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Radio Libri, parole in sintonia per amare la lettura

I libri, ovunque, a lavoro, durante il tempo libero, in viaggio. Alla scoperta di autori, luoghi e blog letterari, librerie, editori, curiosità. Insomma una full immersion nella parola scritta. Se in Italia si assiste negli ultimi anni alla flessione di lettori (4 su 10 italiani si recano in libreria) la sfida di RadioLibri è originale e storica. Sì perché si tratta della prima e unica web radio dedicata ai libri, ai lettori, agli editori e ai librai. Dietro a Parole in sintonia che figura nel logo, Radio Libri è uno spazio interattivo in cui promuovere la riflessione sul panorama editoriale, sui personaggi che popolano quel mondo e anche un’occasione di divertimento e di svago.

Nata grazie all’editore Matteo Fago Radio Libri è stata ideata da un team di professionisti della radio e naturalmente dell’editoria. Non poteva essere altrimenti.

Così incontriamo come direttore editoriale, autore e conduttore Giorgio Gizzi, con una vasta esperienza di libraio all’estero, per le librerie di Franco Maria Ricci, direttore di librerie indipendenti e di alcuni megastore della Feltrinelli a Roma. Station manager di Radio Libri è Carlo Mancini, un pioniere delle emittenti indipendenti italiane, collaboratore della Rai e poi direttore artistico e station manager dei network radiofonici Rds e Radio Capital. Nel 2012 ha ideato il master in radiofonia dell’università Suor Orsola Benincasa di Napoli, l’unico corso di studi italiano sulle professioni della radio.

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Radio Libri offre 80 rubriche settimanali, a partire dalle 6 di mattina, 24 finestre quotidiane tra cui  Libro del giorno, incontro con il personaggio, Freschi di stampa sulle novità editoriali, C’era una volta dedicato ai piccoli lettori, ma anche Viaggiare leggendo sui luoghi degli scrittori, La nobile arte del delitto, sui gialli. Radio Libri propone anche momenti di scambio e incontri per i librai, con rubriche come Il libro in festival, Città di carta, L’editore al centro. Insomma, la prima web radio è uno strumento utile anche per i librai e gli editori e allo tempo offre la possibilità ai lettori di conoscere un mondo editoriale non paludato, ma anzi, ancora più vicino agli interessi dei lettori.

Radio Libri si può ascoltare su tablet o su smartphone scaricando la app, oltre che in streaming i programmi si possono scaricare e ascoltare in podcast. 

 

A lezione di “geografia artistica” con l’Orchestra di Piazza Vittorio

La materia è “geografia artistica”, gli studenti sono quelli di una scuola di Centocelle, a Roma, e alla cattedra c’è un’orchestra intera. Si tratta dell’Orchestra di Piazza Vittorio, la formazione multietnica composta da musicisti di dieci diverse nazionalità reduce dal successo di una originale Carmen, che fino al 13 novembre girerà la Capitale per incontrare gli studenti di quattro scuole.

Un percorso – di sensibilizzazione e scambio, più che didattico – dal contenuto innovativo: una sorta di giro del mondo tra i suoni e le culture, con l’obiettivo – spiegano gli orchestrali- «di rafforzare la relazione tra “cittadini” e “stranieri”, coinvolgendo scuole e famiglie».

 

Le speciali lezioni partono dal vissuto di uno dei componenti dell’Orchestra per poi terminare con il racconto sonoro della loro terra. «Proponiamo ai ragazzi la stessa scoperta che abbiamo fatto noi quando ci siamo conosciuti», spiega uno dei musicisti. «Mai prima avremmo pensato che le nostre note avrebbero potuto accordarsi con quelle di persone provenienti dai quattro angoli del Pianeta». Ora la speranza è che le entusiasmo dei ragazzi di Centocelle e dei loro coetanei delle tappe successive consenta al progetto di proseguire anche dopo questo primo ciclo.

«Kerry? Un dodicenne! Il presidente israeliano? Ininfluente». Il portavoce di Netanyahu fa infuriare Usa e Israele

«Ecco un esempio di antisemitismo contemporaneo occidentale». «E’ il momento di augurare al Segretario Kerry dei successi mentre facciamo il conto alla rovescia dei prossimi due anni con la speranza che il prossimo capo al Dipartimento di Stato si svegli e cominci a vedere il mondo attraverso gli occhi di un uomo con una età mentale sopra i dodici anni». Ran Baratz che vive in un insediamento di coloni e ha fondato un sito conservatore, deve pensare di essere molto spiritoso. E usa i social media con disinvoltura, dispensando giudizi drastici su chiunque sia un suo avversario politico. Peccato che di mestiere faccia il portavoce del primo ministro di Israele Netanyahu e che la prima frase riportata qui sopra sia riferita a un discorso di Obama (la seconda al suo Segretario di Stato Kerry).

La nomina di Baratz, che ha scritto o detto la frase su Obama facendo riferimento alle parole del presidente Usa sull’accordo nucleare iraniano, non è andata giù alla Casa Bianca. Il presidente Usa aveva infatti detto: «So che in Iran si sono espressi ignobili concetti antisemiti, ma il governo israeliano non ci spiega come fare a risolvere la questione cruciale, ovvero come fare in modo che Teheran non si doti di una bomba atomica». Non esattamente un “moderno antisemitismo”.

«Ci aspettiamo rispetto da qualsiasi funzionario straniero, specie se si tratta di un Paese tra i nostri più vicini alleati» ha detto il portavoce di Kerry, aggiungendo che il Segretario di Stato e il premier israeliano si sono parlati e che Netanyahu ha detto che ragionerà sulla nomina al ritorno dalla visita negli Usa in questi giorni (visita importante viste le tensioni nei Territori).

Baratz, che fa il lettore di filosofia, non è nuovo a commenti simili: in passato ha postato sulla sua bacheca Facebook una foto del presidente israeliano Reuven Rivlin che viaggia in seconda classe tornando da un viaggio ufficiale. «E’ così ininmportante che non ci sono preoccupazioni per la sua sicurezza, potremmo mandarlo nel Sinai dove c’è l’ISIS e ce lo restituirebbero chiedendo di tornare in Iraq, basta che ce lo riprendiamo». Lette queste parole anche Netanyahu ha dovuto dire qualcosa: «Quei commenti sono inaccettabili e non riflettono in nessun modo il mio pensiero o quello del governo». Probabile che al suo ritorno in Israele Bibi si disfi del suo portavoce. Ciò detto, il premier di un Paese dovrebbe fare due controlli prima di nominare una figura importante come un portavoce.

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I commissari sbarcano a Roma, tra emergenza e propaganda. L’anticipazione di Left in edicola

Defenestrato Marino, Renzi si prende Roma. Dopo gli scandali di Mafia Capitale e la telenovela delle dimissioni, il Pd del premier segretario ha bisogno di recuperare consensi e credibilità in vista delle amministrative. La soluzione? Mettere la Capitale nelle mani del prefetto Francesco Paolo Tronca, uno dei protagonisti del “modello Expo”. E fare anche del Giubileo un successo mediatico, reso più facile dai nuovi fondi annunciati appena Marino è diventato ex. Da una fiera all’altra, dunque.

Nella storia di copertina di questa settimana, Left ha provato ad andare oltre la “meganarrazione” di Renzi e sodali, raccontando cosa c’è dietro la discesa dei commissari e il nuovo “dream team”: bulimia di potere e, come spiega il sociologo Marco Revelli nell’intervista a Left, ricerca di consenso per «giustificare la pratica renziana di decostruzione dell’impianto istituzionale e democratico».

 

Tutti gli uomini del Viminale
Ora che l’ex prefetto di Milano si è insediato nella Capitale, il governo avrà anche da gestire la diarchia con Franco Gabrielli, al quale toccherà coordinare da plenipotenziario il lavoro sul Giubileo. Intanto, il “dream team” può attendere (probabilmente i grandi nomi arriveranno a supporto del prefetto di Roma) e Gabrielli ha nominato i subcommissari che affiancheranno Tronca, alcuni dei quali suoi collaboratori in passato: 5 prefetti e un dirigente della Ragioneria generale dello Stato saranno gli “assessori” della Capitale fino alle elezioni. C’è l’ex capo di gabinetto di Tronca a Milano, Ugo Taucer; c’è uno dei collaboratori di Expo, Livio Panini D’Alba; ci sono Iolanda Rolli dal dipartimento Vigili del Fuoco, Clara Vaccaro che ha seguito la questione rifiuti a Roma con Pecoraro commissario all’emergenza e Giuseppe Castaldo, già commissario a Reggio Calabria. Il bilancio da far quadrare è in mano a Pasqualino Castaldi.

Una scelta tecnica e di “discrezione mediatica” – come anche quella del commissario – per evitare che in questi mesi di campagna elettorale protagonismi inattesi offuschino la popolarità del premier. La domanda aperta è se, nel loro operato, commissario e subcommissari andranno oltre l’ordinaria amministrazione adottando scelte dalla forte connotazione politica, come ad esempio, la privatizzazione dell’Ama, l’azienda dei rifiuti, o politiche sociali e sulla sicurezza più vicine alle posizioni del Viminale a guida Alfano che non a quelle dei cittadini romani che avevano votato per Marino. O – peggio ancora, temono i movimenti sociali – eccedano in sgomberi delle occupazioni e degli sfrattati e in ferree limitazioni del diritto al dissenso.

 


 

L’approfondimento continua sul numero 43 di Left in edicola dal 7 novembre

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

 

 

La kermesse vaticana
Sull’Anno santo, invece, Matteo Renzi ha annunciato un profilo sobrio che punti su luci notturne, trasporti e periferie, chiarendo che «non sarà un grande evento». Ma intanto, dopo mesi di latitanza, ha preso in mano la situazione appena confermata l’uscita di scena di Marino, al quale finora era stato soltanto concesso di utilizzare 50 milioni derogando al patto di stabilità. Ora di milioni stanziati dall’Esecutivo se ne annunciano 300 se non di più. Come racconta il focus sul bilancio capitolino nelle pagine di Left in edicola, «Tronca e Gabrielli godranno invece dei benefici dell’urgenza, che si sarebbe potuta evitare se negli ultimi due anni ci fosse stata più pianificazione, e quindi più rapporto con palazzo Chigi».

Basta vedere in quale provvedimento sono inserite le misure e i fondi stanziati per Roma, per capire quanto il premier punti sul fattore “emergenza”. Non ci sarà, infatti, un decreto ad hoc per la Capitale, ma – ha spiegato il sottosegretario Claudio De Vincenti – tra una settimana arriverà un decreto su «Bagnoli, Terra dei Fuochi, il futuro di Expo e il rafforzamento delle funzioni di Gabrielli e del prefetto Tronca». L’obiettivo, stavolta, è trasformare il “modello Expo” in “modello Giubileo” per ottenere un duplice vantaggio: il recupero di popolarità del premier e il recupero di voti per il candidato sindaco espresso dal suo partito.

Romania, un incendio che ha scosso una generazione

Protesters hold banners reading "Corruption kills" and "The Church washes brains and launders public money" during a rally joined by thirty-five thousand people, according to local media quoting the Romanian Gendarmerie, calling for early elections, in Bucharest, Romania, Wednesday, Nov. 4, 2015. Prime Minister Victor Ponta announced the resignation of his government Wednesday following huge protests the day before in the wake of a nightclub fire that killed more than 30 people. (AP Photo/Vadim Ghirda)

Cosa sta succedendo in Romania? La notte del 30 ottobre il Colectiv club, un locale della Capitale, si incendia, 32 ragazzi muoiono, altre 200 rimangono gravemente ferite; pochi giorno dopo (il primo novembre) dai 20mila ai 60mila giovani iniziano a manifestare spontaneamente per le strade di tutto il Paese. Quello seguente il premier Victor Ponta si dimette portandosi appresso tutto il governo socialdemocratico.

Questi sono i fatti, fra i quali non è di facilità immediata leggere le connessione. La parola chiave per ristabilirla è, purtroppo, corruzione.

Basti dire che proprio l’ormai ex primo ministro, dallo scorso 17 settembre è incriminato dal Dipartimento nazionale anticorruzione (Dna) per 17 reati, fra cui: corruzione, falsificazione di documenti, complicità in evasione fiscale, riciclaggio di denaro sporco e immancabilmente conflitto di interessi per aver messo a capo del ministero dei Trasporti Dan Sova, un uomo col cui studio legale Ponta intratteneva dubbi rapporti commerciali. Anche l’ex senatore è ora sotto accusa per i medesimi capi d’imputazione. Già a giugno, quando scoppiò l’indagine, il presidente romeno Klaus Iohannis (amato sindaco per tre mandati di Sibiu ed eletto nel 2014 a causa dell’ennesimo scandalo che aveva investito sempre Ponta, candidatosi alle presidenziali seppure già a capo dell’Esecutivo), ne aveva chiesto le immediate dimissioni. Allora, il Parlamento votò in suo favore, con maggioranza parlamentare, l’immunità. Lo stesso Parlamento respinse a fine settembre la mozione di sfiducia presentata dal Partito nazionale liberale (Pnl) mentre già allora, nel centro della capitale romena, migliaia di persone protestavano contro il governo Ponta davanti al Parlamento.
Dimissioni respinte naturalmente dal diretto interessato, che adesso pare invece non aver più potuto evitare. L’inchiesta choc ha infatti aumentato l’instabilità del Paese, dopo che quest’anno una serie di arresti di alto profilo ha attraversato la società.

La morte di 32 persone ha ora fatto deflagrare una generazione che si può dire essere anestetizzata da anni, e che sembra in questi giorni essersi risvegliata tutta insieme: l’incendio è stata la crepa decisiva che ha portato alla frantumazione di una generazione ingessata. Una sorta di autunnale e civilissima Primavera romena che non ha più intenzione di accettare compromesso con una classe dirigente corrotta e mai veramente sbocciata nel dopo-Ceaușescu, ma che tuttavia continuava a perpetuarsi. «Serviva una tragedia per arrivare alla fine del governo di Victor Ponta», ha infatti duramente commentato Iohannis, accompagnando le dimissioni del premier.

Decine di migliaia di persone – alle quali molte altre stanno continuando ad aggiungersi – stanno continuando a manifestare, sempre pacificamente, anche in queste ore a Bucarest, Brasov, Cluj, Timișoara, Costanza, Iasi e Ploiesti. E hanno promesso che le dimostrazioni di dissenso continueranno anche nei prossimi giorni. Sono giovani, per la gran parte, e sembrano anche visivamente un fiume in pena. Il sentimento generale «è di rabbia», raccontano: «Per essere stati presi in giro per quasi 30 anni». Più o meno l’età di molti di loro.

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In effetti, la Romania è un Paese che da qui conosciamo poco, ma che in questi giorni sembra intenzionato a farsi sentire anche sul campo delle rivendicazioni civili. Politicamente, è una pentola a pressione. Un largo strato, spesso insofferente quanto indolente, distaccato e annoiato, stava aspettando solo la scintilla per potersi riattivare, un polo magnetico da seguire che finora è mancato. Così come è mancato, nella generazione politica che li ha preceduti e che li governa la capacità di formare un vero e proprio dialogo politico. «Dopo la rivoluzione si sapeva così poco di come funziona la politica democratica, che c’è stata una gran confusione nella quale nessuno è riuscito a ragionare a livello di politiche sociali o di qualunque tipo», spiega Cristian Stanescu, giovane programmatore di Bucarest che anche stasera sarà in piazza. «Si votavano le promesse e i programmi politici, senza necessariamente definirli di destra o sinistra. Anche perché considera che la destra non è nemmeno lontanamente paragonabile alle destre europee. Niente liberismo o razzismo nazionalista, o simile alla vostra Lega: non abbiamo immigrazione o ricchezza da generarli. La definirei più una sinistra meno di sinistra».

È la voce della gioventù romena – colta, istruita, anche se priva di un’educazione politica vera e propria, di sinistra per una strana crescita spontanea che ha saltato una generazione, figlia di una borghesia a sua volta intellettuale e post comunista – che sembra essersi svegliata di colpo. L’incendio nella discoteca ha fatto divampare l’indignazione dei romeni, che si è trasformata in un vero e proprio tumulto.

Ora, oltre a chiedere la testa di Ponta, vorrebbero le dimissioni non solo del sindaco del quarto distretto di Bucarest (dove si è svolta la tragedia della discoteca) Cristian Piedone (anche queste giunte in giornata), ma anche del vicepremier Gabriel Oprea, anch’egli al centro di numerosi scandali. L’ultimo dei quali due settimane fa: Oprea, è finito nel mirino dell’opinione pubblica quando uno degli agenti di polizia che seguiva il suo convoglio, un ragazzo di 28 anni, è deceduto a seguito di un incidente con la moto. Oprea non si sarebbe nemmeno fermato a soccorrerlo. E il tribunale di Bucarest ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo. Anche allora la gente era scesa in piazza e il Presidente della Repubblica aveva tuonato che premier e vicepremier quantomeno prendessero posizione.  Tra le altre accuse, rischia anche l’incriminazione per abuso d’ufficio: alla scorta avrebbero diritto presidente, premier e i presidenti di Camera e Senato.

Oggi, a Bucarest, i dimostranti hanno organizzato un corteo che è transitato dinanzi alle sedi di governo, Parlamento e del quarto Municipio. Vorrebbero un governo tecnico, «senza politicanti», quello che non c’è mai stato dopo l’89: la vecchia Nomenklatura – rigettata dalla sollevazione popolare che con l’ondata della caduta del muro di Berlino aveva fatto cadere la dittatura di Nicolae Ceaușescu – si era immediatamente rimpossessata delle redini del governo, in un ponte con la Securitate, la polizia segreta, ufficialmente abolita subito dopo la caduta del Conducător (“il Condottiero”). Inciucio del quale il Paese non si è tutt’ora liberato: molti degli membri del Corpo sarebbero ora uomini d’affari e personaggi influenti della politica romena.

 

Ma il vento sembra cambiare. «Ho guardato con attenzione le manifestazioni di piazza. Sono molto contento del fatto che siano state manifestazioni senza violenza, senza esagerazioni e ho un messaggio molto importante per tutti coloro che sono stati le ultime due notti in strada: vi ho visti, vi ho sentiti e terrò conto delle vostre richieste», ha detto il Capo dello Stato. Stando a quanto previsto dalla Costituzione romena, spetterà a lui il compito di nominare un nuovo premier ad interim – il nome prescelto è Sorin Campeanu, ministro dell’Istruzione nell’ultimo governo di Victor Ponta – che garantirà l’attività del governo sino alla nomina di un nuovo esecutivo. «Le consultazioni con i partiti si svolgeranno tra oggi e domani. Voglio che questa settimana venga completato il primo giro di colloqui politici», ha assicurato Iohannis, che ha poi precisato che a seguire, «consulterò anche la società civile e la strada». Una delegazione in rappresentanza della società civile sarà infatti invitata alle consultazioni che dovrebbero portare alla scelta di un nuovo premier, scongiurando fra l’altro le ipotesi di nuove elezioni.

Quello che è certo, è che il nuovo governo avrà un nuovo fiato sul collo.

 

 

Parte il processo Mafia Capitale. Cosa c’è da sapere per seguirlo

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L’aula, nel tribunale di Roma, a piazzale Clodio, è gremita. Già sono tanti gli imputati, 46, poi ci sono gli avvocati, i giornalisti, e i praticanti avvocati e gli studenti di giurisprudenza venuti a vedere il maxi processo romano, Mafia Capitale, perché almeno qualcuno possa impararne sicuramente una qualche lezione.

Nel giorno dell’avvio (il percorso sarà lungo), parlano (entrambi per bocca degli avvocati) Massimo Carminati e Buzzi. Quello di Carminati, Giosuè Naso, in particolare ha tenuto a specificare che per loro questo sarebbe «un processetto dopato da una campagna mediatica». Ci ha poi comunicato che Carminati sarebbe indispettito, tanto per l’uso della parola «mafia», quanto per l’accostamento con la droga che – sia mai – «gli fa veramente schifo».

La settimana prossima il processo si sposterà dentro Rebibbia, carcere romano, nell’aula bunker, meglio attrezzata. E si potrà seguirlo in video, seppur in differita.

Per seguire meglio gli sviluppi vi lasciamo qui un sintetico riassunto della situazione. Che non è proprio «un processetto», converrete, e per questo quello che segue è proprio solo poco più che uno schema.

L’accusa, intanto, è composta dai Pm Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli, guidati da Giuseppe Pignatone, procuratore capo. La loro inchiesta spazia dalle opere pubbliche in città alla gestione dei migranti, e quindi al mondo delle cooperative. Lo spettro è vasto, ed è ben reso dalla varietà degli indagati, molti dei quali sono già arrestati, i più ai domiciliari alcuni (come Buzzi e Carminati) in carcere, costretti a seguire il processo in videoconferenza. Si va da Massimo Carminati, l’ex terrorista dei Nar, quello che per i Pm è il vertice dell’organizzazione, Salvatore Buzzi, capo della 29giugno, e Luca Odevaine, vicecapo di gabinetto con Veltroni e poi membro del tavolo nazionale sui migranti, fino a Fiscon, ex amministratore delegato dell’Ama, a consiglieri e assessori comunali (come Coratti, Patané, del Pd, o Tredicine e Gramazio per Forza Italia) e a una serie di personaggi minori, le cui facce non avreste riconosciuto al debutto in tribunale (e non solo perché smagrite): militanti dei partiti che lavoravano con Buzzi o impegnati comunali.

Buzzi e Carminati sono accusati da Pignatone di essere a capo di «un’associazione a delinquere di stampo mafioso». Ecco perché Carminati si dice offeso. Il procuratore capo di Roma parla di un «ramificato sistema corruttivo» per l’assegnazione di appalti e finanziamenti pubblici dal comune di Roma e dalle aziende municipalizzate. Nelle aree verdi romane regna l’incuria: questo processo è dunque una possibile risposta.

E se Luca Odevaine dice «a Roma non c’è un sistema mafioso che gestisce la città. Io non c’entro nulla con Carminati, affronto serenamente questo processo dopo un percorso che mi ha portato a collaborare con i magistrati», è bene ricordare che quanto invece sostenuto da Pignatone: «Nella capitale non c’è un’unica organizzazione mafiosa a controllare la città, ma ce ne sono diverse. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato Mafia capitale, romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso».

Per fare luce sui fatti, molte saranno le testimonianze interessanti, che arriveranno nelle prossime settimane. Tra queste quella di due ex sindaci, Ignazio Marino e Gianni Alemanno. Parleranno anche Gianni Letta e l’attuale ministro, già capo delle cooperative, Giuliano Poletti.

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NoTav, dal banco degli imputati a quello dell’accusa. In Val Susa arriva il Tribunale dei Popoli

«Le popolazioni devono essere consultate prima di interventi statali o privati che modificano l’ambiente in cui vivono, e che possono incidere sulla loro salute e sul loro modo di vivere. Non farlo è una grave violazione del diritto degli esseri umani a una vita degna», scrive il giornalista e scrittore uruguaiano Raul Zibechi in uno dei tanti messaggi di sostegno al Tribunale Permanente dei Popoli dedicata a Diritti fondamentali, partecipazione delle comunità locali e grandi opere. Per rivendicare questo diritto, in Val Susa, dal 5 all’8 novembre si terrà la sessione conclusiva del Tpp su grandi opere e diritti fondamentali dei cittadini e delle comunità locali (per leggere il programma dettagliato potete cliccare qui).

L’accusa

Dal Tav al Mose, dal Muos a Notre Dame des Landes. Sul banco degli imputati del Tribunale permanente dei popoli (Tpp) ci sono le grandi opere d’Italia e d’Europa, «espressione di una politica che nega diritti e cancella spazi di democrazia», dicono i promotori: «I cittadini europei sono vittime delle politiche neocoloniali dei loro governi e delle grandi lobby economiche e finanziarie». Erede del Tribunale Russell – l’organismo indipendente e non ufficiale fondato da Bertrand Russell e Jean-Paul Sartre nel novembre 1966 per indagare sui crimini commessi dall’esercito statunitense nella guerra del Vietnam – il Tpp indaga sulla violazione dei diritti fondamentali di una intera comunità, costretta a difendersi da governi e grandi lobby.

volantino Tpp in ValSusa

 

Le tappe del percorso

Il cammino ha inizio l’8 aprile del 2014, quando il Controsservatorio Valsusa presenta un esposto (qui il testo dell’esposto) al Tpp denunciando la violazione di diritti fondamentali dei cittadini e della comunità della Valsusa in relazione al progetto della linea Tav Torino-Lione. 
L’esposto porta anche le firme del presidente e del vicepresidente della Comunità Montana Valle Susa e Val Sangone e di numerosi sindaci e amministratori locali. E il sostegno del movimento NoTav, migliaia di cittadini si esprimono favorevolmente alla resistenza che da 25 anni coinvolge la Valsusa. Cinque mesi dopo, il 20 settembre 2014, il Tpp accoglie l’esposto e, di più, apre una specifica sessione dedicata ai Diritti fondamentali, partecipazione delle comunità locali e grandi opere (qui la risposta del Tpp). 
E sotto esame non c’è solo la Tav, ma anche altre realtà italiane e non solo: Mose, Sottoattraversamento Av di Firenza, Muos, Notre Dame des Landes, le testimonianze sudamericane di Ernesto Cardenal dal Nicaragua, di Mons. Raul Vera e Gustavo Esteva dal Messico, Flavio Valente dal Brasile
. Altri sei mesi e, il 14 Marzo 2015, a Torino si inaugura la sessione del Tpp. In una gremita Aula magna, l’Università ospita il movimento NoTav che per la prima volta salta il banco degli imputati e passa a quello dell’accusa. In questi giorni, dal 5 all’8 novembre è in corso la sessione conclusiva. La giuria (qui la composizione della giuria) è composta da giudici provenienti da provenienti da Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Cile e Colombia. La “sentenza” verrà pronunciata domenica 8 e, data l’autorevolezza e il peso del Tpp (qui alcune info sul Tribunale dei popoli ), stavolta le ragioni dei NoTav non potranno rimanere inascoltate.

È possibile seguire la diretta, con gli aggiornamenti e gli atti prodotti sul sito Controsservatoriovalsusa.org

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Bush senior contro Cheney e Rumsfeld: «Arroganti e rabbiosi, hanno danneggiato mio figlio»

Nella sua biografia Bush il vecchio spara a zero contro l’amministrazione di suo figlio e i neocon che ne hanno guidato la risposta agli attentati dell’11 settembre 2001. Il libro, scritto di Jon Meacham, si basa su diari audio che George H. W. Bush ha registrato durante la sua permanenza alla Casa Bianca (1989-1993) e su interviste registrate negli anni successivi – nelle quali, appunto, Bush padre parla dell’esperienza presidenziale di suo figlio.

Parlando di Cheney, suo Segretario alla Difesa e vice del figlio, l’ex presidente dice: «No so, ha adottato una linea molto dura ed è diventato una figura diversa da quella del Dick Cheney che ho conosciuto e lavorato». Sia Rumsfeld che Cheney vengono definiti «arroganti» e «troppo duri» (“iron ass”, culo di ferro, dice Bush).

Bush critica anche suo figlio – pur difendendone l’operato nel complesso – per aver dato troppo spazio e potere a Cheney «Che si era costruito un Dipartimento di Stato parallelo» e per il discorso sull’asse del male «che non ha portato nulla di buono». Il riferimento è all’idea che oltre al suo team anche pezzi della famiglia Cheney (la moglie Lynne e la figlia Liz) ne influenzassero le scelte politiche.

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Altri complimenti per Cheney e Rumsfeld vengono quando Bush padre parla di arroganza e incapacità di pensare a politiche in Medio Oriente che non fossero portare la guerra. L’idea di Bush senior è che l’ala che guidava la politica militare ed estera degli Stati Uniti in quegli anni abbia seguito senza riflettere le idee dei falchi del Pentagono.

Quanto a Rumsfeld, Bush lo definisce arrogante e spiega: «Non mi piace quel che ha fatto e credo che abbia danneggiato il presidente (…) c’è poca umiltà nel suo modo di fare e non ascolta quel che gli interlocutori dicono».

Che il presidente sia stato danneggiato dai falchi neocon che hanno preso in mano la gestione degli affari correnti dopo l’11 settembre è un dato assodato. Difficile difendere un presidente tra i più deboli che si siano visti nella storia Usa. Il padre non lo difende troppo, ma spiega: «E’ mio figlio, è ovvio che stessi con lui».

Quanto a Cheney, la sua risposta non è tardata: parlando con FoxNews ha detto di essere lieto di essere stato definito iron ass, «lo prendo come un complimento – aggiungendo che – in famiglia spesso scherziamo sull’influenza che avevano mia moglie e mia figlia. E’ il punto di vista di Bush, ma nessuno ha lavorato per indurire le mie scelte, ci sono arrivato per conto mio». E’ pure vero che Liz ha lavorato al Dipartimento di Stato negli anni di Bush e che assieme a lei, Cheney ha scritto Exceptional, why the world needs a powerful America, un libro in cui si spiega che Obama ha ridimensionato il potere americano.

 

 

Adele Cambria, la giornalista ribelle

Un volume che racconta oltre cinquant’anni di giornalismo attraverso testate storiche come Il Giorno del mitico Gaetano Baldacci, La Stampa, Paese Sera, fino ad arrivare a l’Unità di Concita De Gregorio e al licenziamento successivo. Una pausa che le è servita per scrivere il libro, otto mesi per la scrittura, la verifica d’archivio e poi il lavoro di lima , grazie a Lila Greco. Da Grace Kelly a Sophia Loren, da Roma a Milano, dall’atmosfera della dolce vita a Lotta continua, dalla rivolta di Reggio al femminismo, Adele c’era sempre. «La Capria, che ha letto il libro, mi ha detto “sei la fatina prezzemolina, ci sei stata dappertutto”», racconta ridendo. E allora cominciamo dal giornalismo, la linfa vitale che muove gli oltre cinquant’anni trascorsi da quel 1953, quando questa donna minuta giunse a Roma dalla Calabria. Una terra che oggi, afferma Adele appena tornata dalla presentazione del libro a Reggio, la colpisce per la bellezza del paesaggio e per la depressione di chi vive ma che ai tempi della sua giovinezza era il Sud atavico e crudele con le donne. Nel libro si racconta dei lenzuoli macchiati di sangue esposti alla finestra dopo la prima notte di nozze e della vergogna della sposa o, per quanto la riguarda, delle lezioni all’università in compagnia della madre.

Laureata in Giurisprudenza, Adele non riesce a entrare in magistratura e si accontenta di un concorso da impiegata pur di andar via dalla Calabria. Ma su un punto era certa: voleva fare la giornalista. E non la muoveva un’idea del giornalismo utopica, magari per cambiare un po’ il mondo. «Quella è di voi giovani, dei movimenti. La mia utopia era di essere libera. L’occhio della gente era scomparso, che volevi di più? A Roma avevo una stanzetta, uno spazio totalmente mio. E poi dopo, nel 1956, andare in quella fucina di idee che era Il Giorno, un luogo di avventure, di follie. Non avevi bisogno di altri ideali». A Roma la giovanissima Adele si muove da sola, senza paura. “Al limite mi poteva capitare che in via Fratina in pieno giorno mi offrissero cinque sacchi ( cinquemila lire, ndr) – e io non sapevo cosa voleva dire – o che mi chiamassero “a fata transistor!”. Quando sono arrivata a Roma – continua – mi intrufolavo dappertutto, soprattutto gallerie d’arte, conferenze letterarie”.

Comincia a collaborare con un’agenzia di stampa che faceva capo a Scelba ma scrive e soprattutto incontra grandi personaggi di cui allora non sapeva assolutamente nulla. «Cocteau insieme con Jean Marais, ma io non sapevo che era omosessuale, non sapevo nemmeno cosa fosse allora l’omosessualità! E poi nelle gallerie vedevo quella signora con un bellissimo scialle russo, era Sibilla Aleramo». Nel libro Nove dimissioni e mezzo, scritto subito dopo il licenziamento da L’Unità, Adele ripercorre attraverso gli incontri le tappe della sua carriera: Milano e Il Giorno dove conosce Bernardo Valli, colui che sarà suo marito e da cui avrà due figli, «un uomo gradevole, che veniva dall’esperienza della Legione straniera e puoi immaginare s non mi faceva effetto con quest’aura – aveva fatto l’Indocina – per me che arrivavo da Raggio». Tanti i personaggi incontrati e gli avvenimenti seguiti, Liz Taylor e Brigitte Bardot, Federico Fellini, il Festival dei due mondi e un certo ambiente culturale, da Goffredo Parise per cui perse un po’la testa a Elsa Morante, fino a Pasolini. E anche gli anni difficili, lei che aveva concesso la sua firma come direttore responsabile al giornale Lotta continua proprio ai tempi dell’assassinio del commissario Calabresi e che per questo si ritrova nei guai giudiziari con grande scandalo della famiglia.

E poi il caso Moro, quello d’Urso e molti altro ancora della storia recente d’Italia. Un libro fresco, scritto com’è sul filo dei ricordi sempre legati all’oggi, il ritratto stesso dell’autrice, si potrebbe dire. «Io sono una di quelle “intercettatemi tutta”, non me ne frega assolutamente niente, sono quella che sono e non vedo perché lo devo nascondere». In questa mole di storie e personaggi emerge anche una certa immagine dell’essere giornalista. Quale differenza c’è tra quei tempi gloriosi quando una frotta di inviati si recava nel principato di Monaco per seguire il parto di Grace Kelly e adesso? «I giornali, escluso Il Giorno, erano meno ricchi di oggi. Ora non ce la fai a leggere tutta Repubblica o il Corriere, il problema, semmai, è quello della dipendenza del già noto, l’articolo di Scalfari, quello di Merlo… so già quello che dicono; c’è un senso di sazietà. Per me oggi l’unica possibilità di sopravvivenza dei giornali è la bella scrittura, la narrazione. E poi bisogna andare sul posto, parlare con le persone, vedere. Lo scrittore si dovrebbe trasferire sulla pagina, facendo di se stesso anche il cronista , a partire da quelli che considero al vertice della professione come Claudio Magris o Paolo Rumiz. Perché sei un testimone per chi non può essere lì. La mia sfida poi è di scrivere in diretta, come ho fatto anche nel romanzo Storia d’amore e schiavitù; d’altra parte la storia del licenziamento è stata la chiave per iniziare questo libro».

E la politica incontrata da Adele in tutti questi anni? Molto critica nei confronti di una certa sinistra estrema e di Lotta continua, «mi arrabbiai con quel tipo che venne in Calabria a dire ai figli dei braccianti di bruciare i libri, ma come? E anche Sofri, che pure aveva fatto la Normale di Pisa, mi rinfaccia talvolta “le cambiali che ho firmato per colpa tua che volevi i libri in redazione». Ma era un vezzo il suo, così come quello di dire “pensare da soli non è pensiero”. Ho letto i Manoscritti di Marx del ’44 e là c’è scritto bello chiaro che il comunismo primitivo è quello che vuole collettivizzare sia le donne che il talento». Ma anche con Togliatti aveva ingaggiato una particolare disputa, visto che sulla rivista Che fare di Francesco Leonetti aveva risposto punto per punto al leader comunista. «Quando lui sosteneva che non era la Chiesa cattolica la causa dell’arretratezza delle donne io rispondevo: e che cos’è allora? Il confessore?. L’ho scritto nel ’72». Ultima delusione , Veltroni: «Ero affezionata al sindaco della cultura, della solidarietà. Non penso che sia in malafede ma non ha saputo tenere insieme le due cose e poi è stato martoriato dalla rivalità con i suoi, come D’Alema. Ma quando ha toccato il Pincio, davvero mi ha deluso. I palazzinari sono la divinità della sinistra in Italia».

Messico, la Corte Suprema apre alla legalizzazione della marijuana

Una sentenza della Corte Suprema del Messico ha  aperto alla legalizzazione della marijuana per uso ricreativo. Un gruppo di pressione in favore della legalizzazione aveva richiesto alla Corte di poter coltivare piante ed ha ottenuto di poterlo fare. Ma senza vendere l’erba da loro cresciuta.  Quattro giudici contro uno hanno votato in favore della richiesta, sentenziando così che proibire di coltivare la marijuana per uso personale è anti-costituzionale.

I gruppi a favore della legalizzazione festeggiano e sostengono che la decisione del massimo tribunale messicano è un precedente che porterà a un cambio della legislazione (che al momento prevede la modica quantità). Uno dei giudici ha che ha votato a favore della sentenza ha spiegato che spera che dopo la sentenza, si valuti di cambiare, ma con grande attenzione. Il presidente Enrique Pena Nieto è ferocemente contrario ad allentare le leggi sulle droghe, mentre sia nel Paese che dagli Stati Uniti arrivano pressione per un cambiamento che tolga l’enorme mercato dell’erba dalle mani dei narcos.


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In Messico ogni anno muoiono migliaia di persone per scontri tra narcos legati al traffico e il potere dei cartelli è tale che in alcuni Stati l’apparato è ampiamente infiltrato e corrotto. La legalizzazione in Colorado e Oregon ha contribuito a cambiare il dibattito nazionale e un deputato, Fernando Belauzaran del PRD, i socialdemocratici oggi all’opposizione, ha depositato un progetto di legge per la legalizzazione.