Scene di guerriglia a Saint-Denis, al nord di Parigi. Alle 4.30 del mattino le forze speciali di polizia lanciano l’assalto a un appartamento dove dovrebbero trovarsi dei terroristi. Una donna si fa saltare in aria, un uomo viene ucciso, altri 7 sono in fermo, ci sono dei feriti tra la polizia. Questa reazione rapida sembra molto più pertinente della scelta di andare a bombardare la Siria in nome di principi discutibili, interessi, alleanze e con modalità ormai completamente superate dalla storia, che ne ha dimostrato la crudeltà, l’ambiguità, l’inefficienza e gli effetti perversi negli ultimi venticinque anni.
Il mio pensiero di oggi va ai musulmani di Francia e a quelli che scappano dai loro paesi in fiamme. I primi sono molto spaventati da quello che in francese si chiama “amalgame”, quel meccanismo infido e facilmente strumentalizzabile, che fa della parte un tutto. Forse è presto per dirlo, ma quello che sta succedendo è un movimento contrario a quello che ci si aspetterebbe. Questi attentati hanno dimostrato che siamo tutti esposti, vulnerabili, sono morte due sorelle musulmane al Bataclan, il proprietario di uno dei bistrot dove ci sono state più vittime, “Il Carillon”, è algerino, tutti lo conoscono nel quartiere. Comincia a farsi strada l’idea che le prime vittime di questi islamisti indottrinati siano proprio loro: i musulmani. Mi torna alla mente quella scena memorabile del film di Abderrahmane Sissako “Timbuctu” (2014) nella quale dei ragazzi per sfuggire alle persecuzioni dei jihadisti giocano a calcio senza pallone. Poi penso a quanto può essere triste la vita di giovani uomini che non passeranno mai la domenica (o il venerdì) al bar a guardarsi insieme una partita bevendo una birretta (anche analcolica). O forse lo fanno di nascosto, ed è ancora peggio.
L’altro pensiero è per i rifugiati. Le Front National ha dichiarato che le frontiere devono essere chiuse. Hollande ha proposto una modifica della costituzione in chiave securitaria. Il rischio è che la fortezza Europa alzi ulteriormente i suoi muri, continuando a ignorare i suoi mari. Che ne sarà di tutte queste persone disperate, in fuga, che non possiedono più nulla se non la speranza di poter ricominciare a vivere umanamente? Non saranno forse destinate a vivere senza alcuna prospettiva, nel degrado di quella terra di nessuno che sono i campi profughi? Allora sì che odieranno e si radicalizzeranno e cercheranno vendetta. È una maledetta trappola nella quale i terroristi vogliono far cadere l’Europa. La nostra sicurezza passa anche attraverso l’integrazione, lo scambio, l’accoglienza. Non attraverso l’odio, l’esclusione, il trinceramento, la clandestinità.
“Fluctuat nec mergitur” è il motto della città di Parigi e alludeva alle numerose inondazioni subite dalla città agli albori della sua storia. Ora compare sulle vetrine dei negozi, all’ingresso delle biblioteche, sui portoni delle case e a caratteri cubitali in Place de la République. È bella questa idea di una nave sommersa dai flutti che riesce a rimanere a galla. Vorrei che valesse per noi e per tutti quelli che si mettono in mare sognando un mondo migliore.
Un buon esercito contro il terrorismo islamico (e il paurismo occidentale) di questi giorni potrebbe essere una schiera di curiosi. Non che facciano male anche in tempi di pace, anzi, ma almeno ora porrebbero ai “grandi” della terra le domande semplici che disimpariamo a fare appena non siamo più bambini.
Ad esempio: dov’è l’ISIS quando non fa la guerra?
Dei 216 accordi di pace internazionali firmati tra il 1975 e il 2011, 196 sono stati firmati tra attori statali e attori non statali. I gruppi armati non statali sono tutte quelle organizzazioni armate come milizie, insorgenti (o semplificando, terroristi) che stanno in giro per il mondo e che fanno molto di più che sparare. Hanno, gli attori non statali, diverse funzioni che passano da una complessa architettura di comunicazione (attraverso riviste, social, canali tv etc.) e investimenti in business diversificati (ben diversi dai “saccheggi” che ci figurano) dalle costruzioni, alla vendita del petrolio e molto altro. Prendiamo l’Hezbollah libanese: oltre all’apparato militare l’Hezbollah è un partito politico, crea strutture, investe nella coesione sociale, a messo in piedi una rete di microprestiti, costruisce e gestiscono la rete fognaria e costruisce forti legami con la popolazione. In parole più semplici, gli attori non statali colmano un vuoto che ha lasciato la politica e fanno politica.
Quindi cosa sono questi gruppi: semplici terroristi o qualcosa di diverso e nuovo?
Domandarselo e capirlo sarebbe un ottimo modo per capire come fronteggiarli non solo nella loro fase violenta ma più in profondità per sapere come trattarli nelle transizioni non violente. Perché è il vuoto di governance che li crea. Mica la guerra.
L’antefatto è più o meno questo: Ali Awad aveva 14 anni, stava tagliando delle verdure quando una bomba è esplosa all’improvviso e lo ha colpito. Adel Tormus era seduto al tavolo di un caffè, lì nei paraggi. Si sente un secondo boato. Adel muore ammazzato come Ali da una bomba di Isis. Non siamo a Parigi, ma a Beirut. In Libano. Esattamente il giorno prima della carneficina che ha sconvolto la capitale francese, quando un doppio attentato suicida ha devastato una zona commerciale frequentata da ragazzi, persone comuni, non la generazione Bataclan, ma qualcosa di molto simile. Anche se a migliaia di chilometri di distanza dalla Ville Lumiére.
Le esplosioni a Beirut hanno causato 43 morti e centinaia di feriti nel peggior attentato che abbia mai colpito la città negli ultimi 25anni. Eppure i giornali e i tg del giorno dopo, quel fatidico venerdì 13 novembre, ne parlano appena. Quella stessa sera in Francia si scatena l’orrore. Gli attacchi rapidamente rimbalzano sui canali all news e conquistano le aperture di tutti i siti web d’informazione. Suscitano interesse, paura, terrore, invadono i social con post, video, disegni, hashtag. Catturando un’attenzione mediatica che mai sarebbe stata riservata al Libano.
Raramente gli eventi si susseguono così rapidamente da poter offrire un confronto su come un fatto simile venga percepito a seconda che accada in un luogo o in un altro, che una bomba scoppi in Libano o a Parigi, che uccida 40 innocenti qui o più di 100 lì. In questa occasione è successo.
La prima pagina del quotidiano libanese il giorno dopo gli attentati di Parigi titola: «Lo stesso terrore, le stesse lacrime»
E dopo lo sgomento per Parigi, dopo l’ammirazione per la loro forza d’animo di un popolo che si è fatto coraggio cantando la Marsigliese e gridando «liberté egalité fraternité», c’è chi ha cominciato a guardare un po’ più in là. Ha smesso di concentrarsi esclusivamente su quanto era accaduto nel cuore dell’Europa e ha fatto notare che per i 40 morti di Beirut non si era gridato all’orrore – anche se era un orrore – non ci si era affrettati a postare lo sdegno su tutti i profili social in nostro possesso, né a cambiare la foto profilo con la bandiera del Libano. Che poi: chi diavolo sa che bandiera ha il Libano?
A porre la questione sul piatto sono state soprattutto le grandi testate internazionali, le stesse che, dopo tutto, avevano orchestrato una copertura così ìmpari. Anne Barnard sul New York Times fa notare che dopo gli attentati di Parigi «per alcuni a Beirut, la solidarietà si è mescolata all’angoscia per il fatto che solo una delle due città colpite – Parigi appunto – ha ricevuto una effusione di cordoglio a livello mondiale simile a quello che avevano ricevito Stati Uniti dopo gli attacchi dell’11 settembre». Lo stesso fa Aryn Baker, corrispondente dall’Africa per Time, che per anni ha lavorato e abitato a Beirut e scrive: «Qualunque siano le ragioni – e ce ne sono molte – per la disparità nella reazione globale, il messaggio che emerge da questi due eventi paralleli è che alcune vite contano più di altre».
Il lutto a Beirut dopo le bombe fatte esplodere da Is
Il lutto a Parigi. Studenti osservano il minuto di silenzio in Piazza della Sorbona
Il settimanale americanoThe Atlantic, conia una definizione e parla di un evidente “Empathy Gap”nelle risposte emotive suscitate da Parigi e Beirut. Ogni volta che c’è un grave attacco terroristico in una città americana o europea – come negli ultimi anni è stato per New York, Madrid, Londra, Parigi e ancora Parigi una seconda volta– tutto quello che accade in una di queste parti del mondo cattura l’attenzione e la preoccupazione di americani ed europei in un modo in cui le stesse atrocità commesse altrove non sembrano riuscire a fare.
Un medico libanese, Fares Elie, nel suo blog ha commentato così questo “gap empatico”:
«Quando sono morti dei miei connazionali, nessun Paese si è preso la briga di illuminare i suoi monumenti con i colori della nostra bandiera. Quando sono morti i miei connazionali, non si è messo a lutto il mondo. La loro morte non è stata altro che “una macchia irrilevante tra la solita serie di notizie internazionali, qualcosa in qualche modo di usuale, che, si sa, accade in quelle parti del mondo».
A poco a poco però, proprio grazie a questi articoli si è aperta la discussione. Proprio su Facebook – che in occasione degli attacchi di Parigi aveva addirittura attivato un safety check come era accaduto solo nel caso di disastri naturali – sempre più persone hanno cominciato a chiedersi perché gli attacchi di Beirut sono stati trascurati, perché il social di Zuckerberg non ha permesso anche alla gente in Libano di fare check-in e segnalare di essere al “sicuro” sul social network.
In Italia a diffondere il tam tam ci ha pensato Valigia Blu, riportando questa lettera da Beirut e cercando di offrire un punto di vista sul tema:
«La gente crede che per noi libanesi sia ormai normale sentir parlare di attacchi. Danno per scontato che vivere in una nazione che vacilla sull’orlo del caos significhi essere pronti a qualsiasi cosa questo caos ci faccia cadere addosso. Ma non è affatto così. […] «È solo una bomba», ho sentito dire da alcuni vicino a me. Sarà sempre ‘solo una bomba’ per tanti libanesi. Morire nelle strade delle nostre città, lontano dalle nostre case, facendo cose che nessuna persona dovrebbe mai fare mentre muore, per quanto raro, è diventato abbastanza frequente per noi da sviluppare una reazione di riflesso, grazie alla quale liquidiamo subito la cosa. Ma non è stata ‘solo una bomba’ stavolta, così come non è mai ‘solo una bomba’».
Sicuramente è così: non è mai solo una bomba. Ma il punto è che un attacco nel cuore dell’Europa ha maggior visibilità perché è percepito come più vicino, ed effettivamente è più vicino, soprattutto lo è per i media occidentali. Non è questione di mere distanze, Beirut è più vicino all’Italia degli Stati Uniti, ma qualsiasi tragedia successa a New York, ci coinvolge e ci sconvolge in misura maggiore di qualcosa che accade in Libano, un altrove per eccellenza. Distante soprattutto dalla nostra capacità di essere immaginato a differenza degli Usa dei quali conosciamo strade e grattacieli anche senza aver mai messo piede in terra statunitense e, a ben vedere, anche la lingua.
In questa divergenza di partecipazione dunque, influisce il fatto che noi occidentali – bisogna ammetterlo – non sappiamo assolutamente nulla di come si vive nel mondo al di fuori dei nostri confini e che effettivamente viviamo convinti dello stereotipo per cui lì, a Beirut, una bomba è qualcosa “all’ordine del giorno”. Come potevamo sapere che non c’era un attentato così dagli anni 90. O meglio come potevamo ricordarlo se percepiamo quella terra come un posto che ha poco a che fare con noi? E poi si tratta anche di una mera legge di mercato e visibilità. Parigi fa più notizia, tanto quanto in genere un film americano viene visto in più Paesi del mondo rispetto a un film italiano.
Alle polemiche diventate presto virali sul web e allo sdegno per non mettere sullo stesso piano le due tragedie, ha risposto il Washington Post con un articolo intitolato provocatoriamente:
«It’s okay if you care more about the Paris attacks than the Beirut bombings.
That doesn’t make you a racist»
Cioè: “È ok se ti preoccupi più degli attacchi di Parigi che delle bombe di Beirut. Questo non fa di te un razzista”. Maxim Mayer-Cesiano, autore del pezzo, spiega:
«Il dolore è un sentimento personale, non è sempre giusto o proporzionato alla demografia mondo. Il dolore non è nella stessa categoria oggettiva di cose come il diritto di voto, la giustizia penale, l’istruzione o lavoro. Non è una questione di giustizia. Le persone possono soffrire il modo in cui vogliono piangere. Se qualcosa li muove più di qualcosa d’altro, che è bene. Molte persone hanno visitato la Ville Lumiére, hanno lasciato lì ricordi, fatto esperienze»
Parigi in poche parole è davvero più vicina e la vicinanza è la prima condizione per provare empatia. E continua: «le tragedie a Beirut e Parigi non dovrebbero avere lo stesso tipo di copertura. Beirut è a meno di un’ora di macchina dalla Siria, un paese devastato dalla guerra civile». Negli ultimi 30 anni Beirut è stata più volte teatro di guerra, quindi per quanto errate e stereotipate siano le nostre percezioni, beh hanno un fondo di verità. Soprattutto se si considera il fatto che, come spiega lo stesso Mayer-Cesiano: «Parigi di solito è una città sicura, nonostante sia passato poco meno di un anno dagli attacchi Charlie Hebdo. È a di più di 2.000 miglia dalle zone di guerra, ed è generalmente concepito come un posto piuttosto difficile arrivare nel cuore dell’Unione europea partendo dal Medio Oriente, anche con l’ondata di profughi.
Gli attacchi di Parigi hanno sconvolto il mondo soprattutto perché hanno ridefinito le nostre aspettative su ciò che è sicuro e ciò che non lo è. Non è una questione di razzismo
Una settimana fa, la gente ragionevolmente aveva aspettative diverse su quale fossero i luoghi più vulnerabili al terrorismo islamico». Inaspettatamente invece abbiamo avuto la carneficina al Bataclan, a Le Carillon, a le Petit Cambodge, luoghi in cui forse in uno dei vostri viaggi avete pure cenato o passeggiato, e le persone uccise sono state più del triplo di quelle rimaste vittime a Beirut. Gli attacchi di Parigi hanno sconvolto il mondo, come già era accaduto per le Twin Towers, soprattutto perché hanno ridefinito le nostre aspettative su ciò che è sicuro e ciò che non lo è. Non è una questione di razzismo. Era piuttosto ovvio che scatenasse l’interesse della stampa internazionale. Diversa invece è la considerazione su come viene affrontato, condiviso e comunicato la tragedia sui social network.
Le foto profilo con la bandiera di Parigi per esprimere cordoglio, la Tour Eiffel/simbolo della pace, così come la matita spezzata per Charlie Hebdo o il meme che dichiara «Je suis Charlie» sono cool. Belli, lucidi, quasi come fossero slogan pubblicitari e, soprattutto: pronti all’uso.Pensati a tavolino per diventare virali, simboli di cui appropriarsi – in maniera rapida e indolore – per manifestare pubblicamente la nostra adesione a uno stile di vita. Per richiamare ancora una volta l’attenzione sulla nostra identità. Per dire molto semplicemente “ci sono anche io, non dimenticatevi di me, partecipo anche io”. Sul blog Tagli chiamano tutto questo “marketing del lutto” e lo commentano così:
«Forse in Libano, in Nigeria, ad Haiti pensano: ecco come reagisce l’Occidente alle sciagure che lo colpiscono. Risponde con la pubblicità, con il capitalismo delle emozioni. Una banda di criminali usa la religione come paravento per le atrocità di cui si macchia, e gli occidentali non sanno dire nulla di meglio che #prayforParis, cioè invitare a pregare e a raccogliersi a loro volta nella religione? E non si rendono nemmeno conto di quanto sia incoerente pregare per la città più laica del mondo, Parigi, che ha compiuto una rivoluzione anche per separare lo Stato e la vita pubblica dalla sfera religiosa? I nostri valori, la nostra storia. Tutto sommerso da una stucchevole superficialità emotiva»
In tutto questo dunque dove è finito l’“Empathy Gap”? Forse colmato dalla stessa stucchevole emotività che ci travolge quando la notizia che “Ehi, esiste anche Beirut, anche lì sono morte delle persone” arriva sulle nostre bacheche, condivisa dagli amici di facebook ansiosi di prendere una posizione. Perché il punto è che, solo quando postare la notizia delle bombe in Libano dice qualcosa di noi, di quanto siamo attenti, sensibili, anticonformisti, solo allora la notizia diventa virale, solo allora se ne parla. Non è la stampa, ma: è l’Ego, bellezza. A proposito: ieri Boko Haram ha fatto esplodere con un attentato kamicaze una bomba in Nigeria, sono morte più di 30 persone, i feriti sono almeno 80. Quanti di voi ne hanno parlato? Ah sì, e poi c’è la storia del cane Diesel rimasto ucciso nel blitz delle teste di cuoio parigine a Saint-Denis, ma quella immagino la conosciate.
Tanto rumore per nulla? Beppe Grillo toglie il suo nome dal marchio del Movimento e il web plaude alla coerenza, i giornali parlano di passo in avanti e addirittura di piccola rivoluzione, il direttorio di maggiore responsabilità per ciascuno di loro.
Ma, nei fatti, cosa cambia davvero? Nulla. O meglio, nulla rispetto al marchio depositato il 20 marzo 2012 e registrato 6 mesi dopo (qui il documento):
Che, come si può vedere dal documento di registrazione del marchio depositate “dal sig. Giuseppe Grillo” presso il Ministero dello Sviluppo economico, non ha mai avuto il nome del comico, né del suo blog (beppegrillo.it), incorporato.
Descrizione: figura di un cerchio al cui interno sono disposte cinque stelle e la parola “movimento” con la “v” in carattere di fantasia
E nulla cambierà, nei fatti, finché non avremo visione dell’atto giuridico con cui avviene la declamata cessione. Come spiega a Left la professoressa e avvocato Paola Gelato del prestigioso studio Jacobacci&Associati, fra le altre cose specializzata in proprietà industriale, nel diritto di internet e della pubblicità, infatti:
«A livello formale risulta che lui è il titolare e presumo dunque sia tutt’ora il proprietario del simbolo. Come tale, è lui che concede la licenza del consenso all’utilizzo. Bisognerà continuare a seguire le stesse regole, ed eventualmente chiedere ai soggetti da lui indicati dalla concessione d’uso. In ogni caso, dev’esserci un progetto di negoziato o cessione in corso».
Finché non vedremo il documento che attesta non solo la cessione stessa, ma anche chi sono i titolari della gestione del simbolo, dunque, non sappiamo a chi spetta decidere e gestire il marchio, giusto? «Certo. Ci sarà una licenza, una concessione all’uso. La tipologia, parlo da giurista naturalmente, è assimilabile a quella di un marchio collettivo al cui utilizzo hanno accesso tutte le persone che ne garantiscono il rispetto delle garanzie fondanti. Una forma di proprietà diffusa»
Cosa che dovrà essere scritta sull’atto di cessione… «Attenzione, perché la cessione è un’altra cosa: è definitiva. Se ha deciso di cederlo e dunque cambiare la proprietà – cedendola magari all’associazione, io questo non lo posso sapere, e a ora non risulta, chiaramente, ancora dalle banche dati. In ogni caso, per cederlo definitivamente dovrebbe fare un atto di vendita. Cosa che non significa che non potrebbe comunque tenere la facoltà di utilizzo».
Quanto può costare “comprare” il marchio 5stelle? Questo non so dirglielo, perché il costo di un marchio è legato a moltissimi fattori, e in questo caso stiamo parlando di un marchio che ha un partito politico al seguito.
Dunque, fino alla pubblicazione di questo atto, lui rimane formalmente il proprietario? «Fin quando non c’è un atto formale e giuridico che lo attesti, si, certo».
Solo comunicazione, per ora? «Deve aver fatto una valutazione di marketing. È probabile che abbia voluto sdoganare il Movimento dal suo nome e dal blog, perché ormai il simbolo ha una notorietà propria. Il marchio e la sua capacità distintiva non sono collegate solo al proprietario, ma anche all’utilizzo che ne faccio, alla sua diffusione. Ora, il Movimento si è sdoganato: è stato utilizzato per un certo tempo, è conosciuto per motivi e azioni proprie, e non è riconducibile solo all’opinione di Beppe Grillo, o al blog e alle sue dichiarazioni. Adesso si parla del m5s anche senza Grillo».
E forse, tanto meglio, visto che ultimamente il comico non stava facendo proprio la fortuna del Movimento. Ma la domanda resta: di chi è ora il Movimento?
Quel “Bastardi islamici” sulla prima pagina di Libero il giorno dopo la strage di Parigi è una macchia nera. Inchiostro pesante, un macigno. È anche il segno di dove può arrivare l’informazione. C’è chi, oltre ad aver pensato che quel titolo del direttore Maurizio Belpietro potesse istigare all’odio razziale, è passato all’azione. «Non solo indignazione», dice Andrea Ferrari, presidente del Coordinamento nazionale enti locali per la pace e i diritti umani e assessore a Lodi il quale il giorno dopo l’uscita del giornale fondato da Vittorio Feltri si è recato in Procura per sporgere denuncia-querela contro Maurizio Belpietro. Sarà il giudice a valutare i reati che secondo Ferrari potrebbero riguardare quella pagina: la cosiddetta legge Mancino “Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa“, ma anche l’articolo 403 del Codice penale “Offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone”.
L’assessore querela e poi si scusa con le famiglie straniere
Andrea Ferrari spiega così a Left la sua decisione. «Quello stesso giorno avevo un incontro con dei cittadini di origine straniera sul tema dello smaltimento rifiuti. La mattina avevo visto Libero, alle 15 dovevo incontrare quelle famiglie, non mi sentivo a posto con la coscienza. E allora ho fatto due cose: la prima la denuncia e poi come seconda cosa ho comprato Libero, gliel’ho fatto vedere e mi sono scusato, dicendo che non tutti gli italiani erano così», racconta Ferrari. «Un’operazione squallida in cui dietro c’è anche un disegno di marketing», continua l’assessore di Lodi che ha fatto fatica a trovare il giornale di Belpietro nelle edicole visto che era tutto esaurito. Come presidente del Coordinamento enti locali per la pace e i diritti umani (circa 200 adesioni) Ferrari ha modo di verificare le delicati situazioni, talvolta, in cui vivono le città. «Il mio era anche un tentativo di dare voce a tutti quei comuni che lavorano sul tema dell’integrazione e della coesione sociale. I sindaci ormai si trovano a guidare città dove le persone sono tutte diverse come storia personale, e talvolta le loro storie parlano di conflitti e di guerre da cui sono scappate». E allora occorre attenzione, conclude Ferrari, perché, come scriveva Carlo Levi, le parole sono pietre.
Raffica di esposti e petizione
Un altro a passare alle vie di fatto è stato Maso Notarianni: «Ma ne ho sentiti altri venti che come me hanno querelato Belpietro». Notarianni ha avuto anche modo di scambiare delle battute con il direttore di Libero. È stato chiamato da radio 105 e messo a confronto con Belpietro, come si sente dal video che ha postato su Fb. Notarianni ha spiegato che «esiste la Costituzione ed esistono delle leggi che fissano dei paletti tra informazione, satira e istigazione all’odio». Belpietro si è difeso sostenendo che alla lettera bastardi significa figli illegittimi, è una parola precisa. «Uno scaltro gioco di parole» scrive nel sito l’associazione Carta di Romache annuncia un altro esposto contro Belpietro. E non è finita qui. Su Change.orgc’è una petizione presentata da Ivo Mej, giornalista e scrittore, indirizzata al presidente dell’Ordine Nazionale dei giornalisti Enzo Iacopino. Un titolo «contravvenendo a tutte le norme della deontologia professionale in materia di incitamento all’odio razziale e di correttezza dell’informazione». Cosa si chiede nella petizione?: la radiazione di Maurizio Belpietro dall’Ordine. La petizione conta già 116mila.
L’Ordine dei giornalisti risponde: «Non possiamo fare nulla»
«Intanto il 26 novembre, riceverò le firme della petizione, che va benissimo, per carità, ma qui però abbiamo a che fare con l’“analfabetismo” di alcuni colleghi», afferma a Left il presidente dell’Ordine nazionale Enzo Iacopino. «C’è una legge dello Stato che ha tolto all’Ordine qualsiasi potere disciplinare e di vigilanza della deontologia. È la Monti-Severino, che ha costretto gli ordini professionali a fare dei consigli di disciplina terzi rispetto alla funzione amministrativa. A livello territoriale e regionale è il presidente del tribunale a nominare questo consiglio», spiega Iacopino. Intanto però il presidente del consiglio regionale della Lombardia ha avviato un procedimento nei confronti di Belpietro presso il consiglio di disciplina regionale. «Noi cerchiamo di rispondere in un altro modo», afferma Iacopino. Sabato 21 novembre è proprio l’Ordine Nazionale dei giornalisti a organizzare un incontro, al circolo della Stampa di Milano, proprio sul tema “Strage di Parigi, l’Isis, il ruolo dei media e i doveri dei giornalisti”. Ci saranno, tra gli altri (qui il programma), Izzedin Elzir, capo della Comunità islamica fiorentina e presidente dell’Ucoii, il magistrato Stefano Dambruoso, Domenico Quirico l’inviato de la Stampa sequestrato in Siria per 5 mesi e giornalisti di molte testate tra cui Libero.
Robert Capa a colori. Come erano in realtà gran parte delle sue pellicole. Anche se il grande fotografo della Magnum conquistò la notorietà soprattutto per i suoi eleganti scatti in bianco e nero. Dopo la grande retrospettiva a New York organizzata dal Centro internazionale di fotografia in occasione del centenario dalla nascita di Robert Capa ( Budapest 1913 – Indocina 1954) e la recentissima retrospettiva di Budapest, l’esposizione curata da Cynthia Young approda dal 21 novembre al 29 maggio 2016 a Château de Toursen, in Francia, con la collaborazione di Jeu de Paume e di Chroma Photography.
«Quando Robert Capa iniziò questa nuova avventura, il suo talento con le pellicole in bianco e nero era già riconosciuto e iniziare con il colore a metà della sua carriera gli rese necessaria una nuova disciplina ma gli aprì anche nuove opportunità», racconta la curatrice. «La mostra si occupa anche del modo in cui Capa si reinventò come fotografo durante gli anni in cui non si occupò di guerra e conflitti politici. Il lavoro con il colore era infatti un suo tentativo per cercare di tenere a galla l’agenzia Magnum, visto che le riviste, nel dopoguerra, volevano sempre di più fotografie che non fossero in bianco e nero». Questa retrospettiva dunque presenta un aspetto tutto sommato meno conosciuto del fotogiornalista che ha vissuto in diretta le guerre del Novecento, registrando tutto il dramma del vissuto in scatti entrati nei manuali di storia. Come quello tragico e doloroso in cui un soldato dell’esercito repubblicano spagnolo viene colpito a morte da un proiettile nel 1936 .
Il vero nome di Capa era Endre Ernő Friedmann ed era nato in Ungheria nel 1913. Aveva scelto un nome d’arte, agli esordi, per rendere le sue foto più misteriose. Scelse un nome che potesse suonare americano e venne in Italia al seguito dell’esercito americano realizzando, soprattutto nel dopo guerra alcune immagini che hanno poi parlato anche degli aspetti glamour di Roma e delle Alpi sciistiche in tutto il mondo.
Già nel 1938, durante la guerra sino-giapponese, si era fatto inviare da un amico newyorkese rullini Kodachrome. Così era coominciata la sua sperimentazione a colori. Durante la Seconda guerra mondiale Capa portava sempre con sé due macchine fotografiche di cui una caricata con una pellicola a colori. Ma ancora le riviste stampavano in bianco e nero. Ma non interruppe per questo la propria ricerca continuando a fare fotoi a colori nel dopo guerra anche se fino al 1954 restarono perlopiù nei suoi archivi. In questa mostra di Château de Toursen si possono vedere le straordinarie fotografie del viaggio in Unione Sovietica, compiuto nel 1947 con lo scrittore John Steinbeck e poi in Israele tra il 1949 e il 1950. Ma non mancano gli scatti più fashion delle star di Hollywood ritratte nei primi anni Cinquanta, da Humphrey Bogart a Ingrid Bergman, da Orson Welles a John Huston. in vacanza a Biarritz, in Francia o in località sciistiche europee. L’avventura di Capa a colori è documentata in un volume fotografico Capa in Color pubblicato da Electa.
«Dopo un anno in cui abbiamo monitorato in maniera costante e sul posto gli sbarchi, le procedure e le modalità dell’accoglienza, dopo aver denunciato le cose che abbiamo visto, ora scegliamo di pubblicare un rapporto breve e molto policy oriented che spiega cosa non va e cosa occorrerebbe fare». A parlare è Judith Sunderland, responsabile di Human Rights Watch per l’Europa e l’Asia centrale. Nei giorni in cui si parla di ritorno alla chiusura delle frontiere in maniera ossessiva, di abolizione di Schengen, Human Rights Watch e Amnesty International, le grandi organizzazioni globali che fanno campagna per i diritti umani, decidono di pubblicare ciascuna un rapporto per denunciare le disfunzioni del sistema di asilo europeo e fare appello e lobby sulle istituzioni dell’Unione affinché affrontino l’emergenza umanitaria di questi mesi in maniera nuova e ambiziosa.
«Certo, dopo le stragi di Parigi il contesto è cambiato e i Paesi dell’est si sentono rafforzati nelle loro convinzioni e resistono ancora di più all’idea di partecipare al piano europeo di redistribuzione dei rifugiati. La verità però è che un sistema efficace di controllo e gestione degli sbarchi, non solo è migliore da un punto di vista dei diritti umani di quelle persone, ma è anche più sicuro», continua Sunderland «La verità è che il processo di trasferimento delle persone in altri Paesi gestito dall’Unhcr è molto rigoroso. A volte persino troppo lungo, proprio per verificare che le cose siano come i rifugiati le raccontano. L’altra verità è che l’Europa deve fare la sua parte perché siamo di fronte a una crisi globale di dimensioni epocali».
L’assenza e l’incapacità di coordinamento mettendo da parte le divisioni il vero problema. Molto prima che la crisi dei rifugiati portasse migliaia e migliaia di migranti disperati sul suolo europeo, la polizia e altri funzionari responsabili per il monitoraggio dei terroristi si erano lamentati dell’assenza di condivisione delle informazioni o di un registro a livello europeo degli estremisti considerati pericolosi ha reso impossibile il loro lavoro.
Human Rights Watch e Amnesty International scelgono di parlare con una sola voce mettendo in fila i numeri, le criticità e formulando proposte puntuali. Ancora più urgenti dopo che gli attentati di Parigi rischiano di far fare passi indietro alla già balbettante politica europea nei confronti dei richiedenti asilo in fuga dalle guerre in Siria, Iraq, Afghanistan (e poi dalla repressione in Eritrea, Sudan, Etiopia).
Il rapporto di Human Right Watch (Europe’s Refugee Crisis: An Agenda for Action) sedici pagine puntuali nelle quali si spiega cosa non va nelle politiche europee e si dettaglia cosa e come si dovrebbe agire. «In un mondo in cui aumentano i conflitti e le violazioni dei diritti umani, la leadership dell’Unione europea è più importante che mai. Gli orribili attacchi di Parigi sottolineano la necessità di una efficace risposta collettiva alla crisi dei profughi che consenta un adeguato screening per i richiedenti asilo, compresi coloro che fuggono la violenza ISIS in Siria e Iraq». Il concetto espresso da Sunderland è chiaro: più coordinamento e dei percorsi ben strutturati e organizzati significano, oltre che diritti certi, anche più sicurezza.
Tra i punti critici su cui lavorare c’è il sistema di Dublino, che ad oggi ha generato anche problemi di controllo e riconoscimento delle persone. In molti infatti cercano di aggirare i controlli in Grecia o Italia perché non vogliono rischiare di passare mesi in attesa nei Paesi mediterranei nei quali sono sbarcati – il sistema Dublino prevede che il richiedente asilo debba farlo nel primo Paese nel quale entra. Senza superare quelle regole, non solo i rifugiati in fuga patiranno più soprusi, ma anche la sicurezza rischia di essere un problema: più persone che cercano di non farsi registrare all’ingresso, sono un mare più grande nel quale un eventuale terrorista può nascondersi.
I rapporti mettono l’accento sui rischi connessi all’affidare ai Paesi terzi il ruolo di “piantoni” della fortezza Europa. Senza controlli, accordi chiari e un monitoraggio continuo, l’idea di far svolgere al Marocco o ad altri Paesi africani il ruolo di muro dell’Europa fuori dai confini Ue è un rischio enorme per le persone in fuga. Su questo aspetto si sofferma a lungo “Paura e recinzioni. Come l’Unione europea tiene lontani i rifugiati“, il rapporto di Amnesty, che è un lungo elenco documentato di violazioni dei diritti umani e di cose che non vanno nel sistema dei controlli alle frontiere. «Arrendersi alla paura sulla scia degli efferati attacchi di Parigi non servirà a proteggere nessuno. Le persone in fuga da persecuzioni e conflitti non sono scomparse, né lo è il loro diritto alla protezione. Dopo questa tragedia, la mancata estensione di solidarietà per le persone in cerca di rifugio in Europa, spesso in fuga dallo stesso tipo di violenza, sarebbe una vile abdicazione di responsabilità e una tragica vittoria del terrorismo sull’umanità».
Anche il rapporto di Amnesty contiene raccomandazioni.
Ecco una sintesi delle proposte di HRW:
L’Unione europea ei suoi Stati membri dovrebbero lavorare insieme per:
Salvare vite in mare attraverso robuste operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale e nel Mar Egeo;
Ridurre la necessità di viaggi pericolosi aumentando il reinsediamento dei rifugiati, facilitando il ricongiungimento familiare, e fornendo visti umanitari;
Risolvere il caos alle frontiere europee attraverso una maggiore preparazione e coordinamento, più rapida implementazione dei protocolli di trasferimento di emergenza, e l’accesso a procedure di asilo eque ed efficaci – anche in Grecia e alle frontiere terrestri tra Bulgaria e Turchia – e condizioni di accoglienza dignitose in tutta la regione;
Riparare un sistema europeo dell’asilo che fa acqua a partire dalla sostituzione del “sistema Dublino” con un meccanismo permanente per la distribuzione equa dei richiedenti asilo e l’individuazione di sistemi per far rispettare le norme europee a tutti gli Stati membri;
Rispettare i diritti dei migranti nella cooperazione con i paesi al di fuori delle frontiere europee, progettando con attenzione ed effettuando missioni di monitoraggio;
Mettere i diritti umani al centro degli sforzi diplomatici per affrontare le cause profonde dei flussi di rifugiati e di migranti.
Il prezzo delle recinzioni della Fortezza Europa
In tutto, gli stati membri dell’Unione europea hanno costruito oltre 235 chilometri di recinzione alla frontiera esterna, con un costo superiore a 175 milioni di euro:
– 175 chilometri alla frontiera tra Ungheria e Serbia;
– 30 chilometri alla frontiera tra Bulgaria e Turchia, cui si dovrebbero aggiungere altri 130 chilometri;
– 18,7 chilometri alla frontiera tra le enclave spagnole di Ceuta e Melilla e il Marocco;
– 10,5 chilometri nella regione dell’Evros alla frontiera tra Grecia e Turchia.
Piuttosto che impedirne l’arrivo, queste recinzioni hanno ottenuto l’unico risultato di dirigere i flussi di rifugiati lungo altri percorsi terrestri o rotte marittime maggiormente rischiose.
Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), nei primi 10 mesi e mezzo del 2015 gli arrivi via mare sono stati 792.883, rispetto ai 280.000 arrivi via terra e via mare registrati nel 2014 da Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere. Finora quest’anno 647.581 persone sono arrivate via mare in Grecia: secondo l’Unhcr il 93 per cento di esse proviene dai 10 principali paesi di origine dei rifugiati.
Alla data del 10 novembre, circa 3500 persone erano morte nel mar Mediterraneo, 512 delle quali nel mar Egeo.
(da Paura e recinzioni, come l’Ue tiene lontani i rifugiati)
La penna è più potente della spada, un fumettista Charlie Hebdo ha raccontato al mondo cosa ha pensato dopo il secondo attacco terroristico che ha colpito Parigi in meno di un anno.
Così, venerdì sera Joan Sfaarha pubblicato sul suo account Instagram questa serie di vignette per esprimere la sua tristezza, la sua rabbia, ma anche la sua convinzione che Parigi saprà reagire e andare avanti. Perché questo modo di affrontare la vita è insito nelle radici della città e scritto perfino nel suo motto.
Ecco un breve video con il cartoon disegnato da Sfaar:
Uno avrebbe dovuto vincere a spasso, l’altro era l’inseguitore. Invece nel voto del 25 ottobre Daniel Scioli e Mauricio Macrì sono arrivati molto vicini. E oggi il più liberista dei due, Macrì, è in vantaggio nei sondaggi per il secondo turno, che si terrà il 22 novembre. Questi parla di voltare pagina dopo gli anni dei Kirchner, l’altro mette in guardia da un ritorno al passato remoto, quello della privatizzazione e dollarizzazione dell’economia.
La verità è che i due contendenti alla presidenza sono entrambi sportivi, di origini italiane e neoliberisti. Daniel Scioli è il candidato unico della coalizione formata dai kirchneristi del Fronte per la Vittoria (Fpv) e i peronisti del Partido giustizialista (Pj). Mauricio Macri è il candidato di Cambiamo, di centrodestra. I due si scontreranno al ballottagio del 22 novembre per la presidenza dell’Argentina. Dopo i risultati del 26 ottobre, sarà necessario il secondo turno perché secondo la Costituzione argentina per vincere al primo turno il candidato deve superare il 45% dei voti oppure ottenere il 40% e uno scarto di almeno 10 punti con il secondo candidato. Invece Scioli si è fermato al 36,7% e Macri al 34,5. È rimasto fuori, poi, Sergio Massa, ex alleato dell’uscente Cristina Fernández, moglie e successore dell’ex presidente Néstor Kirchner. Avvocato, 43 anni, politico di lungo corso, Massa era in corsa per il Fronte rinnovatore. A lungo capo di gabinetto di Cristina Fernández, , aveva messo al centro della sua campagna la battaglia contro la criminalità e i trafficanti di droga. Non è bastato. E con lui tramonta il kirchnerismo.
Ecco chi sono e cosa dicono i due candidati che si sono aggiudicati un giro al secondo turno.
Il peronista. Chi è Daniel Scioli
Daniel Osvaldo Scioli è nato a Buenos Aires il 13 gennaio del 1957, e ha origine italiane. Anzi, molisane: il suo nonno paterno è emigrato dalla provincia di Isernia, da Monteroduni. Laureato in Marketing all’università argentina dell’Impresa, ha lavorato a lungo per l’azienda svedese Electrolux. Governatore della Provincia di Buenos Aires (oltre 3 milioni di abitanti) a capo di una coalizione di sinistra, dal 2007, Scioli è conosciuto per la sua flessibilità, in grado di destreggiarsi tra settori estremamente diversi del peronismo, rappresentati dagli ex presidenti Carlos Menem (1989-1999), Eduardo Duhalde (2002-2003) e Néstor Kirchner (2003-2007).
Sportivo, campione mondiale di offshore (motonautica), ha subito un incidente alla guida del suo catamarano nel 1989, nel delta del Paraná. L’incidente, in cui ha perso il braccio destro, ha generato molta commozione nel Paese. Con una protesi, ha ricominciato a guidare aggiudicandosi otto volte il titolo di campione mondiale. La sua carriera politica comincia nel Partido giustizialista, con la sua elezione come deputato alla Camera federale per una coalizione tra il Pj e l’Unione del centro democratico (di centrodestra). In pieno post Menem, nel 2002, è stato ministro del Turismo, incarico che ha mantenuto dopo la crisi di governo e l’arrivo del governo transitorio di Eduardo Duhalde (2002-2003). Nel 2003 è stato vicepresidente di Néstor Kirchner, per il movimento peronista di sinistra Fronte per la Vittoria, mantenendo la carica fino al dicembre del 2007.
Somos el futuro contra un pasado que no se resigna y quiere volver con las políticas que destruyeron el país. https://t.co/2J0OrZW6xf
Come parla e cosa vuole fare Daniel Scioli. «Il cambiamento deve proseguire», ha detto il candidato kirchnerista, in chiara polemica con il suo rivale di destra, Mauricio Macri. E ancora rivolgendosi al suo rivale ha messo in rilievo che se fosse per Macri, che era il sindaco della città di Buenos Aires, non ci sarebbe nel Paese nessun Auh (che è una specie di assegno familiare), né Ypf (l’impresa petrolifera argentina), né la compagnia aerea Aerolíneas. Scioli ha anche ricordato le sue promesse della campagna elettorale, come l’esenzione delle imposte per i lavoratori e i pensionati che guadagnano meno di 30mila pesos (circa 2.800 euro), la prosecuzione del recupero delle ferrovie argentine, la manutenzione dei programmi sociali messi in piedi nell’ultimo anno, la ricerca della sovranità energetica. Sostenitore di una banca centrale argentina che mantenga il controllo sul tasso di cambio, ha assicurato che non ricorrerà alla svalutazione della moneta. Si è anche impegnato a portare 30 miliardi di dollari di investimenti all’anno in Argentina e a ridurre l’inflazione nel corso dei prossimi quattro anni, assicurando che non intende impegnarsi in una battaglia legale con gli Stati Uniti per gli hedge fund non pagati (ma ha detto che un negoziato con i creditori è necessario per accedere a ulteriori finanziamenti). Infine, in un messaggio a papa Francesco, ha chiosato: «Lavorerò affinché tutti abbiano Casa, Terra e Lavoro (che in lingua originale, forma 3 T: Teto, Terra, Trabalho).
Il conservatore. Chi è Mauricio Macri
Nato a Tandil, nella provincia di Buenos Aires, l’8 febbraio del 1959, ingegnere, è anch’egli di origini italiane. Figlio di un imprenditore calabrese originario di Siderno, costa jonica della provincia di Reggio Calabria. Il padre, Franco, capo della holding Socma (oltre cinque miliardi di dollari l’anno di fatturato) è uno degli uomini più influenti in Argentina, imprenditore del settore automobilistico e degli appalti pubblici in edilizia. Nel 1968, papà Franco costruì persino la centrale nucleare di Buenos Aires. E Mauricio, nel 1991, all’età di 32 anni, è stato sequestrato da una banda e rilasciato, dopo due settimane, dietro il pagamento di un riscatto di 6 milioni di dollari. Poi, è stato a lungo presidente del Club Atletico Boca Juniors, dal 1995 al 2007. Durante la sua presidenza viene ricostruito lo stadio e la squadra di calcio vince 17 titoli (11 internazionali). Conosciuto in patria come il “Berlusconi argentino”, anche grazie alla fama di tombeur de femme, nel 2007 Macri fonda il partito di destra Compromesso per il cambiamento, che fa parte della coalizione Proposta repubblicana (Pro). Sempre nel 2007, viene eletto sindaco di Buenos Aires e riconfermato nel 2011. A luglio del 2015, il suo capo di gabinetto, Horacio Rodríguez Larreta, ha preso il suo posto alla guida della Capitale argentina, ed è stata l’occasione per misurare la popolarità di Macri per la candidatura alla presidenza. Ma la sua carriera politica ha inizio nel 2005, quando viene eletto deputato. È il suo principale avversario del partito di governo, anche se nel corso di un’intervista ha dichiarato che non si sente «antikirchnerista».
Come parla e cosa vuole fare. «Quello che è successo oggi ha cambiato la politica del Paese», ha dichiarato Macri subito dopo l’annuncio del passaggio al secondo turno. Dalla sede del suo partito, Cambiamo, si è appellato ai candidati perdenti, affermando che adesso «lavorerà per guadagnare la loro fiducia». Cercando consenso tra contadini e operai, Macri ha aggiunto: «Ho imparato a lottare per i diritti dei lavoratori nel corso della lunga storia del peronismo». E ha così concluso: «Conosciamo le condizioni dei nostri produttori agricoli, ma in poco tempo saremo in grado di rimettere in moto il Paese. E questo vale per tutti, anche per chi la pensa diversamente». In ambito economico, è un sostenitore della riduzione della spesa pubblica e dell’intervento dello Stato nell’economia. Propone una riforma monetaria e fiscale in senso liberista. Ha anche detto che combatterà la corruzione, ma è finito dentro un’inchiesta proprio per corruzione: il 10 settembre un giudice di Buenos Aires, Roberto Ponce, ha fatto richiesta dei documenti relativi ai contratti per la pubblicità che il sindaco ha firmato con un’azienda che appartiene a un esponente del suo stesso partito Proposta repubblicana (Pro).
Gravi violenze sarebbero state perpetrate contro i profughi in Bulgaria dalle autorit‡ locali. Lo denuncia Oxfam, una delle pi˘ importanti confederazioni internazionali specializzata in aiuto umanitario e progetti di sviluppo, che, attraverso un'indagine del Centro per i diritti umani di Belgrado, ha raccolto testimonianze di siriani, afgani e iracheni che sostengono di aver subito estorsioni, rapine, violenze, minacce e aggressioni di cani poliziotto. Trieste, 13 novembre 2015. ANSA/ Ufficio stampa Oxfam / Pablo Tosco +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++
La destra europea e americana sembrano molto unite su una questione: tenere i siriani a casa loro, non fare entrare rifugiati siriani che giudica tutti indistintamente potenzialmente pericolosi. E in questo caso non si tratta nemmeno di aiutarli, come direbbe qualcuno usando un artificio retorico. «Discutere di quote a questo punto è diventato assurdo» ha dichiarato un diplomatico di primo rango bulgaro Mitov in un’intervista con la radio pubblica. «Questo non è il modo per risolvere il problema ». Il governo di Sofia non ha però nulla da dire sulle accuse venute da Oxfam sui maltrattamenti che la polizia locale infligge ai danni dei rifugiati in fuga. Oxfam parla di estorsioni, sequestri di passaporti e sottrazione di beni, pestaggi anche ai danni di adolescenti, condizione di detenzione (per cosa?) spaventose e minacce con la pistola alla tempia.
Dal canto suo l’Ungheria ha intenzione di impugnare il piano di redistribuzione dei rifugiati nelle corti europee. O almeno questo è quanto ha annunciato il ministro della Giustizia Laszlo Troscsanyi.
In questo coro di governi di Paesi dell’Est contro il pure sottofinanziato e mediocre piano di redistribuzione dell’accoglienza, c’è anche il ministro dell’Interno polacco Mariusz Blaszczak, fresco vincitore con il suo partito Legge e Giustizia che per scagliarsi contro il piano Merkel ha ricordato la distruzione nazista di Varsavia durante la Seconda guerra mondiale. «Il piano di ricollocazione dei rifugiati è un altro esempio dell’arroganza tedesca. Siamo a Varsavia, che è stata distrutta dai tedeschi, che hanno ucciso 50mila persone, tra cui donne e bambini».
Al coro anti-tedesco e anti islamico di una parte dell’Europa politica si aggiungono i repubblicani americani, che stanno facendo di tutto per far fallire il piano Obama per l’accoglienza di 100mila profughi entro il 2017. Il governatore della Louisiana Bobby Jindal ha emesso un ordine esecutivo che impone alla polizia locale e ai funzionari statali di tenere fuori i rifugiati a qualsiasi costo. Altri 25 governatori (una democratica, la governatrice del New Hampshire) hanno fatto scelte simili. Quanto al neo eletto speaker della Camera (il sostituto di John Boehner) anche lui ha espresso il suo giudizio. Il religioso ex compagno di viaggio di Mitt Romney – era il suo candidato vicepresidente nel 2012 – ha spiegato che «a volte è meglio scegliere la sicurezza sulla compassione» e ha detto che occorre mettere in pausa il programma di accoglienza.
Tutti i candidati alle primarie repubblicane hanno dichiarato la loro contrarietà ad accogliere rifugiati con l’eccezione di Jeb Bush e Ted Cruz, che sono disponibili a fare entrare solo richiedenti asilo di religione cristiana (i tre democratici, Clinton, O’Malley e Sanders sono invece favorevoli). Donald Trump ha sostenuto che Obama ha intenzione di spedire rifugiati solo negli Stati repubblicani, come dire che se ne infischia se gli elettori di quel partito subissero attentati. Mike Huckabee invece ha detto che i siriani non si possono integrare per ragioni culturali e di clima – ce ne sono circa 150mila nel Paese, da decenni.
A coloro che oggi si oppongono all’idea dell’accoglienza, che non vogliono lasciar entrare e coloro di essere nipoti di un continente devastato dalla guerra nel quale i profughi erano milioni, ha risposto indirettamente con dei tweet un account gestito da un professore di storia americano, Peter Shulman, che ha recuperato dei sondaggi degli anni ’30 sull’accoglienza americana agli ebrei in fuga dal nazifascismo. Qui sotto un paio di tweet con una rappresentazione grafica di quei sondaggi dove si osserva come gli americani fossero nettamente contrari all’idea di aprire le frontiere a gente venuta dall’Europa sull’orlo della guerra. Stessi pregiudizi si segnalano in documenti d’epoca sui primi siriani arrivati. Alla domanda: dovremmo accogliere 10mila bambini ebrei in fuga dalla Germania? il 61% risponde No. Eppure, dall’arrivo di milioni di persone, prima e dopo la guerra, l’America ci ha guadagnato un’enormità. Farebbero bene a ricordarsene europei id destra e americani (alcuni dei quali parenti lontani dei profughi o emigranti di allora).
US Jan 20 ’39: Should the US government permit 10,000 mostly Jewish refugee children to come in from Germany? pic.twitter.com/5cFs5RabQn
US Apr ’39: If in Congress, would you support a bill to open US to larger number of European refugees? By Religion. pic.twitter.com/pWsqyRXZoW — Historical Opinion (@HistOpinion) 17 Novembre 2015