Home Blog Pagina 1300

Secondo l’Onu Gaza sarà inabitabile entro 5 anni

Gaza potrebbe diventare inabitabile entro il 2020, se le attuali tendenze economiche persistono. Ad affermarlo è un rapporto dell’Unctad, l’agenzia Onu che si occupa di commercio internazionale e sviluppo, diffuso martedì. Gli oltre a otto anni di blocco economico e le tre operazioni militari subite hanno ridotto al lumicino la capacità della Striscia di esportare e di produrre per il mercato interno, devastato delle infrastrutture già precarie e impedito la ricostruzione tra una guerra e un’altra. In queste condizioni, l’Unctad parla di de-sviluppo, di una situazione nella quale la crescita non è stata rallentata o ostacolata ma resa negativa.

Il rapporto evidenzia le crisi riguardanti l’acqua e l’elettricità, e ricorda la distruzione di alcune infrastrutture vitali durante le ultime operazioni militari israeliane durante il luglio e agosto 2014: un milione e 800mila persone si riforniscono di acqua da una falda costiera che è per il 95% non potabile. Si stima poi che la capacità di offerta di energia elettrica non fosse sufficiente a soddisfare più del 40 per cento della domanda. Questo nel 2012, prima che la centrale elettrica fosse danneggiata durante i bombardamenti del 2014.

[huge_it_gallery id=”22″]
 

Il rapporto stima (vittime di guerra escluse) i danni diretti delle tre operazioni militari che hanno avuto luogo 2008-2014: tre volte le dimensioni del prodotto interno lordo locale di Gaza. Tuttavia, il costo totale può essere significativamente più alto una volta contabilizzate, oltre alle perdite economiche indirette, anche la capacità produttiva perduta.

Oltre alle 500.000 persone sfollate a seguito della più recente operazione militare, il rapporto segnala la distruzione o il danneggiamento grave di più di 20.000 case palestinesi, 148 scuole e 15 ospedali e 45 centri sanitari di primo soccorso.

Ben 247 stabilimenti e 300 centri commerciali sono stati totalmente o parzialmente distrutti. Gravi danni è stata inflitta sulla suola centrale elettrica di Gaza. Il solo settore agricolo ha subito 550 milioni di dollari di perdite.

Nel 2014, la disoccupazione a Gaza ha raggiunto il 44 per cento, il livello più alto mai registrato. La disoccupazione è particolarmente grave tra le giovani donne: più di otto su 10 senza lavoro. Il livello economico degli abitantio di Gaza è peggiore oggi che 20 anni fa e il Pil si è ridotto del 30 per cento rispetto al 1994.

L’insicurezza alimentare colpisce il 72 per cento delle famiglie, e il numero dei profughi palestinesi che vive solo di aiuti alimentari distribuiti dalle agenzia Onu è passato da 72.000 nel 2000 a 868.000 nel 2015: metà della popolazione di Gaza.

Il rapporto sostiene che, anche prima delle tre operazioni militari israeliane, il blocco economico in atto a partire dal 2007 aveva già portato alla cessazione larga scala delle operazioni produttive e la perdita di posti di lavoro.

 

Cinema, consigli per Venezia (che potete vedere anche da casa)

Dopo la preapertura dedicata ai film veneziani di Orson Welles, si è alzato il sipario sul Festival del cinema di Venezia, dal 2 al 12 settembre, qui il programma. Qui qualche consiglio sui film da non perdere:

Per amor vostro, di Giuseppe Gaudino. L’ispirazione è dantesca e l’ignavia è il vero soggetto, ma protagonista e una donna decisa a vivere e a non mollare, nonostante tutto,interpretata da Valeria Golino in un’inedita Napoli luogo ideale ma sbrecciato, corroso. Protagonista Valeria Golino, decisa a vivere, per paura, come tante donne partenopee le vite degli altri.

 Abluka

Abluka, di Emin Alper (Turchia/Francia/Qatar). In una Istanbul immaginaria, la storia di una famiglia sullo uno sfondo di tumulti politici e caos. Hamza, ufficiale di polizia offre a Kadir la libertà condizionale. A patto che lavori come netturbino.

 

heart-of-a-dog

Hearth of a dog, di Laurie Anderson (USA). Icona della musica d’avanguardia americana e compagna fino agli ultimi suoi giorni di Lou Redd, la musicista e compositrice Laurie Anderson in questo suo primo docufilm affronta un tema difficile: la separazione delle persone che amiamo.

remember

Remember,di Atom Egoyan, (Canada/Germania) con Christopher Plummer e Bruno Ganz. Gli orrori dell’Olocausto tormentano un uomo anziano animato dal desiderio di vendetta. Zev ha una missione: vendicare la sua famiglia, assassinata da una guardia nazista che vive tranquillamente in Usa.

beasts-of-no-nation

Beasts of no nation di Cary Fukunaga (USA). Duro e drammatico film sull’esperienza di Agu, giovanissimo soldato impegnato in una guerra civile in un paese africano. Basato sull’omonimo romanzo di Uzodinma Iweala. Il regista è quello delle serie tv True detectives.

rabin

Rabin, the last day, di Amos Gitai (Israele/Francia). Uno degli episodi più traumatici nella storia di Israele: l’uccisione del premier laburista Yitzhak Rabin da parte di un

giovane colono della destra nazionalista ebraica, deciso a impedire il processo di pace con i palestinesi. Il miglior Gitai degli ultimi anni.

Francofonia, di Aleksandr Sokurov (Francia/Germania/Paesi Bassi). Dal Leone d’oro 2011 una riflessione sulla forza dell’arte e sulle sue relazioni col potere. Anni dopo Arca Russa, straordinario film girato nel museo di San Pietroburgo torna a girare in un museo: il Louvre di Parigi.

behemoth

Behemoth, di Zhao Liang (Cina/Francia). Un documentario sulla vita in un villaggio mongola. Uno spaccato della società e dell’aggressivo sviluppo economico cinese, percorso da un filo di sottile ironia. Un gioiello orientale.

l'attesa

 

L’attesa, di Piero Messina. Il giovane aiuto regista di Sorrentino presenta in concorso a Venezia una storia di due donne, una madre e una fidanzata attendono il ritorno di un uomo misterioso, Vicenda quasi ibseniana, ma il film, con una magnetica Juliette Binoche

Gli uomini di questa città io li conosco di Franco Maresco. Da tempo senza Ciprì, in questo docufilm Maresco offre un intenso ritratto di Franco Scaldati, regista e drammaturgo, che è stato capace di coinvolgere la gente dell’Albergheria con il suo teatro poetico e visionario, vissuto come «una forma d’arte che implica immediatamente l’uomo, che obbliga a incontrarsi e scontrarsi».

 

Spotlight di Tom McCharty rilancia l’inchiesta su Chiesa e pedofilia del 2003, un tema scottante  su cui la Chiesa di Bergoglio non ha ancora fatto chiarezza non accettando di aprire gli archivi.

I film del festival visti da casa La Sala Web della Biennale permette di vedere film che sono coproduzioni internazionali collegandosi al sito, grazie a Festival Scope, dove si può acquistare il biglietto digitale. (singolo 4 euro, 5 film10 euro) così si riceverà un link personale che consentirà una visione non ripetibile. Qui il live streaming delle conferenze stampe e di altri momenti clouNella selezione dei film che passano dalla sala web, da segnalare almeno due titoli:

Pecore in erba di Alberto Caviglia – dal 6 settembre Italia

Un ironico “falso documentario” (mockumentary), genere insolito per il cinema italiano, su un tema drammatico quale l’antisemitismo, letto in chiave surreale. Una commedia tutta ambientata a Trastevere, un film su questo quartiere romano, sulle sue strade e gli abitanti che lo animano. Opera prima di Alberto Caviglia, già assistente alla regia di Ferzan Özpetek a partire dal 2006, prendendo parte a film quali Saturno contro (2007), Mine vaganti (2010) e Magnifica presenza (2012).

Interrogation (Visaaranai) di Vetri Maaran – dal 10 settembre India

Un gruppo di immigrati è detenuto in una stazione di polizia locale, torturato e forzato ad ammettere un crimine di cui non hanno conoscenza. Quando tutte le speranze sembrano perdute, un poliziotto concittadino parla per loro conto alla corte che lo ascolta, liberandoli. Il poliziotto chiede in cambio un favore, e i ragazzi glielo fanno, incuranti del destino a cui vanno incontro. Nel momento in cui involontariamente diventano testimoni di un tradimento politico, il sistema li costringe al silenzio, a ogni costo. Ma Pandi è determinato a farsi ascoltare.

[social_link type=”twitter” url=”http//:twitter.com/@simonamaggiorel” target=”on” ]@simonamaggiorel[/social_link]

Corbyn, il socialista che guarda al futuro

Jeremy Corbyn incarna un nostalgico canto del cigno o la rinascita della sinistra? Il dilemma entusiasma e angoscia i progressisti, scottati dalla difficile esperienza di Syriza in Grecia. Che si tratti di ritorno al passato o al futuro, il candidato della sinistra radicale alle primarie Labour rappresenta già il rovesciamento di prospettiva. Basta osservare la cartina di tornasole del mirino mediatico per comprendere come Corbyn sia il politico più temuto da cancellerie conservatrici, capitalismo finanziario, socialdemocrazie subalterne ai dogmi dell’austerity neoliberale. I sillogismi di cui è oggetto sono grossolani ma pervasivi: Corbyn è un idealista utopico perché privo di esperienza di governo, anacronista nella richiesta di superamento della monarchia, il suo pacifismo non allineato alla Nato, a detta del premier Cameron, metterebbe a rischio la sicurezza del Regno Unito; la solidarietà con la Palestina gli costa l’etichetta di antisemita, è considerato troppo morbido con l’Ira e la Russia di Putin e soprattutto euroscettico, ma il socialista Corbyn è contro ogni nazionalismo, semmai subordina la presenza nell’Unione alla riforma dei trattati, dal riequilibrio delle bilance commerciali alla tutela di diritti sociali e ambiente.

Tony Blair usa ogni mezzo per accusarlo del suicidio politico del Labour: «Se è nel cuore degli elettori, essi dovrebbero fare un trapianto cardiaco». Al sarcasmo poco british, che è la cifra dell’emulo blairiano Matteo Renzi, ossessionato da gufi e rosiconi, il candidato laburista oppone i disastri del blairismo: i crimini della guerra in Iraq, i favori fiscali alle lobby della City, le privatizzazioni che non hanno risparmiato l’acqua e le ambulanze, il distacco dal sindacato, l’eliminazione dell’edilizia popolare malgrado il caro vita.

Come una ventata in un mondo politico stagnante o un fulmine a ciel sereno a seconda dei punti di vista, Corbyn rompe gli schemi, persino a livello estetico rispetto alle cool leadership di buona sartoria, trucco televisivo e sicumera gaudente che sembra esprimere il concetto di vittoria/potere a ogni costo, perdita dei valori compresa. La barba bianca da sindacalista marxista è frutto dell’ascesa di Blair («È la mia forma di dissenso», rivendicò), l’aria disillusa e serena un retroterra sessantottino, il look trascurato da militante di periferia fa il paio con la sua scelta di consumatore consapevole (e «parsimonioso» per sua stessa definizione) e di ciclista, un “nonno in bicicletta” che non possiede automobile. Corbyn, nato 66 anni fa a Chippenham, paesino del Wiltshire, è stato educato da genitori borghesi che si erano innamorati durante la guerra civile in Spagna: David, ingegnere elettronico, e Naomi, insegnante di matematica, combattevano volontari per la Repubblica contro il generale Francisco Franco. L’impegno sindacale di Jeremy inizia a 18 anni alla National Union, terminati gli studi al North London Polytechnic, l’avventura politica sette anni dopo, quando porta nel locale Council le istanze del sottoproletariato londinese di Haringey. Nel mezzo anche l’esperienza lavorativa in una fattoria di maiali che lo segna al punto da diventare vegetariano.

Left_33_2015_rgb

Questo ritratto di Jeremy Corbyn è stato pubblicato sul numero 35 di Left,

prima della vittoria del neo leader del Labour, di cui parliamo qui

Corbyn conduce le battaglie dentro e fuori il Parlamento, dove siede dal 1983, consolidando i voti nella roccaforte di Islington, il quartiere più povero di Londra. L’anno seguente viene arrestato durante una manifestazione contro l’apartheid davanti all’ambasciata sudafricana, ma continua a lottare per i diritti e la pace come all’epoca del Vietnam. Aiuta migranti e rifugiati, dialoga con gli indipendentisti nordirlandesi e gli argentini in occasione della guerra delle Falkland. Nel cassetto conserva la foto di Che Guevara, quasi a ricordare la necessità di sostenere i popoli oppressi e denunciare fascismi vecchi e nuovi. Nel 1998, da membro della Commissione sui diritti civili, biasima Margareth Thatcher per il tè concesso ad Augusto Pinochet, «uno dei grandi assassini di questo secolo». Le minacce arrivano puntuali ma non lo spaventano. Di questioni internazionali continuerà a occuparsi producendo vari scritti tra cui Problems of Nato, libro edito l’anno scorso da Spokesman con contributi che vanno da Tsipras ai dissidenti sovietici Roy e Zhores Medvedev. Corbyn ha tre figli e si è sposato tre volte: con la compagna di partito Jane Chapman, con l’esule cilena Claudia Bracchita e con la messicana Laura Alvarez, che importa prodotti equo-solidali.

Nel suo staff ci sono compagni di lungo corso, può contare sul sostegno dei sindacati più importanti, Unite e Unison, del grande vecchio del Labour, l’ex vicepremier Lord Prescott. Per la prima volta si è speso pubblicamente anche il fratello Piers Corbyn, marxista e meterologo, convinto che il riscaldamento globale sia una bufala. Jeremy ha i piedi ben piantati a terra, nell’ambiente è considerato un “Bennite”, nel senso di seguace del repubblicano Tony Benn, compianto ministro nei governi Wilson e Callaghan, assertore dell’attivismo di base ma sempre leale al partito. «La Ditta», la chiamerebbe il nostro Bersani che però, alla fine, esprime molto meno il dissenso: pur rimanendo in maggioranza, Corbyn ha votato ben 500 volte ai Commons contro il governo Blair. Bersani, subentrato a Veltroni “l’americano”, presenta più analogie con Ed Miliband, leader uscente di impronta socialdemocratica ma sempre fedele alla Terza via blairiana. Soprattutto, la svolta dopo gli insuccessi elettorali è opposta: il Pd ha sterzato a destra con Renzi, nel Regno Unito sta rinascendo la sinistra.

Dai sondaggi che danno Corbyn in vantaggio spicca il gradimento degli under 30, non soltanto della working class. Com’è possibile che il socialismo âgé faccia presa? Forse perché intende abbassare le rette universitarie fra le più care al mondo e garantire un salario minimo, redistribuendo le ricchezze mediante nuove imposte alle multinazionali. Il candidato barbuto vorrebbe un welfare state non solo efficiente ma inclusivo. Alla scuola pubblica tiene talmente che, secondo il Guardian, tra i motivi del divorzio con la seconda moglie ci sarebbe stata l’intenzione di iscrivere il figlio alla Queen Elizabeth’s grammar school: non sia mai. Corbyn ha proposto di estendere il modello sperimentato dal Labour a Islington, dove si è registrato un aumento del corpo docente e delle dotazioni tecnologiche nelle scuole: «Continuerò a sostenere i bisogni degli studenti, affinché possano andare al college o all’università, sfruttando al meglio tutte le opportunità».

È materia per esperti post keynesiani la proposta del People’s quantitative easing, avanzata dal consigliere Richard Murphy, secondo cui la Bank of England dovrebbe sostenere direttamente imprese e opere pubbliche anziché fornire liquidità alle banche private. Stop alla finanza, sì all’economia di Stato, se dovesse andare in porto la reintroduzione della clausola IV che impegnava il Labour alla nazionalizzazione dell’industria, abolita da Blair nel 1994. Nei piani di Corbyn ci sono ferrovie e poste, il rilancio del settore estrattivo demolito dalla Thatcher, gli investimenti in edilizia popolare e settori innovativi riposizionano il meridiano di Greenwich sul concetto di progresso sociale e lungimirante. Dunque il laboratorio in un Paese occidentale avanzato, libero dalle gabbie di bilancio dell’Eurozona, potrebbe integrare la tassazione progressiva periodica à la Piketty e i deficit per la crescita propugnati dalla Modern money theory.

Non a caso Corbyn si è detto vicino a Bernie Sanders, il socialista che osa sfidare Hillary Clinton alle primarie dem con l’appoggio della Mmt, e al movimento giovanile che anima Podemos in Spagna. D’altronde, cos’è culturalmente più rivoluzionario di una lotta all’ingiustizia che riparta dal basso, casa per casa e strada per strada? I rivali interni al Labour discettano di rincorse al centro per conquistare l’elettorato moderato, Corbyn invece ama parlar chiaro, essenziale e incisivo, convinto che il ritorno alle origini possa colmare il vuoto valoriale ed elettorale riempito dal populismo dell’Ukip di Nigel Farage, così in Francia dai Le Pen e in Italia da Salvini e Grillo. Il “nonno in bicicletta” darà spinta propulsiva e coraggio a un nuovo blocco sociale e politico della sinistra europea, anche nell’alveo socialdemocratico, ripartendo dalle esigenze dei più deboli?

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/SteSantachiara” target=”on” ][/social_link] @SteSantachiara

I sindaci di Podemos: una rete di città e società civile per l’accoglienza ai rifugiati

Madrid e Barcellona, città governate da Podemos da qualche mese, si mobilitano per collaborare in materia di accoglienza rifugiati. Il Comune della capitale spagnola, per bocca del sindaco Manuela Carmena, ha aderito ieri alla proposta del sindaco della città catalana, Ada Colau, di creare una rete di città per l’accoglienza e ha annunciato che destinerà individuerà misure (e destinerà risorse) per affrontare la catastrofe umanitaria. a far parte della rete di proposta di città ospitante da Barcellona nei prossimi giorni e la crescita dei “risorse e le misure” per affrontare questo dramma. Ada Colau, aveva anche promosso un registro delle famiglie che vogliono aiutare i rifugiati, insieme con alloggio o materiali contributi.

I due sindaci si incontreranno venerdì per approntare un piano comune. «Siamo due grandi città, diverse, ma pronte all’accoglienza delle quote di rifugiati che ci verranno assegnati dal governo – ha detto Carmena alla radio Onda Cero – Siamo pronti a fare tutto il necessario per accogliere chi ne ha bisogno, ma speriamo che sia il governo che ci comunica quante persone verranno a Madrid».

Il sindaco di Valencia, Joan Ribó, alla guida di una coalizione di sinistra, ha aderito all’iniziativa, ma chiede anche lui di sapere cosa faranno le autorità regionali valenziane.

In una conferenza stampa con Angela Merkel, il premier popolare, Mariano Rajoy, ha informato la Commissione europea sull’intenzione della Spagna di aumentare la propria quota di rifugiati rispetto ai 2.739 che il Paese si era visto assegnare nella ripartizione interna dell’Ue.

La mobilitazione della società civile è una risorsa necessaria, ha spiegato Colau, perché in tutta la Catalogna ci sono solo 28 posti disponibili per richiedenti asilo. C’è l’ipotesi di costruire un centro o di organizzarne uno temporaneo, ma intanto il registro delle famiglie, coordinate dal Comune, è una strada. Anche a Madrid la situazione è disastrosa e gli asili per rifugiati sono pieni. Entrambi i sindaci polemizzano con il governo di centrodestra che non coordina abbastanza il lavoro di accoglienza.

 

Il jazz per L’Aquila: il 6 settembre 600 musicisti e 100 concerti

Mettete 600 musicisti impegnati in oltre cento concerti, lungo “solo” dodici ore. In diciotto postazioni tra castelli spagnoli, chiostri antichi, chiese e piazze medievali. E poi a notte fonda, il gran finale a piazza Duomo, fino a mezzanotte, ma poi chissà, tra jam session e dj-set, quanto potrebbe durare. Un evento storico per il jazz italiano, ma forse non è esagerato dire per tutta la musica italiana.

Per un giorno, il 6 settembre, il centro storico de L’Aquila, rimasto fermo a quel 6 aprile 2009, il giorno del terremoto, tornerà a vivere. Di suoni, ma anche di musicisti, di giovani, di aquilani e di appassionati di jazz provenienti da tutta Italia. Alla proposta lanciata dal ministro dei Beni culturali Dario Franceschini hanno aderito in tantissimi, il fior fiore del jazz italiano: Enrico Rava, Franco D’Andrea, Roberto Gatto, Danilo Rea, Enrico Pieranunzi, Javier Girotto, Gino Paoli, Claudio Fasoli, Stefano Battaglia, Antonello Salis, Rita Marcotulli, Maria Pia De Vito, Gianni Coscia, Enrico Intra, Rosario Giuliani, Gianlugi Trovesi, Ada Montellanico, Pietro Tonolo, soltanto per citare alcuni dei circa 600 protagonisti della maratona del 6 settembre. “Sarà una giornata di solidarietà e di riflessioni sulla ricostruzione, ma anche l’occasione storica per mostrare la nuova immagine del jazz italiano”, afferma Paolo Fresu che della Woodstock aquilana è il direttore artistico (sul numero in uscita del 5 settembre di Left, un’ampia intervista a Fresu).

enrico pieranunzi paolo fresu3 ada_montellanico 3 EnricoRava1

 

(Dall’alto verso il basso: Enrico Pieranunzi, Paolo Fresu, Ada Montellanico, Enrico Rava)

Qui potete consultare il programma

Gruppi storici, musicisti in duo o soli, combos, conservatori, big band e scatenate marching band come i FunkOff e la Funky Jazz Orchestra di Berchidda, all’Aquila sarà davvero possibile ascoltare il panorama variegato e in movimento del jazz italiano, ormai affrancato dalla tradizione d’Oltreoceano e lanciato per suoi percorsi originali.

Che le cose siano cambiate lo dimostra anche il lavoro della rete organizzativa, frutto di un vero gioco di squadra. L’evento, infatti, promosso da Mibact e Comune dell’Aquila, è stato poi gestito dall’associazione dei musicisti jazz Midj presieduta da Ada Montellanico e da i.Jazz, l’associazione dei festival, il cui responsabile è Gianni Pini. Insieme, le due associazioni hanno portato giovani musicisti che hanno partecipato al progetto We Insist. E che il jazz adesso venga riconosciuto come parte essenziale della musica italiana lo dimostra anche il numero di musicisti che avrebbero voluto partecipare ma che non sono potuti entrare nel programma per motivi logistici. La partecipazione di tutti gli artisti, ricordiamo, è a titolo completamente gratuito e anche il pubblico potrà aggirarsi gratis di concerto in concerto.

I sommersi e i salvati della legge 107: guida alle assunzioni della Buona scuola

Ecco una guida per districarsi nel capitolo delle assunzioni della legge 107 (Buona scuola), fra insegnanti “deportati” ed esclusi e i posti disponibili.

Chi sono i precari della scuola

I precari della scuola sono insegnanti dotati di laurea e abilitazione che hanno avuto negli ultimi 15 anni ripetuti incarichi da parte degli uffici regionali o fino al 30 giugno (in maggioranza) o fino al 31 agosto. Sono divisi in gruppi o fasce. I più antichi sono quelli delle GAE (graduatorie ad esaurimento) di cui fanno parte gli abilitati o vincitori di concorso fino al 2008, poi ci sono i vincitori del concorso 2012 e infine gli abilitati tramite i vari corsi che si sono tenuti negli ultimi anni (seconda fascia). In base a calcoli sindacali i docenti che nel 2014/15 hanno avuto incarichi di supplenza annuali o fino a giugno sono stati circa 140.00. Questo fenomeno tipicamente italiano deriva dal fatto che molti posti non vengono considerati dal Miur cattedre a disposizione per le assunzioni a tempo indeterminato. In questo modo lo Stato ha risparmiato in questi anni milioni di euro perché questo personale viene pagato ogni anno con lo stipendio iniziale e per la maggioranza di questi per soli 10 mesi: dal 1 settembre al 30 giugno.

Chi sono gli assunti previsti dalla legge 107

La legge prevede l’assunzione dei soli precari delle GAE e del concorso 2012, per un totale di 102.000 persone. Sono stati esclusi i docenti pur abilitati di seconda fascia anche se hanno insegnato in questi anni e le maestre di scuola dell’infanzia. Il vero senso di tutta l’operazione è stato quello di evitare le sanzioni conseguenti alla sentenza della Corte di giustizia europea del novembre scorso che ha stabilito l’obbligo di assunzione per chi ha lavorato più di 36 mesi, ma cercando di spendere il meno possibile. Sono stati mantenuti i posti in organico previsti dalla legge 133 (Gelmini) confermando i tagli di ore di lezione, di materie e pertanto di personale allora introdotti, pari a circa 10 miliardi. Rimangono pertanto centinaia di migliaia di posti destinate a supplenza annuale.

Il pasticcio che si è prodotto

Fra gli assunti ci sono persone che non hanno più insegnato negli ultimi anni perché le ore di insegnamento della loro materia (economia, laboratori tecnico professionali, ecc..) sono state tagliate dalla legge 133.
Dall’altra parte si sono tagliati fuori migliaia di altri docenti abilitati che hanno assicurato il funzionamento delle scuole in questi anni nelle graduatorie nelle quali non c’erano più insegnanti delle GAE e del concorso 2012 (ad esempio matematica). Il problema insorto è che non c’è corrispondenza fra le reali necessità di base delle scuole e il personale individuato dalla legge.

Il pasticcio dell’organico potenziato

Per sistemare nelle scuole i docenti che non avrebbero trovato posto perché in graduatorie non più utilizzabili, la legge si è inventata l’organico potenziato, cioè un certo numero di insegnanti in più che ogni scuola dovrebbe richiedere in base al suo progetto didattico culturale. Anche questa operazione fallirà miseramente perché, per intendersi, se una scuola volesse incrementare l’intervento sull’alfabetizzazione degli immigrati, potrebbe non trovare nell’elenco degli assunti nessuno con queste competenze. Molte scuole saranno poi costrette a utilizzare questo personale aggiuntivo per coprire le assenze temporanee dei colleghi visto che tali incarichi sono stati eliminati dalla legge finanziaria. In tal modo salta una delle finalità principali della legge cioè il rafforzamento dell’autonomia delle scuole. A questo punto si prevede che le assunzioni totali siano 15-20.000 in meno di quelle previste e che gli uffici provinciali e le singole scuole saranno costrette ad assegnare nuove supplenze annuali.

Il problema dell’esodo dal Sud

Il bando obbliga gli aspiranti non assunti nella prima fase a indicare tutte le provincie d’Italia, il che comporta che uno possa finire a migliaia di km dalla sede ove risiede e in cui aveva insegnato in questi anni come precario. In più prevede il depennamento da ogni graduatoria di chi non accettasse la nomina. Questo rischio ha prodotto la mancata richiesta di assunzione da parte di circa 15.000 docenti che da 10 anni o più avevano insegnato nella propria provincia di residenza e ha scatenato la polemica sulla questione della “deportazione” degli insegnanti del sud. Il governo ha cercato di giustificare tale scelta motivandola con la carenza di personale al nord rispetto al sud. In realtà soprattutto al nord ci sono graduatorie che hanno utilizzato in questi anni personale della seconda fascia, pertanto l’effetto dell’esodo sarà che questi insegnanti non andranno a coprire posti vuoti ma fino ad ora coperti da altri docenti anch’essi abilitati che hanno insegnato nelle loro provincie in questi anni.

Cosa si sarebbe dovuto fare

Per ovviare a questo pasticcio per cui da una parte ci sono aventi diritto che non ne usufruiscono e dall’altra personale che ha insegnato per anni e che si troverà senza lavoro perché il suo posto è stato occupato da un esodato, sarebbe stato necessario un piano straordinario di assunzioni scaglionato su più anni e definito in base alle reali necessità provincia per provincia. Non avendo fatto così ci si trova nella situazione paradossale per cui fra i nuovi assunti mancano in alcune zone docenti (di matematica o altro), con la conseguenza che questi posti saranno nuovamente coperti da supplenti annuali. L’esito finale sarà che le assunzioni saranno molte meno delle 100.000 promesse e che il funzionamento normale delle scuole sarà assicurato come sempre dai supplenti.

In conclusione anche questo governo, dopo aver prodotto tante belle parole, ha continuato con la politica dei precedenti e perso la grande occasione di rimettere in sesto la scuola italiana colpita da tagli casuali e improvvidi che ne hanno diminuito le risorse di circa 10 miliardi negli ultimi 6 anni facendoci diventare il paese europeo che investe meno in istruzione.

*del Comitato Scuola e Costituzione di Bologna

 

Occupazione, qualche nota positiva. Il quadro resta mediocre

Faranno sorridere il governo Renzi e saranno venduti come i prodigiosi effetti del Jobs Act, i numeri sull’occupazione a luglio diffusi dall’Istat. Dopo qualche mese e la gaffe sui numeri forniti dal ministero del Lavoro qualche giorno fa, i dati sono in effetti tutti buoni: aumentano gli occupati, calano i disoccupati, come si legge nel comunicato Istat.

Dopo il calo di maggio (-0,2%) e la lieve crescita di giugno (+0,1%), a luglio 2015 la stima degli occupati cresce ancora dello 0,2% (+44 mila). Il tasso di occupazione aumenta nel mese di 0,1 punti percentuali, arrivando al 56,3%. Nell’anno l’occupazione cresce dell’1,1% (+235 mila persone occupate) e il tasso di occupazione di 0,7 punti.

occupati

(Istat)

 

Anche a guardarla nel medio periodo, il trimestre, non c’è male, ma le cose sono meno rosee.

Nel secondo trimestre 2015 – ininterrotta da cinque trimestri – continua la crescita degli occupati, stimata a +180 mila unità (0,8% in un anno). L’aumento riguarda entrambe le componenti di genere e coinvolge soprattutto il Mezzogiorno (+2,1%, 120 mila unità). Al calo degli occupati 15-34enni e 35-49enni (-2,2% e -1,1%, rispettivamente) si contrappone la crescita degli occupati ultra50enni (+5,8%).

I giovani, che pure nell’ultimo mese hanno trovato più lavoro, continuano a essere penalizzati nella dinamica generale del mercato: sale leggermente il tasso di inattività. L’occupazione nell’industria rimane stabile e cresce nel terziario e nelle costruzioni. Questo è un dato che cambia una dinamica che proseguiva da 19 trimestri consecutivi ed è quindi un segnale (l’edilizia è un indicatore buono per segnalare la fiducia).
Nell’ultimo mese aumenta leggermente il tasso di inattività (ovvero diminuisce la partecipazione al mercato del lavoro) e la disoccupazione cala solo per effetto di una crescente occupazione maschile.
Gli effetti del Jobs Act e dello sgravio triennale per chi assume a tempo indeterminato continuano a farsi sentire, +0,7% i contratti a tempo indeterminato, ma cresce senza sosta (dal 2010 in poi) il part-time, che nel 64,6 dei casi è involontario: 2 su 3 lavoratori occupati part-time vorrebbero lavorare a tempo pieno ma non possono.

Cattivo il dato del trimestre per quanto riguarda la distribuzione geografica dell’occupazione:

Dopo quattordici trimestri di crescita e il calo nel primo trimestre del 2015, nel secondo trimestre il tasso di disoccupazione si attesta al 12,1% (-0,1 punti su base annua); alla riduzione del Nord (-0,3 punti) si associa la stabilità nel Mezzogiorno e l’aumento nel Centro (+0,1 punti), con le differenze territoriali che si ampliano: l’indicatore varia dal 7,9% delle regioni settentrionali, al 10,7% del Centro fino al 20,2% del Mezzogiorno.

Presto per dire se questi dati, leggermente positivi, siano il frutto della ripresa della quale sentiremo parlare nelle conferenze stampa e gli annunci che ci accompagneranno nelle prossime settimane (c’è già un video entusiasta del premier su YouTube), quando prima sarà varato il documento di programmazione economica e finanziaria e poi la legge di Stabilità contenente l’abolizione delle tasse sulla prima casa, bonus e sgravi fiscali per investimenti e assunzioni (il prolungamento del bonus del Jobs Act per il Mezzogiorno). Difficile pensare che un tasso di disoccupazione che rimane tanto alto (12%) possa essere abbattuto con dei bonus. Per cambiare il quadro servirebbero una politica industriale e un superamento dell’austerity miope voluta dall’Europa.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/LeftAvvenimenti” target=”on” ][/social_link]@LeftAvvenimenti

Freddy Kruger e gli altri, addio a Wes Craven artigiano dell’horror

Anche chi non è un amante dell’horror ha sentito parlare di Wes Craven, almeno una volta nella vita. Il regista di Cleveland, infatti, morto ieri a 76 anni, ha avuto una carriera lunga e piuttosto prolifica, fatta di grandi colpi al botteghino e anche da diversi flop.

Eclettico, sperimentatore, essenziale nel suo far provare angoscia e paura, Craven inizia la sua carriera dapprima come musicista per poi passare al cinema nonostante un impiego stabile come insegnante alla John Hopkins University, dove si era laureato qualche anno prima.
Inizia come tuttofare in una piccola casa di produzione, e impara al punto da iniziare a lavorare in proprio e ad arrivare, nel 1972, al suo primo film: L’ultima casa a sinistra, divenuto presto un cult.

Dopo questo primo grande successo, di cui negli anni si è quasi pentito al punto di rifiutarsi di rivederlo, Craven firma nel corso dei decenni alcuni film destinati a divenire pietre miliari della storia del genere horror e, a modo loro, della storia del cinema.

Pensiamo a Le colline hanno gli occhiNightmare on Elm Street e alla maschera di Freddy Kruger, tra i grandi cattivi puri del cinema horror anni 80, come Jason Voorhees di Friday 13th e il capostipite Michael Myers, di Halloween, capolavoro di John Carpenter del 1978. Tutti film male accolti dalla critica al loro esordio e poi rivalutati (oltre che campioni di incassi e generatori di sequel)

Craven rappresentava le paure di un’epoca con contorni nitidi e definiti. Senza troppe sbavature, fronzoli o incertezze. Non fosse che per la faccia maciullata di Kruger che però era la raffigurazione della paura dello sconosciuto, dell’irrazionale, dell’ignoto. Di ciò che ancora non si conosce e che si pensa inconoscibile.

Negli anni ’90 Craven torna al successo con un’altra icona horror: la maschera bianca ripresa dall’urlo di Munch protagonista di Scream, poi divenuto una saga, che vedeva un omicida incappucciato (e imbranato) terrorizzare tranquille cittadine americane.
Quella risata ha inaugurato un nuovo modo di presentare ciò che ci fa paura, mischiando i generi, prendendo in giro l’horror in un film horror.

Da buon artigiano del brivido Craven, nonostante la malattia ha continuato a pensare a nuovi film.

Il buon senso di Anatolij, detto Antonio, che oggi tutti chiamano eroe

Me l’immagino com’è andata quando è arrivato in Italia.
-Comme te chiamm’?
-Anatolij.
Gli hanno chiesto da dove veniva, ma hanno continuato a ritenerlo albanese o polacco nonostante lui ripetesse di essere ucraino.
– Comm ‘a ritt che te chiamm?
– Anatolij.
– Ah, Antonio… Vien ‘accà Anto’, damme ‘na mano.

Così, alla decima persona che scambiava Anatolij per Antonio lui si è arreso. “Va bene – avrà pensato –: Se per voi sono albanese io ci sto. Se per voi sono Antonio ci sto. Purché la smettiate di aver paura di me”. Dalle mie parti succede a tanti migranti. Un mio amico Lazhar, per qualche strano motivo, è diventato addirittura Vincenzo.

Immagino anche il momento in cui Anatolij ha visto i rapinatori in azione. La figlioletta al suo fianco avrà percepito qualcosa, ma non dev’essersi spaventata più di tanto. Il papà ha subito tentato di metterla al riparo… Il buon senso avrebbe voluto che si mettesse anche lui in disparte facendole scudo, che uscisse subito dal negozio, fuggendo il più lontano possibile. “Proteggo ciò che mi appartiene. D’altro canto il conto l’ho pagato” avrebbe dovuto pensare. Probabilmente è quello che avrei fatto anch’io. Nascondermi, scappare portando la mia bimba al sicuro. Per paura e per buon senso.

Invece non è andata così. Anatolij-Antonio avrà ripercorso in un baleno i suoi primi anni in Italia, avrà pensato alla “fatica” fatta per comprare le poche cose messe nel carrello. E soprattutto alla fatica di farsi riconoscere (pur con un nome diverso dal suo) da quella cassiera come cliente abituale e non come potenziale “malintenzionato”. Avrà pensato che, in fondo, anche quel discount di Castello di Cisterna un po’ gli apparteneva, era un pezzo della comunità dove avrebbe cresciuto i figli, quella stessa che lo costringeva ad “arrangiarsi” in edilizia, che storpiava il suo nome, ma che in fondo non aveva più tanta paura di lui.

Gli è costata cara, certo. Ma penso che la vera scelta di buon senso l’ha fatta lui, Anatolij Korov detto Antonio. Lanciandosi contro il rapinatore per difendere luoghi e persone che, pur con mille limiti, gli appartenevano pur non essendo casa sua o la sua famiglia. Questo non è eroismo, questo è buon senso. Le nostre invece sono soltanto paure mascherate.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/RaffaeleLupoli” target=”on” ][/social_link] @RaffaeleLupoli

Nel 2040 il mondo senz’acqua. Il rapporto del World Resources Institute

L’evoluzione della disponibilità di risorse idriche, strettamente connessa ai cambiamenti climatici, è uno dei problemi più urgenti da affrontare, questo è quanto emerge dall’ultimo report pubblicato dal World Resources Institute. Da qui ai prossimi 25 anni infatti, secondo i ricercatori, nelle zone più secche aumenterà la siccità e l’acqua sarà un bene sempre più prezioso e conteso. Soprattutto: questi mutamenti ambientali ridefiniranno in maniera radicale la struttura sociale e produttiva degli Stati. Al punto da scatenare nelle aree più desamente popolate, al punto di scatenare vere e proprie lotte per il controllo e la gestione delle riserve idriche.

In un’analisi realizzata già nel 2012 dalle Nazioni Unite si rileva che già a partire dal 2030 circa la metà della popolazione mondiale dovrà affrontare in una forma o nell’altra la scarsità d’acqua. In particolare le Nazioni che hanno maggiore probabilità di essere colpite dal problema si trovano per lo più nell’area del Medio Oriente, che ad oggi fa fronte al fabbisogno d’acqua grazie a fiumi sotterranei o alla desalinizzazione dei mari. Stati come Bahrain, Kuwait, Palestina, Qatar, Emirati Arabi, Israele, Arabia Saudita, Oman e Libano, saranno toccati dall’emergenza in maniera decisiva. Uno stato come l’Arabia Saudita ad esempio rischia di dover sopravvivere di sola acqua importata già dai prossimi anni. Non molto diversa potrebbe essere la sorte di Paesi europei come la Spagna e l’Italia e americani come il Cile o Messico.

Nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema il Wri ha realizzato una mappa che mostra le proiezioni rispetto alla disponibilità di risorse idriche (ma non solo) da qui ai prossimi 25 anni.

Mappa disponibilità d'acqua 2040

Aqueduct | Water Risk

I mutamenti impattano e impatteranno sulla vita di tutti giorni, ma anche sui sistemi economici oltre a generare una serie di flussi migratori tra i Paesi che dispongono di maggiori scorte d’acqua e quelli che via via si stanno impoverendo. Secondo lo studio del Wri tra le cause delle rivolte scoppiate proprio in Siria e sfociante nella guerra civile potrebbe esserci anche la scarsità di acqua, visto che «Il calo delle risorse idriche è stato tra i fattori che hanno costretto 1,5 milioni di persone, per lo più agricoltori e pastori, a lasciare le loro terre per trasferirsi nelle aree urbane aumentando così la destabilizzazione generale del Paese». Sempre secondo i ricercatori fattori simili possono aver influito anche nell’acuire le tensioni fra Israele e Palestina e potrebbere un domani sviluppare dinamiche analoghe anche in altri territori dove il conflitto per l’accesso alle risorse idriche potrebbe portare a instabilità politica e guerre. In vista di tali cambiamenti diventa ancor più cruciale un radicale ripensamento della gestione energetica e sempre più vitale una reale svolta verso l’ “efficentamento”, idrico ma non solo.

Se c’è un Paese che sta vivendo in maniera drammatica il problema dell’acqua, questo sono gli Stati Uniti. O meglio, il West: California in testa, poi Colorado. Qui le stagioni degli incendi si sono allungate e sono diventate più drammatiche, rendendo più estese e difficili da delimitare le aree bruciate. Il grande Stato costiero, la settima o ottava economia del mondo, con un’agricoltura che è la più dinamica del Paese (e un bacino occupazionale da 417mila persone nel 2014) è alle strette per una siccità che dura da quattro anni. Lo Stato ha introdotto limiti al consumo di acqua con successo: nei mesi estivi, nonostante il caldo infernale, i consumi sono calati intorno al 30%. Segno che anche i californiani hanno capito l’urgenza e il rischio di un consumo eccessivo. Per l’inverno sono previste piogge intense a causa del probabile manifestarsi di El Niño. Quel che si dovrebbe sperare, però, è l’arrivo di molta neve, che è dalle montagne che i californiani ottengono la loro acqua.
 

>> GALLERY | L’emergenza siccità in California

 

[huge_it_gallery id=”21″]

 

L’estate 2015 è stata un periodo pessimo anche per l’Europa. Così almeno segnala lo European Drought Observatory, osservatorio della commissione europea sulla siccità. Nella mappa qui sotto sono evidenziate in blu le zone dove la siccità non toccava livelli paragonabili a quelli di quest’anno dal 2003, mentre in rosso le zone dove è dal 1991 che la situazione non era così difficile dal punto di vista della mancanza di acqua. L’ondata di caldo durata dall’inizio di luglio fino a metà agosto, accompagnata dall’assenza di pioggia, scrivono gli esperi dell’EDO, ha prodotto una situazione di allarme in diverse aree del continente.jrc-soil-moisture-europe-map

JRC-EDEA database (EDO)

E l’Italia? Questa nello specifico la situazione che attende il nostro Paese:

risors

centro italia

sud italia

 

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/LeftAvvenimenti” target=”on” ][/social_link] @LeftAvvenimenti