Abdelhamid Abaaoud è ricercato come il cervello organizzativo degli attentati di Parigi. La verità è che è noto e ricercato da mesi, come testimonia il filmato qui sotto, un servizio di France24 di qualche mese fa. E’ lui probabilmente il tramite tra l’ISIS e i giovani francesi e belgi che hanno ucciso 130 persone per poi farsi saltare in aria. Ha combattuto in Siria ed è andato e venuto dal Paese almeno una volta, anche dopo essere stato individuato dai servizi europei (di questo si è vantato in un’intervista con Dabiq, il mensile patinato dell’ISIS). Ed è ricercato da quando è comparso su un video dell’ISIS postato sui social network. E’ in fuga da mesi e da ieri è ricercato più che mai.
Il ritratto di France24
In passato è stato collegato da funzionari francesi agli attacchi sventati su un treno ad alta velocità Thalys diretto a Parigi lo scorso agosto e un attacco contro una chiesa a Parigi ad aprile. Il quotidiano francese Libération lo ha messo in relazione con Sid Ahmed Ghlam, uno studente francese accusato di omicidio, tentato omicidio e altri reati di terrorismo.
Dalla Grecia telefonò a due persone uccise a Verviers perché armate fino ai denti e scoperta dalla polizia.
Abaaoud si è molto vantato di essere ricercato, è molto presente in video e foto e non è il figlio di una banlieue devastata: è cresciuto nella parte migliore di Molenbeek, il quartiere di Bruxelles al centro dell’obbiettivo in questi giorni, suo padre era commerciante e, da ragazzo, ha studiato scuole tra le migliori della città belga.
Farhad Khosrokhavar è un sociologo franco-iraniano esperto sui temi di integrazione e cultura islamica. In particolare si occupa dei fenomeni di radicalizzazione nell’islam e del legame che questo fenomeno sviluppa con il terrorismo. Nel libro Quand Al-Qaïda parle: témoignages derrière les barreaux, ad esempio, analizza il fenomeno del fondamentalismo e Al-Quaida attraverso interviste con militanti in prigione in Gran Bretagna. Secondo Khosrokhavar queste testimonianze rivelano che in realtà non ci si trova di fronte ad una “guerra di civiltà” perché il fenomeno non sarebbe altro che una reazione alla crisi culturale che sta vivendo lo stesso Occidente con una conseguente crisi di identità che porta le menti più deboli ad abbracciare le utopie proposte dall’islamismo radicale. La stessa cosa vale per Isis – come si legge nel suo ultimo saggio Radicalisation (2014) – che, non a caso, punta moltissimo sulla propaganda mediatica, diffondendo video che hanno la stessa qualità dei documentari delle grandi reti occidentali e, molto spesso, “assoldando” anche reporter volti famosi dell’informazione globale, come nel caso del reporter John Cantlie che ha girato un video informativo-promozionale sulla città di Mosul. In un’intervista concessa ieri a LibérationKhosrokhavar ha cercato di spiegare meglio cosa sta succedendo nella società francese e più in generale in Europa. Ve ne riproponiamo qui alcuni estratti:
Non c’erano stati finora attacchi suicidi in Francia. Si tratta di un punto di svolta?
Finora gli attacchi jihadisti commessi sul suolo francese avevano tutti un bersaglio, ad esempio Charlie Hebdo e la comunità ebraica, nel mese di gennaio 2015, o i militari francesi musulmani, come Merah prima di attaccare una scuola ebraica a Tolosa nel 2012. Ora siamo di fronte a un terrorismo cieco, soprattutto perché molti obiettivi sensibili sono protetti, e quindi più difficili da raggiungere. Le stragi del 13 novembre nel loro modus operandi ricordano quelle della stazione di Atocha a Madrid nel 2004 o quelle della metropolitana di Londra nel 2005, che erano operazioni suicide. Penso che dovremmo anche chiarire il concetto di kamikaze. C’è quello che potremmo chiamare il ‘kamikaze immediato’, che attiva la cintura esplosiva per fare la sua carneficina, e c’è il ‘kamikaze differito’ che vuole combattere fino alla fine con le armi in mano. Psicologicamente, non c’è differenza apprezzabile tra uno e l’altro: entrambi sanno che la fine mortale è certa.
Come si diventa un attentatore suicida?
Nelle organizzazioni jihadiste ora che operano in Siria o in Iraq l’offerta di volontari disposti al sacrificio supremo è tale che c’è l’imbarazzo della scelta. Il processo di formazione e il futuro del ‘martire’ combattente è tracciato. Anche coloro che hanno lasciato l’Occidente per combattere non sono tutti i volontari per la morte: sono anche attratti dall’avventura. La questione si pone in modo diverso in Occidente, dove possono operare solo piccoli gruppi. […] Una volta che il gruppo inizia a crescere e fare proseliti, viene notato dalla polizia e smantellato. La scelta di chi compie l’operazione è fatta in modo molto tradizionale, ma c’era sempre un passaggio all’estero, per quanto breve, di almeno uno dei pilastri del gruppo. Non ci si radicalizza da soli a casa dietro lo schermo.
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«La scelta di chi compie l’operazione è fatta in modo molto tradizionale, ma c’è sempre un passaggio all’estero, per quanto breve, di almeno uno dei pilastri del gruppo. Non ci si radicalizza da soli a casa dietro lo schermo»
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Come si diventa Jihadisti
Gli autori di attacchi jihadisti, in generale, sono cresciuti in famiglie disgregate. C’è spesso un passaggio attraverso la prigione, che è sempre una tappa importante nel corso del processo di radicalizzazione. C’è poi un terzo elemento importante: sono dei “rinati”, dei musulmani che hanno riscoperto l’Islam nella sua forma più radicale o dei convertiti che hanno trovato un modo per dare senso alla loro vita. E infine c’è il viaggio iniziatico in una terra di jihad. […] Questo passaggio è essenziale perché permette al futuro kamikaze di diventare estraneo alla società di origine e di acquisire la crudeltà necessaria per agire senza colpa o rimorso. È lì, sul campo, che ci si indurisce in nome della fede.
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In Europa ci sono sacche di povertà che si ideologizzano e radicalizzano. Il sentimento di vittimismo e l’adesione a una causa collettiva, come nel caso della Jihad islamica, permettono il superamento dello stigma dell’emarginazione
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Quando si è pronti a uccidere si è anche pronti a morire. Questo era già vero per i militanti fanatici del comunismo e del nazismo, quelli dei gruppi terroristici rossi o neri degli anni settanta. […] Inoltre non bisogna scordare che in Europa ci sono sacche di povertà che si ideologizzano. Dentro queste sacche di povertà, la radicalizzazione nei confronti della società si fa in nome dell’Islam. Il sentimento di vittimismo e l’adesione a una causa collettiva permettono il superamento dello stigma dell’emarginazione. Un nuovo elemento appare con sempre più evidenza: la radicalizzazione dei giovani che provengono dalle classi medie, di famiglie musulmane e non. Tra i volontari passati ultimamente per la jihad in Siria o in Iraq, il 25% al 30% proviene da questi ambienti, e la percentuale di ragazze e giovani donne è molto alta, più del 3%. Questo fenomeno può essere spiegato in parte dal declino della politica e dalla ricerca di un’utopia, ma ancor più dalla paura per lo status sociale e il futuro. Ci si aggrappa alla prima utopia totalizzante che passa.
L’analisi di Farhad Khosrokhavar evidenzia la necessità di agire con politiche di integrazione sociale e accoglienza che diano la possibilità di sviluppare identità alternative a quelle proposte dagli estremisti islamici e non radicalizzate. Proprio per questo le reazioni delle destre che fomentano l’islamofobiarischiano di marginalizzare ancora di più chi già vive all’interno delle sacche di povertà presenti nella società e di spingere sempre più persone verso l’estremismo alla disperata ricerca di un’identità e di un’appartenenza.
Sembra impossibile che appena due notti fa ci sia stato l’inferno. I parigini non sanno resistere alle giornate di sole e ieri le terrasses dei caffè erano piene di gente, lunghe file alle boulangeries, passeggini, cani, persone che corrono, che parlano al telefono, colgo frammenti di discorsi, alcune vittime non sono ancora state identificate, ci sono delle persone scomparse, dei feriti gravi negli ospedali.
Ognuno nel quartiere avrà tra i suoi cari o tra i suoi amici e conoscenti qualcuno che è stato colpito. Mi domando: ma questo aplomb tutto francese, che cosa nasconde? Ieri una vicina mi ha detto che lei ha deciso di non avere paura, quindi non ha paura, “même pas peur”. Eppure i segni ci sono: intorno al Bataclan, oltre alle centinaia di giornalisti, si ammucchiano i mazzi di fiori, le candeline, le poesie, i messaggi, lo stesso succede a Place de la République, c’è un uomo che suona la marsigliese al violino.
Il senso di déjà-vu mi fa stare male, eccoci tutti di nuovo qui, con i nostri piccoli gesti a cercare di resistere. Ogni rumore leggermente più forte mi fa trasalire. I bambini comprano una rosa da deporre davanti al locale di Rue de la Fontaine au Roi. Qualche mese fa, il 21 giugno, abbiamo ascoltato un concerto proprio qui davanti, era la festa della musica, questi luoghi sembravano la rappresentazione stessa di questa città, della sua bellezza, della libertà che vi abbiamo respirato finora. Adesso vediamo i grossi fori dei kalashnikov sulle vetrine, quelle pallottole che hanno ammazzato le persone e che rappresentano la fine definitiva dell’innocenza.
Non esistono più luoghi sicuri, abbiamo già perso una parte della nostra libertà. Possiamo, dobbiamo resistere, certo, ma è come se avessimo già perso. Uscire, stare fuori, incontrare gli altri, aprire le porte, riconquistare gli spazi… sembra così necessario, forse è questo che si nasconde dietro questa calma apparente. Il piano d’emergenza vieta gli assembramenti ma la gente si cerca, si unisce, nessuno vuole restare da solo a pensare a quello a cui stiamo andando incontro. Anzi, ci siamo già dentro fino al collo, la parola guerra serpeggia. I parchi pubblici vengono chiusi alle 16, come per una specie di coprifuoco. In effetti a mano a mano che cala la sera, dopo lo splendore del tramonto che tinge il cielo di rosa e di viola, il senso di vulnerabilità aumenta, come se il sole ci avessi protetti e la notte invece ci minacciasse. Intorno alle 19 scendo per fare un giro, percorro poche centinaia di metri, sento urla, gente che corre, il cuore comincia a battermi all’impazzata e senza pensare mi metto a correre anche io. Non ho mai avuto paura finora…
Quando Magda Zanoni, senatrice Pd e relatrice della legge di stabilità in commissione bilancio, ricorda che molti nodi «saranno trattati alla Camera e pertanto tutti gli emendamenti relativi» sono stati solo «tecnicamente» bocciati, dice di fatto che maggioranza e governo, che si sono incontrati durante il week end, hanno scelto di rendere meno scivoloso possibile il passaggio al Senato, dove i numeri – come noto – sono sempre abbastanza stretti, e fare tutto con calma a Montecitorio.
E così da venerdì, quando il Senato dovrebbe licenziare la manovra e passarla alla Camera dei deputati, potremo discutere ancora tanto del tetto ai pagamenti in contanti, quanto dell’articolo sui giochi d’azzardo, quello che in cambio di un piccolo aumento della tassazione sulle slot, sana oltre 5mila negozi o corner scommesse. Una modifica che però potrebbe intestarsi il Senato, questa sì, è l’integrazione del fondo sulla sicurezza. Un ritocchino in favore di polizia e carabinieri è un grande classico delle leggi di stabilità, avviene ogni anno, ma a spianare la strada, questa volta, ci sono i fatti di Parigi e il Giubileo straordinario. E proprio il Giubileo riguarda uno dei dati portati come prova dell’effettivo impoverimento di organico e di mezzi (come plasticamente rappresentato dalla volante in panne, batteria a terra e cavetti pronti alla scossa, immortalata nel giorno degli attentati sotto palazzo Chigi). Nel 2000, ricorda il sindacato di polizia, a Roma prestavano servizio nei commissariati 3850 poliziotti. Oggi sono 3300, 500 in meno, portando Roma ad avere un poliziotto ogni mille abitanti (se si escludono quelli impiegati dai ministeri), con un rapporto che scende a uno ogni 2561 residenti in quartieri più periferici come il Casilino.
Altre modifiche che potrebbero arrivare al Senato, con un maxi emendamento della maggioranza, riguardano poi l’Imu e la Tasi – con uno sconto per chi dà una seconda abitazione, ma nello stesso comune, in comodato d’uso gratuito – e i Caf, per cui si immagina un taglio.
A due giorni dagli attacchi che hanno fatto 130 morti e centinaia di feriti si comincia ad avere un’idea sulla rete che li ha organizzati e portati a termine. Come aveva detto il presidente francese Hollande in diretta Tv la sera di sabato, si tratta di un attacco pensato all’estero. O almeno organizzato in collegamento con la Siria.
Un funzionario francese ha reso noto che il 27enne belga Abdelhamid Abaaoud è sospettato di essere la mente della strage di Parigi. Abaaoud è sospettato di essere dietro anche il tentativo di attacco su un treno tra e dice che si ritiene legato ad attacchi sventati su un treno ad alta velocità verso Parigi (tentativo bloccato dai passeggeri) e di altri attacchi sventati. Abaouud era in contatto con alcuni degli attentatori morti e compare in alcuni video di ISIS.
Il funzionario, che ha conoscenza diretta delle indagini, non era autorizzato a essere pubblicamente identificato come parlare la sonda in corso.
Stamane il premier francese Valls ha detto che la Francia sapeva di attacchi in preparazione e che altri ne potrebbero arrivare nel Paese o in altri europei nei prossimi giorni o settimane. Chissà se è un modo per avere carta bianca. Il premier britannico Cameron ha annunciato che almeno sei attentati sono stati sventati in questi mesi dai servizi britannici.
Il ministro dell’Internofrancese BernardCazeneuveha spiegato che gliattacchisono stati organizzati«da ungruppo di individuiresidenti inBelgio»con il sostegno di complici in Francia. Non lupi solitari e neppure solo combattenti stranieri ma un gruppo di europei di origine straniera radicalizzati e almeno un combattente straniero in Siria, Bilal Hadfi. Tre erano francesi residenti in Belgio.
E’ in corso una caccia all’uomo in cerca di SalahAbdeslam,nato aBruxelles e individuato come colui che ha affittato una Golf fermata per caso dalla polizia nel viaggio verso Parigi e poi lasciata ripartire. Un suo fratello è stato arrestato in Belgio, l’altro si è fatto esplodere nei pressi del Bataclan.
Stamane e durante la scorsa notte le unità speciali della polizia francese hanno fatto irruzione in case a Tolosa,Grenoble, nel sobborgo pariginodiBobignye aJeumontvicino al confine belga. A Lione sono state fermate 5 persone ed è stato trovato un lanciarazzi.
Domenica è emerso anche – a dirlo funzionari francesi e americani – che gli attentatori hanno avuto certamente contatti telefonici con la Siria.
Un altro dei protagonisti della strage è Omar Ibrahim Mostefai, descritto (ancora una volta) che viveva a Chartres e il suo quartiere non era una banlieue di palazzoni e paraboliche di quelle che sentiamo nominare quando scoppiano rivolte o in casi come questi. Molte descrizioni relative alla sua vita parlano del giovane con scarpe da ginnastica e felpa e comportamenti tipici da membro delle gang giovanili francesi: corse in macchina, aiuto alla gente del quartiere e così via.
I raid francesi su Raqqa
Il ministero della Difesa francese ha annunciato una serie di raid aerei su Raqqa, roccaforte di Daesh in Siria, che avrebbero distrutto due siti jihadisti in Raqqa.
«Al raid congiunto con Emirati e Giordania hanno partecipato 10 aerei da combattimento, venti le bombe sono state sganciate…sono stati distrutti un centro di reclutamento e un deposito di armi e munizioni e un campo di addestramento». Amaaq, il braccio di comunicazione dell’ISIS sostiene che i due edifici erano già stati abbandonati.
Fonti interne alla città dicono che il campo quello della Divisione 17, una base militare a nord di Raqqa e che in città non ci dovrebbero essere state vittime civili, ma che le bombe hanno tagliato l’approvvigionamento di acqua ed elettricità . Da Baghdad giunge la notizia che i servizi iracheni avevano avvisato Parigi dell’imminenza di un attacco, sul numero di attentatori e spalleggiatori e sull’organizzazione: una cellula dormiente e un gruppo di combattenti di ritorno dalla Siria. «Riceviamo segnalazioni così ogni giorno», rispondono i funzionari di intelligence francesi, ma nessun servizio occidentale ha confermato la notizia e i particolari dell’informativa irachena.
Il G20 di Antalya
I leader del G20 sono nella città costiera turca e l’agenda sarà dominata dall’antiterrorismo e dal tentativo di trovare un accordo sulla transizione in Siria. La foto qui sotto, di spalle Susan Rice, assistente di Obama per la sicurezza nazionale ed ex ambasciatore Usa all’Onu, mostra come i contatti si stiano moltiplicando e siano anche informali. Il premier britannico Cameron ha detto che ci sono segnali di tentativi di trovare un compromesso tra Francia, Usa e Russia (e Gran Bretagna) sul destino di Assad. L’inviato Onu De Mistura ha anche che c’è una base di lavoro. Nella conferenza stampa congiunta, il Segretario di Stato, Kerry, il ministro degli Esteri russo Lavrov e De Mistura stesso hanno detto che una serie di passi possono essere fatti e funzionare. L’intento è trovare un cessate-il-fuoco e un processo di transizione. Servono negoziati formali tra Damasco e l’opposizione non più tardi di gennaio. Sei mesi per costruire un governo condiviso e preparare le elezioni dopo la scrittura di una costituzione. Un processo molto ambizioso vista la situazione sul terreno. Il primo nodo, il più grande, oltre a convincere Assad è quello di definire chi si potrà sedere al tavolo e partecipare al processo politico. Molti gruppi armati anti-Assad, sono considerati terroristi da russi e occidentali – che sono però sono meno rigidi su una parte degli islamisti – decidere di farli partecipare o meno è molto scivoloso: non includendoli, l’eventuale governo rischia di trovarsi, oltre all’ISIS e ad al Nusra (al Qaeda in Siria), anche altre fazioni armate a combatterlo. Cruciale poi è il ruolo di Iran e di Assad: Teheran non vuole un ruolo per gli alawiti e per gli alleati interni, fattore chiave della presenza regionale iraniana. I Sauditi, che sostengono gruppi combattenti di religiosi sunniti non vogliono. Se però l’accordo Usa-Russia dovesse reggere e le diplomazie mettersi al lavoro, è probabile che almeno una parte del piano regga. Qui sotto la conferenza stampa a Vienna di Kerry, Lavrov e De Mistura.
A picture taken on November 14, 2015 shows the Eiffel Tower with its lights turned off following the deadly attacks in Paris. Islamic State jihadists claimed a series of coordinated attacks by gunmen and suicide bombers in Paris that killed at least 129 people in scenes of carnage at a concert hall, restaurants and the national stadium. AFP PHOTO / ALAIN JOCARDALAIN JOCARD/AFP/Getty Images
(PARIGI) Metto il naso fuori casa, rue de l’ancienne comédie. 500 metri avanti vedo un uomo che tiene per mano un bambino, nessun altro. Le edicole, ancora chiuse un vecchio magrebino ha deposto sul banchetto Journal de Dimanche, Parisien, Equipe. Una domenica senza passagiata a Porte de Vanves, tra le bancarelle del mercato. Forse a Port de Glingancourt qualcuno dei “permanenti” proverà ad aprire il negozio nel secondo giorno del lutto. Chissà. Intorno al Bataclan, ieri sera , c’erano più truck per i collegamenti televisivi di quanti non ne abbia mai visto in nessun altro posto al mondo, neppure a New Orleans dopo Katrina. Boulevard Voltaire, Richard Lenoir, migliaia di bougies accese per i morti, e fiori e messaggi. Il Bataclan ora è transennato, passano solo i residenti. Non trovo la porta secondaria, che un giornalista du Monde ha filmato: corpi sull’uscio, due ragazze appese alle finestre del primo piano, qualcuno che trascina l’amico ferito, un altro che si allontana verso la vita saltellando sulla sola gamba valida.
(continua a leggere dopo il video)
La ricostruzione del New York Times
Non si legge la paura nei volti dei parigini nè, per ora, la rabbia. Nei caffè si parla a voce bassa delle vite spezzate: un giovane avvocato talentuoso, due ragazze tunisine, l’inglese ucciso davanti all’ex, “ciao amore mio”. E i carnefici, chi sono? Farhad Khosrokhavar,sociologo franco iraniano, ne traccia un identikit per Libération: «sono cresciuti in famiglie disunite, spesso passati per il carcere, che è sempre tappa importante nel percorso di radicalizzazione. Si tratta di born again (di rinati), musulmani che hanno riscoperto l’Islam nella forma più radicale, o convertiti alla ricerca di un senso per la loro vita. Infine c’è il viaggio iniziatico in una terra di jihad, un passaggio che permette al futuro kamikaze di sentirsi estraneo alla sua stessa società d’origine e di acquisire la necessaria crudeltà per passare all’atto, senza sensi di colpa né rimorsi». Ho notato come sia Coulibaly all’Hypercacher, sia i carnefici del Bataclan, abbiano quasi voluto scusarsi con le vittime – «É colpa di Hollande. Perchè è andato a bombardare in Siria?» – prima di ammazzare e di ammazzarsi. La strada buia è ormai è stata presa e non si può tornare indietro, ma la rabbia è divenuta stanchezza e si avverte il bisogno di spiegare, prima della fine.
Anne Hidalgo, il sindaco di Parigi, era davanti al Bataclan già alle 23,30 di venerdì, un’ora prima che l’intervento della polizia chiudesse la partita. «Questi quartieri feriti sono veramente magici, la gioventù ama uscire la sera, sono popolari, cosmopoliti, aperti a tutte le culture. Nous sommes toujours debout, notre liberté et nos valeurs sont intactes.Siamo ancora in piedi, la nostra libertà e i nostri valori sono intatti. Non cederemo sul rispetto dell’altro, sull’umanesimo, sui valori dell’uomo, sulla fratenité». Questo ha detto, a caldo, il sindaco di una città il cui silenzio mi sembra, oggi, una prova di forza non di paura, di determinazione non di rabbia.
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«Siamo ancora in piedi, la nostra libertà e i nostri valori sono intatti. Non cederemo sul rispetto dell’altro, sull’umanesimo, sui valori dell’uomo, sulla fratenité»
Anne Hidalgo, sindaco di Parigi
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Marc Lazar sostiene che nelle banlieues è più dura di vent’anni fa. Lo è sicuramente per gli ebrei, che un tempo convivevano gomito a gomito con gli arabi e a volte la carne halal sostituiva quella cacher. Ed è vero che la polizia rinuncia spesso a intervenire nei quartieri difficili.
Uno dei palazzi delle banlieue parigine
Ma quando, vent’anni fa, sono arrivato a Parigi era la banlieue, popolata di magrebini cui era stato imposto un nome francese, di uomini spezzati dal lavoro senza più autorità in famiglia, madri che perdonavano tutto al figlio maggiore facendone un rais, di fratelli che consegnavano al branco, perché le stuprassero, le sorelle “berreuttes”, colpevoli di aver fatto girare la testa ai francesi del centro, quella banlieue era la fabbrica della rivolta, la fonte della radicalizzazione, il brodo di cultura del terrorismo. Oggi mi sembra diverso.Il rischio più forte mi sembra nelle periferie possa istallarsi il Fronte Nazionale, che da lì possano partire spedizioni punitive contro musulmani pacifici, colpevoli solo di credere nello stesso Dio dei terroristi kamikaze.
Le testimonianze dei sopravvissuti alla sparatoria del Bataclan
fonte: nyt
Il Daesh è su un altro piano, purtroppo.Sta provando a fare, in Siria e in Iraq, quello che Al Wahhab e Āl Saʻūd cominciarono due secoli e mezzo fa in Arabia: costruire un nuovo medio evo al tempo dei lumi e della globalizzazione, un mondo di paura e sottomissione, senza musica nè statue né cultura, uno stato delle frustate e delle mani troncate, senza habeas corpus, una vita sessuale selvaggia e brutale, se benedetta alle convenzioni in nome di Dio. É l’anti illuminismo, sono le tenebre contro il lume della ragione vuole rischiarare il mondo e il subconscio dell’uomo. É un pari, una scommessa globale che si gioca prima di tutto a Damasco e a Bagdad, che non possiamo combattere con le armi dell’imperialismo e ancor meno con lo spirito delle crociate. Sono i Curdi, gli alawiti, i cristiani e gli sciiti, sono i sunniti che avranno il coraggio di ribellarsi al ricatto di Al Bagdadi e all’ipocrisia delle monarchie del golfo, che combatteranno quella guerra per loro stessi e per tutto il mondo. Bisogna aiutarli, difendendo le nostre libertà e la nostra democrazia, senza farne la punta di una baionetta. Alle 18 di questa strana domenica 15 novembre François Hollande sarà a Notre Dame. La Francia dei diritti dell’uomo chiama il Papa venuto dalla fine del mondo. Parigi è ferita, teme ancora che che complici dei kamikaze si nascondano in città e possano accendersi di nuovo, ammazzare di nuovo. Ma Parigi è forte. Delle sue ragioni, dell’esempio che ha saputo dare al mondo, della Marsigliese che echeggia nel mondo.
Myrta Merlino è il volto deciso e gentile de “L’aria che tira”. In onda tutti i giorni su La7 si è messa in gioco con un libro difficile, intimo, Madri, nel quale racconta la sua storia e quella di altre 11 donne che come lei sono diventate madri. Ognuna a modo suo. Perché un libro sulle madri?
È la prima volta nella mia vita che mi metto in gioco così. Ho sempre scritto libri molto giornalistici, molto lontani dalla mia intimità, questa volta no. C’è un passaggio in cui scrivi: «Mi sentivo costretta, vivevo quella maternità esagerata come un ingombro… ho vissuto tutta la gravidanza come una zavorra che rallentava la mia vita». Quindi le donne non nascono innatamente madri?
Quelle frasi le ho scritte non solo perché sono vere, ma perché secondo me è molto importante per le donne non subire la retorica sulla maternità. La maternità non è uguale per tutte, ci sono donne che hanno un desiderio pazzo di avere figli e stanno nove mesi a letto e chi, come me, non si sentiva nata per fare la mamma e poi ne ho avuti due, insieme. Passare dal non avere ancora il progetto dei figli ad avere dei gemelli mi ha fatto provare quello che ho scritto. Avevo mille desideri e ho avuto paura che due figli mi avrebbero ostacolata. Il che, secondo me, capita a molte donne. Tanto che sono arrivata a pensare che l’unico modo per diventare madre nella vita è di farsi travolgere, ovviamente se non hai problemi di altro tipo. La maternità ti deve un po’ succedere. Io sono arrivata fino al parto così, e solo dopo ho avuto il colpo di fulmine. Quando sono nati, li ho visti e ho pensato “loro saranno la mia vita”. Perché è come se mettessi a fuoco l’altro: ma questa non è una cosa che ti puoi imporre a tavolino, succede e basta. E non ci sono regole standard, non esiste la madre perfetta, esistono al massimo, come dice Jill Churcill, mille modi diversi per essere una buona madre. La scintilla per iniziare a scrivere, racconti, è stata Toya. Che hai visto in quella donna di Baltimora che schiaffeggia il figlio incappucciato per riportarselo a casa?
L’ho incontrata per caso, su Youtube e l’ho mandata subito in onda. Mi è piaciuta tantissimo. Mi ha colpito il gesto di una madre oggettivamente meno fortunata di tante di noi, di una periferia poverissima dove se va bene tuo figlio finisce drogato, senza un compagno, che però ha la forza di fare la cosa giusta perché la “sente” forte. Noi, in condizioni molto migliori, spesso non la facciamo la cosa giusta, perché non sentiamo. È stata una grande lezione per me. Ci sono volte in cui l’amore è duro, in cui devi saper dire no. Toya ha difeso il figlio persino da se stesso e se lo è riportato a casa. Racconti anche la storia della madre di Corona e scrivi: «La vita può essere come un film di Vanzina, una puntata di Non è la rai, o addirittura come il circo ridanciano di DriveIn». Che danni ha fatto quella cultura?
Lunedì, Antonello Caporale in studio, citando Gaber, ha detto una frase che trovo giustissima: io non ho paura del Berlusconi che è in sé ma di quello che è in me. Inutile continuare a demonizzarlo, meglio ragionare su ciò che ha prodotto culturalmente: un mondo di paillettes, senza anticorpi, per cui diventa reale la vita dove tutto è a portata di mano, facile. Al di là delle questioni etiche, il problema è che ha sdoganato la logica della scorciatoia, e la scorciatoia prima o poi la paghi. Nel raccontare di Micaela, preside del liceo Giulio Cesare, accenni al caso delle baby squillo dei Parioli e di quelle madri che «non vedono e si sovrappongono». Cosa intendi?
Pongo il tema dell’attenzione: si passa da genitori ossessionati a quelli del tutto assenti. Un ragazzino, invece, lo devi ascoltare, guardare in faccia, osservare come sta con i suoi amici. Io organizzo ciclicamente cene a casa con gli amici dei miei figli – loro mi detestano per questo – ma vederli con gli altri mi dice molto di più che vederli con me, perché lì sono loro, nel loro ambiente. Bisogna guardarli, vedendoli ovviamente. Io sono la prima ad arrivare a casa col telefonino attaccato all’orecchio e incavolata per quello che è accaduto al lavoro, ma bisogna avere la capacità di fermarsi e dirsi “fammi vedere che faccia ha mia figlia, è dispiaciuta, è arrabbiata, che è successo?”; la sovrapposizione invece è una cosa che mi raccontava la preside, a proposito di queste madri che vogliono fare le ragazzine, che diventano amiche, e tornano a fare le madri solo nel momento in cui difendono l’indifendibile (se i figli rubano o copiano o peggio), diventano paladine perché pensano di essere “dalla stessa parte” dei figli. Ma non è quella la parte dove dobbiamo stare, perché così gli facciamo del male. Poi quando parli di Dorothy, la madre di Hillary Clinton, sostieni che «un mondo buono, dunque, che fa da contorno a una famiglia cattiva» salva. Vuoi dire che quello che conta è crescere in un ambiente dove l’affetto circola?
Io la chiamo “banalità del bene”, per cui anche una donna come Dorothy, con una storia familiare sfortunatissima, dall’abbandono a una nonna quasi seviziatrice, grazie a gesti di gente che “senza motivo” le vuole bene, diventa la donna che è. Cioè, molto tosta ma con la netta percezione che intorno non sono tutti lupi, perché intorno “non sono tutti lupi”. Ed è una cosa che mi ha colpito perché diventa un messaggio.
Italian Prime Minister Matteo Renzi during his visit at Italian military base in Herat, Afghanistan, 1 June 2015. ANSA/BARCHIELLI/PALAZZO CHIGI PRESS OFFICE ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++
A giudicare dalle attività militari, l’Italia non ripudia affatto la guerra. Anzi. Dall’Afghanistan alla missione EuNavForMed (la guerra ai barconi che da mesi è al centro dei vertici Ue sull’immigrazione), dai Balcani al Mali, dall’Iraq all’Oceano indiano, dal Libano alla Georgia. Sono 26 le missioni internazionali in cui il nostro Paese è impegnato e 4.500 i militari sparsi in 38 Paesi. Le maggiori concentrazioni si trovano tra Afghanistan, Libano e Balcani, ma ci sono anche le truppe di addestramento in Palestina e in Somalia. Contemporaneamente poi, l’Italia arma ben 123 Paesi ed è leader nell’export di armi piccole e leggere.
Difesa e sicurezza, a colpi di decreti
L’Italia non ha una legge che regoli le sue missioni internazionali. Il vuoto legislativo comporta il ricorso a provvedimenti d’urgenza: così, davanti ai decreti legge del governo, il Parlamento perde il controllo sulle decisioni che riguardano i nostri interventi internazionali. Così è avvenuto con l’approvazione di mozioni nel 1987 nel Golfo Persico e durante il conflitto Iran-Iraq; nel 1991 in Kuwait dopo l’invasione irachena o, ancora nel Golfo Persico, nel 1990-91. Soprattutto recentemente, la tendenza è quella di affidarsi a decreti legge. con il pretesto dell’urgenza. Per finanziare e ri-finanziare le missioni del 2015 abbiamo speso 1 miliardo e 200 milioni, più dell’anno scorso (953 milioni di euro). Questo miliardo e passa include gli 850 milioni del fondo per le missioni, che hanno coperto il periodo gennaio-settembre. Solo che, in nove mesi, i nostri “missionari” hanno dato fondo alle casse. Ecco allora pronto il decreto legge del 12 ottobre per prorogare la copertura economica fino al 31 dicembre. Un’“aggiuntina” di 350 milioni di euro: 117 milioni al mese, più di 158mila euro l’ora che graveranno sul ministero dell’Economia e non su quello della Difesa. Perché? Perché se il fondo per le missioni è finito tocca interessare altri capitoli di bilancio.
Il vuoto legislativo, com’è evidente, crea pesanti conseguenze. Alla Camera dei deputati qualche mese fa è stata approvata una legge per regolare le missioni internazionali, ma adesso è ferma in attesa di passare dall’aula al Senato. «Questa legge consentirebbe al Parlamento di intervenire sia sulla natura delle missioni alle quali l’Italia partecipa e sia sulla durata e sul loro finanziamento», dice Donatella Duranti, deputata del gruppo Sinistra italiana-Sel. È solo questione di tempo, è sicura Duranti. E pensare che sin dal 1990 la questione “missioni” non è più coperta dal segreto di Stato, dall’approvazione della legge n.185 sul controllo delle esportazioni di armamenti voluta da Giulio Andreotti per imporre a governo e Parlamento di relazionare annualmente sul tema. Venticinque anni dopo, quelle relazioni ci sono ma – è il mantra degli esperti – continuano a non essere trasparenti.
A due giorni dagli attentati passeggiando per le strade di Parigi i segni della tragedia sono ancora evidenti, così come la forza d’animo dei parigini che continuano a lasciare sui luoghi delle sparatorie fiori, biglietti e messaggi. Cercando di ricompattare una Nazione attorno ai valori fondamentali Liberté, Égalité, Fraternité.
Una nuova tempesta ha colpito la Chiesa cattolica nelle ultime settimane. Sono bastati due arresti eccellenti in Vaticano e due libri (largamente basati sulle rivelazioni dei due arrestati) che hanno immediatamente scalato le classifiche di vendita per mostrare al mondo che, con l’arrivo di Francesco, nulla sembra mutato nello Stato più piccolo e assolutista del mondo. Nonostante l’esercito di pompieri sceso immediatamente in campo a sua difesa, è difficile pensare che – anche volendo – il papa possa, da solo, cambiare un andazzo millenario. Dovrebbe vivere abbastanza a lungo da modificare profondamente la composizione del Collegio cardinalizio, e nel contempo non sbagliare una sola nomina. Come invece gli è capitato con il disinvolto monsignore e la rampante lobbista.
Questi sono però problemi dei fedeli. Chi è anticlericale ha visto confermati i suoi peggiori pregiudizi sulla moralità dei vertici della Chiesa. Chi è laico ha dovuto leggere l’avvilente trascrizione della telefonata nella quale l’allora presidente dell’ospedale Bambino Gesù, di proprietà vaticana, informava l’ex numero due della Santa sede, il cardinale Tarcisio Bertone, che con la legge di stabilità approvata dal governo Letta erano stati stanziati 80 milioni per il nosocomio e “soli” cinque per il Gaslini di Genova, la cui presidenza spetta all’arcivescovo (carica a suo tempo ricoperta dallo stesso Bertone). L’intercettazione non esce da un libro, ma dagli atti dell’inchiesta sul crac dell’Idi, altra struttura sanitaria cattolica. Si sospetta che i fondi usati per salvare l’Idi siano costituiti dai soldi pubblici erogati al Bambino Gesù. E che le donazioni per i piccoli pazienti dell’ospedale pediatrico siano servite a ristrutturare il super-attico dello stesso Bertone…
Notizie meritevoli dell’avvio di un’indagine parlamentare. Ma, come succede quasi sempre quando c’è di mezzo la Chiesa, è emersa anche la tendenza, tutta italiana, a non chiederle conto degli oltre sei miliardi che, ogni anno, transitano dalle casse pubbliche a quelle cattoliche. Anche quando i reati sono conclamati. Don Cesare Lodeserto, gestendo il centro immigrati Regina Pacis, si è appropriato illecitamente di diversi milioni di euro. Ma non è bastato a farlo condannare dalla Cassazione, perché la convenzione che aveva sottoscritto con la prefettura non prevedeva alcun obbligo di rendicontazione. Il danno erariale creato dall’esistenza di una farmacia e di una pompa di benzina in Vaticano, alle quali è concesso l’accesso anche a chi non ne avrebbe diritto, è soltanto la punta dell’iceberg. Sono purtroppo tante le “distrazioni” dalle casse pubbliche a quelle vaticane che non solo non sono giustificate da un punto di vista laico, ma sono persino controproducenti per il bene comune. La conferma più corposa viene dalla seconda relazione della Corte dei Conti sull’Otto per mille (dopo che la prima ha raccolto il disinteresse del governo Renzi): un miliardo di euro ogni anno che la Chiesa “spende” senza fornire un’informazione trasparente.