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Parigi e l’Isis: l’intelligence, le strategie, la guerra contro sciiti e Occidente

Centoventi morti, circa duecento feriti alcuni gravi. Sei attacchi, sia esplosivi che di gruppi armati. Il presidente francese Francois Hollande ha parlato di attentato organizzato all’estero con del supporto logistico in Francia. E in effetti l’ISIS ha rivendicato l’attentato (il comunicato nel tweet qui sotto). Tra gli attentatori morti ce n’è uno che aveva con sè un passaporto siriano, una donna e un francese e un nato nella banlieue parigina e segnalato per aver avuto rapporti con ambinti islamici radicali. Ecco alcune informazioni che possono essere utili a leggere il contesto.

 

Ma prima alcune certezze:

1. le centinaia di migliaia in fuga dalla Siria e dall’iraq non sono i terroristi ma le loro vittime e se pure tra loro si nasconde qualche assassino, sarà il caso di migliorare l’accoglienza e spendere soldi per farla e verificare l’identità di queste persone bene, anziché rimpallarsele tra una frontiera e l’altra;

2. occorono leggi e intelligence migliore per limitare e colpire il commercio di armi, da quelle che vengono da vecchie guerre come la Jugoslava a quelle della malavita. Senza armi o avendo difficoltà a procurarsene non si compiono stragi o si è più facilmente individuabili quando si cerca di acquistarne al mercato nero.

3. l’ISIS ha (per ora) cambiato modo di agire: se in origine l’idea era quella del califfato inteso come ambito territoriale da occupare ed espandere, oggi è la guerra contro gli sciiti (le bombe a Beirut e il presidente iraniano Rouhani che era atteso a Parigi e Roma e ha cancellato la visita) e contro l’Occidente.

Perché la Francia?

Non si tratta di una reazione ai bombardamenti o agli arretramenti e sconfitte di ISIS in Iraq e Siria: quella di Daesh è una jihad globale accompagnata da quella regionale che prende al forma di occupazione di territorio nei due Paesi. In queste settimane cellule collegate in qualche forma al califfato hanno colpito gli arcinemici sciiti a Beirut (due bombe e più di 40 morti), un aereo di linea russo sopra il Sinai e poi la capitale francese. Parigi è varie cose assieme: il centro d’Europa, un luogo dove in alcuni quartieri è più facile confondersi e non farsi notare e, infine, Parigi è la capitale del Paese molto impegnato militarmente e politicamente nella guerra a Daesh e al Qaida in Siria, Iraq, Yemen, Mali. Lo Stato islamico combatte chi lo combatte. Gli Stati Uniti, con le loro mega agenzie, dieci anni di controlli e la loro posizione geografica, sono più difficili da colpire – e tutto sommato, pur essendo l’arcinemico, sono meno in prima linea che in passato.

French police stand near people warming up on a street before being evacuated by bus near the Bataclan concert hall following fatal attacks in Paris, France, November 14, 2015. Gunmen and bombers attacked busy restaurants, bars and a concert hall at locations around Paris on Friday evening, killing dozens of people in what a shaken French President described as an unprecedented terrorist attack REUTERS/Philippe Wojazer

Ci si aspettava un attentato così?

Difficile da dire: quando i servizi lanciano gli allarmi non sappiamo mai se si tratti di esagerazioni e, dopo una strage, è facile dire “i servizi avevano lanciato l’allarme”. Certo, avevamo avuto avvisaglie. A giugno il coordinatore dell’antiterrorismo dell’Unione europea, Gilles de Kerchove ha detto: «E’ molto probabile che l’ISIS stia preparando, formando e spedendo alcuni dei combattenti stranieri a organizzare attacchi in Europa, o al di fuori di essa». Certo che l’aver trovato un passaporto siriano nelle tasche di uno degli attentatori uccisi rafforza l’idea di una cellula passata per la Siria (europea o proveniente dall’estero che fosse).

Alcuni collegamenti tra Daesh e attentati (portati a termine o pensati) in Europa erano già stati fatti. Nel 2007 un britannico e un indiano che hanno condotto un attacco guidando un’autobomba contro l’aeroporto di Glasgow, lasciando due autobomba a Londra, avevano avuto contatti in Arabia Saudita e altri Paesi europei e sui loro cellulari c’erano salvati numeri di telefono collegabili allo Stato islamico. I funzionari antiterrorismo britannici sostengono che quell’attacco è una prova di stretta collaborazione tra combettenti occidentali e Daesh.

Nel 2010 un membro dello Stato islamico arrestato in Iraq aveva parlato di attacchi in preparazione in Occidente. Sempre nel 2010 Taimour Abdulwahab al-Abdaly, di origine irachena, ha fatto esplodere due bombe, morendo a Stoccolma. Originario di Baghdad, si è pensato che fosse stato addestrato l’Isis a Mosul per tre mesi prima dell’operazione, in ogni caso viveva a Luton, Gran Bretagna e aveva dei contatti con persone sospettate di essere pericolose (una è stata arrestata dopo la morte di al-Abdaly).

Poi c’è l’allarme lanciato dal ministero della Difesa iracheno che ha detto di aver catturato una cellula che fabbricava armi chimiche da contrabbandare in Europa e Stati Uniti. Difficile verificare l’autenticità di questa minaccia. A maggio 2014, Mehdi Nemmouche, cittadino francese che probabilmente aveva combattuto in Siria nel 2012, ha sparato e ucciso tre persone presso il Museo Ebraico di Bruxelles.

Ha un significato questo attacco?

C’è un aspetto ideologico che va sottolineato specie per quei Paesi dove c’è una forte comunità islamica che è in parte radicalizzata ed esclusa (Francia e Gran Bretagna in primis): Daesh ha dichiarato di voler eliminare la zona grigia dell’Islam occidentale, o si sta con l’Occidente e allora Daesh è in guerra anche contro di te musulmano, oppure si decide di combatterlo. L’attacco di Parigi è questo: non c’è un luogo simbolico, c’è la città tutta e in luoghi normali. Obbiettivo primario seminare il panico e dichiarare guerra alla società occidentale nel suo complesso (non agli ebrei, ai governi, al potere dell’Occidente) e ai suoi amici, ovvero tutti i musulmani che non si schierano.

Che novità dal punto di vista militare?

La tecnica è già vista fuori dall’Europa ed è anche piuttosto tipica del modo di fare guerriglia di Daesh e di al Qaeda in Iraq negli anni della guerra. Attentati in serie o attacchi simultanei coordinati li abbiamo visti quest’anno in Yemen, in Sinai, Iraq, Libano. Spesso in quei Paesi sono bombe in successione, che colpiscono mentre la situazione di panico si è scatenata e i soccorsi sono già sul luogo. Per le forze speciali anti-terrorismo e i soccorsi gli attacchi come quelli di stanotte sono l’incubo peggiore: non sai dove andare, chi inseguire, come coordinare sforzi e indagini e ti devi muovere in una città in preda al panico. Ecco come descrive la riorganizzazione degli interventi nel 2013 l’ex comandante dei GIGN (il Gruppo di intervento della Gendarmerie Nationale) parlando degli attacchi di Bombai e Oslo:

Il GIGN si è organizzato per agire in modo più rapido. Risparmio di tempo, indipendentemente si ci si prepara a un negoziato o a un blitz. Durante un allarme, la prima ondata lascia caserma in meno di trenta minuti e con mezzi veloci. Per bersagli distanti si usano gli elicotteri. I briefing si fanno via autoradio e, se necessario, si confezionano esplosivi sui mezzi di trasporto. Dopo la prima ondata, arriva la seconda, di persone meglio equipaggiate ed armate. Questa modalità si definisce “Piano d’azione immediata”. Il potere politico è l’unico che può dare il via libera e per questo vengono approntati mezzi speciali per le comunicazioni e di videoconferenza mobili per parlare con la Difesa, gli Interni, il presidente.

Gli attacchi suicidi con cinture kamikaze e i commandos visibilmente addestrati – così dicono le testionianze e gli esperti – che aprono il fuoco su tutto e tutti sono una novità per l’Europa. A Bombai e a Nairobi si erano già visti. In quei casi si trattava di gruppi di persone addestrate e provenienti da Paesi stranieri e confinanti (Pakistan e Somalia). Qui, se è vero che ci sono stranieri o francesi addestrati militarmente all’estero, è altrettanto certo (confermato dalla polizia) che c’erano francesi: un gruppo di soli stranieri non sa in che zone colpire, in che club colpire se qualcuno non lo guida. Non stiamo parlando di obbiettivi sensibili.

Perché le agenzie di intelligence non sapevano nulla?

Le nuove leggi anti-terrorismo approvate in Francia dopo la strage di Charlie-Hebdo hanno rafforzato il coordinamento tra le forze di polizia e le agenzie di intelligence, gli Usa sorvegliano la vita di tutti e chiunque, la Gran Bretagna ha appena concesso poteri di sorveglianza speciali ai servizi. Eppure non c’erano avvisaglie di questo attentato. Segno che c’è qualcosa che non funziona e che – il caso del ritrovamento di bin Laden è esemplare in altro modo – servono indagini, capacità ed esperienza e non microspie dappertutto (o tortura). E’ pur vero, vale il discorso fatto sugli allarme terrorismo, che in questi anni varie volte ci è stato detto che un attentato era stato sventato o che una cellula terroristica era stata smantellata. Spesso non ce ne accorgiamo o pensiamo si tratti di esagerazioni per giustificare le risorse spese in intelligence. Probabilmente sono veri gli attentati sventati e – a volte – l’idea che si tratti di esagerazioni.

 

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A Ischia il mare racconta come cambierà il clima nel 2100

Ischia (Napoli, Italia) - Il castello aragonese visto da Ischia Ponte in una giornata d'inverno durante una mareggiata. The Aragonese's castle seen from Ischia Ponte in a winter's day during a sea storm

Per i geofisici è un classico duomo vulcanico. Per i turisti è un magnifico isolotto su cui insiste un castello, detto Aragonese (XV secolo) anche se fortificato fin dai tempi dei Siracusani (V secolo a.C.). Per gli abitanti di Ischia è il simbolo stesso dell’isola, distillato di natura e cultura. Per gli studiosi del clima è, invece, uno straordinario laboratorio di biologia marina: un microcosmo che anticipa la condizioni in cui verseranno i mari di tutto il mondo alla fine di questo secolo. Per questo, da qualche anno, le acque prospicienti il Castello Aragonese finiscono regolarmente ospiti delle più importanti riviste scientifiche internazionali, da Nature ai Proceedings of the National Academy of Science. Il motivo è semplice: in quelle acque, a due o tre metri di profondità, su una superficie di almeno 5.000 metri quadri, probabilmente a causa di una faglia, sgorga da decine di fontane gassose anidride carbonica pura al 95 per cento.

epa04514910 An undated handout satellite photograph provided by UN UNESCO on 04 December 2014 shows Mount Everest in Nepal, part of an exhibition about the current state of glaciers affected by climate change, at the COP 20 Summit held in Lima, Peru. According to UNESCO, 'the exhibition features satellite images of different mountain regions worldwide, many of which are UNESCO Biosphere Reserves and World Heritage sites, and highlights the implications of climate change for mountain ecosystems, water resources and livelihoods'. The 20th session of the Conference of the Parties (COP 20) is being held in Lima from 01 to 12 December. EPA/UNESCO / HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES
Non solo Ischia. Un’immagine da satellite fornita da UNESCO mostra il Monte Everest in Nepal e lo stato dei ghiacciai che a causa del cambiamento climatico si stanno sciogliendo sempre più velocemente. © EPA/UNESCO

 

epa04514912 An undated handout satellite photograph provided by UN UNESCO on 04 December 2014 shows the retreat of the Nigardsbreen glacier in Norway, part of an exhibition about the current state of glaciers affected by climate change, at the COP 20 Summit held in Lima, Peru. According to UNESCO, 'the exhibition features satellite images of different mountain regions worldwide, many of which are UNESCO Biosphere Reserves and World Heritage sites, and highlights the implications of climate change for mountain ecosystems, water resources and livelihoods'. The 20th session of the Conference of the Parties (COP 20) is being held in Lima from 01 to 12 December. EPA/UNESCO / HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES
Non solo Ischia. Una fotografia fornita da UNESCO mostra il ritiro del ghiacciaio Nigardsbreen in Norvegia. Il colpevole ancora una volta è il cambiamento climatico. © EPA/UNESCO

I chimici sanno che l’anidride carbonica sciolta in acqua ne abbassa il pH. Tradotto, significa che rende più acido il liquido. Ebbene, le fontane del Castello Aragonese di Ischia acidificano qualcosa come 18.000 metri cubi di mare, portandolo da un pH “normale” pari a 8,12 a un pH che in alcune zone scende fino a 7,0 e persino fino a 6,0 unità. In vaste zone a nord e a sud del Castello Aragonese, un po’ più lontano dalle fontane, il pH è intorno a 7,5. Un valore che anticipa, come abbiamo detto, quello che avranno gli oceani alla fine di questo secolo a causa non delle emissioni naturali, ma delle emissioni antropiche di anidride carbonica. Quelle causate, per intenderci, dall’uso dei combustibili fossili e dalla deforestazione. Quelle che, a loro volta, stanno causando i cambiamenti accelerati del clima (vedi l’articolo alle pagine seguenti). Particolare non irrilevante. La acque vicine alle fontane di anidride carbonica, lì intorno al Castello Aragonese, hanno la medesima temperatura e il medesimo grado di salinità di quelle più lontane. L’unica cosa che, dal punto di vista chimico e fisico, le distingue dal resto delle acque che bagnano l’isola d’Ischia è solo e unicamente il pH. Il succo di questa descrizione è chiaro. Le acque acide (in realtà meno basiche) intorno al Castello Aragonese di Ischia costituiscono una sorta di telescopio temporale, con cui è possibile scrutare il futuro. E capire che effetto avrà l’acidificazione degli oceani sulla biologia marina: sui microrganismi, sulla flora e sulla fauna. È per questo che da qualche anno i biologi della Stazione Zoologica di Napoli – e, in particolare, quelli aggregati alla sezione ischitana specializzata in ecologia del benthos (alghe e animali vari) dell’ente pubblico di ricerca fondato nel 1872 dal biologo tedesco Anton Dohrn, amico di penna di Charles Darwin – hanno messo a fuoco il telescopio e hanno iniziato un viaggio nel tempo. In realtà quelle acque sono frequentate da studiosi di tutto il mondo. Quello che hanno scoperto non è affatto promettente.


LEGGI ANCHE:

Greenland is melting away

New York Times


Nelle acque acide intorno al Castello Aragonese si verifica una riduzione della biodiversità fino al 74 per cento. Significa che dei 551 taxa (gruppi di organismi viventi) di benthos e di pesci che vivono nell’area del duomo vulcanico, solo uno su quattro sopravvive nelle acque con il pH che avranno gli oceani a fine secolo. In particolare, come sostiene Maria Cristina Gambi, ricercatrice della Stazione zoologica, dei 551 taxa complessivi: «494 taxa (l’89%) sono presenti nelle zone a pH normale e fuori dall’influenza diretta delle emissioni, 274 taxa (50%) ricorrono nelle zone con emissioni modeste e valori relativamente bassi del pH, e 139 (il 25%) sono presenti nelle zone maggiormente acidificate, di cui solo 18 (3,2%) sono esclusive di queste aree. Tra queste anche una specie nuova per la scienza, un verme piatto descritto di recente». Le praterie di Posidonia Oceanica, la pianta che “ossigena” i mari, nelle acque acide scompaiono e tra le specie animali sopravvivono solo le patelle e pochissime altre. Il mare diventa un deserto.

 


 

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Accorinti: «Altro che ponte, Messina e senz’acqua»

Matteo Renzi riapre i giochi: «Il Ponte sullo Stretto si farà» e «diventerà un altro bellissimo simbolo dell’Italia». Certo, prima metterà a posto le cose, «l’acqua di Messina, i depuratori e le bonifiche» Poi, prosegue il premier nell’intervista per l’ultimo libro di Bruno Vespa, «faremo anche il ponte, portando l’alta velocità finalmente anche in Sicilia e investendo su Reggio Calabria». Intanto a Messina ci sono ancora famiglie senz’acqua e in Calabria – dove si contano 300 milioni di danni – non è stato proclamato nemmeno lo stato d’emergenza. Ne abbiamo parlato con il sindaco Renato Accorinti, che è anche uno storico rappresentante del movimento NoPonte.

Sindaco, qual è la situazione a Messina dopo l’incidente alla condotta?

In questo momento la città viene rifornita di acqua dalla fonte messinese Santissima e dalla condotta catanese dell’Alcantara, attraverso un bypass che non è assolutamente sufficiente per coprire le necessità idriche della città. Per questo continueranno a esserci autobotti comunali, della Protezione civile regionale, di alcuni comuni limitrofi, dell’Esercito e della Forestale. Navi cisterna arrivano in città ogni due giorni per portare l’acqua nei quartieri collinari, negli ospedali e nelle scuole che ne fanno richiesta: la scarsa pressione nella conduttura non riesce a fornire acqua a chi abita più in alto.

Eppure lei, e non solo lei, da anni denuncia che l’emergenza idrica è imputabile al dissesto idrogeologico. Lo ha fatto anche a Torino, all’assemblea dell’Anci, davanti ai sindaci e al Presidente Mattarella.

Sì, quello che è accaduto è imputabile al dissesto idrogeologico. Lo denuncio da una vita, a tutte le latitudini. È lo stesso dissesto che ha provocato 37 morti a Giampilieri, le interruzioni dell’autostrada Messina-Catania, le continue frane che interessano la Statale 114 e che oggi sono arrivate a distruggere l’acquedotto e con esso il diritto all’acqua. Chi aspetta questi eventi disastrosi per cavalcare il malcontento popolare – malcontento giustificato: ci sono famiglie che non hanno acqua da più di dieci giorni – non fa politica e non sa nemmeno cosa sia la politica al servizio del cittadino. (…)

Prima l’esclusione di Messina dai 7 miliardi di fondi per il Meridione, poi l’inclusione nel Masterplan Sud da 95 miliardi. Ce n’è voluta perché la sua città avesse un po’ di considerazione.

È inaccettabile. Ho dovuto denunciare l’esclusione, fare forti pressioni, chiamare personalmente il sottosegretario Claudio De Vincenti. Messina è Città metropolitana e merita lo stesso trattamento di tutte le altre città metropolitane del Sud. L’inserimento è arrivato dopo 48 ore di urla e denunce, ed è il minimo che si potesse fare.

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Diario da Parigi: il giorno dopo

Nel sonno agitato di questa notte ho sognato che una bandiera nera sventolava sulla scuola dei bambini. Ci saranno tre giorni di lutto nazionale in Francia. Ho paura ad aprire gli occhi su questo giorno funesto. Più di ottanta persone sono morte nel teatro Bataclan, saranno per la maggior parte ragazzi e ragazze, accendo la radio, il numero dei morti non fa che aumentare, cadaveri in tutta la città. Sono senza fiato. Guardo fuori dalla finestra, vedere dei passanti mi dà un senso di conforto. Sulla scuola sventola la bandiera francese. È troppo presto per pensare, per scrivere. Racconto qualcosa ai bambini di ciò che è successo e mia figlia si sorprende che tutto ciò abbia potuto accadere in una sola notte, mentre lei dormiva. Basta un momento per scivolare nel baratro, è così vero. Eppure tutti i negozi sono aperti, la gente è per strada, centinaia di giornalisti sul Boulevard Voltaire accendono i fari sulla facciata del Bataclan, una tenda grigia ripara lo sguardo da quello che non voglio vedere, che non vorrei sapere. Una coperta termica dorata si trascina sul marciapiede. Durante la notte la gente ha aperto i portoni per accogliere chi stava scappando, è successo anche nel nostro palazzo mi dice la portiera, gente che piangeva, che non sapeva dove andare, tutte le stazioni della metropolitana del quartiere sono chiuse. Ancora telefonate, rassicurazioni, ci sono delle lunghe file per andare a donare il sangue. Il meglio e il peggio dell’umanità si incontrano nel momento in cui tutto crolla. Poi leggo la rivendicazione dell’isis, in nome di Allah, miscredenti, crociati, attacco benedetto… una dichiarazione di guerra con tutta la retorica, la lucida follia e le catastrofiche conseguenze che comporta. Pensavo di abitare a Parigi, mi ritrovo sul fronte.

Le prime pagine dei giornali internazionali

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Quant’è difficile fare la sinistra

Sabato 7 novembre a Roma è nato il gruppo parlamentare Sinistra italiana. Lo avrete visto, letto sui giornali, o magari eravate tra quelli rimasti fuori dal Teatro Quirino, che è grande ma non abbastanza, e ha costretto i relatori (ben contenti, in realtà, di rappresentare plasticamente il successo dell’iniziativa) a fare due volte gli interventi. La prima dentro, per la composta platea, la seconda fuori, con gli appunti trasformati in comiziacci senza neanche l’aiuto del megafono. (…) Buono comunque il clima, l’impressione è sintetizzabile con un “eppur si muove”. Ma guai a cantare vittoria.

Civati deve ancora riunire il suo Possibile (la seconda assemblea fondativa sarà a Napoli il 21 novembre), e lì, dice, deciderà il da farsi. Il passaggio delle amministrative poi (così importante per Civati, e non a torto) non è ancora completamente risolto. «Fortuna che c’è Sala», è l’esclamazione facile da registrare dalle parti di Sel. Fortuna che c’è Sala che aiuta a recidere il rapporto con il Pd – che preferisce il partito dei prefetti e quello di Alfano («Non dimentichiamo che Sala la prima volta l’ha nominato la Moratti», ha detto Formigoni). Fortuna che c’è Sala, ma non è detta mica l’ultima parola.

Nota bene Civati (con la solita polemica) che Sel ha comunque firmato il patto di coalizione per le primarie, intendendo sostenere Francesco Majorino, assessore uscente già civatiano. Martedì scorso una riunione a Roma tra dirigenza locale (comprensibilmente affezionata al fu “modello Pisapia”) e segreteria nazionale di Sel ha trovato una sintesi. Ciò che si dice pubblicamente è solo il giudizio netto e negativo sull’ex commissario di Expo, ma la conseguenza è che se Sala parteciperà alle primarie – e figurarsi se dovesse esser il candidato senza primarie – il centrosinistra non esisterà più neanche a Milano. A quel punto, come a Roma, a Napoli e a Bologna (dopo un braccio di ferro sempre interno a Sel), ci sarà una lista civica di sinistra (…)


 

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La grande bruttezza è in tutte le fedi

Eppure è esattamente, e ancor di più, quello che per legge di stampa, scrivevo martedì scorso senza sapere nulla di ciò che sarebbe accaduto questa notte.

È lo schema che non funziona, qualsiasi sia il dio, Allah o Dio o Ciccio pasticcio. Se deleghi la tua salvezza a qualcuno che sta in alto che non vedi ma in cui credi, non può che finire male. Anzi malissimo, e come scrivevo purtroppo la realtà ce lo sbatte in faccia “ogni giorno che nessuno ci manda in terra”. Perché pensi di comprare la tua salvezza con opere e a questo punto “omissioni” che diventano di tutto, pedofilia, violenza, malaffare, riciclaggio, droga ma anche morte. Sì morte, centinaia di morti. Di corpi senza senso. Perché se deleghi non solo la tua salvezza ma anche la tua umanità a un Dio che sia Allah o il dio dei cristiani o Ciccio pasticcio quella è la fine. Più o meno antica, è più o meno veloce. Il problema annoso è che bisogna avere il coraggio e la coerenza di dirlo: il problema sono tutte le fedi monoteiste. Perché è lo schema alla base che non funziona. Che non presuppone nessuna e ribadisco NESSUNA uguaglianza possibile. Solo un enorme immenso mercimonio, persino di Sangue, per arrivare a una uguaglianza con Dio. Non tra gli uomini, non su questa terra. Semmai nell’altra e con Dio.

Di cosa parliamo? Cosa volete salvare ancora? La cotoletta e la caritas? Se prevedi un nulla originario o un pieno originario (di peccato, originale) tutto va bene pur di riempirlo. Persino la violenza. Tanta violenza. Sei vuoto e proponi il vuoto. Sei pieno di peccato, non hai via di scampo. Puoi solo affidarti al bastone di qualche Dio forte che ti salvi da una ferocia originaria. Nessuna uguaglianza e nessuna vera umanità è possibile. È lo schema di fondo.E forse bisogna cominciare ad affermarlo con grande coerenza e coraggio, senza salvare nulla.
Leggerete di tutto oggi, per noi parla la vignetta di Fabio Magnasciutti, adorato collaboratore di Left.

 

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 @ilariabonaccors

Franco Nisticò morì nel 2009 durante la manifestazione NoPonte. Condannato per negligenza un medico

«I molti problemi del nostro territorio, come il dissesto idrogeologico, i giovani, il lavoro, non hanno bisogno di divisione, ma hanno bisogno di unità. Dobbiamo lottare con forza e tutti insieme per sconfiggere chi marcia contro. E allora la speranza siamo tutti noi, vecchi e giovani. Per dare insieme una speranza a questa Calabria abbandonata da tutti». Queste parole, decisamente attuali, sono state le ultime pronunciate da Franco Nisticò sul palco di Cannitello, a Villa San Giovanni (Rc) il 19 dicembre 2009. L’attivista NoPonte e presidente del comitato per la Statale 106, la strada della morte, ripeteva instancabile: «Vogliamo l’essenziale». Ma alla fine del suo intervento, Franco non fa in tempo nemmeno a scendere e si accascia sugli assi del palco. Seguono minuti lunghi, un’eternità, mentre migliaia di persone giunte da tutt’Italia per la manifestazione nazionale contro il Ponte sullo Stretto cercavano di capire cosa stesse succedendo. Nessun soccorso, nessun intervento, nessuna ambulanza arrivata sul posto. Nella cittadina blindata e affollata da uomini delle forze dell’ordine, nessuno è in grado di soccorrere Franco. Che protestava contro il Ponte, inutile e dannoso. Che chiedeva l’essenziale e ha trovato la negligenza. E adesso lo dice anche il Tribunale di Reggio Calabria.

Sei anni, un processo e trenta udienze dopo, il collegio giudicante (il presidente Natina Pratticò e i giudici a latere Mattia Fiorentini e Giorgia Castriota) ha condannato la dottoressa del Suem 118 reggino Gaetana Morace, che il 19 dicembre 2009 si rifiutò di intervenire in soccorso di Franco Nisticò, colpito da un arresto cardiaco. Unica imputata nel processo, è stata riconosciuta colpevole dei reati di omicidio colposo e di rifiuto di atti d’ufficio, condannata a 2 anni di reclusione (anche se la pena è sospesa con condizionale), e interdetta dai pubblici uffici per l’intera durata della condanna. Così recita il dispositivo letto martedì 10 novembre, presso il Cedir di Reggio Calabria.

In sostanza, il medico – che al momento del malore del Nisticò si trovava, a bordo dell’ambulanza “Riva 4”, di tipo A (l’unica dotata di defibrillatore), a circa tre chilometri di distanza, in viale Italia, nei pressi della stazione ferroviaria di Villa San Giovanni – era accusato di aver causato il decesso per colpa dovuta a negligenza.

Negligenza consistente, in particolare – chiarisce il dispositivo della sentenza -, «nel rifiutarsi, benché tempestivamente e ripetutamente richiesta – dal vigile urbano del Comune di Villa San Giovanni, Fortunata Greco, e altresì, del comandante del Corpo di Polizia municipale, Donatella Canale – di intervenire urgentemente con la citata ambulanza, in località Cannitello, presso piazza Chiesa, dove vi era una persona colta da malore (Francesco Nisticò, in arresto cardiaco) affermando loro che “non intendeva prendere disposizioni dal Comandante della Polizia locale” e che “comunque, non sarebbe intervenuta, perché bisognava chiamare il 118 di Scilla», nonché «nel rifiutarsi, con la citata condotta, di eseguire comunque un intervento di pronto soccorso, omettendo di effettuare, pertanto, con urgenza, l’unica manovra rianimatoria efficace per consentire la ripresa dell’attività cardiaca del Nisticò, costituita dalla defibrillazione, ed allontanandosi, successivamente, da Villa San Giovanni, per fare rientro a Reggio Calabria, abbandonandovi il Nisticò».

«È una soddisfazione per noi», hanno detto a Left i familiari di Nisticò. Anche se «tutto ciò lascia un forte amaro in bocca, aumenta la rabbia (anche perché dimostra che il sistema sanitario pubblico italiano accusa delle grosse problematiche al suo interno) e la consapevolezza che quel giorno, – cosa da noi detta fin da subito – col giusto, immediato e adeguato soccorso, Franco si sarebbe potuto salvare».

«Il 19 dicembre del 2009», proseguono, «sul palco della manifestazione “NO PONTE” si è forse esaurita una battaglia personale di Franco Nisticò, ma non si mai spenta la sua passione, non sono mai morti i suoi ideali. Da lì sono nate tante altre importanti battaglie politiche, sociali e civili a difesa e salvaguardia del territorio, per i diritti delle popolazioni del Sud».

Franco, militante instancabile, per tutta la vita si è battuto per la messa in sicurezza della SS106, la strada della morte che semina più di 300 vittime l’anno. Ed è stato anche sindaco di Badolato. Oggi a raccogliere la sua eredità non è solo la sua famiglia, ma anche un movimento regionale, il Movimento per la Difesa del Territorio “Franco Nisticò”. E il processo di primo grado per la sua morte si chiude proprio mentre il premier Renzi rimette in pista il Ponte, a pochi giorni dall’ondata di maltempo del primo weekend di novembre. La storia di Nisticò rappresenta in pieno le due battaglie: contro il Ponte e e per la messa in sicurezza della 106 ionica.

Questo giorno sarà lungo da attraversare

(PARIGI) Questa volta li ho sentiti gli spari. Avevo appena messo a letto i bambini. Ho chiuso in fretta le persiane, ho scoperto poco dopo che degli ostaggi sono prigionieri al Bataclan, una sala da concerti a poche centinaia di metri da qui. Proprio in questo momento (00.23) ho sentito degli altri botti, più forti, forse la polizia sta intervenendo. Sirene. Conosco questa paura, è la stessa del 7 gennaio ma adesso è più profonda perché si è radicata dentro di me. La riconosco. Rumore di elicotteri. Mille messaggi, stai bene? Restate chiusi in casa. Ma cosa succede? Nessuno lo sa. È un venerdì sera, la temperatura è mite, la gente è uscita per mangiare, andare al cinema, a sentire un concerto, allo stadio. Parigini, turisti, un’ordinaria sera di inizio weekend.


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Parigi dopo il massacro


E invece è la guerra. Ai quattro angoli della città, un kamikaze allo stadio, delle sparatorie vicino al Canal Saint Martin, in Rue de Charonne, gli ostaggi a boulevard Voltaire, decimo, undicesimo arrondissement, i luoghi dove si esce la sera sono sporchi di sangue, cadaveri in terra, gente che scappa, che grida, che piange. A mano a mano che passano i minuti la situazione si fa sempre più confusa, assurda. Mi vengono in mente Bagdad, Beirut appena ieri, Aleppo, sembrano luoghi lontani dove accadono cose mostruose ma che restano lontane da noi. E invece il presidente Hollande ha dichiarato lo stato d’emergenza, non succedeva dai tempi della guerra d’Algeria, coprifuoco, perquisizioni, chiusura di luoghi pubblici, chiusura delle frontiere, città blindata. La guerra insomma, quella vera. Ora io non so cosa sta succedendo, non so nemmeno quali sentimenti provare, a chi chiedere aiuto, cosa pensare, ma so che domani arriverà. Domani sapremo il numero delle vittime, sapremo il dolore degli amici, dei familiari, domani dovrò spiegare ai miei figli che non possiamo uscire liberamente, che è successo di nuovo, come qualche mese fa, e anche peggio, molto peggio. Domani tutto sarà rimesso in discussione. La vita quotidiana e gli avvenimenti straordinari, la storia piccola e quella grande. Ma per tutti sarà un grande dolore. Questa città che amo, che ci ha accolti, come si sveglierà domani? Domani. La notte sarà lunga da attraversare.

Foto in apertura: l’insegna che il Bataclan, fra i luoghi colpiti dagli attentati della scorsa notte, aveva esposto il 7 gennaio dopo l’attacco alla redazione di Charlie Hebdo

Parigi dopo il massacro

Parigi‬ prova a risvegliarsi dopo una notte di morte e terrore. Almeno 120 persone sono rimaste vittime dei sei attentati che ieri sera hanno colpito, per la seconda volta in un anno, il cuore della capitale francese. Sono oltre 200 i feriti, di cui 80 in modo grave. Si tratta di un bilancio terribile che fa dell’attentato il più grave mai messo in atto in Francia. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha telefonato questa mattina al suo omologo francese, Francois Hollande, ribadendo che i due Paesi “continueranno a lavorare insieme e con altri Paesi nel mondo per sconfiggere il flagello del terrorismo”.

Gesti e parole di solidarietà nei confronti di Parigi sono giunte da ogni parte del mondo, dove molti monumenti o impianti sportivi sono stati illuminati dal rosso, bianco e blu della bandiera francese. Spenta per lutto la Tour Eiffel. Ad agire e’ stato un gruppo di terroristi, probabilmente appartenenti all’Isis, l’organizzazione criminale che ha gia’ rivendicato l’attentato definendolo l’ “11 settembre francese”. Hanno sferrato la loro azione in sei luoghi diversi, partendo dal X arrondissement e poi scendendo fino ai quartieri limitrofi. Sulla loro strada hanno lasciato sangue e vittime, oltre 120 innocenti trucidati in strada, al ristorante e ad un concerto.


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Gli attentati più gravi sono stati portati allo Stade de France – dove un’esplosione si è sentita nitidamente anche durante il match Francia-Germania – e alla sala concerti Bataclan, dove si stava esibendo un gruppo rock americano. Qui i terroristi, probabilmente quattro, hanno preso in ostaggio centinaia di ragazzi e poi hanno aperto il fuoco, uccidendone almeno 80.


«C’est une horreur»

Il discorso di Francois Hollande


Poi il blitz delle teste di cuoio francesi. Sui social network e’ corsa alla solidarieta’, con innumerevoli messaggi di persone alla ricerca di familiari o amici scomparsi o di cui non si hanno notizie da ieri sera. I terroristi morti, al momento, sono otto. Alcuni di loro si sono fatti saltare in aria con le cinture esplosive che avevano legate in vita. Non è escluso, però, che qualche membro dell’organizzazione sia ancora in fuga, come sottolineato dallo stesso procuratore della Repubblica di Parigi, Francois Molins. “Ci sparavano come fossimo uccelli”, racconta un testimone spettatore della carneficina al Bataclan.

fonte: New York Times

Oggi Parigi resterà “chiusa per lutto”, mentre la Francia aumenterà i controlli alla frontiera. Air France ha deciso di mantenere i suoi voli da e per Parigi, seppur con qualche ritardo. Chiuso invece il traforo del Monte Bianco. Gli Stati Uniti restano “vigili”, anche se – rassicura l’amministrazione Obama – “non c’è alcuna specifica o credibile minaccia di un attacco sul suolo americano sul tipo di quello accaduto a Parigi”.

fonte: Ansa

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25 anni di studi e la grande bruttezza. Qualcosa da salvare? Proprio niente

La grande bruttezza. è il nostro titolo e il nostro sentire. Che va oltre i fatti materiali noti da sempre, come sa ogni storico che si rispetti. Perché da sempre, la cupidigia e l’avarizia sono state la “moneta” sonante della Chiesa. Le uniche novità, oggi, sono la proporzione e la “qualità” di quella cupidigia e di quella avarizia (che diventano pedofilia, società off shore, sottrazione indebita, riciclaggio di denaro sporco, attici…) e l’emergere, nonostante l’esercito dei media pro Francesco, di una «doppiezza – di questo pontefice – nel presentare in pubblico un volto della Chiesa che ne maschera la realtà», come scrive, su questo numero, lo storico Adriano Prosperi.
Ma quello che mostra la “grande bruttezza” non è questo. Non solo. A questo siamo abituati. Quello che contestiamo è lo schema di fondo, perché è quello che non funziona e che non permetterà mai a nessuno di diventare “bello”. Lo Stato della Chiesa non è altro che il centro propulsore di un mercimonio peggiore di altri, perché baratta salvezza per sé predicando (e talvolta vendendo) quella per gli altri.
Un dare per ricevere che presuppone un alto e un basso. Un alto in cui c’è Dio, e un basso in cui c’è il povero genere umano. In mezzo loro, ipotetici “strumenti di Dio”, e il loro regno, il Vaticano, «lo Stato più piccolo e assolutista del mondo», come scrive su questo numero Raffaele Carcano dell’Uaar. Dare in basso per ricevere in alto. Questo, senza neanche troppo semplificare, è il loro schema. O almeno lo era. Un triangolo delirante in cui accade troppo spesso che il basso non si ami affatto, piuttosto si tolleri e – nel migliore dei casi – si sfami, in virtù di un alto che non si vede ma in cui si crede e da cui tutto discende.
Dare per ricevere, questo è. Dare la cotoletta per ricevere “salvezza” (solo qualche giorno fa Francesco ha raccontato l’aneddoto della mamma che priva i figli di metà cotoletta per darla a un povero, così da insegnare loro la vera carità). Avete mai amato così? E vi siete sentiti bene in quel momento? Io no.
Privarsi di qualcosa, sentire fame e imparare la vera carità. Questo è l’amore cristiano. Davvero questa è la rivoluzione? Colpevoli tutti. Tutti quelli che ogni volta, in ogni secolo e in ogni circostanza, hanno cercato e cercano incomprensibilmente di salvare qualcosa. Un’idea di bontà forse, che lì non c’è e non ci può essere, e senza grande fatica la realtà ce lo sbatte in faccia tutti i “santi” giorni che nessuno ci manda in terra.
Che idea di bontà c’è o ci può essere in chi predica il “nulla originario” o il peccato originale? è così difficile capire l’inganno? Senza il bastone di Dio saremmo solo animali cattivi, salvo poi capire che animali cattivi ci diventano loro in base a quello schema infernale che non prevede uguaglianza possibile, ma piuttosto una impossibilità genetica di essere come l’alto, quello in cielo, generando un mercimonio perenne. In nome di cosa, poi? Della carità cristiana? Basterebbe leggere un solo libro di Storia, anche su un solo secolo, per vedere quali rivoluzioni abbia innescato la carità. Nessuna. Ha prodotto uguaglianza? Mai. Nella storia della Chiesa non c’è nulla che racconti, non un singolo episodio, di un’uguaglianza possibile, non su questa terra almeno. Si tratta, al meglio, di un’uguaglianza condizionata da un’appartenenza (alla Chiesa). E al peggio, di un’uguaglianza post mortem.
Siamo ancora messi così? Dietro alle cotolette? Ancora lì a pensare che c’è qualcosa da salvare perché altrimenti saremmo tutti cattivi? Due venerdì fa, mi è capitato di passeggiare con un grande economista che mi raccontava della sua infanzia in Friuli Venezia Giulia, della sua educazione cattolica, di esperienze anche positive sul territorio, e poi della sua discesa a Roma, dei suoi studi e di un pensiero che gli è cambiato. Tutte quelle qualità che gli avevano raccontato venire da Dio, l’amore, l’altruismo, quel senso di uguaglianza, la generosità, l’onestà, erano sue. Non gliele aveva date nessuno. E il grande inganno della religione per lui era quello, mi diceva: farti credere di essere nulla, vuoto all’origine, da riempire di qualità (o di regole?). 25 anni di studi sulla Chiesa e sul cristianesimo e una grande bruttezza. Io posso solo testimoniare questo. Una grande bruttezza. Qualcosa da salvare? Niente. Proprio niente.

Questo editoriale lo trovi sul numero 44 di Left in edicola dal 14 novembre

 

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