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46 anni fa moriva Jack Kerouac. L’autore di On the Road nelle foto scattate da Allen Ginsberg

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Nella sua camera, nella febbricitante bianca luce artificiale, nella camera cosparsa di carta e libri, scrive alla sua scrivania, scrive a Peter e a Penn, e la pioggia picchietta sul vetro della finestra, la pioggia imperla il vetro della sua finestra e rotola via dolcemente come lacrime…

Jack Kerouac, La città e la metropoli

 

Jack Kerouac nasce nel 1922 in Massachusetts da una famiglia franco canadese di origine bretone. È molto precoce, tanto che a soli 11 anni scrive il suo primo racconto (“The cop on the beat”). Inoltre fin da bambino è solito tenere un diario e scrivere articoli immaginari su degli argomenti che difficilmente poteva conoscere, ma che stimolavano la sua creatività, come le corse di cavalli, i campionati di baseball e football americano. Per Jack la scrittura è un modo naturale di esprimersi,  qualcosa che fin dai primi anni dell’infanzia fa parte del suo modo di approcciarsi al mondo.

 

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Al liceo riesce a distinguersi nel campo dello sport tanto da vincere una borsa di studio per la Columbia University di New York. La partenza è ottima, ma presto Kerouac abbandona gli studi. Si considera uno spirito libero, troppo anarchico per trovarsi a proprio agio negli ambienti accademici e soprattutto ha un’inesauribile voglia di scoprire il mondo.

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Inizialmente si mantiene con una serie di lavori manuali: fa il muratore, l’apprendista metallurgico e nel 1942 decide di partire e arruolarsi in marina. Il mare lo affascina ma presto viene congedato per problemi psicologici e quindi per continuare a navigare è costretto a imbarcarsi su un cargo della marina mercantile, come aveva fatto circa 50 anni prima Joseph Conrad, uno degli scrittori a cui Jack si sentiva più affine. L’avventura in marina però anche questa volta finisce male, Kerouac si trova coinvolto in un omicidio e finisce in prigione per favoreggiamento.

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Jack Kerouac, William Burroughs e Allen Ginsberg fanno colazione insieme

Riconquistata la libertà, ricomincia a vagabondare per il mondo e inizia a frequentare quelli che saranno i suoi compagni di viaggio e che con lui scriveranno il manifesto della Beat generation: William Borroughs, Allen Ginsberg, Lucien Carr.

 

La Beat Generation è un gruppo di bambini all’angolo della strada che parlano della fine del mondo.

Jack Kerouac

 

Nel 1945 Kerouac inizia a scrivere il suo primo romanzo La città e la metropoli (poi pubblicato nel 1950) e un anno dopo incontra Neal Cassady che presto diventerà non solo il suo più grande amico, ma anche il personaggio di molti suoi romanzi.

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Jack Kerouac, Peter Orlovsky, and William Burroughs on the beach in Tangier, 1957
Jack Kerouac, Peter Orlovsky, e William Burroughs sulla spiaggia a Tangier, nel 1957

Nel 1947 affronta la prima traverata degli Stati Uniti, il suo viaggio, in autobus e in autostop, la sua personale conquista del West. Nel 1951 sulla base di questa esperienza scriverà su un rotolo di carta da telescrivente il suo capolavoro On the Road.

 

Oltre le strade sfavillanti c’era il buio, e oltre il buio il West. Dovevo andare.

Jack Kerouac, On the Road 

 

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Durante il suo vagabondare si avvicina al buddhismo, la cui filosofia gli ispirerà I barboni del Dharma e diventerà una costante nella sua produzione letteraria anche se sempre reinterpretata in maniera assolutamente personale e non dogmatica.

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Kerouac nelle sue opere comincia a esaltare lo stile di vita semplice del vagabondo, la chiama “la rivoluzione dello zaino” e lo porta a esaltare uno stile di vita lontano dal materialismo sfavillante della New York dove aveva passato i primi anni della sua giovinezza.

Jack Kerouac Reading Beatnik Poetry in Lower East Side Loft, February 15, 1959 © Estate of Fred W. McDarrah, courtesy Steven Kasher Gallery, New York
Jack Kerouac durante un reading di poesie in un loft nel Lower East Side a New York 1959 © Estate of Fred W. McDarrah, courtesy Steven Kasher Gallery

Nel 1956, Elvis Presley irrompe nella scena musicale con il suo rock n’roll e l’America si accorge per la prima volta dell’esistenza della Beat generation. Finalmente nel 1957 dopo molti rifiuti e porte sbattute in faccia dagli editori viene dato alle stampe On The Road. Che presto diventerà un best-seller e una lettura “obbligata” per migliaia di ragazzi nel mondo.
Kerouac muore il 21 ottobre 1969, a soli 47 anni, per alcolismo. Durante la sua vita scrisse circa una dozzina di romanzi.

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«Hitler non voleva sterminare gli ebrei». Perché Netanyahu riscrive la storia

Oggi il premier israeliano Benjamin Netanyahu compie 66 anni. Un po’ troppo giovane per pensare che sia completamente rimbambito. Le parole pronunciate nel suo discorso al World Zionist Congress, quindi, sono figlie di un calcolo politico. Nel suo discorso Netanyahu ha descritto un incontro tra il Gran Mufti di Gerusalemme, Amin al-Husseini e Adolf Hitler nel novembre 1941 sostenendo che: «Hitler non voleva sterminare gli ebrei, voleva semplicemente espellerli dalla Germania». Poi, a suo dire, intervenne il Mufti e lo convinse: «Se li espellete, verranno tutti qui [in Palestina].

Secondo Netanyahu, Hitler chiese: «Che cosa devo farne» e il mufti rispose: «bruciarli». Secondo il premier di Israele, insomma, l’Olocausto è un’idea del Gran Mufti di Gerusalemme. Teorie simili, come anche quelle che negano che lo sterminio degli ebrei sia avvenuto, compaiono qua e la su mediocri e faziosi libri di storia.  E come spesso gli accade, Bibi, usa toni eccessivi, le spara grosse e utilizza le tensioni con i palestinesi per alimentare una deriva pericolosa in atto nella società israeliana. Associare l’Olocausto ai palestinesi è un modo come un altro per foraggiare gli istinti peggiori del suo elettorato e corteggiarne la parte più di destra, che di dialogo con i vicini di casa non vuole sentire parlare. Stavolta però, Netanyahu – esagera. Il Gran Mufti non era un nemico del leader nazista, anzi. Ma distorcere la storia è un altro conto.


 

Leggi anche: Capire l’ondata di violenza israelo-palestinese

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Storici e politici israeliani hanno reagito con veemenza accusandolo di essere in sintonia di fatto con in negazionisti: si ridimensiona il crimine di Hitler e della Germania nazista, si alimentano teorie improbabili e, quindi, se nella storiografia vale tutto, hanno diritto di cittadinanza anche le tesi di chi dice che nei forni dei campi non è successo nulla. Come ha detto Saeb Erekat, capo della delegazione che negoziò gli accordi di Oslo, «E’ un giorno triste nella storia quello in cui il capo del governo israeliano mostra di odiare tanto il suo vicino di casa, da essere disposto ad assolvere il criminale di guerra più famoso della storia».

Il capo dell’opposizione israeliana Isaac Herzog ha denunciato le parole di Bibi: «Si tratta di una distorsione storica pericolosa, esigo che Netanyahu la corregga immediatamente in quanto ridimensiona l’Olocausto, nazismo e il ruolo di Hitler nel terribile disastro del nostro popolo», ha scritto sulla sua pagina Facebook.

La crisi israelo-palestinese è seria, lunga, tragica e in un vicolo cieco. Enormi responsabilità ha proprio Netanyahu – e certo, le autorità palestinesi, che pure sono innegabilmente la parte debole della partita, indebolite anche e proprio da un atteggiamento di Israele che rafforza le frange più estreme del campo avverso. Netanyahu che sembra surfare sulle crisi con l’unico obbiettivo di conquistare consenso politico, rimanere in sella un altro giro. Non è così che si comporta uno statista che guarda al futuro del suo Paese. E i commenti sull’Olocausto sono solo una battuta da politico cinico.

PS Le parole di Netanyahu hanno scatenato l’umorismo degli israeliani in rete, da meme a tweet sarcastici. Eccone qualche esempio: 

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“Ora sappiamo chi ha fatto sciogliere i Beatles (il Mufti)”

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“Sapete com’è: uno adora gli ebrei, poi incontra il Mufti e….Shoah”


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Capire l’ondata di violenza israelo-palestinese

epa04985367 Palestinian protesters during clashes with Israeli soldiers in the West Bank city of Tulkarem, 20 October 2015. UN Secretary General Ban Ki-moon will urge calm during a visit on 20 October 2015 to Israel and the West Bank as he seeks to end more than two weeks of the worst street violence in years. EPA/ALAA BADARNEH

Nuova giornata di tensioni in Israele e nei Territori, episodi di violenza, nuovi scontri (un morto a Gaza), aggressioni a colpi di coltello contro israeliani con diversi feriti e almeno tre aggressori uccisi dalle forze di sicurezza israeliane. Il Segretario generale dell’Oni, Ban Ki-moon ha effettuato una visita inattesa nella regione e chiesto alle parti di placare la violenza. Pubblichiamo ampi stralci di un’analisi-commento di Mattia Toaldo comparsa sul sito di @ecfr con il titolo di Understanding Israeli-Palestinian violence
epa04985449 Israeli President Reuven Rivlin (R) holds a joint press conference with UN Secretary General Ban Ki-moon (L), at the president's Residence in Jerusalem, Israel, 20 October 2015. Ki-Moon will later meet with Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu and the Palestinian President Mahmoud Abbas in Ramallah, in an attempt to end the wave of violence between Israelis and Palestinians. EPA/ATEF SAFADI

(Il presidente di Israele Reuven Rivlin e Ban Ki-moon)

E ‘difficile immaginare quando l’attuale ondata di violenza e di rivolta in Israele e Palestina diminuirà. Ma è importante capire come la violenza sta accadendo e che piega stia prendendo. Se pure ciò che osserviamo oggi è una frazione di quanto visto con la guerra nel 2014 a Gaza o in Siria e Iraq, ci sono alcuni elementi che ci dovrebbero preoccupare.

Il primo è, naturalmente, l’età di coloro che sono coinvolti. Nella prima metà del mese di ottobre, nessuno dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane aveva più di 23 anni. Sono persone della ‘generazione Oslo’ nata e cresciuta dopo gli accordi del 1993-1995 che hanno dato origine all’attuale status quo: la divisione della Cisgiordania in diverse aree separate le une dalle altre e da Gerusalemme; la nascita dell’Autorità palestinese e delle sue forze di sicurezza; il progressivo impoverimento dell’economia palestinese e la crescente mancanza di libertà di movimento.

Questa può essere definita come “occupazione 2.0” in cui Israele non richiede una presenza militare diretta in tutti i Territori Occupati e tuttavia mantiene il controllo quasi totale sulla vita quotidiana dei palestinesi da limitare la loro libertà di movimento (…)

Per i palestinesi che vivono a Gerusalemme o per i cittadini palestinesi di Israele la sensazione di essere cittadini di seconda classe è stata rafforzata dall’esperienza sul campo, fatta di crescente discriminazione in base alla legge. Su base giornaliera, la legge israeliana e il discorso pubblico (con la notevole eccezione del presidente Reuven Rivlin) invia un messaggio ai palestinesi: “tu non appartieni a questo posto”. Questo produce un sentimento condiviso per tutti i palestinesi, che vivono sotto regimi giuridici diversi tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

Questo porta alla seconda ragione di preoccupazione, vale a dire l’assenza di strumenti da usare per fermare la violenza. Nei Territori Occupati, l’Autorità palestinese è troppo debole e delegittimata per essere in grado di assumere il ruolo di “poliziotto” che gli israeliani si aspettano. In effetti, la vera domanda è per quanto tempo le forze di sicurezza palestinesi si dimostreranno impenetrabili alle correnti di rivolta. (…)

epa04968882 An Israeli policeman makes a young Palestinian man walk through a newly-installed metal detector just inside Jerusalem's Old City walls at the Jaffa Gate, 08 October 2015. The teenager then had his ID checked before he was allowed to leave the Old City for Jerusalem proper. Israel is increasing security again in Jerusalem's Old City as the current wave of violence continues where a Palestinian stabbed four Israelis the same day in Tel Aviv. In a bid to calm tempers after days of violence, Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu ordered politicians not to visit a sensitive holy site in Jerusalem. EPA/JIM HOLLANDER

(Un ragazzo palestinese passa as metal detector nella città vecchia a Jaffa)

A Gerusalemme Est, la strategia israeliana negli ultimi due decenni è stata quella della “desertificazione politica”: tutte le organizzazioni palestinesi, che si trattasse dell’Olp o di un teatro di marionette, sono state eliminate. Questa distruzione di capitale sociale e politico ha lasciato metà di Gerusalemme priva di quei corpi sociali che sarebbero in grado di avviare anche una mediazione – che tra l’altro, non è tra le opzioni considerate da Israele.

Sul fronte israeliano, Netanyahu ha finora moderato gli impulsi violenti dei membri del suo governo che vorrebbero tenere una linea ancora più dura contro i palestinesi. Il primo ministro si è concentrato sul contenimento della rivolta, prendendo a prestito liberamente da una vecchia sceneggiatura: demolire le case dei palestinesi, arrestare quelli che lanciano pietre o molotov, aumentare la detenzione amministrativa, e così via. La sua coalizione, la più a destra nella storia del Paese, vorrebbe di più. Ma una escalation della repressione potrebbe accelerare ulteriormente la spirale di violenza. (…)

Tale approccio ha generato poco critiche dagli avversari politici. Netanyahu gode quasi di un “sistema a partito unico” in materia di politica estera e di relazioni con i palestinesi. Anche se ha nominalmente una maggioranza di soli 61 seggi sui 120 della Knesset, su temi che vanno dall’Iran alla Palestina questa sale fino a 102.

Sul versante palestinese, la situazione a Gaza è un potenziale acceleratore di violenza. La stragrande maggioranza della città non è mai stata ricostruita dopo la guerra dello scorso anno e vi è una grande parte della popolazione che non ha letteralmente nulla da perdere. Questo spiega le marce sul (e le violazioni del) confine con Israele e i conseguenti spari sulla folla da parte degli israeliani.

A Gaza, Hamas è stata sfidata e anche infiltrata da gruppi salafiti radicali che a volte riescono a entrare in possesso di parti dell’arsenale di Hamas – così si spiega in parte il razzo occasionale. Per quanto tempo Hamas può fungere da diga a queste fazioni dipenderà dalle alternative disponibili. Il Movimento di Resistenza Islamico è più isolato che mai a livello regionale, mentre i negoziati paralleli con Israele per porre fine al blocco della Striscia di Gaza e con Abbas per la riconciliazione nazionale non hanno portato da nessuna parte.

Per il momento, Hamas sembra essere concentrata a promuovere la “resistenza” in Cisgiordania per mettere in difficoltà l’Autorità palestinese e a tenere a freno la violenza a Gaza. Anche in questo caso, la domanda è per quanto tempo questa strategia terrà e cosa potrebbe far scegliere ad Hamas (o a qualche fazione all’interno del suo braccio armato) l’escalation.

epa04984192 Israeli soldiers take up position during clashes with Palestinian protesters in the West Bank city of Hebron, 19 October 2015. Israel wants to partially wall off and place obstacles in Arab sections of Jerusalem to hinder Palestinian access to predominantly Jewish areas after a wave of knife attacks. Israel's existing security wall, built in 2002, was built between East Jerusalem and the West Bank, outside the Israeli-drawn municipal boundary. EPA/ABED AL HASHLAMOUN

(Militari israeliani durante scontri a Hebron)

Tre scenari possibili

In ultima analisi, per affrontare la situazione attuale Israele ha tre opzioni con infinite variazioni. La prima è quella di tenersi lo status quo, compreso un certo livello di violenza e insicurezza. Tutto questo implicherà l’aumento progressivo dei livelli di repressione (…) I costi umani e la sostenibilità di questa ipotesi sono discutibili e tuttavia è questa quella di gran lunga più probabile.

La seconda opzione è quella di attuare un piano negoziato per separare gli israeliani dai palestinesi. Ciò significa la creazione di uno Stato palestinese in cui, per esempio, non sarà Israele a decidere chi entra e chi esce. L’opzione “separazione negoziata” è molto improbabile dato che la strategia (bipartisan) israeliana degli ultimi tre decenni, è stata quella di confondere le linee, in particolare consentendo a un numero crescente di ebrei israeliani di vivere tra i palestinesi, sia a Gerusalemme che in Cisgiordania. (…)

La terza opzione è quella di riconoscere che tra il fiume Giordano e il Mediterraneo vi è ora, grazie all’espansione degli insediamenti, un unico spazio politico. E non si vuole tornare alla prima opzione, e alla violenza che comporta, si devono riconoscere pari diritti e doveri a tutti i residenti. Un’ipotesi molto improbabile data la tendenza attuale nella opinione pubblica israeliana.

L’Europa

Pur mantenendo il suo impegno per una soluzione a due Stati, l’Europa dovrebbe iniziare a discutere su come lavorare per garantire meglio i diritti umani di tutti gli individui che vivono in quello che è attualmente un unico spazio politico in cui gli esseri umani godono di  diritti diversi sulla base di uno status giuridico che dipende dal gruppo etnico in cui sono nati. (…) E’ importante che la questione della parità di diritti umani per tutti coloro che risiedono tra il fiume Giordano e il Mediterraneo entri a far parte della conversazione sul conflitto israelo-palestinese, non facendola dipendere dalla implementazione soluzione dei due Stati che, pur altamente desiderabile dal punto di vista europeo, non è sul tavolo nel prossimo futuro.

Nel frattempo, l’Europa può fare di più per preservare l’obbiettivo dei due stati attuando pienamente la legislazione Ue sull’esclusione di attività israeliane nei Territori palestinesi occupati dai legami crescenti tra Ue e Israele. (…) Non è solo una questione legale, è anche politicamente auspicabile perché potrebbe modificare le opinioni del pubblico israeliano, e offrire una soluzione pacifica, alternativa e basata sul diritto per modificare lo status quo.

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Liguria, più cemento nei parchi: ecco il piano casa firmato Toti

La giunta regionale guidata da Giovanni Toti lunedì sera ha approvato il nuovo piano casa della Liguria (che entro l’anno andrà ai voti in consiglio regionale). Un piano al centro delle critiche di ambientalisti e opposizioni, soprattutto perché consente l’ampliamento degli edifici da riqualificare anche nei parchi regionali, pur sotto il controllo dell’Ente che li gestisce: «In Liguria i parchi sono troppi», ha detto poi Toti, per rispondere alle critiche di 5 stelle e sinistra, senza neanche preoccuparsi di negare gli effetti cementificatori della scelta.
È l’assessore all’Edilizia Marco Scajola, nipote del noto Claudio con casa al Colosseo, a minimizzare: «Nel Piano casa precedente», dice, «alcuni parchi erano inclusi, altri no. Oggi sono stati inseriti tutti quanti. Ma saranno le stesse autorità del parco a dire se l’intervento di riqualificazione di un immobile di può fare o no». I parchi finora esclusi da bonus erano i Parchi di Portofino, Cinqueterre, Portovenere e Montemarcello-Magra.
Sono tutti gli edifici da ricostruire, comunque, che potranno godere di un aumento della percentuale di ampliamento, che andrà dal 35 per cento al 50 per quelli che si trovano in zone a rischio esondazioni e che verranno ricostruiti in zone sicure. «Di riqualificazione si deve parlare e non di ampliamento», continua però Scajola il minimizzatore: «Gli ampliamenti ci sono solo perché senza incentivi nessuno sarebbe motivato a spostare o a migliorare lo stato dei propri immobili».
 
«Il nostro piano casa darà una vera scossa al settore dell’edilizia, che maggiormente sta vivendo la crisi in Liguria, con 4000 persone disoccupate e infinite situazioni di sofferenza», è invece l’aspetto che più sta a cuore a Toti, che non si accorge, però, di usare così lo stesso argomento con cui Matteo Renzi («Bisogna rilanciare il settore dell’edilizia») ha difeso la scelta di eliminare l’Imu sulla prima casa, per tutti, a prescindere tanto dal reddito familiare quanto dalla lussuosità dell’abitazione.
 
Oltre a la sinistra ligure (che alle ultime regionali, candidando il civatiano Luca Pastorino, ha rotto con il Pd) e ai 5 stelle, voce contraria al piano Casa è anche quella di Raffaella Paita, candidata del Pd alle ultime regionali, sconfitta, fortemente voluta da Matteo Renzi. «Credo sia giunto il momento di dire basta. Occorre una forte mobilitazione per difendere il nostro territorio dal duo Toti/Scajola e dalla colata di cemento che promettono di far arrivare nei prossimi anni sulle nostre coste e nel nostro entroterra», dice Paita, incurante che i 5 stelle riconducano invece il piano Toti nel solco dell’ex governo di centrosinistra. Notano, ad esempio, come quello di Toti rimandi a future valutazioni eventuali modifiche alla norma introdotta da Burlando, che consente di costruire fino a cinque metri dall’alveo dei fiumi, seppur in zone non a rischio.
«Quelli che adesso frignano e ci accusano di cementificare», replica non a caso Toti, per una volta concorde con i 5 stelle, «sono gli stessi che da trent’anni non hanno impedito la cementificazione selvaggia di questa Regione e non sono stati nemmeno capaci di agganciare la ripresa legata a quella cementificazione».
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Il nuovo governo del Canada taglierà gli F-35?

Il nuovo governo del Canada, guidato dal liberale Justin Trudeau che piuttosto a sorpresa ha mandato a casa i conservatori, potrebbe ritirare il Paese al programma degli F-35. O almeno così ha promesso il neoeletto premier circa un mese fa in campagna elettorale, quando aveva parlato di un nuovo piano «per rendere più snello, agile e meglio attrezzato il sistema militare canadese, che continuerà comunque a essere finanziato dai piani per la Difesa Nazionale già approvati in passato». La volontà del nuovo governo sarebbe quella di indire un nuovo bando di gara per l’acquisto di aerei da combattimento diversi dagli F-35: «ci sono molti altri modelli già testati a costi molto inferiori, che potremmo iniziare a utilizzare da subito. Il governo conservatore non ha mai effettivamente giustificato o spiegato perché il Canada avesse bisogno di caccia di quinta generazione, molto costosi, come il velivolo F-35» aveva detto Trudeau lo scorso settembre. «Con le decine di miliardi di dollari risparmiati sarebbe possibile ampliare la spesa per la Royal Canadian Navy che, da tempo, è in attesa di fondi per navi da combattimento da superficie» aveva aggiunto. Contemporaneamente, il primo ministro canadese aveva sottolineato che il suo governo avrebbe interrotto il bombardamento degli obiettivi contro lo Stato Islamico in Siria.


 

Leggi anche:

F35: perché non servono e non portano occupazione in Italia


 

Un cambiamento di rotta significativo dal momento che, il precedente governo del conservatore Stephen Harper, è stato un sostenitore entusiasta dell’acquisto degli jet F-35: il Canada si è impegnato a comprare 65 jet, per poi rimangiarsi l’entusiastica promessa dopo aver realizzato l’elevato costo e le difficoltà tecniche in cui sarebbe incorso il Paese. Nel 2002 il Canada aveva aderito al Joint Strike Fighter Program, il programma trentennale stipulato da nove Paesi, tra cui Australia, Usa e Italia con lo scopo di avviare la produzione su vasta scala dei nuovi jet, definiti “l’arma più costosa del mondo”. Il ritiro del Canada dall’accordo potrebbe adesso costituire un problema per i paesi che ne fanno parte. Il Sydney Morning Herald australiano, ad esempio, si chiede se l’eventuale ritiro del Canada non costituisca un nuovo aggravio dei costi per i Paesi che sono impegnati nel progetto.

A scuola Bergoglio non funziona: l’ora di religione piace sempre meno

E così, nonostante l’exploit mediatico di papa Bergoglio, i ragazzi italiani non amano l’ora di religione. Anzi, la disertano sempre di più. I dati parlano chiaro. Nell’anno scolastico 2013-2014 l’aumento degli studenti che non frequentano l’ora di religione è stato del 105, 4%, secondo i dati dell’Osservatorio socio-religioso del Triveneto e dell’Istat, riportati oggi da Repubblica. E non è solo un fenomeno che riguarda i più grandi, gli studenti delle scuole superiori, il che sarebbe anche comprensibile, visto che quella è l’età in cui tendenzialmente si rifiutano i dogmi. No, nella scuola primaria c’è stato un aumento addirittura del 175 %.

Insomma, uno studente su cinque dice di no all’Irc (insegnamento della religione cattolica).  Questo significa che sempre più genitori giovani decidono di non avvalersi di questa disciplina nella formazione dei loro figli, regolamentata da un decreto del 1985, dopo il Concordato con il Vaticano firmato dal socialista Bettino Craxi. Gli ultimi dati sul gradimento dell’ora di religione significano che le nuove generazioni in Italia sono sempre più refrattarie ai precetti della Chiesa cattolica. Che, ricordiamo, come testimonia ogni anno la ricerca congiunta di Critica liberale e Cgil nuovi diritti, spadroneggia nell’informazione. Per esempio, l’ultimo rapporto, della primavera 2015, ha evidenziato il fatto che nella stagione televisiva 2013-2014 la presenza dei cattolici sui media ha sfiorato il 95,5% dei casi in cui la Tv si occupa di religione. E non si tratta solo di apparizioni del papa o di altri prelati nei programmi di informazione o nei tg. Bensì di fiction sulla vita di santi o di personaggi convertiti. Per non parlare poi della presenza di esponenti cattolici nei talk show.

Insomma, un’invasione cattolica che non risparmia nemmeno i media più laici. Emblematico il caso di Repubblica, fondato da Eugenio Scalfari, che da sempre si proclama illuminista e laico. Ebbene proprio il quotidiano di De Benedetti è stato il giornale che forse di più ha sdoganato la Chiesa esaltando l’immagine di Bergoglio. Non c’è molto da stupirsi, in effetti. Anni fa Scalfari, il grande illuminista, il cultore della dea ragione, in un suo editoriale aveva scritto che le religioni sono importanti perché salvano dal vuoto creato dalla caduta delle ideologie.

Quella che potremmo chiamare la contraddizione di Scalfari, poche settimane fa è stata rivelata dallo scrittore Giorgio Montefoschi sul Corriere della Sera. «Come fa a dirsi ateo un uomo che fin dall’infanzia, molto prima di contare i giorni – come ci racconta nel suo diario – è vissuto corteggiando la morte? Come fa a proclamarsi non credente un uomo che non smette di dialogare con il Dio nel quale non crede? Un uomo che, certo, scrive: “Dio non esiste perché siamo noi ad averlo inventato”, e subito dopo aggiunge: “Ma dove nasce il pensiero? Qualcuno o qualche cosa hanno creato il cogito (di Cartesio)”?».

 

«La religione serve come lettura del presente», ha detto questa mattina alla trasmissione di Radio Tre Tutta la città ne parla Andrea Monda, che oltre ad essere un insegnante di Irc è anche scrittore e curatore di una trasmissione su Tv2000 (emittente controllata dalla Cei). Ancora una volta vengono rinverdite le “radici cristiane” della cultura occidentale. Ma è davvero questo, il presente della cultura contemporanea? Siamo in un’epoca in cui i popoli si incontrano, spesso con conflitti, ma comunque si incontrano. E le culture, a fatica, si mescolano. Siao in un’Italia in cui c’è una maggiore consapevolezza dei diritti civili (vedasi il consenso che gli italiani mostrano nei confronti del matrimonio gay), in cui certi capisaldi come quello della famiglia naturale crollano anno dopo anno.

La società è in movimento e la religione non è più l’approdo ideale. Lo dimostrano i più giovani a scuola. E questa è una realtà. 

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«Le parole sono diventate proiettili». Rai, televisione, informazione: a colloquio con Giovanni Minoli

Persino dalla lettura di una sua banale biografia su Wikipedia si rimane impressionati. Giovanni Minoli la televisione l’ha fatta. Delle migliori che si ricordi, direi. Ha inventato da Mixer a Un posto al sole, da La Storia siamo noi a Quelli della notte. E le reti le ha dirette: prima Rai2 poi Rai3, poi Rai Educational, poi Rai Scuola. Oggi invece ha una trasmissione (Mix24) su Radio24 ed è inevitabile chiedergli il perché. Ma anche cosa pensi della polemica nata tra Matteo Renzi e i talk politici e che giudizio dia dell’annunciata riforma della Rai.

Dove è oggi e perché?

Alla radio. Nel 2012 quando ho vinto l’Oscar mondiale per La Storia siamo noi come miglior progetto di divulgazione storica al mondo, giustamente la Rai mi ha mandato via.

Giustamente?

Giustamente è ironico. È andata così, e quando Roberto Napoletano mi ha proposto di fare quello che facevo, attualità e storia, alla radio, non solo non l’avevo mai fatta ma non ero neanche un appassionato del mezzo. Però la sfida mi ha intrigato ed è andata bene. Mix24, ha un successo e una qualità che regge il confronto con tutte le altre radio.

Com’è lavorare senza le immagini?

È un grande dolore, ho lavorato con le immagini per 50 anni. Ho dovuto adattarmi psicologicamente, ed è stato molto forte. Però ho scoperto che la parola ha una forza comunicativa altissima. E l’attenzione alla parola è più alta di quella riservata alle immagini. Lo vedo dalla reazione degli ascoltatori. Poi ho avuto anche una piccola soddisfazione, anzi una constatazione, da quando i giornalisti della carta stampata (essendo quest’ultima in crisi), hanno il controllo della tv, invece di fare tv fanno radio e allora tanto vale fare la radiovisione. Io faccio la radiovisione! (e ride)

Da fuori, che le sembra della polemica su Rai3 e sui talk politici che perdono audience?

È una polemica inevitabile. La televisione ha vinto sulla politica e l’ha distrutta, perché ha consumato il significato delle parole. I talk hanno perso il senso che potevano avere, che è quello del confronto tra idee, per diventare un campo di battaglia in cui le parole diventano proiettili di propaganda permanente.

Colpa dell’assenza di idee?

Tutte e due le cose. Quando pensi studi, ci metti del tempo, misuri la riflessione che fai, poi ti viene un’idea. E solo dopo un bel po’ te ne viene un’altra. Se invece il tempo di maturazione delle idee si trasforma in un campo di battaglia in cui quella che hai avuto si suddivide in mille proiettili da usare propagandisticamente contro gli avversari, ecco che le parole si staccano dai loro significati e la politica perde il senso. Se poi si abbassa pure il livello di selezione dei politici, cosa diventa il talk? Una rappresentazione teatrale costruita esclusivamente a misura del conduttore. La sceneggiatura che tiene in piedi i talk è realizzata teatralmente e finisce nell’imbuto del personaggio principale. Infatti se l’ospite non rispetta il ruolo che gli viene assegnato, non viene più invitato. E poi l’uso delle parole che hanno perso il loro significato, produce il fatto che questa modalità di comunicazione della politica perde significato. E la gente se ne rende conto. C’è un rapporto tra la perdita di interesse ai talk e l’astensionismo.

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C’è una soluzione?

Io sono arrivato a fare una proposta molto provocatoria. Tempo fa Renzi fece un paragone tra Tv e calcio e io risposi: bene esatto, qual è la dinamica economica che c’è dietro ai talk? Io editore ti do visibilità (ai politici), tu mi riempi ore di palinsesto gratis e io ci metto la pubblicità. Io editore ho il mio interesse, e tu politico hai il tuo interesse che derivano dall’essere visibile, questo è lo scambio, che prescinde dall’interesse dello spettatore. Allora dico, se siamo arrivati fin qui, vuol dire che la tv ha vinto definitivamente sulla politica e se ha vinto e la dinamica è la stessa dello spettacolo, allora paghiamo i protagonisti. Come si fa negli show, qualunque attore o cantante lo paghi. Ma se lo paghi deve fare il risultato, altrimenti non lo paghi più.

Questa è la fine del servizio pubblico?

Non sto parlando del servizio pubblico ma del meccanismo. Peraltro il servizio pubblico è pagato solo per metà dal canone e per l’altra metà dalla pubblicità. La mia è una proposta paradossale: avresti il finanziamento pubblico dai partiti, perché tu editore chiedi al partito chi ti manda e il partito ti manda uno che deve rendere. Ma se “renderà” al partito (consenso), a te editore e a lui stesso, potrà dire di più quello che vuole.

Che “ti rende” vuol dire che fa share? 

Esattamente. Come una star che fa fare il 20% di share in più il sabato sera.

Ma Matteo Renzi non fa più alzare lo share…

Se non lo fa più, non vale più. Quello che voglio dire è: se decidiamo che ha vinto la tv e ha perso la politica e la logica è quella del mercato, andiamo fino in fondo al ragionamento perché almeno si capisce che la politica deve riconquistare senso e contenuti, e forse tra due anni vincerà quello che ha i contenuti. È una provocazione ovviamente, ma è l’applicazione fino in fondo della contraddizione che c’è dentro quello di cui stiamo parlando. Insomma, per andare a fondo, c’è una crisi dell’offerta, c’è troppa televisione per un Paese così piccolo. Oggi le figure di professionisti che valgono di più sono i cacciatori di ospiti, personaggi che hanno un’agenda per cui (per una ragione x) l’ospite non può dire di no.

Esiste un erede di Mixer?

No. Non c’è più il faccia a faccia. Ora, dopo 30 anni, stanno reinserendo alcune interviste a due, perché hanno capito che è l’unica strada per fare approfondimento. Se il personaggio è vero e le domande sono vere, è un mezzo di comunicazione fortissimo. Bisogna anche saper usare il mezzo televisivo, perché il volto è già un racconto. Le pause, le espressioni, gli sguardi… a volte valgono più di una risposta.

Lei le ha viste tutte, da Craxi a Berlusconi fino a Renzi. Quello di Michele Anzaldi contro Rai3 le sembra un nuovo editto?

Credo che Anzaldi abbia detto una sciocchezza che tra l’altro non aiuta Renzi, e penso anche che sia normale cambiare i direttori di giornali e di reti che durano da sei anni o che hanno dato scarsa prova di sé, specialmente se arriva un nuovo direttore generale. Se cambia l’editore cambia il direttore. È così.

E l’editore di Rai3 sarebbe?

L’editore della Rai è il Parlamento.

Quindi la frase di Anzaldi «non hanno capito chi ha vinto» rivolta a Rai3 è legittima?

Anzaldi ha detto in modo volgare una cosa reale. Dopodiché Rai3 è andata male. Ha tentato di innovare facendo qualche sforzo ma senza nessun successo. Dal punto di vista editoriale gli unici programmi che resistono sono Chi l’ha visto che c’è da 25 anni e, andava abbastanza bene, Ballarò se non fosse stata fatta la scelta sbagliata per il conduttore. Un ottimo giornalista della carta stampata (Massimo Giannini) che però non ha né i tempi televisivi, né la fisicità, né l’autorevolezza televisiva. Per cui il risultato è quello dell’8% di share diviso due.

È indubbio però che ci sia anche uno scontro di natura politica se si arriva al minutaggio delle trasmissioni? Sembra quasi che chiunque vada contro la narrazione renziana venga attaccato…

Se la mette in politica sbaglia. Lì c’è un problema editoriale. Nel caso di Bianca Berlinguer, credo si parli di una rotazione normale di cui lei è consapevole. Persino Paolo Mieli è andato via dal Corriere della sera e Scalfari ha lasciato la sua creatura.

Ha letto la nuova Unità? C’è l’imperativo di raccontare solo “l’Italia bella” altrimenti si è gufi…

È come un pendolo, il problema è se esageri da una parte… La narrazione delle cose belle è importante ma devi render conto anche di quelle brutte, perché la vita così è. Io sono un ottimista, cioè cerco e so vedere il bicchiere mezzo pieno ma questo non mi impedisce di capire perché per metà è vuoto. Penso che l’onestà intellettuale porti a saper vedere e raccontare entrambe le cose. Per esempio, se tu dici che il Jobs act ha risolto i problemi del lavoro dici una bugia, non è vero. È vera un’altra cosa: quel po’ di ripresa che c’è, ha innescato un processo nelle aziende (come è normale che sia) prima del riassorbimento delle cassa integrazioni e poi di una sostituzione lenta con contratti a tempo determinato. Allora se racconti solo il trionfo, sbagli perché non racconti, nel trionfo, della fragilità. Se racconti solo della fragilità erodi l’ottimismo necessario… quello onesto.

Le sembra che nella nostra informazione attuale ci sia un equilibrio sano tra gufaggine e narrazione unica?

Chi governa ha sempre la pretesa che vengano raccontate solo le cose che vanno bene.

Craxi faceva così?

(pausa). Intanto erano mondi diversi, anche lui tendeva a raccontare solo quello che andava bene, non negandosi le cose che andavano male. Quando porti l’inflazione dal 26% al 9%, come fece lui, hai fatto una cosa importante ed è giusto che la racconti; quando fai Sigonella hai interrotto l’autonomia del tuo Paese rispetto all’essere soltanto schiavo degli Stati Uniti, è altrettanto giusto che venga raccontato. è chiaro che il racconto assoluto lo vorresti di base. Ma poi chi è che può fare il controcanto? Chi è libero.

Chi è libero oggi?

La stampa no, quella italiana non è libera. L’unico editore puro in questo momento è Urbano Cairo, tutti gli altri sono editori legati a imprese o finanza che hanno interessi diretti o indiretti con il governo. Chi dovrebbe essere autenticamente libero? Il servizio pubblico. Perché il suo editore è il parlamento.

Questa riforma della Rai vuole delegare tutto al governo esautorando il parlamento?

Certo, cambia molto le cose. Nello stesso tempo una progettualità a tempo determinato e il potere per realizzarla è una cosa che pretende il mondo moderno che ha bisogno di decisioni veloci. Specialmente il mondo dell’informazione televisiva e multimediale che evolve alla velocità della luce. Ma la domanda di fondo è se ha senso, nel mondo multimediale di oggi, un servizio pubblico.

Appunto, finito il duopolio Rai-Mediaset, con la Rai ancora nelle mani (per metà) del canone, con l’arrivo di Netflix, cosa prevede?

Io credo che la scelta di avere i servizi pubblici, che è europea (in America non c’è), sia una scelta di civiltà perché vuol dire decidere di far prevalere i contenuti sugli interessi. Ed ha come filosofia di base l’essere al servizio più del cittadino che del consumatore. Ma come si declina questo? Bisogna avere degli obiettivi chiari. Cosa deve fare il servizio pubblico secondo me? Nel mondo globalizzato deve rappresentare le radici, il local del glocal. La differenza. Deve raccontare con tutte le forme del racconto possibili (cinema, documentario, fiction, informazione) le radici. Cioè deve raccontare il particolare facendone l’universale. Faccio esempi concreti: l’alfabetizzazione digitale è un compito da servizio pubblico; la gestione dell’integrazione linguistica che deriva dai flussi migratori è una funzione primaria del servizio pubblico.

Perché allora il 35% della gente evade il canone? Anzi lo ritiene persino odioso?

Corrisponde all’astensionismo elettorale, alla perdita di consenso dei talk, è lo stesso ragionamento. Perché non fai nessun servizio, offri un prodotto standard del mercato globalizzato. Qualcuno riesce a spiegare perché il canone è nel Tg1 e non nel Tg7 di Mentana? Perché è nelle interviste dell’Annunziata e non in quelle della Gruber? Perché è nei programmi di Carlo Conti e non in quelli di Crozza? Bisogna saper rispondere a questa domanda per far pagare il canone. Quindi devi essere un editore che ha le idee chiare, cioè ha un progetto editoriale esplicitato che legittima il fatto che si chiedano dei soldi. Perché se il canone è usato in funzione di una tv che deve essere comunque sempre più commerciale, come sta capitando, non va bene. E perché sta capitando? Perché il management non è scelto in funzione di una missione che deve avere una quota di responsabilità in più.

Invece è scelto seguendo logiche…?

Le più casuali. Prendi gli ultimi che sono appena andati via: uno faceva il ragioniere alla Fiat, l’altro lavorava in Bankitalia, ma che c’entrano? Di cosa vuoi che si occupino in un sistema complesso come quello dell’informazione? E dov’è nata poi la degenerazione del racconto informativo italiano? È nata dal passaggio di potere dai televisionisti ai giornalisti della carta stampata, i quali prima avevano orrore per la tv, poi hanno capito che gli conveniva farla. Pensa a Paolo Mieli, è il prezzemolino dappertutto, sostenuto dal fatto che è un potente della Rcs. Ma se lo si guarda dal punto di vista televisivo gli andrebbe detto: fermati e abbi coscienza dei tuoi limiti.

Cerchiamo il colpevole. Prima, delle cose del servizio pubblico funzionavano, ora non più. In mezzo c’è Berlusconi, è colpa sua?

Sì, Berlusconi ha fatto questa operazione: ha mediasettizzato la Rai, ma la colpa è dei manager della Rai, non hanno opposto resistenza. Di fatto, Berlusconi non l’ha mai conquistata, la Rai si è persa invecchiando, non coltivando i suoi televisionisti. Nessuno alleva più nessuno. Si usano format internazionali e si arriva al punto di avere 15.000 dipendenti e di produrre in outsourcing l’80% di quello che si fa. Questa è la Rai oggi.

Allora le rifaccio la domanda, ma lei dov’è?

Io sono alla radio.

Lo so, ma è evidente che lei potrebbe essere una “buona risorsa” per il servizio pubblico?

Dato che non sono io che decido…

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(Questa intervista è uscita sul numero 39 di Left)

 

E di questa riforma della Rai cosa pensa? Si dice che Campo dall’Orto sia lì in attesa di diventare amministratore delegato…

Io penso che in attesa della riforma, sarebbe importante che Campo dall’Orto dicesse cos’è il servizio pubblico, come deve essere organizzato e perché. Ha detto una cosa su cui sono d’accordo: il problema dello share non è centrale, ed è giusto perché il canone deve svincolare dal risultato di breve periodo. Stiamo morendo di trimestrali e stock option mentre il canone ti da la possibilità di investire su un progetto, al limite anche di andare giù per poi tornare su. La tv è quello che io vedo in onda, il resto sono chiacchiere. Si deve vedere che cambia tutto. So che ci vuole del tempo, ma direi ancora sei mesi al massimo. Mi auguro che questo management dirà chi è editorialmente nel palinsesto di giugno.

Corradino Mineo, senatore Pd ed ex direttore Rainews24, boccia la riforma, anzi sostiene non sia neanche una riforma e che sia «impossibile fare buon giornalismo con tanta politica addosso». Dice inoltre che il rischio per la Rai di fare la fine di Alitalia è altissimo. È d’accordo?

Concordo. Ma l’ottica è da giornalista, perché il problema non è solo come fai a fare informazione ma come fai a fare televisione. L’informazione rappresenta il 30% dell’offerta giornaliera, l’altro 70% è televisione, cinema, fiction, programmi d’intrattenimento. Il televisionista fa tutto: io ho inventato Mixer, ma anche Un posto al sole, Quelli della notte, La Storia siamo noi, la gamma dei prodotti televisivi li ho pensati tutti. Quanto alla concentrazione dei poteri nelle mani dell’Ad… l’Ad è uno strumento per fare qualcosa, ma ovviamente prima devi dire cosa. Lo nomina solo il governo? Chissenefrega, l’importante è dirgli cosa deve fare, qual è l’obiettivo e perché.

Urbano Cairo è libero però fa tutti talk di politica come la Rai? 

Per la ragione che le ho detto prima: la gente viene gratis e io editore metto la pubblicità, tanto ho il break even al 4%. Costa poco e vado avanti.

Esistono le liste di proscrizione?

(sorride). Le liste di proscrizione ci sono sempre e non ci sono mai. Ci sono i gusti, possiamo parlare di gusti?

Questo è il motivo per cui Renzi tra Giannini e Del Debbio sceglie di andare alla trasmissione di Del Debbio?

Le dico una cosa, Renzi non è mai venuto a fare un faccia a faccia a Mix24, è andato pure Radio Scurcola Marsicana, ma da me no.

E perché?

Perché non regge le domande. È uno che parla, non che risponde. Ha smesso troppo presto di avere il giusto della risposta, ha il gusto del suo racconto e la domanda è qualcosa che interrompe o spiazza il suo racconto. Non che non sia capace ma ha la sua modalità che, sostanzialmente, esclude le domande. Il risultato, però, è che lo share cala, perché la novità del racconto funziona all’inizio quando non hai controprove. Questo è il motivo per cui ha bisogno solo delle good news, perché sostengono il suo racconto. Non ha maturato la capacità di autocritica che gli permetterebbe di dire le sue cose con delle varianti.

E così perde il feeling col suo popolo?

Il suo rischio è quello.

Quanto è importante fare squadra?

Questo è il tema. Renzi il salto nelle competenze intorno a sé lo ha fatto o non lo ha fatto? Io capisco la strategia, prima prendo tutto il potere e quindi ho bisogno di persone fidate, poi però lo devo distribuire in base alle competenze. E “in base alle competenze” vuol dire amare la differenza da te, vuol dire chiedere lealtà non ubbidienza. Sono due cose diverse. Solo così nasce il “legame” giusto (felice) perché ti arricchisci della libertà (diversità) dell’altro. Saper scegliere l’altro da te dopo averne riconosciuto la natura più profonda, questo dovrebbe essere.

Questo mi sembra cozzi parecchio con la narrazione unica e con il minutaggio della Commissione vigilanza…

Quando le dico che devi sapere raccontare sia il bicchiere mezzo vuoto che la parte piena e devi saper introdurre nella narrazione delle varianti perché solo così diventi un leader vero, completo, le sto rispondendo. Renzi ha tre fortune: la prima che è giovane, la seconda è che lui prima non c’era, quindi il 900 lo può prendere e buttare perché non è responsabile di niente, terzo la Storia gli casca addosso, cioè questo è un momento in cui non c’è nessun altro: Berlusconi è vecchio, la sinistra non esiste. C’è il deserto. E c’è anche una possibilità di errore grande, tanto non hai conflitti. Se questa capacità di errore e il suo riconoscimento lo fai diventare parte del tuo racconto, fai il salto di qualità.

E invece cosa potrebbe remargli contro?

Per adesso solo il piano internazionale dove viene considerato poco. Per esempio, Leon è stato sostituito, nella trattativa in Libia, non con Prodi ma con un tedesco. Il che vuol dire che la Germania si va a prendere anche il petrolio libico. E nessuno ha detto niente.

Per finire, la Dc, il Psi e il Pci non ci sono più. Hanno ancora senso tre tg e la lottizzazione della Rai?

Secondo me l’organizzazione della Rai in questo momento non ha senso. Per averlo dovrebbe costruire un canale all news che ogni ora ha dieci minuti di breaking news. Il telegiornale inteso come dieci notizie messe in fila non vuol dire più niente. È vecchio putrefatto. Quindi io farei tipo il Tg3 con news dal mondo (global) intervallate con le news approfondite. E il Tg1 con all news italiane intervallate dalle news locali con i TgR.

E la carta?

Non me ne sono mai occupato. Non da un punto di vista imprenditoriale. Ovviamente i giornali li leggo. Constato solo che Buffet, che è uno che fa soldi, compra tutti i giornali locali dell’America. Poi analizzo il gruppo l’Espresso e vedo che sta in piedi per tutto l’insieme dei giornali locali. Forse sono certi modi di fare i giornali che non hanno più senso. Un giornale lo leggi perché vuoi qualcosa in più, nel flusso infinito di informazioni, forse vuoi fermarti ogni tanto a pensare e a pensare qualcosa in più.

Insomma, mi scusi destra e sinistra esistono ancora?

Caduto il muro, sono cambiate le categorie. La contrapposizione non è più quella, è tra giustizia e ingiustizia. Tra ricchi e poveri in tutte le zone del pianeta, dall’ultimo Paese dell’Africa all’Alaska.

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Ilva, a Taranto al via il maxiprocesso per disastro ambientale

Lo stabilimento Ilva visto dai tetti del quartiere Tamburi, 23 settembre 2013. ANSA / CIRO FUSCO

Sarà forse il più grande processo in tema di ambiente che il nostro Paese abbia mai visto: sei anni di indagini, 47 imputati, un migliaio di parti civili, un centinaio di avvocati e una città che aspetta di capire se i responsabili del disastro ambientale prodotto in decenni dall’Ilva avranno un nome e un cognome.

Ieri intanto otto ex direttori dell’impianto e due medici sono stati assolti dall’accusa di omicidio colposo per la morte dell’operaio Nicola Bozza, ucciso da un cancro che l’accusa imputava all’esposizione all’amianto.

La parte giudiziaria della vicenda Ilva comincia il 26 luglio 2012 quando la magistratura tarantina, impose il sequestro dell’area a caldo e fece arrestare i manager dell’azienda. Da oggi, salvo un eventuale rinvio dovuto a un difetto di notifica a un imputato, si comincia.

ACCIAIERIE ILVA OPERAIO FONDITORE FUSIONE GHISA ALTIFORNO INDUSTRIA SIDERURGICA

Della famiglia Riva, titolare delle acciaierie saranno processati Nicola e Fabio, quest’ultimo unico detenuto. A processo anche l’ex presidente della Regione, Nichi Vendola, il deputato di Sel Nicola Fratoianni e il consigliere regionale Pd, Donato Pentassuglia, il sindaco di Taranto Ippazio Stefano (abuso d’ufficio), l’ex presidente della Provincia di Taranto Giovanni Florido e l’ex assessore provinciale all’Ambiente Michele Conserva (concussione). Alla sbarra anche un diversi dirigenti Ilva e del Siderurgico tarantino succedutisi negli anni

I reati contestati vanno dall’associazione per delinquere finalizzata a vari reati, tra i quali il disastro ambientale, all’avvelenamento di acque e sostanze alimentari (motivo per cui il processo si celebra dinanzi alla Corte di Assise di Taranto), al getto pericoloso di cose, all’omissione di cautele sui luoghi di lavoro.

ACCIAIERIE ILVA ALTOFORNI INDUSTRIA SIDERURGICA

 

La stritte sui muri di Taranto contro l'Ilva i fratelli Riva ed il Governo. ANSA / CIRO FUSCO

Ieri in città si è anche riunito il tavolo istituzionale Taranto, che sta lavorando ad uno schema di Contratto istituzionale di sviluppo, previsto dalla legge 20 dello scorso marzo. Il tavolo si occupa sia della bonifica dell’area che degli interventi in città con l’obbiettivo di elaborare un contratto istituzionale che attraverso interventi di Stato, enti locali e privati, favorisca la ripresa dell’economia cittadina. Sono stati individuati quattro assi di intervento: il recupero della Città vecchia, il porto, la bonifica dell’enorme area esterna al siderurgico e l’Arsenale della Marina Militare. In questi mesi il Comune ha predisposto un piano per la Città vecchia che prevede la messa in sicurezza degli edifici a rischio crollo, ilrifacimento delle reti dei servizi, la valorizzazione degli edifici storici. L’obbiettivo è quello di individuare 30-40 milioni di finanziamenti.

Taranto aspetta l’esito del processo, ma con più ansia e bisogno, aspetta di vedere l’avvio di interventi per la riqualificazione della città, la messa in sicurezza dell’acciaieria e la bonifica di un ambiente devastato (qui sotto il trailer di Buongiorno Taranto, documentario di Paolo Pisanelli.

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Sei un traditore? E che cos’è un puffo paranoico? L’intervista di Snowden alla Bbc

Il 10 ottobre la trasmissione di Bbc, Panorama, ha mandato in onda una lunga intervista con Edward Snowden e OpenDemocracy ne ha pubblicato la trascrizione online. Eccone alcuni stralci

«Quando ero seduto alla mia scrivania e lavoravo ogni giorno con strumenti di sorveglianza di massa, ho potuto osservare come tutte le nostre comunicazioni venissero intercettate quotidianamente in assenza di qualsiasi sospetto di irregolarità. E questo accadeva a nostra insaputa, senza il nostro consenso.

I documenti, hanno stabilito che la sorveglianza di massa, la sorveglianza delle popolazioni non solo di individui sospetti, è qualcosa che si verifica sempre e costantemente…Uno dovrebbe potersi fidare di agenzie per la sicurezza che hanno potenziale accesso completo ai dettagli della nostra vita.

Sono stato fedele ai ruoli e agli obblighi del mio giuramento (…) Non ho beneficiato in alcun modo dalla divulgazione delle informazioni. Inoltre, non ho mai pubblicato un unico documento. Ho lavorato con i giornalisti che, nella società americana, sono in qualche modo titolati a decidere ciò che è di interesse pubblico e a capire certi fatti e realtà che il governo molte volte preferisce tenere segreti».

Quali sono le informazioni che le agenzie di sicurezza possono ottenere da uno smart phone?

Chi ci chiama, i messaggi che hai spedito e a chi, i siti sui quali hai navigato, l’elenco dei contatti, i luoghi in cui sei stato, le reti wireless alle quali il telefono è associato.

C’è la Smurf Suite è una raccolta di funzionalità specificamente mirata agli iPhone. Dreamy Smurf è lo strumento di gestione dell’alimentazione che significa che il vostro telefono si accende e spegne senza che voi lo sappiate.

Il Nosey Smurf è lo strumento che attiva il microfono di un telefono come se si stesse ricevendo una chiamata ma senza che nessuno stia chiamando. Così, per esempio, se il telefono è nella vostra tasca, lo si può attivare e ascoltare tutto quello che sta succedendo intorno a voi.

Tracker Smurf, è uno strumento di geo-localizzazione, che permette di seguire con maggiore precisione di quanto si potrebbe ottenere dalla triangolazione tipica di ripetitori per i telefoni cellulari

Paranoid Smurf è uno strumento di auto-protezione che viene utilizzato per blindare la loro manipolazione del vostro telefono. Così, per esempio, se decidete di portare il telefono da un tecnico perché avete notato qualcosa di strano, sarà molto difficile scovare i loro interventi.

(L’intervista integrale della Bbc)
Ti reputi un traditore?

Certo che no. La domanda è: se io fossi un traditore, che ho tradito? Ho dato tutte le mie informazioni ai giornalisti americani e alla società libera in generale. Per chi lavora chi lavora per lo Stato? Stanno lavorando per la gente o contro di noi?

Per quanto riguarda il tuo futuro, l’ex procuratore generale, Eric Holder, ha detto che ora, “esiste una possibilità di raggiungere un accordo”. È una possibilità?

Molte cose sono cambiate dal 2013, quando il governo mi ha denunciato in termini molto duri dicendo che avevo le mani insanguinate. Non sentiamo più dire cose simili e ho la speranza che lo Stato riconsideri l’idea corrente di trattare i whistle-blowers come spie

Non è ironico che, un difensore della libertà, delle libertà civili sia ospite della Russia?

Ho chiesto asilo in 21 paesi diversi, in tutta l’Europa occidentale e in altre parti del mondo, e tutti hanno cercato di evitare di dare una risposta, perché non volevano rischiare di alienarsi l’opinione pubblica e nemmeno il governo degli Stati Uniti(…). Ma ho detto chiaramente, che io sono sempre disposto a tornare a casa. E sarò pronto quando il governo sarà a sua volta pronto a tutelare gli interessi i nostri diritti (…) Finora hanno detto che non mi tortureranno, è già un inizio.

Diecimila rifugiati bloccati nel Balcani. Merkel chiede ad Ankara di riprenderseli

epa04983757 A migrant woman carries her child as they wait in the rain in Trnovec, due to the Slovenia border crossing closure in Croatia, 19 October 2015. Many of the migrants are exhausted, some asleep on the hard asphalt. They have been waiting for hours in the hope of entering Slovenia, the next stage on their long journey to Austria, Germany or Sweden. EPA/IGOR KUPLJENIK

Il tempo è cambiato nel Balcani. Piove e fa freddo e le migliaia di rifugiati che continuano ad arrivare da Siria, Afghanistan e Iraq sono fermi ai confini dell’Unione europea. La Croazia chiude le frontiere perché, a sua volta, la Slovenia lascia passare solo il numero di persone che l’Austria è disposta a far passare. A sua volta, Vienna, ha rallentato le pratiche dell’accoglienza. L’Unhcr parla di 10mila persone intrappolate al confine sloveno-croato e spiega che i due Paesi non hanno in nessun modo strutture in grado di accogliere numeri simili.

epa04983755 Migrants seek shelter in a container as they wait in the rain in Trnovec, due to the Slovenia border crossing closure in Croatia, 19 October 2015. Many of the migrants are exhausted, some asleep on the hard asphalt. They have been waiting for hours in the hope of entering Slovenia, the next stage on their long journey to Austria, Germany or Sweden.  EPA/IGOR KUPLJENIK

epa04983624 Migrants seek shelter under blankets attached to a fence as they wait in the rain at the closed Croatian-Slovenian border crossing in Trnovec, Croatia, 19 October 2015. They have been waiting for hours in the hope of entering Slovenia, the next stage on their long journey to Austria, Germany or Sweden. Slovenia had deployed its military to its border with Croatia to help police handle the influx of refugees who re-routed their course across the Balkans after Hungary refused to let them through.  EPA/IGOR KUPLJENIK

(Trnovec, al confine tra Slovenia e Croazia)

In Croazia c’è un treno carico di duemila persone che le autorità slovene non lasciano passare. Quello dei rifugiati e migranti continua ad essere un percorso a ostacoli: da quando l’Ungheria ha chiuso le sue frontiere con un muro e i flussi di persone si sono spostati nelle repubbliche della ex Yugoslavia, la situazione è solo peggiorata. Le agenzie umanitarie e le ONG che si trovano sul luogo parlano di una situazione drammatica: «Mancano coperte, cibo, medicine e abbiamo finito gli impermeabili» ha detto la portavoce locale dell’Agenzia Onu per i rifugiati Melita Sunjic. Insomma, l’estate e passata ma i flussi non si fermano e, anzi, rischiano di aumentare a causa del nuovo acuirsi della guerra in Siria, specie nell’area attorno ad Aleppo.

Intanto la France Press diffonde la notizia che la tendopoli di rifugiati e migranti nei dintorni di Calais, denominata The Jungle è situata in una zona classificata a rischio ambientale – perché nei pressi di due fabbriche chimiche. Secondo i parametri europei si tratta di una Zona Seveso (dal nome della cittadina lombarda dovenel 1976 si liberò una nube di diossina dallp stabilimento dell’Icmesa).

 

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(Il campo dei rifugiati a Calais)

E’ in questo contesto che a Istanbul si sono incontrati Angela Merkel e il suo omologo turco Ahmet Davutoglu. Durante l’incontro, la premier tedesca ha offerto un sostegno maggiore del suo Paese alla richiesta di ingresso nell’Unione europea in cambio di una maggiore predisposizione della Turchia ad accogliere i migranti respinti alle frontiere d’Europa. Uno scambio piuttosto cinico fatto sulle spalle che si vedranno respingere la richiesta di asilo. «I colloqui tra l’Ue e la Turchia sulla gestione delle migrazioni rischia di mettere i diritti dei rifugiati in secondo piano rispetto alle misure prese per il controllo delle frontiere e per impedire ai migranti di raggiungere le frontiere europee» aveva detto sabato scorso Andrew Gardner, ricercatore in Turchia per Amnesty International.
Merkel, che solo qualche giorno fa aveva dichiarato di essere contraria all’ingresso di Ankara nell’Ue oggi ha parlato di colloqui incoraggianti. Dal canto suo il premier turco chiede l’abolizione dei visti di ingresso per l’Europa per i suoi cittadini. Una misura che dovrebbe entrare in vigore nel 2017 e che Davutoglu chiede venga presa nel 2016. Lo scambio è chiaro ed esplicito, ma è un rischio per Merkel, visto che il principale Paese di destinazione dei turchi è proprio la Germania. Il premier turco ha anche spiegato che il suo Paese non accetterà soldi europei in cambio di un’accoglienza a tempo indeterminato di migranti e profughi: «Non vogliamo diventare un campo di concentramento».

Lo scambio con la Turchia è anche di altro tipo: in queste settimane la tensione nel Paese è alle stelle sia per quel che riguarda la guerra in Siria che il conflitto (e la repressione) dei con il Pkk e la minoranza curda. Il rischio è che l’Europa chiuda gli occhi di fronte a un atteggiamento turco che viola i diritti umani in alcune regioni del Paese in cambio di una maggiore disponibilità a riprendersi migranti e rifugiati.

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