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Rapporto Svimez: il Mezzogiorno rischia il “sottosviluppo permanente”

Spesa pubblica, consumi, investimenti, al Sud d’Italia va tutto male e senza un colpo di reni e politiche intelligenti non sembra esserci nulla che possa cambiare la situazione. Il direttore dello Svimez, Riccardo Padovani, ha presentato oggi a Roma le anticipazioni del rapporto 2015. Il quadro che ne esce è desolante e drammatico per il Mezzogiorno italiano, che a differenza delle altre macro-regioni del Paese non vede la ripresa. Con una crescita negativa del Pil pari al -9,4% nel periodo 2001-2014 il Sud è andato molto peggio della disastrata Grecia ( -1,7%). Il Sud affossa il dato nazionale (-1,1%), nonostante il mediocre ma non negativo +1,5% del Centro-Nord. Come si legge nel comunicato:

Il Sud scivola sempre più nell’arretramento: nel 2014 per il settimo anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno è ancora negativo (-1,3%); il divario di Pil pro capite è tornato ai livelli di 15 anni fa; negli anni di crisi 2008-2014 i consumi delle famiglie meridionali sono crollati quasi del 13% e gli investimenti nell’industria in senso stretto addirittura del 59%; nel 2014 quasi il 62% dei meridionali guadagna meno di 12mila euro annui, contro il 28,5% del Centro-Nord.

Nel suo intervento di presentazione, Padovani ha parlato di desertificazione del tessuto produttivo e di rischio di sottosviluppo permanente:

La crisi restituisce un Paese ancor più diviso del passato e sempre più diseguale. La flessione dell’attività produttiva è stata molto più profonda ed estesa nel Mezzogiorno che nel resto del Paese, con effetti negativi che appaiono non più solo transitori ma strutturali. La crisi ha depauperato le risorse del Sud e il suo potenziale produttivo: la forte riduzione degli investimenti ha diminuito la sua capacità industriale, che, non venendo rinnovata, ha perso ulteriormente in competitività. La lunghezza della recessione, la riduzione delle risorse per infrastrutture pubbliche, la caduta della domanda interna, sono fattori che hanno contribuito a “desertificare” l’apparato economico delle regioni del Mezzogiorno colpendo non solo le imprese inefficienti, ma espellendo dal mercato anche imprese sane e tuttavia non attrezzate a superare una crisi cosi lunga e impegnativa. Risulta difficile a questo punto valutare se l’industria rimasta sia in condizioni di ricollegarsi alla ripresa nazionale e internazionale: il rischio è che il depauperamento risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire al Mezzogiorno di agganciare la possibile nuova crescita e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente.

La situazione degli investimenti lascia poche speranze: il periodo 2008-2014 fa registrare un calo degli investimenti industriali del 59,3%, il triplo del calo nel centro-nord. Sprofonda l’agricoltura (-38%), mentre costruzioni e servizi sono sostanzialmente in linea con i dati negativi del resto del Paese.

Negativi, come potrebbe essere altrimenti, i dati relativi alla demografia e all’emigrazione. Qui sotto tre delle slide presentate da Padovani che ci raccontano come, accanto al crollo dell’occupazione e l’aumento della povertà – l’Italia va peggio degli altri Paesi, il Sud peggio del resto del Paese – nelle regioni del Mezzogiorno sia in corso un cambiamento epocale in negativo: più emigrazione, più giovani che non studiano e non lavorano, meno figli. Se non cambiasse in fretta questa dinamica demografica il rischio è quello di uno “tsunami demografico”.

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Di fronte a una situazione come quella delineata servono politiche. E probabilmente la possibilità di spendere che i parametri europei oggi negano alla Grecia come all’Italia. Il direttore di Svimez, nel suo intervento, ha fatto riferimento alla necessità di guardare alla “straordinaria esperienza di discontinuità che, nel dopoguerra, aprì la strada all’impetuoso sviluppo degli anni ‘60, con una strategia di intensa politica dell’offerta, mirata ad assegnare al Mezzogiorno il ruolo di fulcro dello sviluppo italiano. Il recupero di una logica “di sistema”, di una “logica industriale”, non ridotta al solo mercato (…) Si tratta, dunque, di ragionare su come ritrovare, Nord e Sud, una strada comune, puntando a non accontentarci di recuperare una crescita “debole”, da cui peraltro le regioni meno sviluppate del Sud rischierebbero di rimanere escluse”.

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La musica, l’America e i diritti che cambiano secondo Scott Matthew

Scott Matthew nel teatro di Atri (Francesco Polacchini)

Scott Matthew è un 44enne barbuto, timido e scarmigliato, sorridente e molto disponibile, un cantautore dalla voce delicata e piena di pathos. Nato e cresciuto in Australia, vive da tempo a New York. Dal 2008 ha pubblicato 5 dischi tra cui “Unlearned” un raccolta di cover reinterpretate alla maniera sad-punk. L’ultimo suo album si chiama This Here Defeat, è uscito a marzo 2015 ed è stato registrato a Lisbona con la collaborazione di Rodrigo Leão fondatore dei Madredeus.

È considerato un importante portavoce della causa Lgbt per aver realizzato la colonna sonora del film Shortbus (2006) di John Cameron Mitchell. «Non sono stato investito di nessuna carica, non mi sento un’icona di nessun movimento ma piuttosto ne condivido le prerogative, credo che la mia lotta, se così la vogliamo chiamare, si svolga ad un livello più intimo e più generale, preferisco sentire parlare di parità di diritti per gli tutti gli esseri umani».

Lo incontriamo ad Atri, cittadina dell’Appennino abruzzese ricca di storie e cultura, arroccata su colline da cui si vede il mare. E’ notte fonda la gente nella piazza si dirada fino a scomparire e il Teatro comunale, una riproduzione in scala del San Carlo di Napoli, diventa la cornice perfetta per scambiare qualche parola con l’artista.

Scott sale sul palco, ha sulle spalle la chitarra e in mano la custodia con l’ukulele. Non si deve esibire ma dice “non si sa mai”. Ha lo spirito entusiasta di chi veramente crede in ciò che fa e, anche se è da un po’ passata la mezzanotte ed è appena sceso da un aereo, non c’è una sola nota di stanchezza nelle sue parole. Ciò che traspare è la curiosità e l’interesse per le storie delle persone che incontra. «Non ho mai trovo l’ispirazione in una città, New York è come qualsiasi altro posto nel mondo, sono le persone che mi ispirano, le esperienze, la vita, l’amore e la fine delle cose».


 

Come sei arrivato qui tra questa gente e queste colline?

Christian Jerger, il mio manager, è innamorato di questo posto, è il suo rifugio. Mi ha chiesto di seguirlo per qualche giorno di riposo prima del Siren Festival di Vasto. Ho incontrato i suoi amici e mi sto rilassando. Ora sono davvero contento di aver accettato l’invito. Qui sono stato accolto con calore e la gente mi ha accettato per la persona che veramente sono al di là del fatto che sono un cantante, del mio lavoro o delle mie preferenze sessuali, non è cosa da poco poter essere se stessi. Credo che il mondo stia rapidamente cambiando, sto parlando di come la gente percepisce la questione della libertà di espressione. Non ho avuto un’infanzia facile in Australia, per il fatto di essere gay ho vissuto lo scherno e la violenza della gente, venivo sempre picchiato, non mi sentivo nemmeno in diritto di essere vivo. Odiavo l’Australia. E me ne sono andato ma poi, l’anno scorso ci sono tornato e tutto era cambiato. Era tutto diverso. Ho avuto l’impressione che nel frattempo si fosse compiuta una sorta di accelerazione evolutiva. La sensazione è che questo stia accadendo a livello globale. Nel mese che ho passato là mi sono sentito orgoglioso di essere australiano. Mi sono riconciliato con il passato e con le mie origini, pensavo che questa possibilità mi fosse preclusa. Sbagliavo.

Come vive un musicista, che di fatto è diventato una voce importante per i movimenti per i diritti lgbt, negli Stati Uniti? Che cosa è cambiato dopo la sentenza della Corte suprema che ha riconosciuto il diritto al matrimonio di persone dello stesso sesso?

È stata una sorpresa. Ci siamo stupiti, eravamo tutti increduli perché l’America è un paese davvero conservatore ed è stato meraviglioso shock. Ho pianto la mattina che ho sento la notizia ma credimi c’è stata anche una fortissima reazione alla sentenza. Non è tutto e solo positivo, non è che ora sono tutti felici e contenti o hanno accettato la decisione senza rimostranze, ma di certo, è stata una cosa fantastica. Puoi resistere quanto vuoi ma quel cambiamento, questo tipo di cambiamento, sarà uno tsunami e alla fine si porterà via ogni resistenza. Dobbiamo essere pazienti. Ora sappiamo che succederà, ci sono le prerogative e le condizioni. La speranza è che avvenga universalmente per ogni aspirazione che riguarda le libertà fondamentali.

La Corte europea per i diritti umani ha recentemente sanzionato l’Italia per non aver ancora preso posizione sul riconoscimento legale per le coppie dello stesso sesso. Credi che la vicinanza al Vaticano possa avere un ruolo in questo ritardo? Sei religioso?

I cambiamenti avvengono rapidamente di questi tempi e voi in Italia avete alle spalle una storia millenaria con il Vaticano, forse non accadrà tra due anni ma prima o poi qualche cosa succederà. Credo proprio che quest’onda colpirà anche voi e vi colpirà forte. Penso inoltre che se questo non sta avvenendo è perché, quella che dicono essere la parola di Dio e stata probabilmente fraintesa. Io sono ateo ma capisco che la religione è per molti un’àncora di salvezza, credo anche che da qualche parte dentro di loro, queste persone sappiano dove sta la “verità”. Ognuno con un po’ di cervello, religioso o no, sa che la discriminazione o il fatto di non riconoscere i diritti fondamentali agli esseri umani è profondamente sbagliato e che quella non può essere la parola di Dio. Questa equazione per me è così semplice, lineare, ma ci vorrà ancora tempo prima che possa essere accettata universalmente. Quando la sentenza è stata emanata in America è diventato illegale impedire alle persone di sposarsi, prima c’erano Stati in cui a una coppia dello stesso sesso poteva essere rifiutata la possibilità di contrarre matrimonio e poi le obiezioni si sono trasformate in una cosa legata ai loro diritti religiosi. Insomma, diritti umani e libertà religiose spesso si scontrano, la lotta è ancora tutta da combattere, ma ora abbiamo una decisione della Corte, è stata presa una posizione chiara ma la mentalità non cambia da un giorno all’atro, ci vorrà ancora un po’ di tempo.

Hai una carriera musicale davvero interessante. Dopo aver inciso un album con il tuo gruppo gli Elva Snow, insieme a Spencer Corbin, uno dei membri della band di Morrissey, hai prestato la tua voce alle colonne sonore di film Anime come Cowboy Bebop e la serie Ghost in the Shell. Poi, hai ottenuto il riconoscimento internazionale con il film Shortbus. Ti da fastidio essere sempre associato a quell’esperienza?

Assolutamente no. Anzi ne sono orgoglioso. Ho guadagnato i primi soldi come musicista cantando per la compositrice Yono Kanno che in Giappone aveva il monopolio delle colonne sonore per i film Anime come “Cowboy Bebop” e la serie di Ghost in the shell di cui cantavo la sigla finale. Sono stato invitato a Tokyo e ho cantato davanti ad una platea di 50 mila persone. Mi hanno letteralmente sparato fuori dal palco con un carrello elevatore, ora capisco che cosa prova Beyonce (ride). Lì ho avuto la percezione di quello che può significare la parola “successo”. La gente mi assaliva per strada per chiedermi autografi, urlavano e piangevano. È stato incredibile e un po’ spaventoso. Dopo quella esperienza continuavo a domandarmi che cosa volessi fare davvero della mia vita. Avrei voluto sapere se qualcuno amava quello che scrivevo. Non mi interessava il successo ma volevo essere apprezzato per ciò che facevo. Stavo per abbandonare tutto. Poi ho ricevuto l’offerta per scrivere la colonna sonora di Shortbus. Un’esperienza che mi ha cambiato la vita. È stato come ricevere un dono. Per me non smetterà mai di essere una cosa importante. Non solo è stata una bella avventura dal punto di vista umano, ma ha significato tutto per la mia carriera. Quel film corrispondeva alla mia visione delle cose e rispettava la mia sensibilità. È stata la piattaforma perfetta, rappresentava una comunità con la quale avevo familiarità e sentivo che era il modo giusto e accettabile per presentare la mia musica alle persone.

Alle tre di notte Scott sembra essersi rianimato e chiede di poter cantare nel teatro vuoto per noi, una piccola troupe e qualche amico che prima lo aveva accompagnato a cena. Ci vuole ringraziare. Imbraccia la chitarra e attacca con le note di Smile di Charlie Chaplin. Come se nel teatro fosse scattato un interruttore, lo spazio è sembrato riempirsi. Tutti i presenti hanno chiuso gli occhi almeno un istante.

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New York, Roma, spazzatura e grandi media

new york sporca roma
Da qualche giorno sulla home page di la Repubblica campeggia una photogallery che raccoglie scatti dei “romani di New York” che, indignati per come il New York Times ha trattato la capitale in questo articolo (a dire il vero non un granché come approfondimento), hanno postato sulle pagine dei loro social network le foto di una Manhattan immersa nel degrado: pile di sacchi di immondizia davanti a una banca, sui marciapiedi di una avenue X, vecchiette che trasportano carrelli della spesa stracarichi di lattine e bottiglie di plastica. E poi qualche tenda di homeless.

È vero, New York City non brilla per pulizia. La sua metropolitana è vecchia e cadente (ma funziona bene e porta dappertutto) e spesso il packaging del cibo sfornato dalla miriade di fast-food e venditori ambulanti di hot dog tracima dai cestini della spazzatura. E le puzze non mancano.

Eppure un grande giornale con diversi corrispondenti che vivono sull’isola dove ogni giorno si riversano milioni di persone dal resto della città, dal New Jersey e dal Connecticut dovrebbe sapere che le bustone dell’immondizia sui marciapiedi sono una costante perché a New York la monnezza, come la chiamano i romani indignati, si lascia proprio per strada. Ci sono degli orari di deposito e altri di ritiro. E si possono anche lasciare oggetti ingombranti. Sui marciapiedi di NYC, dunque, troveremo anche divani, letti, materassi da fotografare e postare sui social nella speranza che una nostra foto venga ripresa da un sito di notizie importante. A dire il vero, a passare la sera nei quartieri bene c’è il caso che si trovi anche qualche mobile niente male e in ottimo stato da prendere e portare a casa. Anzi, i negozi di mobili vintage alla Mad Men che tanto vanno di moda di questi tempi hanno dei camion che girano per raccogliere gli scarti dei fortunati le cui finestre affacciano sull’Hudson o Central Park.

Quanto alle signore con le lattine, dalle foto si evince che sono asiatiche. Probabilmente cinesi, come quella decina di anziane e minute cinesi che si aggirano nella parte bassa di Manhattan, specie intorno a Wall Street, a raccogliere, appunto, lattine e bottiglie di plastica dai cestini (e talvolta da terra) per raccoglierle. Vengono da Chinatown, dove la vita si svolge per strada e dove i marciapiedi sono più sporchi che altrove.

Insomma, NYC è sporchina ma più sotto pressione ed efficiente di Roma. Ci mancherebbe, si vanta di essere il centro del mondo di oggi, non di Duemila anni fa. E se c’è un problema serio che la colpisce, questo sono le diseguaglianze (De Blasio ha vinto anche su quelle) e il costo apocalittico del mattone.

Fa dunque un po’ specie che un grande giornale pubblichi sette (7) foto, alcune delle quali scattate dalla stessa persona, le tenga tre giorni in home page e ci titoli “New York non sta meglio di Roma” la replica dei romani al New York Times. Sa un po’ di populismo, un po’ di caccia al click estivo e un po’ di ridicolo, visto che il degrado di Roma sotto Marino è stato uno dei cavalli di battaglia del giornale per mesi. Il New York Times, che pure non ha brillato per approfondimento e insight su Roma, certe cose non le farebbe. Ma quello è il giornale della fetida New York.

PS Questa è una questione minore, il Web è pieno di articoli importanti sui piedi dei figli degli amici del senatore Vito Crimi

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Left Anteprima | Mirafiori Lunapark, il nuovo film di Stefano Di Polito. Dal 27 agosto nei cinema.

«Vengo da Mirafiori Sud» racconta Stefano Di Polito, regista quarantenne figlio di operai Fiat. Ha da poco finito di scrivere e dirigere Mirafiori Lunapark, un film realizzato per «recuperare l’identità culturale della fabbrica, della protesta, della lotta per un’uguaglianza sociale», racconta a Left. Una pellicola a metà tra un documentario – con tanto di immagini di repertorio dell’inaugurazione mussoliniana con i suoi 50mila operai – e una fiaba, il film, prodotto da Mimmo Calopresti ed Eileen Tasca per Alien Films, sarà nei cinema dal 27 agosto.

Ecco una clip in anteprima su Left.
E sabato 1 agosto in edicola l’intervista al regista Stefano Di Polito

Veloso e Gil a Tel Aviv nonostante le polemiche. Ecco perché

Gilberto Gil e Caetano Veloso a Tel Aviv il 28 luglio 2015

Tel Aviv, 28 luglio 2015. Davanti a 8mila persone Caetano Veloso e Gilberto Gil hanno portato sul palco il loro ultimo show Due amici. Cent’anni di musica. Anche qui, come in tutto il mondo, anche in Israele. Nonostante le polemiche. Nonostante gli inviti a cancellare quella data in segno di opposizione al massacro palestinese. L’invito a non fare quel concerto è giunto persino dal Premio Nobel per la Pace, il sudafricano Desmond Tutu. Numerosi messaggi dopo, ad amplificarlo ci aveva pensato Roger Waters, l’ex Pink Floyd ha scritto a Veloso chiedendogli espressamente di non fare lo show, a causa del «massacro contro i palestinesi».

Gilberto Gil e Caetano Veloso, in questo tour non portano solo mezzo secolo di musica insieme e mezzo secolo di amicizia. Ma anche mezzo secolo di ribellione, attivismo,  esilio, rivincite, schiena dritta. Alla fine Gil e Veloso hanno deciso di esserci a Tel Aviv. Il perché, Caetano Veloso, lo aveva spiegato già un mese fa sul sito brasiliano Globo, con una lunga lettera di risposta a Waters. Left l’ha tradotta per voi:

Caro Roger,

circa un mese fa abbiamo ricevuto la tua lettera attraverso Pedro Charbel, un giovane brasiliano che fa parte del movimento Bds (coalizione di attivisti dei diritti umani per la Palestina libera e indipendente, ndr). Pedro è venuto a casa mia, dove ha trovato Gil e me – insieme ai nostri impresari -, accompagnato da una giovane brasiliana-israeliana, Iara Haazs, una donna ebrea (che anche’essa sta con il Bds), per chiederci di cancellare lo show, a Tel Aviv, il prossimo mese. Prima di allora, noi avevamo ricevuto una lettera di un importante militante dei diritti umani in Brasile con la stessa richiesta. Oggi ne riceviamo un’altra, questa volta proprio da Desmond Tutu (che è stato citato nella sua e in tutte le altre lettere e messaggi che abbiamo ricevuto su questo argomento). Provo a rispondere anche a lui. Quando il Sudafrica si trovava sotto il regime di apartheid, e sapevo che molti artisti si rifiutavano di andare lì, concordai quasi automaticamente con quella decisione. La complicata situazione in Medio Oriente non mostra lo stesso tipo di immagini in bianco e nero che il razzismo ufficiale, aperto del Sudafrica mi ha mostrato poi. Ho detto a Charbel come mi sentivo su questo. Lui trovava, come te, difficile da credere che persone come Gil e me non abbiano declinato l’invito dei produttori e del pubblico di Israele (lo show è sold out) dopo aver sentito quello che aveva da dirci sugli aspetti davvero oscuri sulle relazioni tra Israele e la Palestina. Sento il bisogno di dire, come ho detto a lui, come il mio cuore è fortemente contrario alle posizioni della destra arrogante del governo israeliano. Io odio la politica dell’Occupazione, le decisioni disumane che Israele ha preso in ciò che Netanyahu chiama autodifesa. E penso che la maggioranza degli israeliani che si interessano alla nostra musica tendono ad avere una reazione simile alla mia rispetto alla politica del loro Paese. Riporto qui quello che ho risposto a un giornalista brasiliano che mi ha chiesto come avrei risposto alla richiesta di cancellazione in una breve frase: Ho cantato negli Stati Uniti durante il governo Bush e questo non significava che io approvassi l’invasione dell’Iraq. Ho scritto e inciso una canzone che si opponeva alla politica che ha portato alla prigione di Guantanamo – e l’ho cantata a New York e Los Angeles. E voglio saperne di più su ciò che sta accadendo adesso in Israele. Ma non cancellerei uno show per dire che sono fondamentalmente contrario a un Paese, a meno che non fossi realmente e con tutto il mio cuore contrario a esso. E questo non è il caso. Io mi ricordo che Israele è stato un luogo di speranza. Sartre e Simone de Beauvoir sono morti per Israele. Gilberto Gil mi ha raccontato che gli è già stato consigliato altre volte di cancellare un suo show in Israele, ma che lui si è rifiutato di farlo, anche dopo i terribili avvenimenti di luglio 2014. Quanto a me, io desidererei vedere la Palestina e Israele come due Stati sovrani. E credo che Israele debba ascoltare le reazioni che provengono dall’estero. Le Nazioni Unite, molti governi, e anche artisti, come te, mostrano il rischio che Israele diventi sempre più isolata, se continua con le sue politiche reazionarie. Talvolta, penso che è controproducente isolare Israele. È così se quello che si sta cercando è la pace. Ho molti dubbi su un tema talmente complesso. Charbel sa quanti problemi di produzione avremmo in caso di cancellazione di uno show che è già stato annunciato ed è andato già tutto esaurito. Ma avrei affrontato tutto allegramente se  fossi stato sicuro che questa era la cosa giusta da fare. Devo pensare con la mia testa, commettere i miei errori. Io ringrazio te – e molti altri – per l’attenzione e lo sforzo dedicati a illuminarmi sulla politica in quella regione. Ho sempre detto la verità dei miei pensieri e sentimenti, e se cancellassi questo show solo per compiacere le persone che ammiro, non sarei libero di prendere le mie decisioni. Andrò a cantare in Israele e presterò attenzione a quello che sta accadendo là. Alle ultime elezioni Netanyahu non ha avuto una vittoria facile. Penso che il fatto di cantare lì è indipendente dalla politica del Paese, ma se le mie canzoni, la mia voce o la mia mera presenza potranno aiutare gli israeliani che non sono d’accordo con l’oppressione e l’ingiustizia – in una parola, a sentirsi più lontani dalla scelta di votare uno come lui – io sarei felice.

Caetano Veloso

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Venezia72, la carica degli italiani

Due registi già Leone d’oro come Sai Ming-Lian e Aleksandr Sokurov con Francofoni ambientato al Louvre (dopo il geniale piano sequenza di Arca Russa girato all’eremitaggio) e autori come  Waiserman, Egoyan, Gitai e Kaufman sono fra i protagonisti della 72esima mostra d’arte cinematografica di Venezia che quest’anno si tiene al Lido di Venezia dal 2 al 12 settembre, diretta da Alberto Barbera. Con meno film ma – sulla carta – puntando sulla qualità, anche quando si tratta di film di genere come Black Mass diretto da Scott Cooper  protagonista da Johnny Depp in versione gangster o come il nuovo divertente corto di Martin Scorsese con Robert De Niro. S’intitola The Audition e racconta l’apertura di un parco a tema sul cinema con tanto di casinò, a Macao.

In tutto si contano 22 pellicole in concorso, 16 fuori concorso, 18 nella sezione Orizzonti, 16 corti in competizione. Fortissima, anche numericamente, la presenza di registi italiani, a cominciare dai quattro titoli in gara: il film storico Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio, storia di uomo d’armi, con un gemello prete, entrambi sedotti da una suora. E poi A bigger splash di Luca Guadagnino, remake forse “impossibile” del film La Piscina , con Tilda Swinton, Ralph Finnes e Dakota Johnson, nei ruoli che furono di Alian Delon e Romy Schneider. Mentre il film Io sono l’amore dell’esordiente Piero Messina, ex assistente di Sorrentino, indaga l’universo femminile affidandosi a Juliette Binoche come protagonista. Valeria Golino invece è la protagonista del film di Giuseppe Gaudino, Per amor vostro, storia di una Madame Bovary dei nostri giorni in fuga dalla famiglia claustrofobica. Mentre nelle sezioni più di ricerca come la Settimana della Critica e in quella degli autori s’incontrano Adriano Valerio e poi un “cantastorie” impegnato come Ascanio Celestini, un regista attento alla forma quanto a storie sociali come Vincenzo Marra. E ancora cinema italiano in altre sezioni fuori concorso come il film postumo di Claudio Caligari, Non essere cattivo, prodotto da Valerio Mastandrea e nella sezione documentari Gli uomini di questa città io non li conosco di Franco Maresco. Dulcis in fundo una curiosità: fra gli esordienti spuntano nomi di star della musica d’avanguardia come Laurie Anderson con Heart of a Dog un film sulla perdita, indirettamente dedicato al musicista Lou Reed, il compagno di molti anni.

 

 La carica degli italiani

Non solo kolossal e film d’azione alla 72esima mostra internazionale del cinema a Venezia ma, dal 2 al 12 settembre, anche tanto cinema d’autore che non disdegna l’impegno. Soprattutto nelle sezioni “collaterali”. Qui incontriamo, per esempio, Ascanio Celestini con un film sul Quadraro, lo storico quartiere romano della Resistenza, e Vincenzo Marra, che a Venezia fu premiato nel 2001 per Tornando a casa, struggente film su migranti e pescatori e quest’anno presenta La prima luce, film molto personale su un bambino conteso fra genitori e Paesi lontani. E poi ancora, Antonio Capuano che racconta la dura realtà napoletana di Bagnoli, e Franco Maresco (da tempo senza Ciprì) con un intenso ritratto di Franco Scaldati, regista e drammaturgo, capace di coinvolgere la gente dell’Albergheria con il suo teatro poetico e visionario, vissuto come «una forma d’arte che implica immediatamente l’uomo, che obbliga a incontrarsi e scontrarsi». Un’altra proposta d’autore “siciliana” la troviamo invece in concorso. Si tratta dell’esordio del trentenne Piero Messina, con il film L’attesa. Ambientato in una antica villa dell’entroterra, questa opera prima ruota intorno a un complesso personaggio femminile interpretato da Juliette Binoche. Anna è una donna matura che ha vissuto un grave lutto e vive di memorie, quando spunta una ragazza, Jeann (Lou de Lâge) che dice di essere la fidanzata di suo figlio, e da qui inizia un percorso di ritorno alla vita. Film dalle immagini evocative, d’impronta francese, lontano dal registro grottesco e caricaturale de La grande bellezza e di altri film di Paolo Sorrentino, di cui Messina è stato aiuto regista. In concorso troviamo inoltre Il viaggio del giovane Adriano Valerio che ha già avuto riconoscimenti ai David ma anche a Cannes per un corto. In questo film racconta di due ragazzi, l’agronomo Ivo (Edoardo Gabriellini) e Clara che ha studiato per fare la restauratrice (Elena Radonicich) in fuga da una regione, la Puglia, che non offre loro possibilità di lavoro. La loro meta? Sarà la Romania lungo una via di emigrazione percorsa al contrario rispetto a tanti romeni che arrivano in Italia in cerca di un lavoro.

Come accennavamo, anche quest’anno, è la Settimana della critica ad offrire una panoramica di proposte d’autore, impegnate e coraggiose. A cominciare dal premio a Peter Mullan, attore in film di Ken Loach come Riff Raff e My Name Is Joe ma soprattutto regista di Magdalene (Leone d’oro nel 2002): il film denuncia sulle violenze, fisiche e psichiche, perpetrate da suore su ragazze madri all’interno di conventi irlandesi e in qualche modo apre la corsa a Spotlight, il film fuori concorso di Tom McCarthy basato sull’inchiesta del Boston Globe su Chiesa e pedofilia . Quanto a Mullan a Venezia viene presentato il film con cui esordì nel 1998, ovvero Orphans in cui raccontava senza infingimenti la storia, tragicomica e in parte autobiografica, di quattro fratelli dalla personalità molto differenti che si ritrovano in occasione della morte della madre.

A proposito di Settimana della critica, Antonio Capuano vinse il premio nel 1991 per Vito e gli altri, film sulla difficile vita dei bambini di strada a Napoli. E, dopo molto cinema indipendente, il regista e pittore partenopeo torna a Venezia con Bagnoli Jungle, che racconta un territorio difficile come quello dell’ex area siderurgica, attraverso un confronto di generazioni che non si sono non arrese al degrado della periferia del capoluogo partenopeo.

Ed è una storia dura, fatta di ricerca di espedienti per campare ma anche di cadute nel buco nero della depressione quella che narra poeticamente Ascanio Celestini, con molto amore per la gente del quartiere dove è nato e cresciuto, nel film Viva la sposa,  presentato durante la Settimana degli autori a Venezia. Un film, come racconta lui stesso nelle note di regia, «girato in poche centinaia di metri al Quadraro», il “nido di vespe” che i tedeschi cercarono di azzerare nel ’44. Un posto dove ancora oggi, «credi che la città finisca, e dove invece ricomincia, nemica, ricomincia per migliaia di volte, con ponti e labirinti, cantieri e sterri, dietro mareggiate di grattacieli, che coprono interi orizzonti». Il film ha come protagonista Alba Rohrwacher, mentre Celestini interpreta Nicola, «che passa il tempo bevendo. Facendo finta di smettere di bere». Ognuno in questo quartiere popolare s’ingegna come può per sbarcare il lunario, qualcuno fa doppi e tripli lavori, qualcun altro truffa le assicurazioni, finché «passa una bellissima donna bionda tra le vite di poveri cristi. Una sposa che fa voltare tutti. Guardare la sposa li aiuta a sopravvivere», annota il regista, autore e attore del film, «ma poi la vita vera è un’altra».

Il filo rosso della riflessione politica e sociale, in pellicole dalla forte impronta autoriale, percorre le scelte della Settimana della critica anche riguardo al panorama internazionale. Ad anticipare i sette film in concorso, per esempio, sarà il film Jia (The Family) di una regista esordiente Liu Shumin, di origine cinese, che vive in Australia. Il suo film, realizzato con attori non professionisti, racconta la vita di due anziani genitori, in una Cina divisa fra il rispetto delle tradizioni e i rapidi cambiamenti imposti da un’economia capitalistica. Dalla Cina a Singapore, con il film The Return di Green Zeng che invece racconta di un uomo che torna a casa ormai vecchio dopo essere stato lunghi anni in prigione perché comunista. Anche in questo caso il protagonista dovrà fare i conti con una realtà che completamente mutata nel suo Paese. E ancora. Nella Settimana della critica sarà presentato per la prima volta un lungometraggio nepalese. Anche questo un debutto. Si tratta dell’esordio nel lungometraggio del regista Min Bahadur Bham che in The Black Hen racconta le vicende di due bambini e della loro gallina in un villaggio in cui si affrontano governo e guerriglieri maoisti negli anni 90. Lo sguardo però non è sulla guerra, ma sulle avventure dei due piccoli che riescono nonostante tutti a conservare spazi di vita, di gioco e di avventura. Infine, fra altre proposte che lo spettatore potrà scoprire nel programma della rassegna organizzata dall’associazione dei critici cinematografici, segnaliamo un film turco. Si tratta di Motherland della regista Senem Tuzen, che racconta la lotta contro antichi pregiudizi di una scrittrice, Nesrin, che dopo due matrimoni e un aborto decide di tornare a visitare il suo paese d’origine, per confrontarsi con chi ci vive ancora.

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I numeri del Festival

I nuovi lungometraggi della Selezione Ufficiale sono 55
così suddivisi:
·21 in Venezia 72 (Concorso)
·16 Fuori Concorso (di cui 9 documentari)
·18 in Orizzonti
I cortometraggi sono 16
così suddivisi:
·Fuori Concorso
·15 in Orizzonti
·   14 in Orizzonti – Concorso
·in Orizzonti – Fuori Concorso
Venezia Classici
  20 lungometraggi di cui 18 restaurati
    1 cortometraggio restaurato
    8 documentari sul cinema
Numero dei titoli visionati
  3193 di cui:
  1740 lungometraggi
  1453 cortometraggi

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Il Mullah Omar è morto? Forse, ma due anni fa

L’emittente televisiva afghana 1TV si dice sicura della notizia della morte del leader talebano e cita una fonte anonima, un funzionario del governo, secondo cui il leader spirituale dei talebani sarebbe morto da tempo. Non è la prima volta, ma il moltiplicarsi delle fonti fa supporre che la notizia stavolta sia vera. Il governo afghano ha tenuto una conferenza stampa annunciando che sta indagando sulla notizia. Stesso lavoro stanno facendo le fonti di intelligence statunitensi. Fonti talebane smentiscono invece la notizia.

Il 23 maggio 2011 infatti i media afghani, prima fra tutti Tolo Tv, e l’agenzia iraniana Fars diffusero la notizia, mai confermata dalle forze Isaf, la missione internazionale Nato di stanza in Afghanistan, secondo cui Mullah Omar sarebbe stato ucciso il 21 maggio in Pakistan. L’informazione, immediatamente smentita dai talebani, era circolata a poco più di venti giorni dalla morte di Osama Bin Laden. Anche allora come oggi a lanciare la notizia fu una «fonte anonima della sicurezza» (Agenzia di stampa Pajhwok). E addirittura il corrispondente dell’agenzia iraniana Fars rilanciava annunciando che: «Il corpo del Mullah Omar viene sottoposto in queste ore ad alcuni esami medici» e che, dalla morte di Bin Laden «I Talebani hanno perso i contatti con il loro leader».

Dal 2001 Omar è completamente sparito dalla circolazione e tutte le dichiarazioni o comunicati del leader avvengono per iscritto, non messaggi registrati, non foto, non video. Anche per questo è facile che notizie sulla sua morte si diffondano o che, come sembra in queste ore, Omar abbia continuato a parlare anche da morto. Il New York Times, intervistando alcuni comandanti talebani di alto rango, ha confermato alcuni mesi fa che da tempo non ci sono stati più contatti con il leader: «Non vedo il Mullah Omar da moltissimo tempo» Maulvi Najibullah, ufficiale talebano di stanza nel nord del Pakistan.

Anche il corrispondente della BBC a Kabul riferisce che fonti dell’ufficio del presidente afghano, così come funzionari dei servizi afghani, gli hanno confermato che il Mullah Omar è morto – probabilmente da due o tre anni.

La conferma della morte del mullah Omar da parte delle autorità di Kabul arriva in un momento critico, con una seconda tornata di colloqui di pace tra i rappresentanti talebani e negoziatori del governo afghano in programma in Pakistan il 31 luglio. Fidai Mahaz, un gruppo scissionista che si oppone ai colloqui con il governo, aveva diffuso la notizia della morte e della presa in mano del comando da parte del mullah Akhtar Mohammad Mansur. Lo stesso gruppo sostiene che in Afghanistan molti sanno che la tomba di Omar è nella provincia di Zabul.

Il 15 luglio, un sito web ufficiale talebano aveva pubblicato una dichiarazione a nome di Omar nella quale si dava l’imprimatur ai colloqui, modificando la posizione tradizionale talebana con l’obiettivo di «porre fine all’occupazione delle forze straniere». Venerdì è in programma a Islamabad un colloquio tra le forze talebane e il governo di Kabul per aprire alle trattative di pace. La diffusione della notizia, ha certamente a che vedere con questa scadenza.

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Star di Hollywood e regine nel video pro-accordo con l’Iran

hollywood pro iran

Il video qui sotto è parte della campagna di Global Zero in favore dell’approvazione al Congresso degli Stati Uniti dell’accordo nucleare con l’Iran. Il Si delle Camere non è affatto scontato e Obama ha promesso il veto su qualsiasi atto del Congresso teso a bloccare l’implementazione dell’Iran deal. Ma un voto favorevole del Congresso renderebbe più solide le basi dell’accordo. Nel video Rania di Giordania, Jack Black, Morgan Freeman tra gli altri spiegano le ragioni dell’intesa e chiedono ai cittadini Usa di premere sui loro eletti affinché la votino.

Global Zero si definisce un movimento internazionale per l’eliminazione di tutte le armi nucleari. Suo obbiettivo è fermare la diffusione delle armi nucleari individuando politiche per il disarmo, dialogando con i governi e lavorando nella società e sui media per rendere l’eliminazione delle armi nucleari un imperativo globale urgente.

Dal suo lancio a Parigi nel dicembre 2008, ha organizzato quattro vertici globali e numerose conferenze regionali; costruito un movimento studentesco internazionale con più di 175 gruppi  in 29 paesi; prodotto un documentario sul tema.

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La trattativa e la solitudine del magistrato. Intervista a Nino Di Matteo

Sul numero 20 di Left in edicola fino a sabato intervistiamo Antonino Di Matteo, dal 1992 sostituto procuratore di Caltanissetta e, dal ’99 magistrato a Palermo e da anni impegnato nelle inchieste sulla cosiddetta “Trattativa” tra Stato e mafia. Con il giornalista de La Repubblica Salvo Palazzolo ha scritto Collusi. Perché politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia. Ecco un breve estratto dall’intervista.

 

Cominciamo toccando subito il nervo scoperto: a che punto è il processo sulla trattativa? Tolti alcuni siti di informazione sembra quasi che non esista nemmeno un processo in corso, come se fosse già ufficialmente un’inutile bolla di sapone, mentre alcuni collaboratori di giustizia stanno rilasciando dichiarazioni esplosive. Quindi?

Il dibattimento sulla trattativa va avanti con una cadenza piuttosto serrata ormai nel disinteresse generale. Dopo la testimonianza del Capo dello Stato altri passaggi giudiziari secondo noi molto importanti sono passati sotto silenzio.  (…) Ci contestano di continuare a indagare nonostante la pendenza del dibattimento. Noi invece riteniamo che ogni spunto vada approfondito e riteniamo che ciò che sta emergendo possa provare l’esistenza di un reato che non è il quello di “trattativa” ma il reato preciso di “violenza e ricatto al governo”: noi pensiamo che i mafiosi abbiano compiuto quella violenza (e quel ricatto) attraverso le bombe, e i politici e gli appartenenti alle istituzioni sono imputati in concorso per avere fatto da cinghia di trasmissione tra i mafiosi e il governo.

 La tua bocciatura al Csm mi riporta a Falcone e Borsellino, commemorati ogni anno, e con una delegittimazione così simile alla tua. Tante similitudini. Non ne hai paura?

Ho pudore a parlare di similitudini rispetto a magistrati molto più autorevoli ed efficaci di me, che hanno combattuto la mafia. È certo, però, che quando leggevo, anche attraverso gli atti delle inchieste, la profonda amarezza, soprattutto di Giovanni Falcone, quando gli dicevano di essersi messo una bomba all’Addaura da solo, oppure l’amarezza di tutte le volte che sono stati bocciati i suoi progetti di avanzamento di carriera o di trasferimento, non potevo capire la rabbia e la delusione di quel giudice. Negli ultimi due anni, invece, ho provato un senso di profonda amarezza (…) Ora so che si corre sempre il rischio di diventare (non volontariamente) un simbolo della lotta alla mafia e scatenare gelosie e rancori pericolosissimi, e che i mafiosi sanno cogliere benissimo i segnali di isolamento e di delegittimazione. Alle calunnie reagirò sempre in tutte le sedi. Rispetto le opinioni ma non accetto di essere il «ricattatore del Capo dello Stato» o colui «che si è montato da solo» le minacce di Riina. (…)

Mattarella, Renzi, Grasso e altri hanno telefonato subito a Lucia Borsellino per solidarizzare a seguito di una presunta intercettazione. A te hanno mai chiamato per esprimerti vicinanza?

Mai ricevute telefonate di Presidenti della Repubblica o presidenti del Consiglio. Mai. Nemmeno dopo le minacce di Riina. Nemmeno quando il pentito Galatolo ha riferito il progetto di attentato nei miei confronti. Non chiedermi un commento. Ho dato una risposta sui fatti. Tengo per me le considerazioni.

Per leggere l’intervista integrale acquista il nuovo numero di Left  qui

La dichiarazione dei diritti internet: ecco la Costituzione per chi naviga sul web

dichiarazione dei diritti internet

Oggi alle 12 è stata approvata a Montecitorio la Carta dei diritti di Internet”, una sorta di Costituzione per chi naviga sul web che stabilisce nuove regole per quanto riguarda l’accesso alla rete, la net neutrality e il delicato rapporto fra privacy e social network. «Il web è ormai essenziale nella vita di ognuno di noi e nelle possibilità di sviluppo dei singoli cittadini e delle aziende» spiega la presidente della Camera Laura Boldrini «È la prima volta che un Parlamento produce una dichiarazione sui diritti di Internet di ispirazione costituzionale e di portata internazionale». Il primo a mettere sul piatto l’idea fu Stefano Rodotà, da sempre molto attento alla tutela delle potenzialità democratiche del web. Il professore infatti lanciò la proposta già nel 2005 in occasione del Word Summit on Information Society organizzato dalle Nazioni Unite.

 

Quali sono gli obiettivi della dichiarazione?

Innanzitutto bisogna chiarire che per ora la carta non ha alcun valore normativo, non si tratta infatti né di una legge, né di una proposta di legge, i 14 punti cardine della dichiarazione più che altro aspirano ad essere il primo passo verso una “Magna Charta” del Web, un documento che già Tim Berners-Lee, ideatore del world wide web ovvero di internet come lo conosciamo adesso, si augurava venisse emanato. I temi che sono stati considerati sono i più vari e tengono conto di un mondo che sta cambiando e si evolve insieme alle tecnologie e alla stessa rete. Centrale l’articolo 2 secondo cui l’accesso a Internet è un diritto fondamentale.

Per il resto si va dalla tutela dei dati personali, che devono essere raccolti e conservati secondo criteri e limiti ben precisi, al corretto utilizzo delle piattaforme social come Facebook e Twitter. Una sorta di etichetta di comportamento per il rispetto reciproco e per evitare situazioni di violenza verbale online o cyber bullismo che possono avere ricadute anche tragiche sulla vita “off line”, come dimostrato da recenti casi di cronaca. Altro tema fondamentale è poi quello del digital divide, l’accesso alla rete, sia in termini di possibilità tecniche che di conoscenze necessarie per utilizzare internet. «Tra i temi più sottovalutati fin ora- spiega Juan Carlos De Martin, docente di Informatica del Politecnico di Torino e editorialista de La Stampa – c’è proprio il diritto all’educazione: se non si conosce e comprende a fondo la logica di Internet, si rimane utenti molto superficiali e, quindi, sminuiti. Il divario digitale si articola su più aspetti: può essere strutturale, quando mancano gli concretamente gli strumenti per accedervi, economico (‘vorrei ma non posso permettermelo’) e culturale (‘posso permettermelo ma non so come utilizzarlo’). Messe insieme, queste disparità riguardano quasi un italiano su due, con percentuali molto più alte nelle fasce di popolazione più povere o anziane». Internet appunto è ormai sempre più una questione di democrazia, lo è in termini individuali e sociali per quanto concerne i diritti delle persone, ma lo è anche in termini economici dove avere una legislazione che tuteli i cittadini dal monopolio assoluto di pochi grandi colossi del web, è l’unica possibilità per evitare che buone idee e spinte imprenditoriali vengano stroncate sul nascere da «guardiani del Web in grado di stabilire chi ha successo online e chi no» spiega ancora De Martin.

L’obiettivo finale dunque secondo la presidente Laura Boldrini è chiaro: «quanto prima la Dichiarazione faccia da base a una mozione unitaria che impegni il governo a promuoverne i contenuti in contesti nazionali e internazionali», il testo infatti è da leggere come «un cantiere in evoluzione » su cui la commissione «continuerà a lavorare».

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