura. Né voi giornalisti né noi uomini di legge dobbiamo mai dare ragione, neanche lontanamente, a un terrorista: per me non ci sono spiegazioni plausibili.
Possiamo dire che un mondo con meno sfruttamento, più eguaglianza e laicità produrrebbe meno terroristi?
Certamente sì, soprattutto un mondo con più giustizia. Ma questa conclusione non deve diventare in alcun modo assolutoria.
Torniamo alla “propaganda”. Perché pensa che non vadano enfatizzate le azioni dell’Is?
Quando è esploso in volo l’aereo russo decollato da Sharm el Sheik – pare a causa di una bomba che l’Isis aveva piazzato a bordo – io non avrei chiuso lo spazio aereo sopra quella zona, perché è quello l’obiettivo dei terroristi, vogliono essere considerati importanti. (…)

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Violenza contro le donne. «Io, ispettore di polizia a Scampia, la combatto così»

Il primo caso lo ricorda benissimo. Era stata la segnalazione dei servizi sociali a far scattare tutta l’operazione. Una donna aveva chiamato dicendo solo: «Aiutatemi, ma ho paura ad andare alla polizia, non posso uscire di casa». E allora cosa ha fatto l’ispettore capo Veronica Quaranta del commissariato di Scampia, Napoli? «Mi sono finta assistente sociale, perché altrimenti non potevamo entrare. E poi sa, vestiti da poliziotti mettiamo un po’ di timore». Dentro l’abitazione, racconta, «abbiamo trovato una donna, che viveva in pratica in una condizione di segregazione da vent’anni. Lui non la chiudeva a chiave, ma la chiamava ogni cinque minuti sul telefono fisso, e se lei non rispondeva quando tornava a casa la picchiava. Infatti era piena di lividi. E poi aveva una figlia disabile e un’altra con problemi scolastici. Il marito l’aveva percossa anche quando era incinta della prima figlia». Un’altra volta la segnalazione arriva dalle suore nel cui istituto si era rifugiata un’altra donna maltrattata. «Insomma andiamo anche noi a cercarcele, non aspettiamo che arrivino in commissariato a denunciare».

Due donne per le donne

Napoletana, una voce vivacissima e un fiume di energia che trasmette anche attraverso il telefono, Veronica Quaranta opera al Commissariato di Scampia, nucleo anticrimine. Con una specializzazione, però: insieme alla collega Carmela Serrone si occupa dei reati di maltrattamento nei confronti delle donne e dei bambini.  Domenica 22 novembre sarà a Milano per il WeWorld film festival, la rassegna della omonima Ong incentrata sulla tutela dei diritti delle donne e dei bambini. Dove racconterà la sua esperienza. Perché più si rende noto questo “mondo parallelo” delle violenze dentro le mura domestiche e più si intacca quel pensiero comune per cui sembra quasi impossibile riuscire a rifiutare un rapporto “malato”. «Quando sono arrivata a Scampia nel 2012 non c’era molta attenzione a questi problemi, nel 2015 sono state 100 le denunce trattate» dice l’ispettore Quaranta che dopo il concorso vinto ha passato sette anni a Milano. In poco tempo le due poliziotte sono riuscite – anche grazie alla collaborazione con le associazioni di Scampia – a diventare un punto di riferimento. «Siamo due donne per le donne», racconta Veronica Quaranta.

La stanza di Alice nel commissariato

Nel commissariato è stata creata una stanza speciale, con un arredamento ad hoc anche per accogliere i bambini che spesso assistono ai colloqui tormentati delle madri con le poliziotte. E’ la stanza di Alice, inaugurata un anno fa. «Ci sono i murales dipinti da Franco Vicario, con forti simbolismi: i fiori molto grandi che significano che i diritti che vanno mai calpestati, e poi c’è un sole enorme, che deve dare sicurezza ai bambini, Il diritto all’infanzia deve essere dovunque e comunque, anche in un commissariato. È importante offrire un ambiente in cui essere sereni specialmente quando devono ascoltare le loro madri. E poi in un clima più tranquillo è più facile lavorare».

Donne maltrattate di tutte le età

Il territorio di cui si occupano le due ispettrici è vasto: Scampia, ma anche Chiaiano, Piscinola e altri quartieri, in pratica quasi una media città italiana. E le situazioni sociali e psicologiche delle donne sono tutte diverse. Ragazze giovanissime, anche di 15 anni, con il fidanzato che non tollera la separazione fino ad arrivare a donne mature di 50 e 60 anni. E non esiste uno stereotipo di intervento. Veronica Quaranta ci tiene a precisarlo. «Bisogna vedere davvero caso per caso. Noi abbiamo cercato di creare un canale preferenziale in modo che si crei un clima di fiducia che è quello che conta, anche perché queste sono persone che hanno vissuto un trauma. A volte ci ripensano. Non se la sentono oppure si trovano in una situazione difficile in cui anche la stessa loro famiglia disapprova. E poi, dicono, vorrebbero fare un altro tentativo, pensando al bene dei figli». E’ la stessa dinamica che vivono tutte le donne, di qualsiasi età e classe sociale. «Uno degli ultimi casi riguardava una donna laureata che, dalla nascita del figlio, veniva sottoposta dal marito a violenze sessuali e fisiche per diverso tempo, finché non ha trovato la forza di denunciarlo» racconta ancora l’ispettore. Quella delle due poliziotte è anche una corsa contro il tempo. «Noi dobbiamo fornire gli strumenti necessari per il pubblico ministero affinché si attivi a richiedere misure di natura cautelare per garantire la sicurezza della donna che è il primo passo fondamentale. E questo dopo una indagine approfondita sia documentale che attraverso le testimonianze, ma sempre nel più breve tempo possibile».

Sensibilità, l’arma contro la violenza

Quando le donne maltrattate non sanno dove andare perché magari si ritrovano senza un lavoro né un tetto, dal commissariato scatta il contatto con i centri antiviolenza del territorio. E poi ci sono gli assistenti sociali e la rete delle associazioni che a Scampia è sempre più attiva, segno che il tessuto sociale è reattivo e per nulla rassegnato. In questo ambiente operano i due ispettori donna che “risolvono i problemi” come sono state chiamate un giorno. Ma la battaglia è ancora lunga, è anche di tipo culturale e forse riguarda l’acquisizione di una maggiore  sensibilità anche all’interno delle stesse forze dell’ordine. I mariti o i compagni violenti sono difficili da identificare, spesso sembrano persone perbene, controllate. Poi dentro casa diventano altri, esseri disumani. Certo, se il “metodo Scampia” fatto di relazioni di fiducia e di sensibilità, si diffondesse, le donne maltrattate avrebbero molte più possibilità di liberarsi dai loro uomini violenti. E si potrebbe «recuperare una vita», come dice l’ispettore Quaranta.

Da Parigi a Bamako, cronologia per immagini di una settimana lunga e difficile

A man reads a newspaper with a headline reading "War in the heart of Paris" in a hotel lobby in Paris, France, Saturday, Nov. 14, 2015. French police are hunting possible accomplices of eight assailants who terrorized Paris concert-goers, cafe diners and soccer fans in this country's deadliest peacetime attacks, a succession of explosions and shootings that cast a dark shadow over this luminous tourist destination. (AP Photo/Peter Dejong)

13-20 novembre: Dal panico allo Stade de France, all’assedio del Radisson a Bamako. Le foto di una settimana di terrore, dolore, solidarietà e venti di guerra

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La nuova scienza dal mare dei Big Data

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Il primo genoma umano è stato sequenziato per intero nel 2001. Dodici anni dopo, nel 2012, i Dna disposti in ordine per intero erano nell’ordine del migliaia. Poi in Islanda la DeCode Genetics ha raccolto i dati genetici completi di 15.000 cittadini, riuscendo a elaborare per ciascuno il rischio di contrarre malattie come il diabete, l’Alzheimer e, per le donne, il cancro al seno. Nel Regno Unito il Genome project lanciato nel 2014 conta di sequenziare il genoma di 100.000 sudditi di Sua Maestà britannica. Mentre gli Stati Uniti, con la Precision medicine initiative, e la Cina, con il progetto del Bgi di Shenzhen contano ciascuno di mettere insieme, una via l’altra, i 3 miliardi di basi del Dna di un milione di loro cittadini. La progressione è inarrestabile. Tanto che la rivista Nature prevede che, entro il 2025, i biologi avranno sequenziato e potranno comparare il Dna di un miliardo di persone in tutto il mondo. E dovranno, pertanto, gestire una quantità senza precedenti di informazioni: probabilmente 40 petabytes (ovvero 40 milioni di gigabytes) per anno.
Ma non c’è solo il genoma. Come dimostra il fatto che in Islanda la DeCode Genetics ha già raccolto e comparato dati relativi alla storia medica di 150.000 isolani. In futuro avremo banche dati con informazioni le più varie, relative a migliaia, milioni, miliardi di persone. A puro titolo di esempio ricordiamo che l’Ebi, l’European bioinformatics institute, un centro di ricerca dell’European molecular biology laboratory (Embl) che ha sede presso il Wellcome trust genome campus di Hinxton, nei pressi di Cambridge, in Gran Bretagna, tra il 2008 e il 2010, ha quadruplicato la quantità bytes accumulati: passando da 1 a 4 petabytes. Una delle più grandi librerie del mondo, la Library del Congresso degli Stati Uniti, a Washington, con i suoi 28 milioni di libri e i suoi 50 milioni di manoscritti conserva una quantità di informazione pari a circa 20 terabytes (20.000 gigabytes). In pratica è come se la biblioteca virtuale dell’Ebi già nel 2010 contenesse 200 biblioteche del Congresso degli Stati Uniti. Ed è come se il mondo intero si accingesse ad aggiungere ogni anno 2.000 Library del Congresso degli Stati Uniti alla sua banca di dati biomedici. La verità è, come sostiene Nature in un recente dossier, che la biomedicina sarà (è già) dominata dai big data. E che questa enorme quantità di dati modificherà (sta modificando) nel profondo la scienza medica. Con ricadute difficili da immaginare per la farmaceutica e più in generale per la clinica medica. E per chi avesse qualche dubbio, basterà forse a dissiparli il fatto che già adesso grandi aziende stanno investendo miliardi di dollari nei big data. E non c’è solo la biomedicina. Discorsi analoghi si possono fare per molti altri settori della scienza. Per dirne una, un solo esperimento con Lhc al Cern di Ginevra raccoglie dati per 10 petabytes (500 Library del Congresso). Per contenerli e gestirli tutti, questi dati, è necessario distribuirli in svariate decine di megabanche sparse per il mondo.
E non è finita. Da qui a qualche anno lo Square kilometre array (Ska), un grande radiotelescopio distribuito su migliaia di chilometri quadrati tra l’Africa del Sud e l’Australia, raccoglierà 1.000 di petabytes di dati al giorno. Il che significa che ogni 24 ore quel grande orecchio carpirà all’universo una quantità di informazioni pari a quelle contenute in 50.000 Library del Congresso americano.
Non c’è dubbio: i big data cambieranno (stanno già cambiando) la scienza intera. Qualcuno obietterà: ma l’informazione, di per sé, non è conoscenza. E, dunque, i big data non fanno scienza. Il nostro critico ha ragione. O, almeno, avrebbe avuto ragione anche in passato. Ma oggi, sostengono Tony Hey, Stewart Tansley e Kristin Tolle, in un libro, The Fourth Paradigm. Data-Intensive Scientific Discovery, pubblicato dalla Microsoft nel 2009, il salto di quantità nella produzione scientifica di dati è tale da realizzare di per sé un salto di qualità. L’informazione raccolta a scala così grande è, o si trasforma facilmente in, nuova conoscenza. Per questo hanno annunciato l’avvento di un “quarto paradigma” nella storia della scienza. Un nuovo modo di estrarre conoscenza dal mondo naturale attraverso l’analisi automatica dei big data.
In realtà, il primo a parlare di un “quarto paradigma” associato ai big data è stato Jim Gray, un informatico che ha collaborato a lungo con la Microsoft nel tentativo di convincere il mondo intero che siamo entrati in una nuova era epistemologica. Non è un visionario, Jim Gray. Ha vinto, infatti, il premio Turing assegnato ai grandi matematici e conviene, dunque, ascoltarlo.

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Dal petrolio al porno. ecco il tesoro dell’Isis: 2 miliardi di dollari per finanziare il terrore

isis-pornografia

Uno “Stato” a caccia di risorse

Fin dall’inizio della sua rapida avanzata, nell’estate del 2014, l’Is ha sapientemente scelto i territori da annettere. Attualmente sotto il suo controllo c’è una zona grande quasi quanto l’Italia, a cavallo tra la Siria orientale (da Aleppo a Deir el-Zor) e l’Iraq centrale (da Mosul a Rutba). Quartier generale e “capitale” sono nella città siriana di Raqqa. Lo Stato (totalitario) islamico ha i suoi tribunali islamici, la polizia morale, scuole, media professionali per la propaganda e un esercito permanente. Ma un apparato di questo tipo costa parecchi quattrini.

Sfruttamento del territorio

Aymenn al-Tamimi, ricercatore presso il Forum sul Medio Oriente del Regno Unito, durante uno dei suoi viaggi in incognito in Siria è entrato in possesso di una copia del libro mastro di un Diwan (dipartimento governativo) del Bayt al-Mal (ministero delle Finanze). Si riferisce al governatorato di Deir el-Zor, provincia ricca di petrolio della Siria orientale sotto il controllo del Daesh dall’inizio del 2014. Quei documenti rivelano che in un solo mese (dal 23 dicembre 2014 al 22 gennaio 2015) nelle casse del governatorato sono entrati oltre 8 milioni di dollari. Quasi il 45% di quella somma viene dalla voce “confisca” che supera tutte le altre, come petrolio e gas (27,7%), tasse (23,7%), vendita di elettricità (3,9%). La popolazione finita sotto il loro dominio viene quindi costantemente depredata.

Gli ostaggi

Altre “voci di bilancio” arrivano dagli ostaggi. Quelli che non vengono uccisi, vengono “restituiti” in cambio di un riscatto. Per la liberazione di alcuni di loro è stata indetta una vera e propria asta al miglior offerente. Impossibile stimare quanto ottenga l’Is da questo business. C’è poi il traffico di esseri umani. Un rapporto dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) ha denunciato che oltre 25.000 donne e bambini sono stati catturati, violentati e venduti come prigionieri di guerra.

La pornografia

Gli stupri per il Daesh sono un diritto. L’ufficio propaganda dell’Is ha addirittura realizzato un “manuale di istruzioni” per i guerriglieri. Il mercato del sesso è esploso e viene alimentato da schiave e prigioniere, tenute in veri e propri campi di concentramento sessuali. Questo e altri orrori del Califfato sono raccontati nel libro Soldatessa del califfato, scritto da Simone di Meo e Giuseppe Iannini (Imprimatur, 2015), lucido e drammatico racconto di quanto visto e vissuto in prima persona a Raqqa dalla moglie (oggi in fuga) di uno dei capi combattenti tunisini del Daesh. La donna rivela anche che quando queste prede sessuali hanno i corpi ormai devastati dalle violenze, vengono letteralmente «dissanguate per soddisfare il continuo bisogno di plasma per le trasfusioni dei combattenti feriti». Per non parlare del fatto che il Daesh fa soldi persino «vendendo alla rete della pornografia mondiale i video degli stupri di gruppo sulle povere ragazze yazide e sulle prigioniere di guerra occidentali».

La droga

Secondo il Servizio federale russo di controllo sugli stupefacenti, il Daesh sta trasformando la città irachena di Ninive, nei pressi del confine con la Turchia, in un nuovo centro del narcotraffico mondiale.

Ma non finisce qui. Altre entrate sono garantite dai i pozzi di petrolio, dalle esportazioni di cotone, dal mercato delle opere d’arte trafugate.

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L’articolo completo è sul numero 44 di Left in edicola dal 21 novembre

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C’è una battaglia culturale che si può fare senza guerra e senza lucro

“Il lucro. Il capitalismo ha vinto, non c’è comunismo che tenga e le società capitalistiche devono fare lucro. è il loro primo obiettivo. Capito? L’impresa deve avere scopo di lucro”. Mi hanno ripetuto così, anche questa mattina. È vero. Il lucro. Lo capisco, le società capitalistiche non stanno in piedi altrimenti. è una presa di realtà necessaria. Obbligata. Solo che poche settimane fa ascoltavo importanti economisti raccontare la storia dell’homo economicus. Raccontavano che non dice la verità degli esseri umani. è una realtà, senza dubbio, ma non dice la verità. Anzi la nasconde per “produrre” solo la realtà. Del lucro. Sottraendo persino la cognizione generale di una verità “umana” diversa.
In questi giorni di particolare “terrore” pensavo a questo schema e al lucro. A questo modo di non pensare gli uomini e le relazioni. Di non pensare persino la vita “umana”. In questa stramba copertina di Left è come se provassimo a saldare due pazzie, quella che fa il terrore, che produce morte, perché ha in odio la vita umana, come racconta l’avvocato Abdelaziz Essid, premio Nobel per la Pace 2015, su questo numero: «I bar, i ristoranti, i musei… nel loro mirino ci sono i luoghi della vita. Dove c’è la gioia e dove si incontra la gente. Ciò che il terrorismo rifiuta è la comunità consapevole, la libertà di autodeterminarsi. Tutto questo non gli appartiene». E la pazzia che porta all’estremo la logica del lucro. Perché, per assurdo, anche i pazzi dell’Is credono di gestire un vero e proprio Stato, come vi racconta nella sua inchiesta Alessandro De Pascale, producono bilanci e puntano al profitto. Si comportano, in realtà, come una holding qualsiasi vendendo droga, armi, arte e corpi. Non vite umane. Quelle le eliminano.
E (un po’ meno per assurdo) anche i nostri cari mercati “occidentali” pensano al lucro e reagiscono bene alla notizia che la Francia bombarda i pozzi, perché potrebbe favorire la crescita del prezzo del petrolio. Tutto, estremizzando, diventa occasione di lucro, persino le prospettive di guerra. Lucro politico (Hollande e le sue frontiere chiuse), lucro economico (una nuova guerra). Meno che lucro umano (nessuno pensa a dare una risposta a quel disagio che produce “pedine” di terrore nostrano, vedi la vecchia storia delle banlieue francesi). Sarà che non produce lucro sufficiente?
Eppure Essid ci racconta il contrario: «C’è un’altra arma che secondo me arriveremo un giorno o l’altro a mettere in campo. Per far fronte al terrorismo ci vuole una coalizione internazionale, non un Paese soltanto ma un fronte unito e vasto. E sul piano locale, delle singole nazioni, tutta la popolazione deve sentirsi protagonista di questa battaglia culturale prima che militare». C’è una battaglia culturale che si può fare senza guerra e senza lucro. Che racconta la verità “umana”. Per esempio, quella di un gruppo di avvocati che è sceso in piazza per difendere i manifestanti che volevano la democrazia contro un governo islamico «indossando la stessa toga che utilizziamo in tribunale. Abbiamo promesso di difenderli in strada come difendiamo in aula i nostri clienti. E per mantenere quella promessa tanti colleghi avvocati hanno perso la vita… Ma la parola militante – lo dico con tutta la modestia di questo mondo – nella storia dell’avvocatura tunisina trova il suo vero senso». Che racconta di un processo collettivo. Di un fare le cose per niente. Perché quel niente è tutto. è una Costituzione, è un governo democratico, è la sola arma del dialogo, è una popolazione che aumenta «la sensibilità» e rifiuta il terrorismo. è il futuro. Dell’umanità certo. Non degli animali, che continueranno a uccidere e a uccidersi per sopravvivere, è naturale che lo facciano. Rispondono ad istinti. Noi no. Noi abbiamo quell’insopprimibile capacità di reagire che tanto devono odiare quelli che oggi chiamiamo terroristi (perché producono terrore) e ieri in qualche altro modo, quando attaccano la vita “umana”, che è libertà di pensare, di scegliere, di sentire. Di rifiutare. Di essere.

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L’opposizione a Renzi? Ci pensano i metalmeccanici

manifestazione fimo 21 novembre maurizio landini

Il 21 novembre, a Roma, la Fiom di Maurizio Landini torna in piazza. Una manifestazione che ha al centro il rinnovo del Contratto nazionale dei metalmeccanici, ma anche l’opposizione alle politiche del lavoro – e non solo del lavoro – del governo Renzi. Con le spalle forti di chi, da sei mesi, punta a un percorso collettivo con la Coalizione sociale, questa volta Landini trascina in piazza i metalmeccanici per rivendicare i diritti dell’intero mondo del lavoro. E alza il tiro con un nuovo Statuto dei lavoratori, di tutti i lavoratori, e gli imminenti referendum abrogativi. «Che la manifestazione della Fiom non sia solo un affare dei metalmeccanici dimostra che oggi, per ottenere determinati risultati, devi allargare la tua rappresentanza», il leader della Fiom ne è certo.

Una settimana dopo l’attacco terroristico a Parigi, l’Europa è ancora sotto shock e aumentano i controlli, sarete comunque in piazza sabato?
Certo. Non possiamo fermarci, dobbiamo manifestare per confermare i nostri valori, farli vivere e non arrenderci alla paura. La libertà, la solidarietà, la giustizia sociale e l’eguaglianza – i princìpi della nostra civiltà – si praticano ogni giorno. Questa è l’unica risposta che un’organizzazione sociale come il sindacato può dare alla barbarie, per dare un senso alla democrazia e riempirla di una partecipazione che non possiamo delegare agli Stati o alle autorità, chiudendoci in casa.
Avete fatto i conti con quella certa frustrazione che aleggia tra chi, generalmente, manifesta?
Nell’ultimo anno il contrasto alle politiche del governo c’è stato. Con gli scioperi e non solo, si pensi per esempio al movimento della scuola. È vero che nonostante la mancanza di consenso alle sue politiche, Renzi è andato avanti lo stesso. Come per dire che non gliene frega nulla e che non serve a nulla mobilitarsi. Quindi, sì, c’è stata anche frustrazione e ripartire non è facile. Ma penso che proprio perché il governo vuole utilizzare questa crisi per affermare un cambio radicale del sistema sociale e dei valori fondamentali – dell’eguaglianza e della giustizia sociale – è importante mettere al centro i contenuti, le idee, il progetto che noi tentiamo di affermare. Altrimenti c’è il rischio che la rivolta assuma terreni pericolosi come se il nemico fosse il diverso, il migrante, il povero…
Cosa chiedete?
Democrazia, cioè che tutti lavoratori possano votare sulle politiche del lavoro e certificazione della rappresentanza; una contrattazione annua del salario sulla base del modello tedesco; che i minimi salariali del Contratto non siano derogabili e diventino il riferimento legislativo per il salario minimo. E poi introduciamo qualche innovazione, come l’unificazione dei diritti di tutte le persone che lavorano dentro lo stesso luogo, a prescindere dal rapporto di lavoro che hanno: minimo salariale, limiti di orario e tutele su maternità, infortuni, malattie, ferie, Tfr… chiediamo anche che venga garantita la formazione, come diritto delle persone a essere formati.
Obiettivi audaci, pensate davvero di ottenerli? Con un governo che attacca i diritti del lavoro e la gran parte dei lavoratori che non conosce più i suoi stessi diritti?
Sono obiettivi importanti che non sarà facile ottenere. Il governo sta modificando i rapporti di forza, e le relazioni sindacali e industriali, attraverso interventi legislativi che non sono frutto di una contrattazione tra le parti ma una scelta fatta a tavolino. Davanti a questo, dobbiamo riformare il sindacato ponendoci un nuovo orizzonte che deve provare a rappresentare tutto il lavoro, compreso quello autonomo. La nuova frontiera deve essere uno Statuto dei diritti delle lavoratrice e dei lavoratori che riguardi tutte le forme di lavoro.
Ma il vuoto di rappresentanza ha indebolito anche il sindacato, oltre che i lavoratori. E il fatto che siano i metalmeccanici a farsi carico di tutto forse ne è una prova…
È un salto culturale necessario. Le iniziative sindacali classiche – manifestazioni, sciopero e contrattazione – si scontrano con questa frantumazione che impedisce di rappresentare tutti. E questo viene usato dal governo come una clava per cambiare l’intero quadro, anche a fronte di una debolezza del quadro politico che si è determinata. La nostra debolezza nasce proprio da questa frantumazione, divisione e incapacità di rappresentare tutti.
Un nuovo Statuto dei lavoratori si scontra con il Jobs act, serve un referendum abrogativo…
Sì, che vada a completare la nostra azione, accanto agli scioperi generali, alle manifestazioni e alle azioni contrattuali. Sapendo che questo vuol dire allargare la tua rappresentanza e la tua egemonia culturale, perché a votare non ci andranno solo i lavoratori dipendenti… Sarà necessario costruire un’alleanza vasta in grado di essere maggioranza nel Paese.

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Arabia Saudita, condannato a morte un poeta per apostasia. Il sistema giuridico è uguale a quello dell’Isis

Un tribunale saudita ha condannato un poeta palestinese a morte, l’accusa secondo i documenti visionati dal ricercatore di Human Rights Watch in Medio Oriente Adam Coogle, è di apostasia.

Ashraf Fayadh è stato arrestato dalla polizia religiosa del Paese nel 2013 a Abha, nel sud-ovest dell’Arabia Saudita, e poi nuovamente arrestato nei primi mesi del 2014.

Il primo verdetto del tribunale lo aveva condannato a quattro anni di carcere e 800 frustate, ma dopo l’appello un secondo giudice ha sentenziato che Fayadh deve morire.

Il sistema giudiziario dell’Arabia Saudita si basa sulla legge islamica della Sharia e suoi giudici sono chierici ultra conservatori di scuola wahhabita. Nell’interpretazione wahhabita della Sharia, i crimini religiosi, tra cui la blasfemia e l’apostasia comportano la pena di morte.

Nel gennaio scorso lo scrittore liberale Raif Badawi veniva fustigato 50 volte dopo una condanna a 10 anni di carcere e a 1.000 frustate per blasfemia, suscitando una protesta internazionale. Badawi resta in carcere, ma i diplomatici dire che è improbabile che possa essere frustato di nuovo.

I giudici sauditi hanno il potere di comminare condanne in base alla propria interpretazione della Sharia. Dopo che un caso è stato ascoltato dai giudici inferiori, le corti d’appello e la corte suprema, un imputato condannato può essere perdonato dal re.

La condanna di Fayadh si regge sulla testimonianza di una persona che sostiene di averlo sentito imprecare Dio, Maometto e l’Arabia Saudita, e per il contenuto di un libro di poesie che aveva scritto diversi anni fa.

La notizia fa scalpore per due ragioni: la prima riguarda la similitudine quasi totale tra il sistema giuridico saudita e quello in vigore nelle zone di Iraq e Siria controllate dall’Isis. Un confronto lo trovare qui sotto, pene corporali e morte per reati che reati non sono o pene feroci per reati criminali minori. Le differenze sono minime e se si condanna per barbarie quella dell’Isis sarebbe almeno il caso di esercitare furibonde pressioni sul governo di Riad e sulla monarchia saudita.

(Elaborazione grafica di Giorgia Furlan)

La seconda questione, di fronte a questa condanna, riguarda l’Italia. Nelle settimane scorse sono infuriate le polemiche sulla visita lampo di Matteo Renzi in Arabia Saudita. Come è noto, il paese è tra i primi luoghi verso i quali Finmeccanica e altre imprese italiane esportano armi. Di recente si è parlato di un carico partito il 30 ottobre: il cargo 4K-SW888 Boeing 747 della compagnia aerea azera Silk Way Airlines, decollato da Cagliari carico, secondo le Ong pacifiste che hanno diffuso la notizia, di diverse tonnellate di bombe della RWM Italia, azienda bresciana di proprietà del gruppo tedesco Rheinmetall, con impianti in Sardegna. Una fornitura che prosegue da anni: circa 5mila pezzi per oltre 70 milioni di euro. Un carico successivo sarebbe partito il 18 novembre.

In queste settimane abbiamo letto che l’Arabia Saudita – per altro impegnata in una guerra regionale in Yemen, dove non si contano i civili morti e le violazioni dei diritti umani – assieme ad altri tra gli emirati della penisola araba, è tra i finanziatori del terrorismo internazionale, come si legge (grazie a Wikileaks) nei documenti interni del Dipartimento di Stato in maniera inequivoca.

Come ha scritto Kamel Daoud sul New York Times, l’Arabia Saudita wahabita è un ISIS che ce l’ha fatta. Farci affari, non condannarne le violazioni dei diritti umani è grave. Specie nei giorni in cui, da un lato all’altro del pianeta, si contano i morti di quel terrore e ci si prepara (non l’Italia, questo è vero) alla guerra.

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Bamako, concluso l’attacco: liberati gli ostaggi, 27 i morti

People run to flee from the Radisson Blu Hotel in Bamako, Mali, Friday, Nov. 20, 2015. The company that runs the Radisson Blu Hotel in Mali's capital says assailants have takenhostages in a brazen assault involving grenades. (AP Photo/Harouna Traore)

Colpiscono a tutto tondo. Colpiscono ovunque, colpiscono continuamente. Beirut, Parigi, Kano e Yole (Nigeria). Quaranta, 130, 50, i numeri dei morti; altrettanti quelli dei feriti.

Questa volta, stamattina, è toccato a Bamako, capitale del Mali: “solo” tre morti, per ora, ma 170 ostaggi nelle mani armate dei terroristi. Mentre scriviamo arriva la notizia che non ci sono più ostaggi nelle mani dei terroristi, il blitz delle forze di sicurezza maliane e dalle forze d’azione statunitensi e francesi (le squadre speciali sono partite in tutta fretta da Parigi), si è concluso con 18 morti. Il commando era arrivato com auto targate “corpo diplomatico” e si era appropriato, piano dopo piano, dell’albergo, l’hotel Radisson Blue (noto per ospitare stranieri e diplomatici). Arrivati al settimo piano si sono asserragliati con gli ostaggi. Caratteristica diversa dagli altri attentati, questa volta, un’unica distinzione fatta dei jihadisti: la liberazione di coloro in grado di recitare i versi del Corano.

L’assalto del commando (una dozzina di terroristi con armi da fuoco e granate) è avvenuto al grido ormai tristemente noto e indebitamente macchiato di sangue “Allah u Akbar!”, Dio è grande.
La matrice islamista dell’attacco terroristico, è stigmatizzata dal presidente maliano : «Condanno nella maniera più ferma possibile questo atto barbaro che non ha niente a che vedere con la religione», ha detto Idriss Déby Itno, parlando del suo popolo, all’80 per cento di musulmani sunniti che nulla hanno a che fare con la guerra a colpi di terrore dell’Isis.

Fra le persone liberate, anche 12 membri dell’equipaggio Air France, ma molti gli ospiti francesi ancora chiusi nel Radisson. «Ancora una volta i terroristi hanno voluto segnare la loro presenza barbara, in luoghi dove possono uccidere e impressionare. Dobbiamo dimostrare la nostra solidarietà al Mali, un Paese amico», ha detto il presidente francese François Hollande, che proprio ieri aveva ipotizzato che uno dei motivi dell’attacco in Francia, potesse essere proprio l’intervento della nazione in favore del Mali nel 2013, che scese in campo proprio per liberare il nord del Paese dagli estremisti islamici nel 2012.
Dopo l’intervento francese la guerra ha preso la piega del terrorismo che va avanti nel silenzio da tre anni, e che ha già visto diversi attentati colpire la capitale, l’ultimo dei quali a marzo, che aveva provocato 5 morti fra cui un francese e un belga.