Home Blog Pagina 1253

Gli Stati Generali di Possibile. Cosa succede a Napoli

pippo-civati-possibile-napoli-stati-generali

I deputati di Possibile, guidati da Pippo Civati, non hanno voluto partecipare alla nascita del gruppo parlamentare Sinistra Italiana, che ha riunito i deputati di Sel e sei fuoriusciti dal Pd, tra cui Alfredo D’Attorre e Stefano Fassina. «Non facciamo operazioni di palazzo» ha spiegato più volte Civati, che tanto D’Attorre quanto Fassina dicono però di attendere a braccia aperte. Agli Stati Generali di Possibile, questo sabato a Napoli, all’Arenile di Bagnoli, i deputati civatiani arrivano però avendo fatto nascere una nuova componente in parlamento. Operazione giudicata meno di vertice, e forse perché invece che un nome nuovo si è solo messo un trattino tra Alternativa Libera, la componente del gruppo misto di alcuni ex 5 stelle, e Possibile.

Ci sarebbe spazio per polemizzare, cosa che fanno, dai due fronti, ma forse possiamo concentrarci sulla nota di Rifondazione Comunista di Paolo Ferrero (come Civati critico all’operazione di Sinistra Italiana) che dice soltanto «l’importante è che ci si ritrovi tutti a gennaio», quando cioè è stato convocato un primo appuntamento per la costituente di un nuovo partito unitario, il 15, 16 e 17 gennaio.

E si vedrà. Anche perché come scrive lo stesso Civati, «ogni singola decisione, anche quelle in palese contrasto con l’impostazione originaria», a Napoli, «sarà sottoposta al voto di ciascuno di noi. A Napoli faremo una cosa diversa dal passato e anche dal presente. Qualcuno forse non ne comprenderà il significato, ma sarà un passaggio per molti di noi decisivo».

Alternativa libera e #Possibile. Oggi alla Camera dei deputati la presentazione della componente con Luca Pastorino, Marco Baldassarre e Massimo Artini.http://webtv.camera.it/archivio?id=8631&position=0

Posted by Possibile on Martedì 17 novembre 2015

Possibile così si organizza. Verrà presentato uno statuto – e gli emendamenti ricevuti dai territori – e una piattaforma di partecipazione online..

Dagli Stati generali di Possibile usciranno poi le nuove campagne referendarie, per l’anno prossimo, per riprendere i temi lanciati con il tentativo di questa estate – tentativo fallito, anche per via del mancato sostegno delle altre organizzazioni della litigiosa sinistra.

Costante sarà il filo con la piazza di Maurizio Landini, con Pippo Civati dispiaciuto perché è la prima manifestazione della Fiom che salta, ma solo perché l’appuntamento di Possibile era già stato convocato. Forte il richiamo ai fatti di Parigi. «Ho proposto a chi li sta organizzando», scrive Civati sul suo blog, «che il delegato di Parigi apra gli Stati generali di Possibile». Per Civati, quella di Napoli, è un’assemblea che non ha precedenti: «Non credo che esista in Italia – esiste forse qualche analogo europeo – qualcuno che discuta in questo modo», continua nello stesso post, qualcuno «che presenti i documenti in anticipo rispetto all’assemblea, che raccolga le proposte contrastanti e le pubblichi (succederà nelle prossime ore), che riporti le decisioni a tutti gli iscritti».

 

500 posti al Mibact. Giuliano Volpe: «Non si mortifichi chi ha competenze qualificate»

«E’ inaccettabile che basti il primo livello di formazione, quello della laurea triennale, per partecipare ai concorsi per 500 posti di funzionari tecnico-scientifici del ministero», dichiara Giuliano Volpe presidente del Consiglio superiore dei beni culturali e paesaggistici, commentando l’emendamento alla legge di stabilità passato al Senato (ora in discussione alla Camera) che chiede la laurea triennale agli aspiranti nuovi assunti del Ministero dei beni culturali e del turismo (Mibact). Dopo il parere negativo del Consiglio che in una mozione ha stigmatizzato “il chiaro sapore demagogico» della decisione «evidentemente assunta in maniera leggera e frettolosa», anche l‘Associazione nazionale archeologi e la Consulta universitaria nazionale per la storia dell’arte hanno espresso «viva contrarietà all’emendamento alla Legge di Stabilità approvato lo scorso 13 novembre», sottolineando l’importanza delle competenze specialistiche e qualificate dei funzionari pubblici.
«Il lavoro nell’ambito della tutela richieste competenze specifiche, che non possono essere garantite dal primo livello di studi universitari, che come sappiamo è un livello molto di base», spiega il presidente Volpe, archeologo e docente dell’Università di Foggia. «Riteniamo necessario salvaguardare chi ha fatto tanti sacrifici personali per studiare, magari anche andando a lavorare all’estero, acquisendo molte specializzazioni, dalla laurea magistrale, alle specializzazioni ai dottorati». In campo non c’è soltanto la questione della «salvaguardia di una professione e di un percorso di studi», ma anche, prosegue il professore “la preoccupazione di avere personale adeguato alle sfida che dobbiamo affrontare con la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio. Abbiamo affrontato da poco la questione del silenzio assenso introdotto dalla legge Madia che richiede una risposta entro 90 giorni, a maggior ragione serve personale molto qualificato per poter dare in modo efficiente risposte competenti e valide. Serve personale qualificato. E ci vuole una formazione adeguata. Questo è irrinunciabile”.

Il governo ha risposto alla mozione del Consiglio superiore dei beni culturali?
Il ministro Dario Franceschini e il sotto segretario Ilaria Borletti Buitoni, devo dire, si sono immediatamente attivati. Per altro ho avuto notizia, di un “contro emendamento” o per meglio dire di un emendamento che porterebbe al superamento di questo approvato dal Senato in commissione Bilancio. Sarà presentato dalla presidente della commissione cultura della Camera.

Il nuovo bando per 500 posti interrompe l’annoso blocco delle assunzioni?

E’ una conquista, avere finalmente nuovi posti. Dopo anni e anni di blocco delle assunzioni. L’ultimo concorso è stato fatto dieci anni fa ed erano numeri ben più ridotti rispetto ai 500 posti di cui si parla oggi. Bisogna andare a venti anni fa per trovare un’apertura di questa entità. I futuri assunti andranno a coprire i vuoti attualmente presenti nell’organico. Bisogna considerare che stanno per andare in pensione numerosissimi funzionari che furono assunti tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. In questo caso,come ho anche scritto, l’emendamento che prevede la laurea triennale diventerebbe un boomerang pericoloso con il rischio di non riuscire ad avere alti livelli di competenza. Senza contare che visto il numero grandissimo di partecipanti ai concorsi per 500 posti avremmo tempi lunghissimi e costi aggiuntivi per la pubblica amministrazione. Non solo per la gestione della fase concorsuale. Ma anche dopo. Una volta assunte, lo Stato dovrebbe spendere per formare adeguatamente queste persone. Toccherebbe al ministero fare una formazione ad hoc. E tutto questo quando ci sono migliaia di ragazzi e ragazze che sono già adeguatamente formati e non hanno un posto di lavoro.

Con la riforma Gelmini la storia dell’arte non si studia più nelle scuole. Accade in tantissimi istituti in Italia. Lei ha scritto un libro per Electa intitolato Patrimonio al futuro, non pensa che sia un insegnamento da reinserire?
In realtà la storia dell’arte nelle scuole tornerà nelle scuole, in forme nuove. Io penso che non dobbiamo pensare al suo insegnamento solo in maniera tradizionale. La storia dell’arte va intesa come educazione al patrimonio culturale in senso più globale. Da questo punto di vista c’è già stato un accordo fra i due ministeri, il Mibact e il Miur, per avviare dei piani di educazione al patrimonio. Quest’anno per la prima volta è stato presentato un piano di educazione al patrimonio. Lo abbiamo discusso all’ultima riunione del Consiglio. Detto questo, è evidente che la formazione deve partire fin dai primi anni scolastici ed essere presente in tutto il percorso di studi, se vogliamo avere dei cittadini consapevoli. In questo senso l’insegnamento della storia dell’arte – e più globalmente – del patrimonio culturale è una priorità assoluta. @simonamaggiorel

Landini: «Non abbiamo paura». Fiom in piazza a Roma sabato 21 novembre

Foto LaPresse - Marco Cantile 25/02/2015 Pomigliano D'Arco, Italia Cronaca Assemblea pubblica Fiom-Cgil su ''Per il lavoro, lo sviluppo, la democrazia, la legalità e la solidarietà''. Con il segretario generale nazionale Fiom, Maurizio Landini Nella foto: Maurizio Landini

«Non possiamo fermarci, dobbiamo manifestare per confermare i nostri valori, farli vivere e non arrenderci alla paura». Maurizio Landini non ha dubbi: la Fiom sarà in piazza a Roma sabato 21 novembre. Sarà la prima manifestazione in Italia dopo i fatti di Parigi, mentre l’Europa è ancora sotto shock e la Capitale è in subbuglio tra falsi allarmi e militari che presidiano mezza città. Ma non bisogna cedere alla paura ha ribadito il leader Fiom a Left, in una lunga intervista in edicola dal 21: «La libertà, la solidarietà, la giustizia sociale e l’eguaglianza – i princìpi della nostra civiltà – si praticano ogni giorno. Questa è l’unica risposta che un’organizzazione sociale come il sindacato può dare alla barbarie, per dare un senso alla democrazia e riempirla di una partecipazione che non possiamo delegare agli Stati o alle autorità, chiudendoci in casa».

Sabato 21, i metalmeccanici scendono in piazza per il rinnovo del Contratto nazionale dei metalmeccanici, ma anche l’opposizione alle politiche del lavoro – e non solo del lavoro – del governo Renzi. Con le spalle forti di chi, da sei mesi, punta a un percorso collettivo con la Coalizione sociale, questa volta Landini trascina in piazza i metalmeccanici per rivendicare i diritti dell’intero mondo del lavoro. E alza il tiro con un nuovo Statuto dei lavoratori – tutti, anche gli autonomi e i precari – e gli imminenti referendum abrogativi. «Che la manifestazione della Fiom non sia solo un affare dei metalmeccanici dimostra che oggi, per ottenere determinati risultati, devi allargare la tua rappresentanza», il leader della Fiom ne è certo.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla

Da refugees welcome per le foto di Aylan Kurdi, alle frontiere sigillate in due mesi

Ieri la Camera dei rappresentanti Usa a maggioranza repubblicana ha approvato una legge che restringe di molto la possibilità di accesso dei rifugiati siriani negli Stati Uniti. Diversi democratici degli Stati tendenzialmente più di destra, hanno votato a favore.

Tra le cose previste per poter essere ammessi nel Paese c’è la richiesta della firma del capo dell’Fbi, del Segretario per la Homeland Security (il ministro degli Interni) e del capo della Agenzia nazionale per la sicurezza su un permesso che dice che dopo accurato screening si certifica che il rifugiato non è un rischio per la sicurezza nazionale. Dal canto suo Donald Trump pensa che sarebbe utile schedare i musulmani o dare loro dei documenti speciali, un passo in più e in peggio rispetto alla stretta che diede Bush dopo l’11 settembre.

L’applicazione della legge renderebbe l’idea di Obama di accogliere 100mila persone nel prossimo anno impossibile da realizzare. Ora la legge passerà al Senato e, poi, arriverà sul tavolo del presidente per la firma. Questi ha promesso il veto e sta impegnando la Casa Bianca in uno sforzo di comunicazione che numeri alla mano spiega come il processo di arrivo gestito dall’Unhcr è molto sicuro e come nessun siriano accolto negli ultimi anni si sia mai macchiato di crimini legati al terrorismo (infografica qui sotto: 2304 ammessi quest’anno, nessuno ha avuto guai giuridici). La promessa di veto da parte di Obama, che i repubblicani non possono impedire (servirebbero 2/3 dei voti in Congresso) ci dice tra le altre cose come l’approvazione della legge sia puramente simbolica, un modo di mostrare agli americani chi è più falco e duro.

Schermata 2015-11-20 a 9.41.55 AM

Ma su questo tema, a giudicare dai sondaggi, Obama sembra essere in minoranza nel Paese. Gli attentati di Parigi hanno cambiato il clima: dopo l’ondata emotiva che ha colpito il mondo occidentale sul naso con le foto del piccolo Aylan Kurdi arrivato morto su una spiaggia di Lesbos, oggi la compassione va a farsi friggere: addio refugees welcome, benvenute frontiere sigillate. Sono passati due mesi, non due anni e oggi tutti sono solidali con Parigi e non più con i milioni di siriani in fuga dalle bombe di Daesh, Assad, dei russi, dei francesi e degli americani stessi.

Siamo preda dell’emotività e della musica suonata dai grandi media (italiani, qui un bell’articolo di Lorenzo Declich sul tema), che tendono a spiegare poco e a suonare la grancassa. Che sia una grancassa di guerra o di paura poco conta: un giorno si vende il bambino siriano morto, quello successivo si semina terrore con la foto del passaporto siriano trovato accanto al terrorista. C’è la crisi del settore e così qualcosina in più si vende.

Del resto (Left ne aveva già parlato) negli anni ’30 gli americani non volevano far entrare gli ebrei portatori di pericoli, ideologie pericolose, strani, sporchi e così via. I tweet lanciati da un account gestito da un professore di storia americano sono stati ripresi da decine di media. Quello qui sotto rappresenta un sondaggio del 1939: Cosa votereste se foste in Congresso e vi si proponesse una legge che chiede di aumentare la quota di rifugiati dall’Europa? Un sondaggio Gallup del 1939 che chiedeva: Accettereste bambini rifugiati dalla Germania? Otteneva un 67% di NO. L’opinione americana cambia negli anni del Vietnam e dell’Ungheria, quando un po’ più di persone sono favorevoli all’idea di accettare rifugiati.

I soliti americani egoisti e isolazionisti? No, quella del rifugiato è una sindrome diffusa: il titolo qui sotto è del New York Times e racconta del raddoppio delle guardie alla frontiera tra Olanda e Germania con gli ebrei che fuggivano e gli olandesi che gli chiudevano la porta in faccia. La stessa Olanda che oggi propone una mini-Schengen centro-europea: frontiere chiuse e più controlli in una mini fortezza europea dei Paesi dove i rifugiati vogliono andare. Fuori l’Italia, la Spagna, la Grecia e tutti quelli che confinano con il mare e la Turchia.

Schermata 2015-11-20 a 10.02.15 AM La differenza cruciale è che all’epoca le notizie circolavano meno e la vita, in Europa e negli Usa, era più dura, faticosa e violenta di oggi. Noi sappiamo, ci spaventiamo, piangiamo, condividiamo foto e commentiamo. E oscilliamo come pendoli da uno stato d’animo all’altro. Cadendo nei tranelli di chi utilizza le crisi internazionali e il terrorismo per fare bassa cucina politica. La verità è che ottenere un permesso di soggiorno da rifugiato è difficile e che lo screening , ce lo hanno ribadito Human Rights Watch e Amnesty International nei giorni scorsi e ce lo racconta lo storify qui sotto. Sono i tweet di una rifugiata bosniaca che racconta come e cosa succede quando si prova a ottenere il permesso negli Stati Uniti. Interviste incrociate tra familiari separati, documentazione, indagine e poi attesa di mesi. La sicurezza non c’entra e le paure sono irrazionali: se è vero che qualcuno entra mascherandosi da rifugiato, questi potrà farlo in un altro modo. Non solo, la maggior parte degli attentatori di Parigi non aveva bisogno di entrare e uscire, era nato e cresciuto in Europa e in alcuni casi non era nemmeno partito per la Siria. Più controlli sui foreign fighters? Facciamone. Sistemi incrociati europei di scambio delle informazioni? Benone. Ma smettiamola di farci raccontare che sono i rifugiati siriani a essere il pericolo. E ricordiamoci che l’Europa e gli Stati Uniti, che tendono a immaginarsi come civiltà superiori, se davvero hanno inventato qualche cosa di buono sono i diritti umani. Gli stessi che l’ISIS e Assad calpestano. Gli stessi che Hollande, i repubblicani Usa e altri governi vogliono buttare via in cambio di più sicurezza. La stessa che ha fallito miseramente negli anni del dopo Bush.  [social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/minomazz” target=”on” ][/social_link] @minomazz

 

Tutti barzotti per la guerra

Se noi non fossimo qui, se noi fossimo degli stranieri appena sbarcati in Italia e per uno strano caso qualsiasi ci capitasse stamattina di passare in un’edicola, davanti alle prime pagine dei quotidiani, oggi verrebbe da pensare che abbiamo dichiarato guerra a cannone battente e siamo nel pieno dell’ubriacatura da militarismo greve.

Le foto di Abdelhamid Abaaoud, nelle sue patetiche pose da Rambo in salsa orientale e la fierezza con cui viene annunciata la sua avvenuta uccisione (anche sul moderato Corriere della Sera) farebbero credere, a prima vista, non solo che il conflitto abbia ufficialmente sdoganato l’uso della violenza ma anche che ci sia una generale soddisfazione per questa guerra alla guerra fatta con la guerra. Un’avvincente partita a Risiko su scala mondiale in cui si fatica a trattenere l’esultanza per l’ultimo tiro di dadi e si espongono i trofei dell’ultimo ammazzato tra i cattivi. Ma davvero credono che noi si possa abboccare alla storiella che questi giovanotti in stitiche pose da soldati possano da soli giustificare l’orrore? Ma davvero le bombe francesi su Raqqa possono essere considerate l’inevitabile conseguenza?


 

Cosa sappiamo di Abdelhamid Abaaoud, il cervello della strage di Parigi


 

L’ubriacatura occidentale di questi giorni non si scosta poi tanto dalle rivendicazioni patinate dell’ISIS: “siamo 1 a 1, ora!” titolano i giornali e tutti ebbri di aver cavato l’occhio per occhio, dente per dente. Così, in questo turbine di mediocrità, basta che il Papa intoni il ritornello del “non fate la guerra” per apparire uno statista. Anche Renzi che si trattiene dalle iperboli belliche diventa quasi umile mentre Hollande insegue la Le Pen sulla chiusura delle frontiere gigioneggiando al pugno duro ma democratico.

Basta l’odore del sangue perché molti precipitosamente si spoglino dell’esser di “sinistra” come se quel vestito fosse stato un peso, un blocco o una partitura da simulare. E così la banalità del male fa dei vecchi hippy invecchiati e dei loro ritornelli la visione più moderna del mondo.

Contenti voi. Buongiorno.

Rebibbia, l’appello dei detenuti: «Fate uscire quella donna, sta male»

Da Rebibbia l’appello dei reclusi per una detenuta. «Ha una patologia psichiatrica, non può stare qui». L’avvocato: «Incarcerata nonostante fosse già stata dichiarata incompatibile con il carcere»

«Scarceratela, sta male, non può rimanere in carcere». Una petizione firmata da 1200 firme di detenuti di Rebibbia solleva il velo sulla storia di A.F., madre di un loro compagno di cella. Una storia in cui il dramma della malattia si aggiunge a quello della reclusione. «Noi detenuti del carcere di Rebibbia siamo indignati e offesi di essere venuti a conoscenza di un episodio che ci obbliga a intervenire compatti per denunciare pubblicamente una gravissima situazione che, se non sarà tempestivamente risolta in senso positivo, potrà degenerare in tragedia». La signora, dopo la sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato la sentenza d’appello a 5 anni e otto mesi di reclusione, è stata portata a Rebibbia, lo stesso carcere dove è recluso il figlio, condannato per reati legati al traffico di stupefacenti. «Ma A.F. ha una patologia riconosciuta sin dal 1998, addirittura le prime manifestazioni della malattie risalgono al 1993», afferma l’avvocato Lucia Gargano che insieme al collega Angelo Staniscia ha presentato l’istanza di sospensione dell’esecuzione della condanna al magistrato di sorveglianza. «Adesso il magistrato ha chiesto al carcere una relazione sanitaria e speriamo che presto la situazione si risolva e che la signora venga affidata alla custodia domiciliare, seguita dal personale sanitario. Intanto per adesso è stata ricoverata in infermeria». A.F., racconta l’avvocato «soffre di disturbo di personalità, una patologia seguita e documentata dal Centro di igiene mentale di Ostia. Prendeva farmaci e spesso è stata ricoverata dopo aver compiuto gesti autolesionistici», continua Lucia Gargano. «Quando venne arrestata, nel 2012,  era stata subito scarcerata perché dichiarata incompatibile con il regime carcerario. Nel momento in cui la sentenza è diventata definitiva, hanno eseguito la condanna ignorando questa cosa», afferma l’avvocato. A Rebibbia è incarcerato anche il marito di A.F. Entrambi i genitori infatti, sono stati condannati per associazione, «un reato dilatato» afferma l’avvocato. Un dramma nel dramma. A cui si aggiunge quello di A.F. in cui «ogni istante di permanenza in istituto può costituire una seria minaccia per l’incolumità e la vita della reclusa», scrivono i detenuti. Continuano, reclamando giustizia. «In questo caso non si tratta di un beneficio o di una regalia, una delle tante dispensate in tempi recente a detenuti cosiddetti eccellenti, ma di un atto di giustizia da applicare a un essere umano riconosciuto invalido al 100 per cento e, pertanto, da destinare a cure specialistiche in un ambiente che non sia quello carcerario». La petizione si conclude con la richiesta di rispettare il diritto alla vita e alla salute di una cittadina detenuta alla quale, pur gravata da una condanna, si devono riconoscere e applicare le garanzie di tutela sancite dalla nostra Carta Costituzionale».

Telegram chiude gli account dell’ISIS, che riaprono in fretta

Come comunicano i terroristi tra loro? Le notizie di questi giorni ci dicono che tra le altre cose usano la Playstation. E poi tutti gli altri sistemi che consentano loro di sfuggire ai controlli delle agenzie di sicurezza americane ed occidentali. Ad esempio alcuni dei servizi crittografati che garantiscono l’anonimato di persone e contenuti, servizi che sono giustamente tornati di moda dopo le rivelazioni di Edward Snowden sui controlli generalizzati della NSA.

(Qui sotto i social network considerati più o meno sicuri dai terroristi)

Tra questi servizi c’è Telegram, servizio fondato due anni fa e collegato al social network russo Vkontakte, che ha preso piede come un modo sicuro di caricare velocemente e condividere video, testi e messaggi vocali. Il sistema è pensato per non essere intercettabile: nemmeno i dipendenti della compagnia possono accedere ai contenuti e c’è una funzione per la quale all’interno di chat room che contengono fino a duecento membri, si possono mandare messaggi che si auto-distruggono dopo un tempo prestabilito. Un ottimo strumento per far circolare contenuti senza venire individuati.

Sembra di capire che proprio queste funzioni di Telegram sia diventata lo strumento preferito dai membri dello Stato islamico per trasmettere notizie e condividere video di vittorie militari o sermoni.

Il gruppo ha utilizzato Telegram anche per rivendicare la responsabilità degli attacchi di Parigi e dell’abbattimento dell’aereo russo sul Sinai.

Per queste ragioni, Telegram ha annunciato di aver condotto un’indagine e di aver identificato e bloccato  78 canali di trasmissione in 12 lingue diverse legati ad ISIS. Alcuni sono ricomparsi sotto altro nome in gran fretta. La compagnia li ha bloccati di nuovo, ma Reuters – che per prima aveva segnalato l’utilizzo di Telegram da parte del settore propaganda dell’ISIS – fa notare che molti degli account sono funzionanti.

La compagnia annuncia sul suo sito che lavora apertamente all’individuazione di chi trasmette materiale dell’ISIS, ma al tempo stesso ribadisce la propria policy sulla libertà di espressione: «Bloccheremo tutto ciò che è collegabile ai terroristi ma non la possibilità di esprimere le propri opinioni», si legge nel comunicato. Del resto per un social che è molto popolare in Iran (dove è stato bloccato per ragioni opposte, proprio per l’eccesso di libertà concessa), Uzbekistan, Bahrain, Iraq e Yemen, bloccare le opinioni favorevoli all’islam radicale sarebbe un problema.

Per Telegram, come per Twitter e altri social, il problema è stare dietro alla rapidità con la quale si riesce ad aprire un nuovo account. Certo, quelli più grandi e seguiti sono un bersaglio più facile, ma altri appena aperti, sono di più difficile tracciabilità.

A proposito di cyber-sicurezza, sono state presentate le nuove linee guida dello spionaggio. I temi sono fondamentalmente due: la necessità di monitorare, spiare e controllare molte entità non statuali e un maggior coordinamento tra agenzie di sicurezza.

La seconda direttrice è scontata ma non troppo: il rapporto sull’11 settembre ha stabilito, dopo migliaia di interviste e documenti esaminati, che un maggior coordinamento e scambio di informazioni tra agenzie avrebbe consentito di sventare gli attentati. Non è detto che sarebbe andata così, ma certo ci sono state delle falle.

Quanto alla prima linea guida, si tratta semplicemente di prendere atto della realtà. Tra cyber terrorismo, ISIS, spionaggio commerciale di imprese cinesi (un problema che ossessiona gli americani) è ovvio che gli 007 americani, come quelli di tutto il mondo, si debbano adeguare. Oltre che seguire i loro omologhi russi, iraniani e cinesi, si tratta di inseguire e scandagliare nicknames in giro per la rete.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/minomazz” target=”on” ][/social_link] @minomazz

 

Risparmiateci Della Valle. La tentazione di Mr Tods

Non scende in campo per il momento, Diego Della Valle, ma non esclude che la sua associazione “Noi italiani” possa anche diventare «un movimento di opinione». Perché stare sull’uscio della politica, evidentemente, è già abbastanza divertente e poi per il resto si vedrà. Pare dopo le amministrative qualcosa si possa muovere, magari nel 2016. Fretta tanto non ce ne è, e bisogna prima capire il quadro, cosa ne sarà di Matteo Renzi, per cominciare, del premier di cui Della Valle una volta disse «non è vero che è l’unica soluzione per il Paese».
 
Per ora però la dichiarazione che Della Valle consegna a Lilli Gruber è ancora una volta «Il mio mestiere è quello di imprenditore». «“Noi italiani” è un progetto sociale, legato alla solidarietà, e già esiste», spiega, aggiungendo che poi sì, «se saremo bravi a mettere insieme tante persone, il secondo step può anche esser un movimento di opinione che ci deve permettere di influenzare la politica anche senza farla in prima persona». Prudenza, dunque. Anche se il simbolo di “Noi italiani” è già circolare, perfetto per le schede elettorali.
E «qualcuno vuole trasformarmi per farmi fare qualcosa che non voglio fare», è la frase destinata ai tanti e molesti corteggiatori in Forza Italia, che lo vedono come possibile sminatore della leadership di Matteo Salvini: populista al punto giusto, liberista, un po’ critico sui trattati, però un po’ meno rude.
La vicenda di Della Valle, comunque, rimanda a molti precedenti, non fortunatissimi, in realtà. Corrado Passera dopo una grigia esperienza al governo, per dire, ha dovuto ripiegare su una candidatura a sindaco di Milano, anche lì schiacciato dalla probabile candidatura di Giuseppe Sala, che ha un profilo simile, ma molte possibilità in più.
 
Top manager, super amministratori e rampanti imprenditori tentanti dalla politica ce ne sono molti. Alcuni «scelgono con il cuore» e però – come Matteo Colaninno, già vicepresidente della Piaggio – finiscono presto nel dimenticatoio. Colaninno, frutto del Pd veltroniano che doveva guardare agli operai «ma anche» agli imprenditori,  si vede ormai pochissimo. E Alessandro Profumo, che pure nel 2011 incassò un «lo candiderei subito» da Enrico Letta, non ha avuto mai neanche il piacere di comparire veramente, di aver il faccione vicino a un simbolo elettorale.
 
Di imprenditori, manager e tecnici era piena Scelta Civica. Capitanata da Mario Monti aveva il sostegno anche di Luca Cordero di Montezemolo che ha così nei fatti sciolto la sua Italia Futura, un think tank che non è mai diventato un partito (smentendo tonnellate di retroscena giornalistici). Scelta Civica era però nei fatti una coalizione con dentro l’Udc di Casini e quel che restava dei finiani, e alle politiche del 2013 raccoglie infatti un dignitoso 9 per cento al Senato e 8 alla Camera. Ma alle europee di un anno dopo, dopo il divorzio con Casini e un’infinita sequela di liti interne, e l’addio dello stesso Monti, era già allo zero virgola settantadue (0,72!). Neanche duecentomilavoti.
 
Della Valle non può non saperlo. E viene così il dubbio che tutta questa storia sia una bella strategia di marketing. Sarebbe geniale. Centinaia di titoli come quello che abbiamo fatto noi. Pubblicità gratuita al marchio che più gli sta a cuore delle sue molte imprese: Tod’s, le scarpe del tipo che forse scende in politica o forse no, ma che sicuro va spesso in televisione, pieno di braccialetti e con il colletto alzato. Elegantissimo! E rivendica per il momento meritori progetti sociali.
A Della Valle consegnamo dunque il commento di Pino Pisicchio, che questa volta vale la pena segnalare: «Dopo l’epopea berlusconiana, l’approccio degli imprenditori o di personalità del mondo finanziario alla politica è stato sempre caratterizzato da annunci di discese ardite, rapide risalite e, non di rado, ritirate strategiche», dice il presidente del gruppo misto della Camera: «Un solo consiglio, non richiesto agli absolute beginners della politica: maneggiare con cura, con pazienza ed umiltà. E con costanza: non è come lanciare il brand di un nuovo prodotto commerciale».

La droga dello stato islamico

(Questo articolo è stato pubblicato sul numero 27 di Left)

(KOBANE) Il 28 giugno, Seifeddine Rezgui (23 anni) spara all’impazzata sulla spiaggia del resort di lusso Imperial Marhaba, a Sousse, Tunisia. Il bilancio è di 38 morti e quasi altrettanti feriti, in gran parte turisti occidentali. Ma c’è un particolare: l’autopsia sul corpo del terrorista, rivela che l’uomo era sotto l’effetto di Captagon, un derivato dell’anfetamina che lo Stato Islamico produce da tempo per sommistrarlo ai propri guerriglieri. Il motivo è molto semplice: elimina la paura e la stanchezza. Lo psichiatra Ramzi Haddad, coordinatore e co-fondatore della Skoun, un’organizzazione no profit che ha aperto la prima struttura libanese dedicata alla prevenzione e al trattamento delle dipendenze patologiche, ha spiegato all’agenzia di stampa Reuters che questa droga crea «una sorta di euforia», ma soprattutto «non fa dormire, non fa mangiare, dà energia».
Facciamo un passo indietro. Il 2014 è appena iniziato quando il Daesh, meglio noto in Occidente come Stato islamico (Is), conquista Aleppo. Dallo scoppio della guerra civile siriana sono passati tre anni. I ribelli sono in grande difficoltà, mentre le offensive del regime di Assad diventano sempre più brutali e incisive. I miliziani in nero, viceversa ben organizzati, motivati e come vedremo drogati, colgono la palla al balzo, approfittandone. Nella seconda città più importante della Siria, i jihadisti conquistano così, nel gennaio 2014, anche un’importante fabbrica farmaceutica del regime. Si trova nella zona nord-ovest ed è grazie a questo stabilimento che il Daesh inizia a produrre autonomamente, e su larga scala, droghe chimiche. Il problema non è nuovo. Il binomio tra conflitti e stupefacenti è vecchio quasi come la guerra stessa. Non si tratta soltanto di narcotraffico ma della somministrazione di sostanze psicotrope ai combattenti. A fornirle, un’organizzazione come il Daesh, che nei territori sotto il proprio controllo vieta ai cittadini persino l’uso di alcol e tabacco. Figuriamoci quello di droghe, il cui consumo infrange dottrina e principi dell’islam.


«Non ho mai trovato un movimento insurrezionale che non si sia finanziato con la droga. È una delle ragioni che li tiene in vita»

Antonio Costa, direttore dell’Ufficio antidroga Onu


Alcuni mufti salafiti e wahabiti (giurisperiti musulmani) hanno dovuto rilasciare delle apposite fatwa (decreti religiosi assimilati alle nostre leggi), nelle quali dichiarano halal (lecito) l’uso di sostanze narcotiche, a patto che il loro uso serva esclusivamente per avere maggior coraggio in battaglia. Un’autorizzazione che sembra tuttavia in netto contrasto con la sharia: la legge islamica derivante dalla più rigida interpretazione del Corano, imposta alle popolazioni dei territori sotto il controllo dei jihadisti e insegnata persino ai bambini. Su internet si trovano cartoni animati nei quali viene spiegato, a scanso di equivoci, che tabacco, droghe e alcol sono vietati. Pena, il taglio delle mani e, nei casi più gravi, della testa. Ma i divieti imposti dalla sharia, valgono soltanto per i normali cittadini. I video del Daesh, mostrano la brutale punizione dei trasgressori. In uno di questi, tossicodipendenti arrestati dalla polizia religiosa vengono frustati e decapitati nella pubblica piazza. La repressione risparmia però miliziani e combattenti. Ai quali verrebbe fornita soprattutto metanfetamina, comunemente nota come Meth, ritenuta uno degli stimolanti più forti e pericolosi al mondo. Simile all’anfetamina è relativamente facile da sintetizzare, oltre ad avere una maggiore attività centrale. Molto diffusa negli Usa e in alcune nazioni dell’Asia, aumenta la capacità di rimanere svegli e riduce l’appetito, dando una sensazione di piacere. L’uso a lungo termine, provoca però comportamenti violenti, allucinazioni, ansia, confusione, insonnia, paranoia e disturbi della personalità. Un mix di sintomi che può di conseguenza favorire in guerra atti brutali e selvaggi.
Negli ultimi due anni, grazie allo stabilimento farmaceutico preso ad Aleppo, il Daesh ha iniziato inoltre a sintetizzare il Captagon, la già citata anfetamina a base di Phenethylinne della strage di Sousse. Anche questa relativamente semplice da produrre con conoscenze chimiche di base, è diventata l’arma principale dei jihadisti in tutto il Medio Oriente. Poiché provoca euforia, eliminando il dolore. Ad Aleppo i jihadisti hanno trovato attrezzature e componenti per produrre del Captagon, di ottima qualità. Vietato nella maggior parte delle nazioni del mondo già dal lontano 1980, fino agli anni Sessanta veniva utilizzato in Occidente come antidepressivo o per il trattamento del disturbo da deficit di attenzione, contro l’iperattività o la narcolessia.

stato-islamico-droga-isis-eroina

I primi a produrlo su larga scala, fin dal 2006, per finanziare la propria “guerra Santa” sono stati gli uomini dell’organizzazione Hezbollah (il Partito di Dio), gruppo fondamentalista sciita attivo nel Libano del Sud, sceso in campo nella guerra civile siriana al fianco del dittatore Bashar al-Assad. L’anno scorso, laboratori per sintetizzarlo sono stati scoperti in diverse moschee di Baalbeck e nella valle della Bekaa. Col risultato che, secondo l’Ufficio contro la droga e il crimine delle Nazioni Unite (l’Unodc), soltanto nel 2009 ne sono state sequestrate in Medio Oriente 23,6 tonnellate. Risale invece ai primi mesi del 2014, il primo sequestro a opera dei ribelli dell’Esercito libero siriano (Esl): un camion cisterna del Daesh pieno di pillole di questa anfetamina. Una parte del carico, a loro dire, era destinato proprio al Libano, da dove sarebbe poi stato diffuso in tutta la regione del Golfo. Segno che, come per il petrolio rivenduto dai jihadisti in nero al regime di Assad, anche la droga potrebbero cederla a dei nemici, in questo caso Hezbollah. Un business che vale centinaia di milioni di dollari l’anno. Soltanto nel 2014, l’Internal security forces (Isf) ha sequestrato nel Paese dei cedri 55 milioni di pillole, rispetto alle 12,3 dell’anno precedente e alle appena mezzo milione del 2013. Prima dello scoppio della guerra civile siriana e della comparsa sul terreno del Daesh, non erano mai avvenute confische di questa portata. «Il loro coinvolgimento ormai è comprovato», conferma a Left Antonio Maria Costa, direttore dal 2002 al 2010 del già citato Unodc. «Nella mia vita professionale alla guida dell’Ufficio droga e crimine delle Nazioni Unite, non ho mai trovato un movimento insurrezionale che non si sia finanziato con la droga. Da Sendero Luminoso in Perù all’Ira in Irlanda del Nord, passando naturalmente per Hezbollah in Libano e le Farc colombiane, la droga è una delle ragioni che li tiene in vita. Si tratta quindi di una minaccia concreta». All’ideologia data dal ripristino dell’antico Califfato medievale, come nuova casa di tutti i musulmani, si sono poi sommate le anfetamine. «Queste droghe hanno trasformato i mujaheddin in maniaci paranoici ma con una grande capacità di resistenza, che si sentono invincibili e non provano nessuna paura o empatia, meno che mai dolore fisico o morale per le brutali azioni compiute», spiega un’analista militare che ci chiede di restare anonimo. Sarà anche per questo, come dimostrano i video da loro stessi diffusi in rete, che possono commettere ogni sorta di atrocità senza mostrare alcuna pietà, addirittura ridendo. Un giovane prigioniero jihadista, il 23enne Amir Ahmed Ali, rivela a Left: «Prima della battaglia per conquistare Aleppo, abbiamo preso delle pillole che hanno completamente cambiato la nostra percezione di quello che stava succedendo. Pensavo che i carri armati fossero uccelli che si potevano annientare con la spada». A suo dire, queste compresse vengono date anche ai kamikaze. Invece di aumentare la resistenza e il coraggio, queste droghe hanno però nel tempo creato un esercito di zombie tossicodipendenti che stanno commettendo atti brutali e feroci in nome dell’islam. Non sarà di certo un caso se in Siria le segnalazioni di questi macabri episodi sono arrivate di pari passo con la produzione su larga scala di metanfetamine. Nel maggio 2013 è apparsa su internet una foto che mostrava un jihadista grigliare su un barbecue la testa decapitata del pilota di un elicottero governativo siriano. Lo stesso mese un altro miliziano tagliava e mangiava il cuore di un soldato di Assad, pronunciando queste parole: «Giuro su Dio che mangeremo i vostri cuori, soldati di Bashar, o li daremo ai cani. Dio è grande! (Allahu Akbar)». Effettivamente, poco dopo, diversi racconti denunciavano di cadaveri nemici dati in pasto ai cani. Quando ad aprile 2014, i jihadisti hanno conquistato il carcere siriano di Daraa, due soldati detenuti sono stati decapitati e la loro testa è stata fatta bollire in una pentola.


«Prima della battaglia di Aleppo abbiamo preso delle pillole. Pensavo che i carri armati fossero uccelli che si potevano annientare con la spada»

La dichiarazione di un giovane jihadista a Left


Ci sono poi stati i genocidi di cristiani, e a Mosul (terza città irachena), persino i bambini sono stati decapitati e le loro teste appese in un parco, come già avevano fatto prima di loro i talebani in Afghanistan. Per non parlare di crocifissioni, stupri ed esecuzioni di massa, oppure dei selfie nei quali le teste diventavano trofei o addirittura palle con le quali giocare. Difficile determinare se queste barbarie siano il risultato degli effetti collaterali di queste anfetamine, che insieme con hashish, eroina e cocaina, sono diventate la razione base dei miliziani. Al termine dell’assedio della città siriana di Kobane (26 gennaio 2015), i peshmerga curdi hanno rinvenuto nel quartier generale dell’emiro del Daesh, Abu Zahra, un sacco pieno di cocaina purissima, sostanza molto rara e costosa in Medio Oriente. Il comandante dei jihadisti l’aveva fornita ai suoi miliziani negli ultimi giorni, quando erano ormai vicini alla sconfitta, nell’estremo tentativo di resistere. Del resto non è un mistero che il Daesh recluta i suoi combattenti nei quartieri più poveri e problematici delle città. Il profilo tipo, secondo le agenzie di intelligence, sono ragazzi a basso reddito, con problemi familiari o orfani, di età compresa tra 18 e 25 anni, facili da manipolare perché alla ricerca di un senso da dare alla propria vita. Spesso si tratta di teppisti o ex detenuti, alla ricerca di piaceri forti e immediati, che fanno questo biglietto di sola di andata, accecati dal miraggio del Califfato, per il quale perdono la ragione se non addirittura la vita.

Le biblioteche, luoghi sicuri, per sapere e sconfiggere il terrore

Le biblioteche non solo come luoghi di studio e di lettura, ma anche come luoghi di incontro e di impegno civile, contro ogni forma di violenza e di fondamentalismo. Aprire le biblioteche al dibattito e all’approfondimento, farne un luogo di integrazione e di dialogo interculturale è il tema forte degli Stati generali dei professionisti del patrimonio culturale che si svolge il 19 e il 20 novembre alla Biblioteca nazionale di Roma, organizzati dalle associazioni rappresentative di Musei (Icom), degli Archivi (Anai) e delle biblioteche (Aib), dal 2011 riunite nel coordinamento Musei archivi e biblioteche (Mab). Pochi giorni dopo la strage nella redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, R. David Lankes, docente di biblioteconomia alla Scuola di studi sull’informazione dell’Università di Syracuse e direttore dell’Information Institute di New York si interrogava su come riuscire a trasformare le biblioteche in presidi culturali che aiutano la conoscenza contro il terrore, su come farne dei luoghi sicuri dove poter acquisire gli strumenti per capire le radici culturali degli attacchi omicidi dell’Isis e non solo.

Biblioteca Civica di Lissone1 ALTA

«Per poter rispondere a questo compito – scrive Lankes, nel documento che dà il la agli Stati generali di Roma – le biblioteche dovrebbero essere sempre un luogo sicuro dove poter esprimere la libertà di espressione, dovrebbero ospitare discussioni e forum sulla libertà di espressione e sulla democrazia, ospitare un evento convocando le diverse fedi, o ancora delle sedute con psicoterapeuti e genitori su come far sentire sicuri i ragazzi ». Il punto, dice lo studioso «è riuscire ad utilizzare l’accaduto come opportunità per la biblioteca di essere un luogo sicuro per esprimere le emozioni e aiutare in tal modo li cittadini». L’arma che possiamo usare contro la violenza è l’informazione e la capacità di capire, dice Lankes, rievocando ciò che gli accadde l’11 settembre 2001 in una testimonianza che potete leggere qui di seguito.

Biblioteca Apostolica Vaticana, Salone Sistino

 

Proprio a partire da questo testo al congresso del 19-20 novembre le associazioni del Mab formuleranno, a conclusione dei lavori, una proposta di offerta formativa congiunta. «Il dato decisamente confortante è che ogni anno i cittadini italiani continuano a visitare i musei, frequentare mostre ed eventi culturali, utilizzare i servizi di biblioteche ed archivi – dice Daniele Jalla, presidente Icom Italia – Cercare di migliorarsi per chi lavora nel campo culturale vuol dire in primis non deludere le aspettative della gente. Puntare sulla cultura così come riconoscere pieno titolo alle professioni del patrimonio culturale significa contribuire alla costruzione di una democrazia più forte». Il 24° congresso Icom che si terrà a Milano dal 3-9 luglio nel 2016 vedrà riuniti 4mila operatori museali provenienti da 136 paesi differenti che si confronteranno sul tema Musei e paesaggi culturali. «Gli archivisti lavorano su tre fronti: conservare e valorizzare il passato; contribuire al presente col funzionamento degli archivi correnti, salvaguardare il futuro con nuove visioni strategiche. Questo Congresso Mab alla Nazionale di Roma significa la concreta possibilità di confrontarsi sul futuro del patrimonio culturale condividendo pensieri e proposte per nuove collaborazioni», ribadisce Maria Guercio, presidente Anai.

@simonamaggiorel

La testimonianza di David Lankes

«L’11 settembre 2001 ero direttore della Clearinghouse on Information & Technology. Andai a lavorare quel giorno poco dopo che il primo aereo aveva colpito le torri gemelle del World Trade Center. Dopo che il secondo aereo aveva colpito l’intero personale della Clearinghouse si raccolse nel mio ufficio per guardare la tv. Inorridito e un pochino stordito, mandai tutti a casa. Quello

tiraboschi_03.tif

era il momento di stare con le proprie famiglie. Nel corso della settimana successiva ci siamo incontrati per porci esattamente la stessa domanda che mi è stata posta in questi giorni: “Cosa dovremmo fare?” A quel tempo fornivamo un servizio chiamato AskERIC che riceveva centinaia di domande di consulenza virtuali ogni giorno oltre ad avere un sito molto frequentato per gli educatori. La risposta che abbiamo trovato era di sviluppare InfoGuides sull’attacco che aggiornavamo man mano che se ne capiva di più anche sulle questioni collegate. Abbiamo postato le informazioni in rete e le abbiamo inviate anche con e-mail. La risorsa più vista/utilizzata che abbiamo sviluppato era sull’Islam.

Ciò che ho ricavato da quell’episodio era che sulla scia della tragedia, le persone cercano la capire e vogliono conoscere quello che non sanno. Quindi i bibliotecari devono informare le loro comunità attraverso le FAQs, creare un archivio della copertura mediatica per creare una precisa memoria dell’evento, e tante opportunità per interazione tra culture, razze e idee. La seconda lezione che ho da offrire l’ho imparata dalle biblioteche che hanno operato a Ferguson (Missouri) durante i disordini razziali dello scorso anno: hanno aiutato la comunità a sviluppare la propria narrazione. Durante i disordini e la violenza a Ferguson le biblioteche pubbliche (Ferguson Public Library e Saint Louis Country Public Library) non solo sono rimaste aperte e hanno fornito un luogo sicuro per i bambini e i cittadini, ma hanno offerto una narrazione alternativa alla violenza. Mentre gran parte dei media si sono concentrati sulle azioni della polizia contro la comunità di colore, le biblioteche hanno utilizzato i social media, i media tradizionali, e persino la cartellonistica fuori dagli edifici per parlare di Ferguson come di una famiglia. Essi hanno messo in luce come con le scuole chiuse, gli educatori, i bambini e i genitori si sono uniti per creare la loro scuola su misura tra le corsie e gli scaffali delle biblioteche. Anziché permettere alla loro comunità di essere dipinta esclusivamente come folle nere arrabbiate che combattono contro una polizia militarizzata, le biblioteche hanno mostrato Ferguson come un luogo di razze diverse che si raccolgono attorno ai bambini, all’apprendimento, e al desiderio di avere un futuro migliore. Le biblioteche non hanno diminuito la portata del conflitto, ne’ hanno ignorato il razzismo dilagante. Eppure le biblioteche non hanno chiuso, ne’ si sono ritirate. Le biblioteche – no, meglio, i bibliotecari – hanno fatto qualcosa e hanno mostrato al mondo che Ferguson non è così diversa da Syracuse, o da Seattle, o da comunità in tutto il Paese e che come quelle comunità, esse sono molto di più che non titoli di giornale. Esse hanno “umanizzato” una narrazione.

Ciò che ho portato con me da Ferguson era che le biblioteche non solo forniscono una spazio costruttivo; esse aggiungono profondità di comprensione del mondo. Danno alla comunità possibilità di respirare, vivere il lutto, riflettere, e quindi agire e parlare. La mia ultima lezione viene dai bibliotecari di Alessandria durante la Primavera Araba. Nel bel mezzo dei disordini e degli sconvolgimenti civili, i manifestanti hanno protetto la biblioteca. Laddove molti edifici governativi erano stati distrutti e saccheggiati, la biblioteca era stata protetta. Perché? Perché per gli anni prima dei disordini e dell’insurrezione, i bibliotecari avevano fatto il loro mestiere. Essi sono diventati risorse fidate per le comunità perché hanno fornito veri benefici al cittadino medio di Alessandria e servizi intellettualmente onesti. La lezione, quindi? Continuate ad essere le risorsa per le vostre comunità. Continuate a dimostrare i valori del mestiere del fare il bibliotecario: onestà intellettuale, sicurezza intellettuale e fisica; apertura e trasparenza e l’importanza dell’apprendimento continuo.

Ciò che spero facciano le biblioteche francesi è ciò che io spererei di avere il coraggio di fare se fossi al loro posto: essere un luogo sicuro per parlare e imparare riguardo alle questioni pericolose. Invitare tutte le fedi a parlare sul come eliminare la violenza e sul come reagire. Fornire accesso pronto a Charlie Hebdo e ai materiali controversi. Parlare (ospitare interventi, discussioni dei cittadini, eventi) dell’importanza della libertà di espressione in una società libera.
Aiutare a forgiare una narrazione comunitaria e proiettarla nel mondo. Cosa sta pensando e cosa sta imparando la comunità da questa tragedia? Cosa fate in quanto bibliotecari e cosa può funzionare.

Cosa possono imparare altri bibliotecari su come reagire a questi eventi terribili?
E’ diventata la mia missione sollecitare i bibliotecari ad essere agenti impegnati, attivi nella trasformazione sociale. In altre parole, è diventata la mia missione far sì che i bibliotecari migliorino le loro comunità attraverso un atteggiamento proattivo. Io credo sia cruciale per i bibliotecari cercare attivamente di cambiare il mondo e di renderlo un luogo per dove avvengono sempre meno infamie come l’attacco di pochi giorni fa. Fare questo fa paura.

Noi non siamo formati come terapisti del dolore e nessuno sceglie con leggerezza di correre verso un conflitto. Eppure se noi crediamo che i bibliotecari devono rendere migliori le nostre comunità (più sapienti, più capaci, più empowered) allora non possiamo tirarci indietro e dare un contributo attivo.
La formazione professionale promuove in maniera ancora insufficiente un approccio che vada oltre il semplice confronto tra discipline e processi che costituisce invece un fattore chiave nell’esercizio di attività che accomunano i nostri istituti e le professioni in un panorama complessivo che sollecita con sempre maggior urgenza la tutela, la valorizzazione, la gestione integrata del patrimonio culturale.Il tutto nel quadro di una marcata vocazione sociale e non solo culturale degli istituti che ha a che fare con il diritto all’informazione, con la conoscenza identitaria, con il confronto tra culture e con la formazione permanente per tutti. Le associazioni professionali che hanno anche la funzione di attestare le competenze dei professionisti sono fortemente chiamate a disegnare un nuovo cammino, in un contesto di confronto internazionale e in stretto rapporto con gli stakeholder».