Vengo a scrivere al Bistrot 55, all’angolo tra il Boulevard Richard Lenoir (eh sì, sempre lui, luogo prossimo all’attentato a Charlie Hebdo di qualche mese fa) e Rue Saint-Sébastien, a pochi passi dal Bataclan. È un bistrot molto accogliente dove due ragazze bionde, sempre sorridenti, fanno un caffè decente. Intorno a me ci sono molti giornalisti, ho appena attraversato una distesa di fiori e candele e chitarre e messaggi e fotografie dove la gente continua a sfilare, a piangere, a pregare. Mi vengono i brividi a pensare a quello che è successo ma è come se una parte di me non riuscisse ancora a crederci, non volesse crederci.
Il Bistrot 55 assomiglia agli altri bistrot che sono stati colpiti venerdì notte e incarna l’anima di questo quartiere. L’11e arrondissement è un quartiere “borghese, progressista e cosmopolita” come lo definisce Libération che ha dedicato un intero numero alla “génération Bataclan”: una generazione di venti e trentenni aperti, acculturati, spesso con lavori creativi e precari, che hanno voglia di uscire, bere, divertirsi e si mischiano tra loro e con gli altri. Nel quartiere ci sono librerie, moschee, sinagoghe, negozi di vestiti cinesi, boutique alla moda, ristoranti italiani, vietnamiti, bar pachistani, pasticcerie arabe, macellerie kosher e cafés con terrasses sempre piene dove l’appartenenza religiosa e culturale appare come una categoria marginale, quasi anacronistica. Le scuole ne sono la dimostrazione: in certe classi quasi la metà degli alunni ha origini straniere e andare al catechismo è esotico come fare il ramadan.È questo che i terroristi vogliono attaccare, oltre all’edonismo capitalistico che ci rende tutti “figli di satana”: una società multietnica, stratificata, libera e un po’ spensierata, che stride con le banlieues dove le identità sono ben più marcate e la vita è assai meno piacevole. Molti dei terroristi che hanno attaccato Parigi venerdì sera erano francesi e appartengono alla stessa generazione anagrafica di coloro che hanno barbaramente ucciso.
In questo momento mi sembra che ciò che dovremmo difendere è la nostra identità di europei. L’Europa, oggi così fragile, è quel tentativo seppure parziale, difettoso, pieno di lacune e di imperfezioni di costruire una società più aperta e democratica, dove circolare liberamente, coltivare la cultura in tutte le sue forme e accogliere gli altri nei limiti del possibile. Ahimè, la classe politica che attualmente ci governa non sembra all’altezza di questo compito. Eppure rinunciare a questa grande utopia sarebbe l’errore più grave. Per questo dobbiamo continuare a leggere, scrivere, viaggiare, andare al cinema, al teatro, a sentire la musica, vedere la danza e poi chiacchierare, discutere, litigare intorno a un bicchiere di vino, alla terrasse del nostro caffè di quartiere.
«Non si può interrompere la continuità terapeutica. Che ne sarà dei nostri ragazzi, se quei 125 operatori se ne andranno?». Anna Maria De Angelis è la presidente dell’associazione Aresam (Associazione regionale per la salute mentale) del Lazio che manifesta davanti alla Regione. I familiari che difendono i diritti di coloro che soffrono di disturbo mentale sono affiancati da altre associazioni come Cittadinanzattiva, Tribunale del malato, Fondazione Di Liegro. Chiedono un incontro con il governatore Nicola Zingaretti per sollecitare una soluzione a un problema che rischia di compromettere la rete finora esistente per la terapia e la riabilitazione dei sofferenti psichici. «Va detto che la salute mentale è la cenerentola nel sistema sanitario del Lazio, perché i servizi territoriali sono ridotti al lumicino e i politici non ne capiscono l’importanza», sottolinea Anna Maria De Angelis. «Noi puntiamo al welfare di comunità, ma in questa situazione, con questi 125 che se ne andranno, è impossibile qualsiasi progetto terapeutico, già prima era difficile, perché essendo precari, si vedevano rinnovare anno dopo anno i contratti a singhiozzo», continua la presidente Aresam.
Psichiatria precaria
La manifestazione denuncia una situazione arrivata ormai al collasso. Ci sono infatti 127 (adesso oscillanti a 125) operatori (51 psichiatri, 15 psicologi, 17 infermieri, 18 assistenti sociali, 14 tecnici della riabilitazione e 12 educatori professionali) che lavorano nella regione assunti a tempo determinato con contratto atipico. È quello che risponde alla sigla Dgr980/2009. In teoria sarebbero stati a progetto, ma in realtà fin dall’inizio hanno ricoperto i ruoli dell’organico a tempo pieno. Un sistema, questo, per aggirare il blocco del turn-over e comunque garantire il servizio territoriale. Perché i Dgr980/09 lavorano a stretto contatto con i pazienti ovunque: nei servizi dei 12 dipartimenti di Salute mentale (Dsm), dai centri diurni, alle case famiglie, dagli ambulatori ai gruppi appartamento, così come nei servizi delle due unità operative complesse (Uoc) universitarie del Policlinico Umberto I e Sant’Andrea.
Dal 118 alle case famiglie: 4000 pazienti
«Dalle attività di emergenza e urgenza nelle ambulanze del 118 agli interventi in casa quando ci vengono fatte le segnalazioni, noi copriamo a 360 gradi tutte le situazioni di disturbo mentale», afferma uno psichiatra che fa parte del Coordinamento regionale precari psichiatria Dgr980/09. Non solo. Alcuni di loro lavorano anche nelle 4 case circondariali del Lazio (Rebibbia, Regina Coeli, Civitavecchia e Velletri) e c’è anche chi si occupa della gestione di pazienti nel passaggio dagli Opg alle Rems (le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). I pazienti in carico in tutta la regione sono circa 4000, calcolando che ognuno di loro ne segue dai 150 ai 200. Si tratta perlopiù di persone dai 18 ai 35 anni, con patologie come psicosi, disturbi bipolari, schizofrenia. Da un po’ di anni, per fortuna, viene riposta più attenzione nei confronti degli esordi psichiatrici in quella fascia d’età delicata che è il passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
Che farà il governatore Zingaretti?
Negli ultimi sei anni i contratti dei Dgr 980/09 sono stati prorogati per almeno cinque volte, addirittura l’ultima per tre mesi. Dal 15 gennaio 2016 fino al 2017 si produrrà uno stillicidio di “chiusura di progetti”, dicono i precari del Coordinamento. Anche perché l’operazione “dismissione” sembra ormai avviata, visto che – si legge in un loro comunicato – la Direzione regionale salute e integrazione sociale ha chiesto ai direttori generali delle 12 Asl e dei due politi universitari la ricognizione degli operatori Dgr980/09 per la “chiusura dei progetti”, ossia dei contratti a tempo determinato 15 octies generati dalla Dgr980/09». Ora, è vero che Zingaretti ha annunciato un progressivo allargamento del turn-over fino adesso bloccato, per cui fra tre anni si arriverà al 50% delle assunzioni, ma il timore da parte dei 125 precari è che vengano privilegiati i vincitori di concorsi molto lontani nel tempo e che magari negli ultimi anni non hanno mai lavorato nei territori. Una speranza, ma flebile, la ripongono nel concorso in arrivo per gli operatori delle Rems, ma si tratta di un ampliamento di 1,5 unità, raccontano i precari del Coordinamento Dgr980/09. Ben poca cosa. La soluzione sarebbe quella di arrivare ad un reale percorso di stabilizzazione dei precari con una trasformazione del contratto – si legge nel documento del Coordinamento – «alla luce dei criteri individuati dal decreto legge 101 del 31 agosto 2013 e dall’ultimo Dpcm del 6 marzo 2015, in merito alla stabilizzazione del personale sanitario precario» da effettuare non appena la Regione Lazio si sarà allontanata dallo spettro dell’attuale commissariamento.
Un welfare di comunità
«I politici non capiscono che la salute mentale va presa in carico non solo aumentando i posti letto negli Spdc (Servizio psichiatrico diagnosi e cura) ma nei centri diurni, nelle comunità alloggio e residenziali, nei gruppi appartamento. I nostri familiari non sono disabili, possono recuperare le loro risorse, se solo potesse essere garantita loro una continuità terapeutica», conclude Anna Maria De Angelis. Domani l’appello a Zingaretti per la tutela della salute mentale che la riduzione d’organico prevista mette seriamente a rischio. Inutile dire che nel Lazio, anche secondo i dati forniti dalla Consulta regionale per la salute mentale, la carenza di personale è cronica ormai da anni.
Un momento della manifestazione degli studenti in piazza di Porta San Paolo a Roma, 17 novembre 2015. ANSA/CLAUDIO PERI
Nuovi cortei studenteschi – a giudicare dalle foto anche piuttosto partecipati – oggi in molte città d’Italia in occasione della giornata europa di mobilitazione promossa con l’appello che trovate qui. Qui sotto una galleria di foto e di tweet dagli account delle organizzazioni che hanno organizzato la mobilitazione. Tante città e tanti temi, sullo sfondo ci sono le stragi di Parigi, ma nei cartelloni e slogan si parla di trivelle nell’Adriatico (a Termoli), di accoglienza per i profughi e, naturalmente, di reddito di cittadinanza e scuola.
La storia di Tommaso Cestrone, il pastore che per lughi anni ha difeso dall’incuria la Reggia di Carditello, ha ispirato il film Bella e perdutadi Pietro Marcello che il 18 novembre viene presentato a Torino come anteprima del il 33esimo Torino Film Festival.
Un fotogramma del film “Bella e perduta”
La storia della Reggia acquistata dallo Stato grazie all’interessamento dell’allora ministro Massimo Bray è un esempio di come sia possibile recuperare tesori d’arte sottraendoli al declino e al ricatto delle mafie. E il regista ha voluto rendere omaggio a quel luogo simbolo con un film visionario e poetico che ha per protagonista la maschera di Pulcinella, il servo sciocco, che viene dalle viscere del Vesuvio e che attraversa la Campania di oggi per realizzare il sogno di Tommaso di salvare un animale nella residenza borbonica abbandonata a se stessa nel cuore della terra dei fuochi. «Ho imparato a guardare l’Italia contemplando il suo paesaggio dai treni – scrive Pietro Marcello – riscoprendo di volta in volta la sua bellezza e la sua rovina. Spesso ho pensato di realizzare un film itinerante che attraversasse la provincia per provare a raccontare l’Italia: bella, sì, ma perduta».
I poster promozionali del film “Suffragette”
L’inaugurazione vera e propria della rassegna in programma dal 20 al 28 novembre è affidata invece al film Suffragettescritto da Abi Morgan e diretto da Sarah Gavron. Il titolo quasi immediatamente evoca l’immagine di donne pie che, armate di crinoline e bon ton, pretendono di fare la rivoluzione. Ma questo film intende mostrare quanto quest’immagine sia frutto dello sguardo misogino con cui queste pioniere dei diritti civili erano guardate. Del resto, se solo pensiamo che il suffragio universale in Svizzera c’è solo dal 1971 e che in paesi come l’Arabia Saudita ancora non c’è, siamo già spinti a riconsiderare il ruolo storico delle suffragette. Senza l’impegno di donne come Emmeline Pankhurst (di cui Castelvecchi ora pubblica la schietta e coraggiosa autobiografia) le donne sarebbero rimaste a lungo senza diritto di voto anche in Inghilterra.
Una scena di Antonia, film sulla vita della poetessa Antonia Pozzi
Si parla ancora di donne che hanno cercato una propria realizzazione fuori dalle imposizioni sociali ( pagandolo duramente) nel film Antoniadi Ferdinardo Cito Filomarino che arriva al TorinoFilmFestival nella sezione Festa Mobile. Il film offre un intenso ritratto della poetessa Antonia Pozzi, considerata da Eugenio Montale come una delle più importanti voci del Novecento. «Anche se nella sua breve esistenza non ha mai saputo di esserlo», ricorda il regista. In questa opera prima sono ripercorso gli ultimi dieci anni della vita della poetessa. Milano è sotto la cappa fascista. Anna scrive in segreto, con uno stile febbrile, dell’amore impossibile con il suo professore del liceo, racconta gli incontri, i tormenti, la passione. il regista la segue nella trasformazione dal reale al poetico, riflessa sul viso, sul corpo, nelle fotografie che scatta e sulle pagine che scrive. Fino a quando, a soli ventisei anni, il 3 dicembre del 1938, Antonia Pozzi si toglie la vita non avendo ancora pubblicato nessuna delle sue poesie.
Una scena di “Coma”
È ancora una storia di donne Coma, il film siriano-libanese diretto da Sara Fattahi. Al centro della narrazione ci sono una nonna, una madre e una figlia che vivono rinchiuse in un vecchio palazzo di Damasco. Mentre fuori infuria la guerra, le donne tirano avanti avendo come colonna sonora le appassionate soap siriane. Da quella surreale prigione la regista e documentarista lancia un grido di denuncia sulla condizione del proprio Paese.
Al Torino Film Festival sarà presentato anche il terzo lungometraggio di Elisabetta Sgarbi, Colpa del comunismo sulla storia di donne romene, Ana, Elena e Micaela, che lavorano in Italia , da tempo, come badanti. Ma due di loro perdono il lavoro e sono costrette a intraprendere un lungo viaggio tra l Marche e il Polesine. Non trovando un posto fisso ma facendo incontri, amicizie, vivendo inaspettati momenti di solidarietà. Da non perdere di vista anche il film The Idol di Hany Abu-Assad Siamo a Gaza, dove- nonostante il conflitto – Mohammed Assaf e sua sorella Nour, giocano, senza perdere la tenerezza parco giochi. Fanno musica con i loro amici, giocano a calcio, sognano. Che lo spinge a varcare i confini.
Siamo a Palermo invece con il film Lo scambio di Salvo Cuccia, ambientato a metà anni Novanta. Un commissario indaga su una paratoria al mercato, costata la vita a un ragazzo, mentre un altro è in fin di vita. La moglie del commissario, intanto, è sempre più ossessionata dal rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo. Un giallo psicologico ispirato a una storia realmente accaduta, scritto con iol contributo del magistratoAntonio Sabella.
Segnaliamo anche Simple Goodby di Degena Yun sulla storia di una giovane donna che, dopo molti anni in Inghilterra, torna a Pechino perché il padre sta male. I genitori sono tornati a vivere insieme per fronteggiare la malattia, ma mal si sopportano. Ma a poco a poco, anche grazie al rapporto con la figlia, l’uomo si riappropria del suo passato, delle sue radici, dei suoi sogni. Emozioni autobiografiche per l’opera seconda di Degena Yun, figlia di Saifu, il regista di The Sorrows of Broke.
Fra i molti film in programma troviamo anche classici da rivedere come Distant voices, still lives di Terence Davies (1988) che ripercorre la storia di una famiglia operaia nella Liverpool del secondo dopoguerra. Fu il folgorante esordio nel lungometraggio, un intenso viaggio autobiografico nel non detto delle relazioni familiari.Il regista sarà a Torino per essere premiato e per presentare il suo nuovo Unset song incentrato su una ragazza prigioniera di una famiglia patriarcale nella campagna scozzese.
La sezione palcoscenico
L‘Amleto di Shakespeare nell’allestimento del National Theatre andat0 in scena al Barbican di Londra fino allo scorso 31 ottobre, con nel ruolo del principe di Danimarca, diretto da Lyndsey Turner su colonna sonora di Nat King Cole e in chiave politica attualizzata.
Benedict Cumberbatch nel ruolo di Amleto
Daniele Segre invece presenta Morituri, una commedia nera che ha per protagoniste tre donne che si incontrano al cimitero, mentre Davide Ferrario è a Torino con SEXXX, dall’omonimo spettacolo ideato dal coreografo Matteo Levaggi.
Tutti i numeri del festival
158 lungometraggi, 15 mediometraggi e 32 cortometraggi. Fra i film si contano 47 opere prime e seconde, 50 anteprime mondiali, 20 anteprime internazionali, 8 anteprime europee , 71 anteprime italiane
Ieri il presidente francese Hollande ha fatto qualcosa che non è sfuggita a nessuno: provare a indossare i panni di George W. Bush per vedere se grazie a quelli, proprio come il presidente Usa nel 2001, riuscirà a tornare competitivo nelle urne presidenziali. Difficili a dirsi per il titolare dell’Eliseo tra i più impopolari di sempre. Hollande ha chiesto poteri eccezionali, ha parlato di cambiare la costituzione e propone di prolungare lo stato d’emergenza per mesi. Nel Paese dei diritti. Vedremo quale sarà la reazione dei francesi, intanto sgnaliamo alcuni commenti apparsi su quotidiani importanti. Non ce n’è quasi nessuno che non parli di George W. Per un presidente di sinistra non è un bell’effetto.
Signor Presidente, la scelta straordinariamente sconsiderata della terminologia usata nel suo discorso di sabato pomeriggio mi costringe a scriverle. Tranne una frase, «il resto del tuo discorso è angosciante e ripetere quasi parola per parola a quello di George W. Bush terrà prima del Congresso degli Stati Uniti poco dopo gli attacchi dell’11 settembre (…) Le conseguenze di quel discorso le conosciamo».
Lei signor presidente è caduto nella trappola, e l’ha fatto ad occhi aperti. E’ caduto nella trappola, signor presidente, perché sente il fiato dei falchi come Nicolas Sarkozy e Marine Le Pen bruciare sul suo collo. Ed ha una reputazione di essere un debole. E’ caduto nella trappola. In Francia, si vota il prossimo 6 e 13 dicembre, sono solo delle regionali, ma dopo gli attacchi diventeranno senza dubbio un referendum sulla sicurezza nazionale. Lei è caduto nella trappola con entrambi i piedi, perché ha fatto parola per parola quello che i terroristi speravano: dichiarare guerra. Ha accettato il loro invito alla jihad con entusiasmo. Ma questa risposta, che voleva essere ferma, non fa che correre il rischio di una mostruosa accelerazione della spirale di violenza.
Esistono altre forme di fermezza diverse dal linguaggio guerresco. Subito dopo gli attacchi in Norvegia, il primo ministro Jens Stoltenberg ha chiesto «più democrazia, più apertura, più partecipazione». Lei ha fatto riferimento alla libertà. Era necessario citare gli altri due valori della Repubblica francese: l’uguaglianza e la fratellanza. Ne abbiamo più bisogno in questo momento che di una dubbia retorica di guerra.
La guerra in Siria, è vero, è una sospensione della vita normale e richiede misure eccezionali e immensi sacrifici (…)
Ma sul suolo europeo è in corso un conflitto di ombre, incerto (…). Un conflitto in cui il ritorno alla vita di tutti i giorni, il rispetto delle garanzie della legge, il rifiuto di mostrare la propria paura, pure legittima, sono aspetti decisivi del tessuto morale di una società. A chi dice che il ritorno ai principi indebolirebbe la nostra risposta diciamo che è vero il contrario (…)Contro le grandi tirannie del Novecento, hanno vinto e le dittature in genere hanno perso. La libertà non è una debolezza. E’ questa che sostiene il coraggio dei popoli.
Per queste ragioni dobbiamo esaminare con grande attenzione le misure presentate da Hollande. Sappiamo dove ci ha portato la strategia di George Bush … Altri paesi europei, in circostanze analoghe, non hanno dichiarato lo stato di emergenza. In Francia è giustificato? Sono le misure eccezionali promesse in linea con i nostri principi? Per combattere servono ideali. Ammaccarli è rendersi più deboli in partenza.
Questo un breve passaggio che analizza una delle proposte di cambiamento delle leggi di Hollande dal punto vista tecnico, giudicandole inefficaci (da Le Monde)
Nel caso in cui il governo riuscisse a bandire dal territorio francese le persone di doppia nazionalità collegate a reti giudicate pericolose non è detto che la cosa funzioni, solleva sempre la questione dell’efficacia di tali misure per prevenire attacchi terroristici.
Nel mese di novembre 2014, un quarto degli jihadisti francesi convertiti e partiti per la Siria vengono da famiglie che non sono di recente immigrazione (…) L’efficacia della privazione della cittadinanza è subordinata a diverse condizioni che limitano il suo campo di azione e rendono la sua efficacia incerta.
Come possiamo fermare questa violenza? Il mondo sembra scoppiare a causa di ideologie contrapposte, alimentate dalla paura e dall’odio generate da alienazione, disumanizzazione e distruzione. La cosa migliore che possiamo fare è uscire, riconoscere l’un l’altro e la nostra umanità, trattare l’un l’altro con rispetto e decenza. La nostra risposta all’odio deve essere la pace. Nella mia lotta personale come sopravvissuto all’estremismo violento, rimanere fedele ai miei principi è stata una forza.
I parigini hanno dimostrato di saper reagire. Hanno aperto le loro case venerdì scorso, si aiutavano l’un l’altro, si accettavano l’un l’altro. Nella notte più buia, le persone si sono riunite e insieme hanno creato punti luminosi, mostrando Parigi come Città della Luce anche nelle ore più buie. La Francia, l’Europa e il mondo dovrebbero seguire l’esempio dei parigini.
Da lunedì 16 novembre le scuole francesi sono di nuovo aperte, nonostante lo stato di emergenza. Le bandiere tricolori sono state ammainate per il lutto, a mezzogiorno si è osservato un minuto di silenzio preceduto da un dibattito in classe secondo l’età dei bambini e dei ragazzi, le gite sono sospese per tutta la settimana e delle squadre di sostegno psicologico sono presenti in tutte le scuole sia per gli alunni che per i loro genitori. Ci è stato chiesto di comunicare se ci sono morti o feriti nelle nostre famiglie. Molti insegnanti, lunedì mattina, si sono domandati come e cosa raccontare agli alunni. È così difficile trovare le parole, contenere le emozioni, restare lucidi e vigili. Ci siamo trovati a spiegare ai nostri figli cosa fare se sentono degli spari, che non devono rimanere al centro di una folla ma anche che non devono essere presi dal panico, che la vita continua e la loro quotidianità cambierà il meno possibile. Alcuni siti di giornali sono rivolti direttamente ai bambini, come la versione online del “Petit Libé” (Liberation), quella del “Petit Quotidien” e sul portale nazionale dei professionisti dell’educazione “Eduscol” (eduscol.education.fr) ci sono varie pagine di informazione sia per gli insegnanti che per gli studenti. Per noi italiani questo livello di efficienza e di rapidità di risposta sembra incredibile, eppure non basta a far passare quella sensazione di essere totalmente impreparati a ciò che sta accadendo (sebbene ci sia anche un terribile déjà-vu) e soprattutto di essere così vulnerabili, fragili, davanti a ciò che ancora potrebbe accadere. Di fronte a chi è disposto a morire per un’idea, per quanto assurda essa ci sembri, siamo impotenti. È questa la vera forza dei terroristi. Lunedì, a mezzogiorno la Francia si è fermata. Place de la République era piena di gente commossa, le persone si radunavano intorno ai luoghi delle sparatorie, l’11e arrondissement era diventato un grande cimitero pieno di fiori e di candele. Nel silenzio assordante che ci avvolgeva, c’era anche qualcuno nel nostro palazzo che sparava della musica araba a tutto volume. Dopo gli attentati a Parigi, la gente in strada alza la testa, c’è chi si affaccia alla finestra, un tempo avrei riso di questa provocazione, adesso non ne ho più tanta voglia. È proprio quello che cercano: farci passare la voglia di ridere, di stare insieme, di uscire, di amarci, divertirci, prenderci in giro gli uni gli altri per le nostre appartenenze. Per questo hanno di nuovo colpito l’11e arrondissement. Tornando dal primo giorno di scuola i bambini sembrano più sereni, hanno parlato a lungo di quello che è successo, ognuno ha potuto dire la sua. Mia figlia si esprime chiaramente: «il maestro ci ha detto le stesse cose che avete detto voi, ma molto meglio». Nel pomeriggio sono usciti dalla scuola per andare in piscina, come tutti i lunedì. La Francia non si è fermata e la scuola rappresenta uno dei suoi centri di resistenza, di difesa dei valori repubblicani (molto più di certe decisioni politiche). Forse le cose vanno diversamente nelle banlieues, sicuramente per i musulmani sarà ancora più dura di prima. E qui ce ne sono molti e sono stufi di doversi dissociare.
Da circa 24 ore (speriamo finisca presto), sulla pagina Facebook di Left non compare più nulla. Non è perché la redazione sia andata in vacanza. E neppure perché stiamo lavorando freneticamente a un numero che dopo Parigi è per forza di cose è cambiato rispetto a quello che avevamo in mente. No, è perché l’algoritmo del social network ha deciso che postavamo troppe cose con foto di jihadisti e titoli contenenti le parole Parigi, jihad e ISIS.
Tutto è cominciato con un post ritratto di Abdelhamid Abaaoud, presunto cervello degli attentati parigini. L’articolo è corredato da un video girato da France24 nel quale non sono mostrate scene truculente e neppure messaggi di propaganda – a differenza di altri canali Tv Fr24 sceglie di essere selettiva sul tipo di cose che manda in onda. E poi da una foto, quella che troverete su tutti i siti dei giornali del mondo, nella quale il terrorista posa con una bandiera dell’ISIS. Si chiama informazione. Buona o cattiva, lo decidono i lettori.
Dopo quel post abbiamo tentato di postare cose sull’università, un appello per la pace sottoscritto da sindacalisti e articoli che riguardano altri temi. Niente da fare, anche avessimo postato un gattino, non saremmo riusciti a farlo. Facebook non dice che ti sta censurando il post ma invia i seguenti messaggi: “il tuo computer potrebbe essere infettato da un virus”, “se vuoi programmare un post devi farlo” … segue spiega, oppure “il post che stai cercando di pubblicare potrebbe contenere materiale non conforme alle nostre regole”. I messaggi arrivano random, non è un escalation e non è un chiaro segnale di censura. Poi c’è la possibilità di segnalare. Cosa che abbiamo fatto. Senza ottenere risposta (sono passate almeno 15 ore).
Il censore di Facebook non è un signore con gli occhiali, ma un computer che scandaglia i contenuti e cerca immagini e parole chiave che non gli piacciono. Comprensibile. Sappiamo anche che il social network, come appunto France 24, ha scelto di non far pubblicare video dei bombardamenti francesi. Legittimo. Avere un censore fatto di circuiti stampati presenta però almeno due problemi.
Il traffico di molti siti dipende ormai, anche per volontà e strategia di Google e di Facebook, dai click catturati sui social network. L’immagine qui sotto parla degli Stati Uniti, ma la cosa vale in maniera crescente per tutto il mondo. Il 41% degli americani si informa anche o esclusivamente sul social network
Non poter pubblicare è quindi come non andare in metà delle edicole dove la gente di cercherà. Con un danno in più: se per caso via Facebook indovini un articolo giusto, questo verrà letto molto, molto più del solito e il tuo marchio, la tua rivista, verrà conosciuta da gente che non la conosceva.
Il secondo problema riguarda la censura: un censore, per quanto stolto e bigotto, sa distinguere. Facciamo un esempio religioso da Italia anni ’50. Mettiamo che il censore veda allo stesso tempo un film di ispirazione democristiana sulla vita di un santo e un film provocatorio che sostiene che i vangeli contengono solo balle. Bene, nel primo caso il nostro censore metterà un bollino verde, nel secondo caso imporrà il divieto ai minori e il taglio delle scene più provocatorie. Un algoritmo no. Sceglie alcune parole chiave o immagini e censura. Non ha un cervello stupido, è proprio che non ha un cervello.
In questi anni il social è cresciuto a dismisura e ora si appresta a impegnarsi più che in passato sul mercato delle notizie. Così il mercato cambia e Facebook diventa un attore determinante. Lo è già. Avere un ruolo significa avere delle responsabilità: assumere più persone per far controllare le notizie che si pubblicano, ad esempio. E aumentare il personale che risponde alle segnalazioni. Le notizie sono un bene prezioso, Facebook può anche giocare un ruolo impoirtante nel veicolarle laddove non sarebbero arrivate. Ma deve imparare a farlo. Una notizia non è un gattino.
Qualche giorno fa una persona di origine montenegrina è stata fermata in Baviera mentre si dirigeva verso il confine austriaco. In macchina aveva un arsenale e visto che sul suo GPS c’era anche un percorso verso Parigi, la persona oggi viene interrogata per verificare se non si tratti di colui che ha fornito le armi ai commandos terroristici che hanno fatto strage a Parigi. A settembre la polizia greca aveva fermato un cargo partito dalla Turchia e diretto a Misurata carico di armi. Sono due notizie X, la prima più scottante per via della tragica attualità, che ci dicono come l’Europa e il Mediterraneo siano percorsi da traffici di armi (oltre che di persone).
Se l’Italia è il primo esportatore di armi leggere d’Europa, ed esporta anche in Paesi che in questi anni hanno sostenuto indirettamente l’ISIS o altri gruppi di estremisti islamici del tipo di al Nusra, la sezione siriana di al Qaeda (vedi alla voce viaggio di Renzi in Arabia Saudita qualche giorno fa), le armi che circolano per il continente e che fanno gola a crimine organizzato e terroristi sono soprattutto Kalashnikov e Uzi.
In Europa circolano quasi mezzo milione di armi da fuoco perse o rubate, si tratta in gran parte di armi a uso civile (fucili da caccia), ma non solo. In Francia in particolare le armi da combattimento sequestrate negli ultimi anni sono aumentate in maniera esponenziale. Le autorità francesi hanno segnalato un aumento dei sequestri di armi rubate o contrabbandate del 40% tra 2010 e 2011: 67 sequestri nei 2009, 164 nel 2011. Gli ultimi dati, quelli del 2014 dicono 175 sequestri, 5871 armi ritrovate e tra queste 80 kalashnikov – una merce molto disponibile, perché il mitragliatore è stato di recente rinnovato, rendendo obsoleti e a buon prezzo i modelli precedenti… nemmeno fosse un iphone.
L’Osservatorio nazionale sulla criminalità parla di una crescita sopra il 10% l’anno. La Gendarmerie parla di circa 4mila armi da guerra in circolazione nel Paese (una percentuale minima del totale di armi non dichiarate). Che Francia e Belgio siano i luoghi in cui circolano più armi illegali sembra essere un dato assodato. Nel 2014 una serie di irruzioni in abitazioni in giro per il Paese hanno portato al sequestro di centinaia di armi di fucili automatici e pistole e all’arresto di una cinquantina di persone. Un rapporto dell’istituto fiammingo per la pace ha invece sottolineato come in Belgio il numero di armi perdute si sia moltiplicato negli ultimi anni (nella figura qui sotto la colonna blu rappresenta la media 1991-2010, quelal grigia quella 1991-2010).
Da dove vengono le armi?
Grandi quantità di mitra, fucili e lanciarazzi leggeri hanno preso a circolare dopo il crollo dell’Unione Sovietica e, alla metà degli anni 90 in poi, a causa delle guerre in serie nella ex Jugoslavia. La primavera araba e gli sconvolgimenti in Tunisia, Egitto, Libia hanno contribuito ad aumentare la possibilità procurarsi armi da combattimento.
Un’informativa al Parlamento europeo del 2014 parla anche di un fiorente mercato online: le armi o pezzi di queste si comprano e vengono consegnate a domicilio attraverso le poste o i corrieri espresso. Il contrabbando avviene per piccole quantità trasportate in auto o furgoni in maniera da non destare nell’occhio. Come nel caso del montenegrino fermato in Baviera.
Tutte le fonti convergono sul fatto che oltre ai Balcani, c’è un traffico crescente proveniente dalla Libia e che esistono legami, non strutturati, tra crimine organizzato e organizzazioni terroristiche (fanno affari, comprano e vendono, non lavorano assieme). Tra i gruppi di crimine organizzato più attivi nel contrabbando di armi ci sono le bande di motociclisti nord-europee e dell’est. Qui sotto vedete alcune delle rotte individuate. Manca la Francia e certamente molti altri dati. Nella tabella ancora sotto si segnala il numero di armi presenti nei Balcani, alla colonna “non registrate” si conta un minimo intorno al milione e mezzo e un massimo vicino ai quattro milioni. C’è di che fare grosse spese e i terroristi mediorientali tendono a fornirsi qui (tra l’altro sia in Bosnia che in Kosovo ci sono cellule estremiste con le quali mettersi in contatto).
Le principali fonti di approvvigionamento sono la riattivazione di armi neutralizzate, i furti e l’appropriazione indebita, le armi vendute legalmente che passano di mano illegalmente, armi dismesse da polizie ed eserciti, la conversione di pistole a gas.
Tornando alla Francia, nel 2012, dopo che questi aveva colpito per diversi giorni a Tolosa e in altri luoghi, uccidendo ebrei e una serie di militari, la polizia circonda e uccide Mohammed Merah, ex studente, convertito al salafismo in carcere e passato per il Pakistan e l’Afghanistan. In casa sua viene trovata una enorme quantità di armi. All’epoca un funzionario di polizia spiegò alla Reuters: «Nell’area attorno a Marsiglia tutte le vendette e i regolamenti di conti tra bande rivali avvengono usando Kalashnikov. Se non ne hai uno, in certi ambienti, sei uno sfigato». Dopo di quell’episodio il Paese ha reso più stringenti le sue leggi, ma probabilmente senza applicarle troppo: una grande discussione, come in queste ore, si è fatti avuta dopo la strage di Charlie Hebdo. In quel caso, l’attentatore del supermercato ebraico, Koulibaly, aveva con ogni probabilità rimediato le armi in Belgio.
La Francia è anche il centro delle reti terroristiche europee più attive, come si nota dal grafico dell’Europol qui sotto, il numero di arresti connessi a organizzazioni terroristico-religiose è molto più alto che altrove. Tra i 152 attentati terroristici contati da Europol nel 2013, è in quelli capitati in Francia dove più spesso sono state usate armi automatiche.
(Arresti connessi al terrorismo religioso per Paese, 2013 – Europol)
E’ capitato che durante le rivolte delle banlieue venissero sparati colpi di Ak-47 e simili armi automatiche leggere. Nel 2014 sono morte una dozzina di persone a causa di colpi sparati da fucili semi-automatici e, come ha detto il capo del sindacato di polizia UNSA Philippe Capon a Bloomberg, «il mercato clandestino è stato inondato di armi dai Balcani e un Ak-47 costa tra i mille e i millecinquecento euro». Ora, se si tiene conto che la maggior parte dei lupi solitari e anche dei combattenti sono persone che escono da una vita di piccole bande criminali o a esse contigue, è altrettanto chiaro come questi abbiano una relativa facilità a capire/sapere come ci si procura una mitraglietta.
Come mai è così facile? Perché le frontiere aperta di Schengen non sono andate di pari passo con lo scambio di informazioni, database europei davvero attivi, cooperazione. E poi regolamenti più severi e maggior difficoltà nel procurarsi armi legalmente – che c’è un travaso da legale a illegale – significa anche un colpo a un’industria fiorente.
Vi ricordate i 500 “cervelli” da far rientrare in Italia? Lo aveva annunciato Matteo Renzi nella trasmissione Che tempo che fa a metà ottobre. Naturalmente i desiderata del premier erano contenuti nella legge di stabilità, art. 15, titolo Merito. Ebbene, quest’articolo è da abrogare interamente perché non fa bene all’Università italiana, che, ricordiamo, vive un momento drammatico tra crollo delle immatricolazioni e del numero dei laureati.
L’art.15 da cancellare è soltanto una delle proposte del piano di emendamenti di Flc Cgil, Adi (associazione dottorandi italiani), del coordinamento degli studenti universitari Link, e quello dei ricercatori non strutturati Crnsu, che il 17 novembre verrà presentato in una conferenza stampa al Senato (ore 13 sala Nassirya). «Le abbiamo fatte conoscere a tutti i partiti, domani vedremo chi aderisce», dice Francesco Sinopoli, segretario nazionale Flc Cgil. Le proposte scaturite “dal basso”, cioè da chi vive ogni giorno negli atenei gli effetti del progressivo taglio dei finanziamenti e del blocco del turn over, secondo Sinopoli «sono a cavallo del contingente, per cercar di porre rimedio all’emergenza ma sono anche la prefigurazione di una nuova università, con indicazioni di un progetto preciso», conclude Sinopoli.
Probabilmente sarà Sel più Altra Europa (cioè i senatori ex M5s Campanella e Bocchino) a recepire gli emendamenti, ma forse anche altri parlamentari appartenenti al M5s e al Pd.
Ecco i sette punti che costituiscono la base della “riforma dal basso”.
Il reintegro del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) di 800 milioni di euro che è quanto è stato tagliato dal 2009 a oggi. Da ricordare che addirittura secondo il presidente della Crui l’università italiana avrebbe bisogno di un miliardo di euro. Mentre invece nella legge di stabilità all’articolo 17 è previsto per il ffo una somma pari a 6,863 milioni di euro, con un aumento di 55 milioni rispetto all’anno precedente.
L’aumento del Fondo integrativo statale per la copertura delle borse di studio. Attualmente il cronico bisogno di fondi (ogni anno 40mila studenti che hanno diritto alla borsa di studio non la ottengono) è aggravato dall’innalzamento della soglia isee.
Una riforma della tassazione studentesca e “no tax area” fino a 23mila euro di isee. In Italia esiste una disparità nelle tasse universitarie, che comunque sono tra le più alte d’Europa.
Un piano pluriennale di reclutamento di ricercatori a tempo dterminato di tipo b prevedendone almeno 5000 in 4 anni.
Lo sblocco del turn-over e l’abolizione del sistema di punti organico che ha determinato diseguaglianze evidenti tra gli atenei con la penalizzazione di quelli del Mezzogiorno, progressivamente “desertificati”.
Un finanziamento a sostegno delle borse di dottorato.
Il mantenimento delle somme destinate all’edilizia universitaria.
In che stato è l’Università italiana?
L’Italia è ultima in Europa per numero di laureati, è il penultimo Paese dell’Ocse quanto a finanziamenti all’istruzione terziaria, detiene il record di Neet tra i 16 e 29 anni e, dulcis in fundo, dal 2003 a oggi ha visto il crollo delle immatricolazioni: da 338mila a 260mila. Nel frattempo, circa 2000 professori se ne vanno ogni anno in pensione, rimpiazzati solo in parte – e in modo diseguale tra Nord e Sud -, mentre migliaia di ricercatori precari sono costretti a vagare in laboratori sempre più privi di risorse. In questa débâcle, il taglio delle borse di studio colpisce ogni anno 40mila studenti che pure ne hanno diritto, e se a ciò aggiungiamo gli effetti del nuovo certificato Isee, è facile prevedere un ritorno agli anni 60, quando ad arrivare alla laurea erano solo i figli di laureati. (…) L’Italia investe circa 7 miliardi nell’università, la Germania 27.
In media in Italia il personale docente si è ridotto tra il 2009 e il 2014 di circa il 15 per cento, ma mentre al Nord la contrazione è stata pari a meno del 13, al Sud e nel Centro ha superato il 16 per cento. A Bari la situazione è ancora più critica, con una riduzione del 22,34%. (da Left 38, del 3 ottobre 2015)
ACLI, ANSPS, ANTIGONE, ARCI, ASSOCIAZIONE PER LA PACE, CGIL, CENTRO ASTALLI, CILD, CNCA, FIOM CGIL, HABEISHA, LASCIATECIENTRARE, LEGAMBIENTE, LIBERA, LINK, LUNARIA, MOVIMENTO NONVIOLENTO, RETE DELLA CONOSCENZA, SEI/UGL, SOS RAZZISMO ITALIA, UDS, UN PONTE PER
Per una mobilitazione nazionale ed un piano d’azione delle organizzazioni sociali contro il terrorismo e la guerra, il razzismo e i predicatori d’odio. Per la pace e l’umanità
Esprimiamo profonda solidarietà alle vittime e ai familiari dell’attacco terroristico di Parigi. Ci stringiamo a tutta la popolazione francese per il dolore e il lutto che hanno subito, ma non scordiamo l’angoscia in cui sono quotidianamente immersi popoli come quello siriano, iracheno o nigeriano. Condanniamo nel modo più netto e deciso la follia distruttiva della violenza e del terrore che attraversa il Mediterraneo, l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa. La guerra è dentro le nostre società. È dentro il nostro quotidiano. È dentro il nostro modello di sviluppo. La nostra società si arricchisce con la produzione di armi che servono per fare le guerre che poi condanniamo e che vorremmo reprimere con nuove armi e nuove guerre. Una spirale che va fermata e sostituita con una diversa idea di società e di convivenza universale, fondata sugli stessi valori che oggi sono stati brutalmente attaccati in Francia: libertà, uguaglianza, fratellanza.
Proviamo rabbia e delusione per il fallimento delle istituzioni, nazionali e internazionali cui tutti noi abbiamo delegato la sicurezza, il rispetto dei diritti umani, che non hanno fatto leva su diplomazia e cooperazione per prevenire e gestire i conflitti .
Non vogliamo nuove spedizioni ed avventure militari.
Vogliamo costruire la pace e fermare la spirale di violenza e di follia umana con il diritto, le libertà, il dialogo, la solidarietà, la cooperazione, la giustizia sociale, il lavoro dignitoso, il rispetto dell’ambiente, la costruzione di una difesa comune europea, a partire dalla difesa civile non armata e nonviolenta con l’istituzione dei Corpi Civili Europei di Pace. Non è più tempo di ipocrisie, di tolleranza e favoritismi politici, di deroghe ai principi fondanti della nostra società, di premiare gli interessi propri sottomettendo gli interessi universali, di giustificare le occupazioni, i regimi autoritari per non disturbare i mercati o il prezzo del petrolio.
Basta produrre e vendere armi per fare le guerre. Basta dire che non esiste alternativa alla guerra.
Il razzismo e i predicatori d’odio vanno fermati per impedire che la paura e la violenza dilaghino e che in nome della sicurezza siano demolite progressivamente le nostre libertà e le conquiste democratiche. Va contrastata concretamente la deriva politico culturale che spinge l’Europa verso un ritorno al passato, dove erigere muri e indicare lo straniero, il migrante, il rifugiato, come nemico, serve per raccogliere consensi elettorali e distrarre l’opinione pubblica dai problemi interni.
L’islamofobia rischia di diventare un sentimento diffuso e di alzare dentro le nostre società muri invalicabili, producendo discriminazioni e divisioni. Spingendo una parte della popolazione, soprattutto le giovani generazioni, a ricercare identità e appartenenza tracciando confini invalicabili tra differenze religiose e culturali concepite come inconciliabili tra loro.
Bisogna fare presto per fermare questa follia umana, con gli strumenti che già abbiamo a disposizione: le armi del diritto e della democrazia. Per evitare che l’Europa, il pianeta intero e i suoi abitanti vengano travolti in una spirale distruttiva irreversibile, a partire dagli impegni che gli stati debbono assumere alla COP21 che si terrà proprio a Parigi, dal 30 novembre prossimo, vero banco di prova del cambiamento necessario ed indispensabile. Abbiamo bisogno di fare società, tessere relazioni sociali, ricostruire spazi collettivi di confronto e di scambio culturale.
Questo è il nostro impegno per ricordare il sacrificio di chi ha perso la vita e i propri affetti a causa delle guerre che non ha voluto e della follia che non ha potuto fermare.
Per questo invitiamo tutte le organizzazioni sociali a organizzare a partire da domani iniziative, momenti di riflessione, assemblee nelle città, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei circoli, nelle sedi sindacali, nelle parrocchie per definire dal basso e a partire dai territori un piano di azione nazionale contro il terrorismo, le guerre e il razzismo.
Invitiamo tutti a partecipare a un’assemblea nazionale, domani,
Martedì 17 novembre, alle ore 15:00 al Centro Congressi Frentani, Via di Porta Tiburtina 42, Roma