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L’Alligatore indaga il lato oscuro della società italiana. Massimo Carlotto parla del suo nuovo noir

per-tutto-loro-del-mondo«Coniugati con figli, vita di paese, parrocchia, calcetto, bar. Persone normali». Scorre sui binari dell’ordinario la vita nel nord-est. Almeno all’apparenza. Una terra dove la gente «vive per il lavoro e per la causa». Non sempre nobile, però. Come nel caso di Kevin Fecchio, di professione orafo, ma capace di ammazzare a sangue freddo, per qualche grammo. È uno dei protagonisti del nuovo romanzo di Massimo Carlotto Per tutto l’oro del mondo (Edizioni E/O). Un romanzo in cui torna la banda dell’Alligatore, detective romantico, capace di smascherare i meccanismi più nascosti e perversi della nuova criminalità ma anche di perdere la testa per una intensa e tormentata «donna di jazz», che canta in stile Carmen Lundy per compensare una vita di duro lavoro in corsia. Accanto all’Alligatore, Marco Buratti, ritroviamo anche il “malavitoso” old style Beniamino Rossini e Max la memoria, che ha vissuto gli anni di piombo e ne porta ancora le ferite. Insieme tornano ad indagare il lato oscuro di una certa realtà italiana, quella apparentemente “normale”, dal volto presentabile, ma dalla doppia vita nel mondo della criminalità globalizzata.

L’autore de Il fuggiasco (1995) e di libri brucianti come Le Irregolari (1997) sui gironi della morte della dittatura argentina, con questo nuovo noir aggiunge un nuovo capitolo alla sua serrata inchiesta sull’nord- est. A dare il la a questa nuova indagine dell’Alligatore, a sorpresa, è un ragazzino di 12 anni, disposto ad anticipargli una manciata di centesimi, pur di sapere la verità sul furto in villa che è costato la vita ai suoi.

Lo scrittore Massimo Carlotto racconterà dal vivo in un lungo tour nelle librerie italiane le ragioni e le molte passioni che lo hanno portato, dopo sei anni di silenzio dell’Alligatore, a immaginare sue nuove avventure. Gli abbiamo chiesto di anticiparcene qualcuna.

A pochi mesi dall’uscita de La banda degli amanti, dal 5 novembre, è in libreria Per tutto l’oro del mondo e il 5 dicembre 2015 a Più libri più liberi Carlotto festeggia il ventennale dell’Alligatore; quasi un parto gemellare, che cosa lo ha ispirato?

È stata l’urgenza di raccontare le trasformazioni del nord-est . Per tutto l’oro del mondo tocca un tema di forte attualità, perché racconta il problema del farsi giustizia da sé, la corsa ad armarsi: una questione che nel nord-est pesa molto. Da un lato c’è la microcriminalità, il problema della rapina nelle ville, ma dall’altro c’è la mafia che investe, ricicla. E lì nessuno dice niente. Domina il silenzio. Mentre il resto viene usato a livello politico, come pura propaganda con effetti devastanti dal punto di vista culturale.

Dal romanzo emerge il volto di una criminalità sempre più disumana. Racconti così un lato nascosto della realtà di oggi?

E’ il tema che sto cercando di approfondire con i miei romanzi. La criminalità oggi è sempre più trasversale e non ha nessun problema ad attaccare la salute delle persone. L’inquinamento, il traffico delle scorie industriali e quello illegale dei rifiuti, la sofisticazione alimentare, sono reati fin qui quasi sconosciuti, ma sono molto pericolosi per la gente.  Con la prostituzione è stata reintrodotta la schiavitù. E qui si toccano i maggiori livelli di disumanità che ci possano essere oggi nel mondo.

Nel romanzo racconti un racket della prostituzione a conduzione manageriale, una gestione disumana e lucida della vita delle persone, come si è arrivati a questo punto?

Molti interessi si sono coalizzati, compresi quelli della parte “integerrima” di questa società che poi – si scopre-non lo è per niente. Il dilagare dell’illegalità ha creato una criminalità diffusa che oggi è difficilmente domabile. Per il punto a cui siamo arrivati è difficile pensare che in questo Paese possa essere ripristinata la legalità. Raccontarlo attraverso il romanzo è un modo molto efficace per creare spunti di riflessione.

Con Einaudi tre anni fa hai pubblicato un romanzo, Respiro corto, che indagava la mafia internazionale che è entrata nel mondo della finanza. Senza che nessuno gridi allo scandalo. Si è diffusa una forma di assuefazione alla criminalità agita da “colletti bianchi”?

È avvenuta una sorta di normalizzazione della criminalità. Anche perché le mafie stanno diventando invisibili, ammazzano sempre di meno, non ci sono più gli omicidi eccellenti, siamo assediati nelle nostre vite, come accennavamo, dal  traffico dei rifiuti tossici al cibo alterato…


 

Le date del tour

Il 5 dicembre alle 18,30 Massimo Carlotto festeggia vent’anni dell’Alligatore alla fiera della piccola e media editoria Più libri più liberi, a Roma nel Palazzo dei Congressi


 

L’Alligatore prova a smascherare questo complesso sistema criminale.Ma senza perdere la tenerezza. E questa volta lr ritroviamo perfino innamorato. E’ un detective ma ha la sensibilità di lasciarsi andare quando incontra una bella immagine femminile?

Ha capito che i sentimenti sono una parte fondamentale della vita. Tutte le vicende dell’Alligatore ruotano intorno a questi tre amici, molto legati fra di loro. Uniscono le loro forze, costruiscono delle nicchie che costruiscono delle micro società per resistere alla crisi, in generale. Tutti e tre hanno avuto delle vite molto complicate e cercano in qualche modo di venirne fuori. L’Alligatore cerca di farlo  con la donna di jazz. Tutti e tre hanno un grandissimo desiderio di relazioni più profonde, dopo tanti anni hanno capito che è centrale per le loro esistenze.

Hai regalato a ciascuno di questi tre personaggi qualcosa di te? Max, la memoria, per esempio, dice di essere un irregolare, di avere ferite che vengono dal passato duro, di carcere, di ingiustizia subita.

Ovviamente quando scrivo non lo faccio scientemente. Tutti e tre i personaggi vengono dalla mia generazione, per cui c’è anche un po’ la mia storia, la mia esperienza. Ma soprattutto sono tre personaggi che usano dei punti di contatto per provare a comprendere la realtà.

Le irregolari nascevano da un chiaro spunto autobiografico, hai conosciuto da vicino gli orrori della dittatura argentina e hai scritto molto per fare luce sulle vicende dei desaparecidos. In Italia si sta celebrando il processo Condor, ma i giornali quasi non ne parlano…

È sempre stata una lotta riuscire a interessare il pubblico alle questioni argentine. Ricordo che quando uscirono Le irregolari Estela Carlotto andava in giro cercando di sensibilizzare politici e giornalisti. È sempre stato estenuante. Eppure è stata la più grande strage di italiani dopo la seconda guerra mondiale. Parliamo della seconda comunità più colpita in Argentina. Ci sono stati dei momenti d’interesse, delle fiammate, a seconda dei libri dei film e poi soprattutto quando c’è stato il processo in Corte d’Assise a Roma: Ma è un discorso complesso che rischia continuamente di essere dimenticato. Con grande fatica si cerca di mantenere la memoria.

Tu stai lavorando ancora su quel tema?

Sì, fa parte della storia della mia vita, continuo a raccogliere materiale per un libro futuro, spero un giorno di avere l’occasione giusta per poterlo scrivere.

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Una marcia per i desaparecidos del Mediterraneo

In this Sunday, Oct. 4, 2015 photo, a boarding card of a Baghdad-Istanbul flight remains left behind on a beach next to the town of Molyvos, on the northeastern Greek island of Lesbos. (AP Photo/Santi Palacios)

La prima città è stata Milano, il 18 giugno scorso. Poi, una dopo l’altra si sono aggiunte Torino, Messina, Palermo e dal 5 novembre, Roma. Anche la capitale, nella piazza Santi Apostoli a due passi da Piazza Venezia, dalle 18 alle 19 ospiterà la marcia dei Nuovi desaparecidos, cioè dei parenti e degli amici di coloro che sono scomparsi in mare per raggiungere l’Europa e che, come sostiene Edda Pando, coordinatrice degli sportelli immigrazione di Milano e responsabile di Arci Todo Cambia «deriva da precise politiche degli Stati europei». Non sono incidenti le scomparse in mare, assomigliano stranamente alle “sparizioni” dei giovani dissidenti al tempo dei generali in Argentina. Ci sono dunque precise responsabilità. Il primo a fare questo nesso era stato qualche tempo fa Enrico Calamai, ex vice console in Argentina al tempo dei militari. Allora il giovane diplomatico si adoperò per far espatriare e quindi salvare centinaia di connazionali. In seguito ha contribuito alla nascita del comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos che poi si è incontrato con le varie associazioni e comitati sorti in Italia per difendere i diritti dei migranti. Ma soprattutto per contribuire a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’effetto devastante delle politiche attuate dagli Stati. Al grido Basta stragi – migrare per vivere e non per morire, la marcia del giovedì, come quella delle madri di Plaza de Mayo a Buenos Aires chiede verità e giustizia. A Roma domani sera ci saranno anche artisti del Centro interculturale, ci sarà anche Dora Salas rappresentante dei parenti dei desaparecidos argentini e naturalmente Enrico Calamai. «A Roma, la marcia punterà molto nella richiesta di corridoi umanitari, della fine dei respingimenti e delle necessità di una politica dell’accoglienza umana», dice Francesca Koch, della Casa delle Donne, uno dei 50 gruppi e associazioni che hanno organizzato la manifestazione.

«Potevamo ricordare il numero dei morti, che ormai sono 27mila accertati negli ultimi 15 anni – dice Edda Pando – ma ormai non fa più effetto, la gente è abituata all’evento doloroso, al barcone che affonda ma poi se ne dimentica. Invece noi vogliamo dare un volto umano a quelle politiche che bloccano i visti d’ingresso, e visti di lavoro e che con la chiusura delle frontiere contribuiscono a chiudere l’Europa». Il volto umano è anche quello che mostrano i parenti e gli amici dei migranti scomparsi in mare. A Milano, racconta Edda, la gente che passa da piazza della Scala – dove si svolge la marcia del giovedì – si ferma, cammina con i parenti delle persone scomparse. «Per ogni migrante che non arriva ci sono sei o sette vittime, i loro genitori, fratelli, sorelle, mogli», continua Edda. Il dolore per la scomparsa del caro ma anche l’attesa per avere notizie sul riconoscimento di un corpo. Con tutti i problemi di tipo legale che si possono presentare.

In this Sunday, Oct. 4, 2015 photo a pink float used as protection for small children in the water remains left behind on the shore of a beach next to the town of Molyvos, on the northeastern Greek island of Lesbos. The migrants arrive by the hundreds on the beaches of the Greek island of Lesbos. And in their eagerness to move on, they leave behind belongings they carried with them. (AP Photo/Santi Palacios)

In this Sunday, Oct. 4, 2015 photo, a lipstick remains left behind on a beach next to the town of Molyvos, on the northeastern Greek island of Lesbos. (AP Photo/Santi Palacios)
(AP Photo/Santi Palacios)

L’idea della marcia dei Nuovi desaparecidos è nata durante il Forum sociale di Tunisi che si è tento nello scorso marzo. «Abbiamo incontrato come Arci e Carovana migranti due associazioni nordafricane», racconta Edda. Si tratta dell’associazione tunisina La Terre pour tous e il Collettivo algerino dei parenti degli Harraga di Annaba. A Tunisi Edda Pando incontra un rappresentante della comunità eritrea e anche Marta Sanchez della Carovana centramericana dei figli dispersi tra Messico e Stati Uniti. Tre associazioni, tre gruppi di parenti che reclamano diritti per persone disperse. «Si sono incontrati due continenti», ricorda Edda. A partire da quell’esperienza a Milano è partita l’idea della marcia. Esistono delle vertenze legali in corso, naturalmente: da parte tunisina per l’affondamento di 5 imbarcazioni nel 2011, un’altra denuncia per il naufragio del 6 settembre 2012 a Lampione, vicino a Lampedusa. Un’altra vertenza, racconta Edda, riguarda la scomparsa dei giovani algerini del gruppo Harraga, avvenuta tra il 2007 e il 2008. Un dossier è stato presentato anche alle Nazioni Unite. «Il nostro è un lavoro iniziato un anno fa, è tutto volontario e bisogna ancora di più far conoscere la nostra esistenza anche in altri Paesi dell’Africa», afferma l’infaticabile militante di Todo Cambia.

L’obiettivo della marcia, poi, non è solo sollevare il problema dei singoli migranti quanto quello di sollevare una riflessione sulle politiche degli Stati. «Basterebbe che i consolati europei in Africa concedessero dei visti di soggiorno per lavoro. I migranti potrebbero venire qua senza problemi per la loro sicurezza e non ci sarebbe un’invasione di massa. Non c’è stata quando si sono aperte le frontiere a Est, non si capisce perché ci debba essere adesso». Perché il dramma dei migranti economici è uguale a quello dei richiedenti asilo che fuggono dalle guerre come i siriani.

 

UrbExing, oltre i limiti della città per scattare la foto perfetta

Si chiama Vic Thomas, ma sui social, in particolare su Instagram dove è una vera e propria star, il suo nick è Vic Invades. “Invades” è un verbo, sta per “invade”, e racconta dell’identità di Vic tanto quanto un nome. “Vic Invade”: grattacieli, magazzini e strutture abbandonate, tunnel della metropolitana, sempre alla caccia di un nuovo punto di vista da cui scattare una fotografia o girare un nuovo video. New York è sua, si arrampica e si infila negli angoli più nascosti della città, come un moderno esploratore che va oltre ai confini che in genere una città impone (pensate ad esempio a quanti cartelli con scritto “vietato entrare”, “vietato oltrepassare” sono sparsi per la metropoli. Si tratta di un nuovo fenomeno che sta prendendo piede chiamato “UrbExing” in cui ragazzi come Vic, armati di scarpe da ginnastica, smartphone e macchina fotografica, si infiltrano spesso illegalmente in luoghi della città ai quali è proibito accedere. Il legame tra arte e trasgressione è fortissimo e richiama alla mente i gruppi di graffittari, disposti ad arrampicarsi o infilarsi in qualsiasi cunicolo pur di realizzare un’opera di forte impatto scenico. E a scoprirle – come fossero moderne pitture nelle caverne – e fotografarle sono proprio dagli stessi UrbExers. Sul suo profilo instagram Vic documenta tutte le sue invasioni, che sono spesso illegali (è stato anche arrestato per essersi intrufolato in un tunnel della metro) e altrettanto spesso pericolose, ma sempre fatte in nome della bellezza. Questo anche perché si sente il Robin Hood della fotografia: ruba panorami generalmente riservati a pochi per condividerle con tutti.

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Rifugiati ed Europa, in un mese su 160mila ricollocati solo 160

In this Thursday, Oct. 8, 2015 photo a Syrian passport found on the road that runs along the north of the Greek island of Lesbos is placed to be portrayed on a beach next to the town of Skala Sikaminias, on the northeastern Greek island of Lesbos. (AP Photo/Santi Palacios)

Un’Europa dei vertici e della burocrazia che non riesce a mettere in pratica le proprie decisioni. A meno che non si tratti di quelle relative al deficit di bilancio. E’ questo il quadro che emerge da un comunicato stampa diffuso ieri dalla Commissione europea e relativo alla redistribuzione dei rifugiati, ai rimpatri e ai bisogni dettati dall’emergenza logistica in alcuni Paesi (Serbia, Croazia e Slovenia). Il documento fornisce le cifre relative al piano straordinario presentato dalla Commissione il 23 settembre e ratificato da un meeting informale lo stesso giorno.

Gli impegni presi erano semplici: 160mila rifugiati verrano redistribuiti tra i 28 Paesi per togliere la pressione da quelli che sono tradizionalmente (o sono diventate) le porte d’ingresso d’Europa. L’impegno finanziario per le agenzie umanitarie Onu e non solo è di 3 miliardi e 600 milioni. In un caso una si tratta di una cifra notoriamente al ribasso: secondo Unhcr gli ingressi in Europa sono circa 770mila e le richieste di asilo a cui dare una risposta erano 632mila a luglio. Poi c’è stata l’estate che tutti ricordiamo.

(continua sotto l’infografica)

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Bene, i posti resi disponibili dai 28 Stati al 3 novembre sono 1418 (da 14 Stati membri, l’Italia non ha fornito cifre) e le persone ricollocate sono 86, partite dall’Italia su 39.600 in partenza, mentre una trentina devono lasciare la Grecia (su 66.400) ma sono ancora ferme su una delle isole di arrivo.  All’appello mancano quindi più di 158mila posti disponibili (e a dire il vero gli impegni dettagliati sono per un numero minore perché alcuni Paesi non si sono ancora resi disponibili). Quanto ai fondi, l’impegno principale viene dal bilancio della Commissione, che ha stanziato 2800 miliardi, mentre gli Stati membri si sono impegnati per 518. Mancano quindi 2281 miliardi. Negligenti, ovviamente, sono quei Paesi che hanno fatto di tutto per fare saltare il piano e che si rifiutano o preferiscono non prendere impegni comuni in materia di immigrazione e rifugiati: Slovacchia, Ungheria, Danimarca e così via.

In this photo taken on Monday, Aug. 31, 2015, a Syrian child plays with his mother as they travel by train from Belgrade to the northern Serbian town of Subotica.  Children are resourceful and find joy and distraction for hours in simple objects. Their parents often carry everything they still own in a backpack or two, making dolls and Lego blocks an impossible luxury. (AP Photo/Santi Palacios)

Anche dal punto di vista della logistica lo sforzo non è stato immediato: Slovenia, Croazia e Serbia hanno detto di aver bisogno di un numero X di lettini, materassi, guanti in lattice, coperte, medicine di primo soccorso, lenzuola, sacchi a pelo, tende. Anche in questo caso, in molti casi, mancano migliaia di materiali all’appello. Il dato positivo di queste lentezze è quello relativo alle espulsioni (denominati rimpatri): sono solo 153. In questo caso, però, le lungaggini sono dovute ai nodi relativi alla sicurezza per quelle persone e alla trafila burocratica. I rimpatri, per ora, sono solo verso Tunisia ed Egitto.

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Calabria in ginocchio, Irto: «Serve una costituente del territorio, qui l’uomo ha superato ogni limite»

La Calabria è protagonista dei media in questi giorni, anche questa volta non per buone notizie. Il violento maltempo dello scorso week end ha piegato la regione. Allagamenti, smottamenti, frane. Le strade e le linee ferroviarie cedono sotto la pioggia battente. I morti sono già due. Left ha fatto il punto con Nicola Irto, presidente del Consiglio Regionale della Calabria. 

Non è la prima volta che ci si trova a parlare di dissesto del territorio. Questa volta, però, la Calabria sembra davvero in ginocchio, si contano persino due morti. Qual è al momento la situazione dei danni?
La situazione è molto grave, come hanno potuto constatare di persona anche il ministro Delrio e il capo del dipartimento della Protezione civile Curcio. I danni sono ingenti ma per una conta definitiva e compiuta occorrerà ancora del tempo. In Calabria si ripetono periodicamente eventi catastrofici legati al clima ma soprattutto al dissesto idrogeologico che è una piaga mai curata nella nostra regione, oggi purtroppo è diventata cronica. La Calabria è in ginocchio, come dice lei, e ha bisogno del sostegno e del supporto dello Stato centrale ma anche di un’assunzione di responsabilità collettiva della sua classe dirigente. Dobbiamo essere noi a rendere più sicura la nostra terra, pianificando bene e non solo facendo fronte all’emergenza.

Alla già difficile e carente situazione dei trasporti, si aggiungono linee ferroviarie e strade che crollano. Un colpo di grazia per la Regione che, soprattutto nel sud reggino, rischia di rimanere ancora più isolata. Come pensate di intervenire?
Il presidente della Regione ha già preannunciato la richiesta dello stato di emergenza. È al governo che ci appelliamo perché in materia di grandi reti di comunicazione esiste ancora, nelle more della riforma, una legislazione concorrente Stato/Regioni che presuppone competenze e risorse che sono in capo allo Stato. Personalmente sono molto preoccupato per la Locride, un comprensorio che soffre da sempre di una condizione inaccettabile di marginalità e di isolamento rispetto non solo alla Calabria ma anche all’intero sistema Paese. Senza un intervento tempestivo volto al ripristino della ferrovia jonica e della Statale 106, interi centri resteranno tagliati fuori dal mondo. Vogliamo che finalmente anche quest’area della provincia di Reggio si senta parte dello Stato: non è mai stato così, purtroppo. Da calabresi siamo pronti a fare la nostra parte, a rimboccarci le maniche e a lavorare sodo per tornare alla normalità. Anzi, per arrivarci, alla normalità, che da queste parti è in gran parte ancora sconosciuta sul versante dei servizi pubblici essenziali.

Perdoni se glielo chiedo in modo così diretto. Non per fare dietrologia, ma in Calabria contiamo anni, decenni, di abbandono del territorio e abusivismo edilizio. Possiamo dire che non è la natura matrigna il problema ma che sarebbe ora di cambiare politica del territorio – per esempio, abbandonando l’idea di grandi opere in stile Ponte sullo Stretto?
In Calabria esistono gravissime responsabilità dell’uomo e, come dicevo prima, colpe storiche di quanti si sono succeduti alla guida delle amministrazioni. Si è cementificato in maniera incontrollata, selvaggia, senza criterio e senza coscienza. I risultati sono sotto gli occhi di tutti ma noi oggi non possiamo militarci a denunciare gli altri: dobbiamo agire. Ci sono centinaia di milioni di euro già stanziati per la mitigazione del rischio del dissesto idrogeologico. La Calabria è commissariata in questa materia. Solo nell’ultimo anno il nuovo soggetto attuatore del Piano ha avviato decine e decine di interventi e molti altri appalti partiranno a breve ma dobbiamo colmare un enorme gap. Ci vorranno tempo, pazienza, rigore e lavoro. Più in generale, sul piano politico, auspico una sorta di “costituente per la tutela del territorio”. Un’occasione per fermarsi a riflettere, prendendo atto che l’uomo in Calabria ha superato davvero ogni limite e che dunque bisogna immediatamente invertire la rotta: altrimenti, di questo passo, finiremo in un burrone. Quanto al Ponte, non voglio eludere il suo riferimento. Il punto non è farlo o meno, perché queste sono decisioni strategiche che spettano ai governi, ma sempre nel rispetto dell’ambiente e del superiore interesse delle comunità locali. Il punto è che il miliardo di euro di denaro pubblico, stanziato in passato per il Ponte, dovrebbe comunque essere investito su questo territorio. Anche se bisogna saperli spendere bene, i soldi pubblici. Non come è stato fatto in passato per il dissesto idrogeologico.

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20 anni fa l’assassinio di Rabin cancellava il processo di pace

Non era un uomo di pace Ytzak Rabin, il premier israeliano che 20 anni fa venne ucciso da Yigal Amir, che come la destra e i coloni era ferocemente contrario all’idea di trovare un accordo con l’Olp. Come l’altro firmatario degli accordi e nemico, Yasser Arafat, Rabin era un uomo di guerra come quasi tutti i leader israeliani. Lo si vede nelle foto qui sotto. Ma era consapevole del fatto che la situazione dei Territori e di Gaza, protratta all’infinito, non avrebbe che peggiorato le condizioni di sicurezza di Israele. Quella consapevolezza, le pressioni americane ed europee e una consapevolezza simile dall’altra parte produssero il processo di pace che gli spari di Amir cancellarono per sempre. Era quello l’intento dell’assassino. Rabin in quei mesi veniva ritratto nei manifesti della destra con la kefyah di Arafat e a Gaza cominciavano gli attacchi suicidi e la lenta ascesa di Hamas. Venti anni dopo Hamas governa Gaza ed è incalzata da frange religiose più radicali e al governo di Israele c’è un oppositore degli accordi firmati da Rabin.

Passeggiata sulla spianata delle moschee dopo la vittoria nella guerra dei Sei giorni con Ben Gurion e altri ufficiali

L’ingresso alla porta dei Leoni con Moshe Dayan dopo la presa di Gerusalemme

Con il Segretario di Stato Usa Henry Kissinger

Con il presidente egiziano Sadat

Durante una visita a Nablus

1993, una manifestazione di coloni contro Rabin

Rabin, Clinton e Arafat dopo la firma dell’accordo nel giardino delle rose della Casa Bianca

Un impiegato dell’archivio nazionale israeliano mostra la pistola con cui è stato ucciso Rabin

La Chiesa e i giochi di potere: il nuovo Vatileaks? Ecco perché è una storia vecchia

cosa c'è dietro a Vatileaks

«Il vero scoop sarebbe stato che papa Bergoglio vuole chiudere lo Ior dato che non c’entra nulla con la missione della Chiesa. Sapere come un cardinale, per quanto potente e famoso, si è finanziato la ristrutturazione del super attico, rasenta il gossip. Che i soldi delle offerte non finiscono tutti in opere di bene è risaputo, non serviva una nuova Vatileaks». Coautore del libro inchiesta Paradiso Ior (Castelvecchi), il tesoriere del Partito radicale, Maurizio Turco, commenta così l’arresto monsignor Lucio Angel Vallejo Balda e di Francesca Imacolata Chaouqui, rispettivamente ex segretario e membro della Cosea, la Commissione referente di Studio e indirizzo sull’organizzazione delle Strutture Economico-Amministrative della Santa Sede istituita dal papa argentino nel luglio 2013 (e sciolta nel 2014 per aver esaurito il mandato) nell’ambito dell’operazione-trasparenza legata all’adeguamento della finanza vaticana alle leggi bancarie internazionali. Secondo la tesi prevalente nei media italiani, i due sarebbero responsabili della “fuga” di documenti riservati dalle stanze vaticane, molti dei quali sono in via di pubblicazione il 5 novembre prossimo nei libri dei giornalisti Gianluigi Nuzzi e Emiliano Fittipaldi Via Crucis e Avarizia. Libri definiti dalla Santa Sede in un comunicato ufficiale, «frutto di un grave tradimento della fiducia accordata dal Papa» all’interno di un’operazione «in cui risvolti giuridici ed eventualmente penali» sono al vaglio degli avvocati vaticani.
Secondo Turco, «l’enfasi posta sulla storia dell’appartamento del cardinal Bertone», che sarebbe stato ristrutturato con 200mila euro della fondazione che si occupa della raccolta fondi per i piccoli pazienti del Bambin Gesù, secondo quanto riporta una anticipazione del libro di Fittipaldi pubblicata su Repubblica, denota una preoccupazione da parte delle gerarchie vaticane che «non corrisponde al tenore della notizia». Ovviamente, prosegue l’esponente radicale, «bisogna aspettare che i due libri escano, così si capirà meglio cosa c’è scritto e cosa c’è dietro la reazione della Santa Sede. Quello che mi sento di dire è che per ora è tutta pubblicità per i due libri che minacciano di voler bloccare. E che, se danno tutta questa importanza alla storia di Bertone, in fin dei conti un uomo di Stato, evidentemente c’è in quelle pagine qualcosa che rientra nella guerra interna tra gruppi di potere tutt’altro che risolta da Bergoglio. E che la storica assenza di trasparenza sulle cose vaticane non aiuta a risolvere».
Sulla questione della trasparenza pone l’accento anche il filosofo della politica dell’Università della Tuscia di Viterbo Tommaso Dell’Era. «Certamente – racconta Dell’Era – ogni Stato ha i suoi documenti riservati, ma la grossa differenza tra il Vaticano e i Paesi democratici è che in questi ultimi almeno su una gran parte dei documenti esiste una trasparenza amministrativa. Nel caso dell’Italia, ad esempio, esistono delle commissioni parlamentari di vigilanza, d’inchiesta, d’indagine conoscitiva che svolgono audizioni i cui atti sono pubblici o lo diventano nel corso del tempo. Inoltre qualsiasi cittadino ha la possibilità di sapere come vengono spesi dei soldi pubblici tramite le comunicazioni della Corte dei Conti. Bisogna considerare che invece in Vaticano, che è una monarchia assoluta, è imposto il segreto sulla stragrande maggioranza degli atti, siano essi giudiziari o amministrativi. E già questo rende potenzialmente trafugabili tanti documenti». Un rischio che aumenta in presenza di lotte di potere tra fazioni interne alla Curia. «Qui sta la domanda chiave di questa “nuova” Vatileaks» osserva il filosofo della politica. «Perché non hanno voluto che si conoscessero i documenti che secondo l’accusa sarebbero stati “rubati” da mons. Vallejo? Probabilmente perché mettendoli insieme, uno dopo l’altro, portano in luce un’immagine della Chiesa cattolica assolutamente diversa da quella nuova e positiva che Bergoglio enfatizza con i suoi discorsi e che però non corrisponde alla realtà, al di là del contenuto di questi libri». Secondo Dell’Era, come i suoi predecessori anche il pontefice argentino ha come obiettivo la tutela dell’istituzione: «Bergoglio non vuole assolutamente né rivoluzionare la Chiesa né cambiarla radicalmente. Vuole tutelarne il potere, restituendo un’immagine “pubblica” opposta a quella presa in eredità da Benedetto XVI». La tutela del potere è paradossalmente lo stesso obiettivo degli antagonisti che il pontefice si ritrova nella Curia. «In Vaticano non esistono buoni e cattivi – precisa Dell’Era -, esistono gruppi di potere che hanno una visione diversa riguardo al modo di raggiungere un obiettivo. All’interno di questo ambiente esistono fazioni più o meno conservatrici con un diverso approccio ai temi cari alla Chiesa. Ma nessuna di queste intende mettere in crisi il “sistema”. La prova più evidente è il risultato del Sinodo sulla famiglia. Tante dichiarazioni, tanti documenti, due anni di lavori che alla fine in concreto non hanno cambiato nulla».

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Il gufo Marino accusa Renzi: «Voleva solo prendersi Roma»

Magari, se Marino avesse detto o scritto prima quello che oggi scrive (e dice, ospite di La7) di Matteo Renzi, la sua cacciata dal Campidoglio avrebbe avuto un altro senso – non sarebbe passata ai più come l’allontanamento di un marziano incompetente – se non un altro esito. Scrive Marino: «È del tutto evidente che Renzi mi attacca e offende sul piano personale per coprire con la “damnatio memoriae” una spregiudicata operazione di killeraggio che ha fatto esultare i tanti potentati che vogliono rimettere le mani sulla città».
Marino replica a quanto detto dal premier: «Quando vedo certi addii scenografici», ha detto Renzi a Bruno Vespa, «mi rendo conto di quanto possa essere falsa la politica. Chi fallisce la prova dell’amministrazione si rifugia nel presunto complotto».
I toni adesso sono molti diversi da quelli politicamente corretti usati durante la crisi: «Occorre ristabilire la verità», dice Marino, «Renzi voleva Roma sotto il suo diretto controllo e se l’è presa, utilizzando il suo doppio ruolo: come segretario del partito ha voluto che i 19 consiglieri del Pd si dimettessero, come Presidente del Consiglio ha sostituito il sindaco, legittimamente eletto, con un prefetto, certamente persona degnissima, che farà capo come dice la legge allo stesso Presidente del Consiglio».
Marino, in un messaggio su facebook, fa dunque quello che non ha mai fatto in due anni e mezzo di Campidoglio: critica Renzi apertamente, con parole che difficilmente sono legate solo ai più recenti avvenimenti. «Assistiamo a una pericolosa bulimia da potere, che elimina gli anticorpi democratici», dice Marino trasformato di colpo in un perfetto gufo (sembra un giurista sulla riforma costituzionale): «Il messaggio è chiaro: chi non si allinea, chi non ripete a pappagallo i suoi slogan viene allontanato o addirittura bandito».

Retata a Bagheria, il sindaco M5s: «L’aria è davvero cambiata»

«Tira proprio un’aria di cambiamento, che toglie ossigeno ai disonesti». A parlare è Patrizio Cinque, il sindaco di Bagheria, il paese di Dacia Maraini e Renato Guttuso, tristemente famoso però per essere stato un feudo di Bernardo Provenzano, il boss dei boss. A Bagheria, due giorni fa una retata delle forze dell’ordine, dopo la denuncia di 36 commercianti strozzati dal pizzo, ha stroncato il racket mafioso. Ventidue gli arresti. Trent’anni, una laurea in Comunicazione pubblica, ex collaboratore parlamentare alla Regione Sicilia, il giovane sindaco è un fiume in piena. Eletto un anno fa, è uno dei simboli del trionfo del M5s in Sicilia. Sedici consiglieri sono pentastellati e la sua maggioranza ha sostituito quella precedente a guida Udc-Pd.

Sindaco  veramente è cambiata l’aria nel suo paese?

Quello che è successo dimostra che la Sicilia può cambiare e tutto dipende dal fatto che i cittadini onesti con un sussulto di dignità mettono da parte quelli disonesti. La mafia si può sconfiggere. Bagheria può essere un buon esempio. Noi vediamo una ventata di novità, e non dipende solo dalla nuova amministrazione.

Da cosa dipende?

I cittadini si stanno svegliando, sono stanchi di essere additati come abitanti di mafia, Bagheria è stata all’interno del triangolo della morte, ricordiamoci che qui ha abitato Bernardo Provenzano, tra l’altro in una casa popolare del Comune. Non era mai stato detto, l’ho rivelato io ai carabinieri qualche mese fa.

Quindi al Comune si chiudeva un occhio.

C’era protezione, protezione a tutti i livelli per Provenzano. Il Comune quando ha una casa popolare deve fare dei controlli. Quando tu ti permetti di stare tranquillo, sai che le forze dell’ordine non verranno mai a cercarti, e che il comune non verrà a chiederti nulla perché in effetti lì ci abitava il genitore di Flamia (il pentito Sergio Flamia Ndr) che ospitava Provenzano, significa che le protezioni c’erano.

Lei che Comune ha trovato? La macchina amministrativa è inquinata?

A me che ho trent’anni, la storia della mafia bagherese un po’ sfugge, ma chi mi ha preceduto la storia la conosce benissimo, sanno tutto. Se si voleva fare un controllo reale, e se la politica voleva cominciare a portare un po’ di giustizia nei nostri territori, lo poteva fare. Si sapeva anche che a Bagheria si pagava il pizzo.

Quali azioni concrete avete intrapreso al Comune?

Entro pochi mesi dall’elezione insieme ad un assessore sono andato dai carabinieri per fornire notizie acquisite sul cimitero. Il precedente sindaco era stato sfiduciato proprio per quella vicenda. Lo aveva raccontato anche Flamia: fatti gravi, ricordo, come l’aver bruciato alcune salme. Abbiamo instaurato una collaborazione con le forze dell’ordine anche per ripulire la macchina comunale da eventuali presenze ingombranti che nel passato ci sono state.

Ma come si sta organizzando il Comune?

Abbiamo rifatto il piano anticorruzione, abbiamo fissato dei paletti per quanto riguarda il cimitero comunale: abbiamo stabilito che le imprese che lavorano lì debbano avere il certificato antimafia e abbiamo registrato i loculi, insomma, abbiamo cercato di portare la legalità dentro il cimitero. Prima, ricordo, c’era l’anarchia totale, che permetteva a qualcuno di lucrare perfino sulle bare. Nell’ambito dell’amministrazione abbiamo riorganizzato la macchina, abbiamo portato a termine il licenziamento di un dirigente perché colto in flagrante per concussione. Ci siamo concentrati anche sul tema dei rifiuti. Abbiamo detto la parola fine alla gestione del consorzio Coinres (che gestisce la raccolta rifiuti nella zona a est di Palermo Ndr): qualche giorno fa sono andato alla prefettura di Palermo a consegnare dei documenti chiedendone lo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Nella retata dell’altro ieri, ricordo, è stato arrestato anche un dipendente del Coinres. Da attivisti abbiamo instaurato dei rapporto con Libero futuro e Addio Pizzo per convincere i commercianti a non pagare il pizzo. Quello che sta succedendo è un caso raro, così tanti commercianti che si ribellano. Da mesi come Comune stiamo lavorando per creare uno sportello anti-racket all’interno di un edificio confiscato. Tra pochi giorni pubblicheremo il bando.

Turchia, prosegue la stretta contro il Kurdistan (e i media)

assedio silvan-turchia-pkk-curdi

Coprifuoco, operazioni militari e un 22enne morto a Silvan, nel Kurdistan turco. La nuova maggioranza turca non perde tempo: dopo aver stretto l’area est del Paese in una morsa durante la campagna elettorale, la scelta è quella di continuare. Nella città assediata si combatte, si spara mentre proseguono i rastrellamenti anche altrove e le operazioni di guerra contro i campi del Pkk sulle montagne al confine con l’Iraq (due i morti nelle ultime ore). Il quadro è lo stesso dei giorni che hanno preceduto il voto e le notizie sono frammentate.

Qui sotto video e foto girati e postati su Twitter, tra gli altri da Ivan “Grozny” Compasso e da Silvana Battistini, che sono arrivati in città.


3 novembre 2015 | Silvan (Diyarbakir, Turchia)

3 novembre 2015 | Silvan (Diyarbakir, Turchia)

3 novembre 2015 | Silvan (Diyarbakir, Turchia)

3 novembre 2015 | Silvan (Diyarbakir, Turchia)

 

Il terrore scatenato da Ankara contro i curdi (molti osservatori mettono in guardia controil rischio di guerra civile) non è la sola stretta sulle libertà. Nel resto del Paese continua infatti la caccia agli affiliati di Fetullah Gulen, leader religioso ex alleato di Erdogan, a capo di una rete di media e organizzazioni che, da quando Gulen è fuggito negli Stati Uniti e ha smesso di essere un alleato del presidente e del suo Akp, è diventata una “rete terroristica”. Almeno 57 persone sono state arrestate, tra queste agenti di polizia e funzionari pubblici, durante una retata a sorpresa. Le accuse riguardano la presunta volontà di Gulen e dei suoi affiliati di rovesciare Erdogan con un colpo di Stato – accusa per la quale verrà processato in contumacia. La stessa rete di Gulen aveva contribuito – attraverso la sua presenza nell’apparato dello Stato – a condurre un’operazione contro quegli ufficiali kemalisti dell’esercito che in passato avevano tramato contro lo stesso Erdogan. E’ in questo contesto che arrivano i commenti dell’Organizzazione per la cooperazione e sicurezza in Europa (l’OSCE) sulle numerose irregolarità riscontrate durante le elezioni. In un comunicato l’OSCE afferma che l’aumento della violenza, in particolare nel sud-est, ha impedito lo svolgimento di una campagna elettorale regolare. L’OSCE critica anche la stretta sulla libertà dei media. Più duro il commento dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa che parla di un processo elettorale falsato. Ignacio Sanchez Amor, capo della missione degli osservatori inviati dall’OSCE, ha dichiarato: «Attacchi fisici a membri di partito, nonché i significativi problemi di sicurezza, in particolare nel sud-est» hanno inficiato la campagna elettorale. Persino a Washington si lanciano in critiche molto blande: rispondendo a una domanda sulla libertà di informazione, il portavoce della Casa Bianca John Earnest, ha detto che gli Stati Uniti avevano esortato la Turchia «a difendere i valori democratici universali». Che è un modo di dire che anche gli Usa sono preoccupati per la piega che le cose stanno prendendo.

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