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Epatite C, Guarigione a caro prezzo

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Finalmente anche in Italia si può guarire dal virus Hcv, il virus dell’epatite cronica. Centinaia di migliaia le persone affette, per le quali finalmente si apre il varco di una guarigione insperata. Solo un piccolo dettaglio frena gli entusiasmi: il prezzo della terapia. Un combinato di “farmaci miracolosi” per la loro efficacia (95% di possibilità di guarigione) con a capo il sofosbuvir (nome in commercio Sovaldi), dai prezzi talmente folli che lo Stato italiano, attraverso l’Aifa, ha stretto accordi che per ora potranno curare, un po’ alla volta, solo una parte dei pazienti più compromessi: 50.000 dei 250mila gravi.

Questi farmaci, potrebbero cambiare la vita di quasi un milione di persone in Italia e del sistema sanitario a loro connesso. Ma quali sono le ragioni che hanno determinato un prezzo del genere? Come mai un terapia così importante, che potrebbe salvare la vita a milioni di persone, è così inaccessibile? Chi ci perde e chi ci guadagna? E come mai in altri Paesi è possibile comprare il farmaco a prezzi stracciati, come in Egitto o in India, dove il costo è di un dollaro a pillola contro gli 800 euro nostrani?

Queste sono alcune delle domande dalle quali è partita la nostra indagine, questa settimana in edicola su Left.

L’epatite C è una malattia finora troppo poco conosciuta dal grande pubblico così come, spesso, dagli stessi ammalati, per una sua caratteristica subdola: la sua apparente asintomaticità. In realtà così non è, perché il fisico, più o meno lentamente a seconda dell’aggressività del virus e del comportamento individuale, si deperisce, si consuma. Debolezza, dolori articolari, prurito cutaneo, dolore muscolare, mal di stomaco e ittero accompagnano la persona per anni. E poi ancora neuropatie, crioglobulinemia e altre degenerazioni dovute all’infiammazione e al malfunzionamento del fegato. Più o meno silenziosamente, nel corso del tempo, l’epatite C può portare a problemi sempre più gravi, tra cui danni al fegato, cirrosi, insufficienza epatica o epatocarcinoma, tumore del fegato.

Proprio a causa della sua alta epidemiologia, è il primo motivo di trapianto di fegato nel nostro Paese. Più del 50% dei trapianti sono effettuati per conseguenza dell’epatite C.


 

Il testo è una breve sintesi di un articolo pubblicato su Left 29 in edicola. Potete comprarne una copia digitale qui

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La strage di Bologna 35 anni dopo

Sono le 10:25 del 2 agosto 1980, la sala d’attesa è affollata. Intorno il caos della stazione ferroviaria di Bologna: il caldo, la fretta di partire, le valige, una in particolare abbandonata su un tavolino portabagagli sotto il muro portante dell’ala ovest. Un clic, poi l’esplosione. 23 kg di esplosivo che travolgono tutto e tutti, i detriti e l’onda d’urto arrivano addirittura a colpire il treno Ancona-Chiasso fermo al binario 1 in attesa di ripartire. Muoiono 85 persone, in 200 rimangono feriti. Inizia così una degli episodi più terribili che segnano la storia della democrazia italiana sulla quale ancora permangono ombre.

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(BOLOGNA) – 2 agosto 1980. Arrivano i primi soccorsi dopo l’esplosione.

 

La strategia della tensione. La strage compiuta alla stazione Bologna è uno dei momenti più cupi della storia del dopoguerra e l’ultimo e il più grave atto terroristico compiuto nel Paese negli ultimi 50 anni. L’attentato è indicato come uno degli ultimi atti della strategia della tensione, quel periodo politico e sociale tormentato iniziato con la strage di Piazza Fontana avvenuta il 12 dicembre 1969 con l’esplosione di una bomba piazzata nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, nel pieno centro di Milano.

Il processo. Sui reali colpevoli non è mai stata fatta piena chiarezza, nel novembre 1995 dopo tre gradi di processo, la Corte di Cassazione confermò la condanna, quali esecutori dell’attentato, di due esponenti dei Nar, i militanti neofascisti Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro che, pur avendo confessato decine di omicidi di stampo politico, si sono sempre dichiarati innocenti riguardo alla strage di Bologna. A questa sentenza si arrivò anche grazie alla spinta civile dell’associazione dei familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna, ma con estrema lentezza e difficoltà a causa di una serie continua di depistaggi e una complicata e discussa vicenda politica e giudiziaria.

Il movente e i mandanti. La sentenza della Corte di Cassazione rileva che, se anche gli esecutori per la Legge sono accertati, non sono chiari invece i moventi e i mandanti. Svariate sono state le ricostruzioni che vanno dall’ipotesi che si trattasse di atti intimidatori dei gruppi armati neofascisti a causa dei processi relativi alle stragi dell’Italicus e di Piazza Fontana, altri ricollegano la strage alle azioni perpetrate dalla loggia P2 presieduta da Licio Gelli, altri ancora vedono la strage come un diversivo per distogliere l’attenzione dal crack della Banca Ambrosiana e dal caso Sindona, dall’affacciarsi di Cosa Nostra e della trattativa Stato-mafia. O addirittura un diversivo per una matrice “atlantica” dell’attentato che sarebbe servito a sviare l’attenzione dai fatti di Ustica.

La commemorazione e la petizione. Viste le ombre che ancora avvolgono i fatti le celebrazioni per l’anniversario della strage sono spesso accompagnati da tensioni e polemiche. Domani alle 10.25 è prevista la tradizionale sfilata in via Indipendenza, davanti alla stazione di Bologna, sul Palco per la commemorazione il presidente del Senato Pietro Grasso. Prenderà la parola anche l’onorevole Paolo Bolognesi, deputato Pd e presidente dell’associazione famigliari delle vittime. Proprio Bolognesi ha avuto parole dure nei confronti del governo Renzi e ha lanciato una petizione su avanza.org chiedendo di rispettare gli impegni sulla desecretazione degli atti, i risarcimenti e l’approvazione della legge che introduce il reato di depistaggio, per cui l’iter è stato avviato proprio ieri in commissione giustizia al Senato. Queste in particolare le parole con cui Bolognesi commenta la direttiva emanata dal governo Renzi sul segreto di Stato e sull’apertura degli archivi:

 

«Nell’aprile 2014 arriva la direttiva che apre gli archivi di ministeri e servizi segreti e li obbliga a depositare i documenti sulle stragi all’Archivio di Stato. Un’operazione di verità, si dice. Non avviene. L’intenzione politica è buona, ma il comportamento degli apparati no e per un anno – come associazioni – abbiamo ripetuto inutilmente al Governo che ci sono alcune correzioni da fare. In sostanza è come se si fosse detto al ladro di consegnare la refurtiva e sperato che lo facesse. Infatti, gli stessi apparati che fino ad oggi hanno tenuto ben chiuse le carte sulle stragi, sono gli stessi a cui la direttiva affida il compito di renderle pubbliche. Senza nessun controllo esterno, lasciando a ministeri e servizi segreti la possibilità di preselezionare gli atti e scegliere cosa versare. Senza che si conosca l’elenco dei documenti effettivamente presenti negli archivi. Non era questo l’obiettivo della direttiva e chiediamo che si migliori perché gli apparati non la svuotino del suo significato con la strategia del pacco vuoto».

 

All’appello ha aderito immediatamente anche Salvatore Borsellino che in merito ha dichiarato: «Questo governo dimostri con i fatti e non soltanto con le parole di volere la giustizia e la verita” per le innumerevoli stragi di Stato che hanno segnato da sempre la vita del nostro Paese»

Dopo 35 anni, la mente corre a quell’orologio della stazione. Fermo immobile, le lancette ostinate e fisse sulle 10.25 a ricordarci che siamo rimasti lì, senza risposte, senza possibilità di rimetterci in moto e conoscere la verità sui fatti. La domanda è: per quanto tempo ancora?

 

Su questo blog trovate molte testimonianze di quel che è successo: http://dueagosto.tumblr.com

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Renzi sfida i sindacati. Su Left l’intervista a Landini

Oggi dalle pagine dell’Unità il premier – e segretario del Pd – Matteo Renzi parla di sindacati e legge di rappresentanza: «Noi ci siamo. E spero che stavolta i Sindacati accettino la sfida: una buona legge sulla rappresentanza potrebbe aiutarli a vincere la crisi che sta fortemente minando la rappresentatività delle organizzazioni. Oggi anche nel Sindacato c’è troppa burocrazia. E girano più tessere che idee», risponde Renzi a un lettore.

Una legge di rappresentanza sindacale, però, l’Italia ancora non ce l’ha. Nonostante sia stata invocata anche dalla Corte Costituzionale nel 2013, quando tra i componenti della Consulta vi era anche il Presidente Mattarella.

Intanto, l’iniziativa del governo si sposta proprio sul tema sindacale e, come ha annunciato il ministro Delrio, il governo si dice pronto ad accelerare i lavori parlamentari per l’esame del ddl 1286 sulla revisione del diritto di sciopero, un disegno di legge bipartisan che porta le firme di Ichino e Sacconi.

Il sindacato è “sotto attacco”, denuncia Maurizio Landini dalle pagine di Left n. 29 in edicola: «Il governo sta tentando di far saltare tutte le organizzazioni intermedie di rappresentanza. Quando uno dice “io parlo direttamente col popolo, decido direttamente e faccio le leggi”, non siamo solo davanti al fatto che non vuole incontrare il sindacato, ma che qualsiasi organizzazione intermedia rischia di non avere nessuno spazio e nessun luogo per essere ascoltata».
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Di questo e tanto altro discutiamo con Maurizio Landini, nell’intervista che trovate su Left 29 in edicola o sullo sfogliatore.cover_left_29_2015-751x1024

Quei dubbi sulla morte di Kurt Cobain. Tra marketing promozionale e misteri irrisolti

Cobain assassinio

Era il 5 aprile 1994 quando Kurt Cobain, fragile leader dei Nirvana, volto e voce del Grunge che ha influenzato almeno due generazioni di adolescenti (la sua Smell like teen spirit è stato vero e proprio inno per milioni di ragazzi), si toglie la vita con un colpo di fucile. Da allora su Cobain si è scritto tanto nel tentativo di dissipare misteri e dubbi sulla sua morte o di capire anche solo qualcosa in più di quell’anima complicata. Sono stati pubblicati i suoi diari, addirittura è comparso un inedito ritrovato durante le riprese del documentario “Kurt Cobain: Montage of Heck” e aggiunto alla colonna sonora del film prodotto da Hbo.

Il mistero principale – perché ogni mito necessariamente richiama come corollario una serie indefinita di leggende metropolitane e teorie complottiste – rimane quello della morte del cantante. Ufficialmente infatti fu archiviato come suicidio, ma per anni c’è chi ha malignato che a uccidere il leader eroinomane fosse stata la moglie Curtney Love. A riaprire il giallo Cobain in questi giorni, forse proprio sull’onda del successo del documentario biografico e della frenesia dei fan per l’imminente uscita dell’album inedito, è stato il giornalista televisivo Richard Lee, che in una tv locale di Seattle ha mandato in onda il programma Now See It Person To Person: Kurt Cobain Was Murdered, durante il quale ha chiesto di riaprire il processo e rendere pubbliche una serie di fotografie che proverebbero l’assassinio del frontman dei Nirvana. Per ora lo scorso marzo sono già state rese pubbliche alcune foto del preseunto “luogo del delitto”, diffuse dalla polizia pochi giorni dopo il ventesimo anniversario della morte di Cobain. Quello che si può vedere negli scatti però decisamente non sembra provare nulla: solo qualche effetto personale, il kit da eroina, un berretto da aviatore, occhiali da sole e qualche dollaro. Proprio il detective che si è occupato recentemente di riesaminare il caso ha dichiarato che senza dubbio la morte di Kurt Cobain è dovuta a un suicidio.

GALLERY | Le foto rese pubbliche dalla polizia di Seattle

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(fonte)

Eppure i dubbi di chi non vuole credere a questa fine rimangono, tanto che  il giudice della Corte Suprema Theresa Doyle sta decidendo proprio in queste ore se far riaprire o meno il caso e fare chiarezza su elementi come questi:

 

• Come ha fatto Cobain a spararsi se il suo corpo era talmente pieno di eroina da non consentirgli di imbracciare un pesante fucile? 

• Perché non ci sono le sue impronte digitali né sull’arma né sulla penna con cui ha scritto la sua lettera d’addio? 

• Perché il messaggio sembra scritto da due mani diverse? 

 

Le reazioni della famiglia sono state immediate e contrarie alla riapertura del “cold case” Cobain. Per Courtney Love, vedova del cantante: «La divulgazione pubblica delle foto riaprirebbe le mie vecchie ferite e mi procurerebbe nuove sofferenze. Sarebbe inoltre una madornale violazione della nostra privacy. Non riuscirei a cancellare quelle immagini dalla mente. Sarebbe un trauma enorme per me e per altri». Mentre la figlia Frances Bean, che all’epoca del suicidio di Cobain aveva solo 20 mesi, ha detto: «Ho dovuto affrontare molti problemi a causa della morte di mio padre. Fare ulteriore sensazionalismo con la pubblicazione di queste foto, sarebbe per me un dolore indescrivibile. Vengo continuamente molestata da fan ossessionati, e temo che la situazione possa peggiorare. Un fan ha fatto irruzione nella mia casa in California e ha aspettato per tre giorni il mio ritorno perché credeva che l’anima di mio padre fosse entrata nel mio corpo».

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Nel lunapark della fabbrica. Intervista a Stefano Di Polito

«Vengo da Mirafiori Sud», racconta Stefano Di Polito, regista quarantenne figlio di operai Fiat. Ha da poco finito di scrivere e dirigere Mirafiori luna park, un film realizzato per «recuperare l’identità culturale della fabbrica, della protesta, della lotta per un’uguaglianza sociale», racconta a Left. Una pellicola a metà tra un documentario – con tanto di immagini di repertorio dell’inaugurazione mussoliniana con i suoi 50mila operai – e una fiaba, il film, prodotto da Mimmo Calopresti ed Eileen Tasca per Alien Films, sarà nei cinema dal 27 agosto. In scena va quello che Di Polito definisce «il grande rischio, l’incubo che abbiamo tutti di perdere il nostro passato di fronte a un futuro che in questo momento ci trova veramente soli». Un rischio personale e collettivo che si specchia in Mirafiori, luogo simbolo del lavoro più duro alla catena di montaggio, ma anche delle grandi proteste e delle conquiste della classe operaia italiana degli anni 70. Oggi Mirafiori continua a essere lo specchio dell’Italia: «Il percorso è tracciato ed è un percorso di oblio di tutto ciò che la cultura operaia ha rappresentato a Mirafiori. Le fabbriche sono una parte da dimenticare, erano luoghi di lavoro duro, violento e anche insano molte volte. Da dimenticare per chi ci ha lavorato e per chi li sorvegliava, c’è un po’ l’esigenza di rimuovere questa esperienza».

Un vuoto ingombrante spesso riempito dal cinismo, che oggi consegna il quartiere operaio per eccellenza all’abbandono surreale. Il film ripercorre i luoghi reali: «Abbiamo giocato nel quartiere immergendoci in una realtà che era ferma dagli anni 80. La fabbrica si è svuotata, il quartiere è rimasto isolato e le persone sono invecchiate. Quando sono tornato ho ritrovato un paesaggio intatto, come un grande panorama dove le persone sono invecchiate. Questo quartiere ha festeggiato i 45 anni perché teme di non arrivare ai 50».

Poche ore prima del nostro incontro, i sindacati (tutti tranne la Fiom) hanno firmato la proroga di un anno della cassa integrazione straordinaria con la Fiat Chrysler Automobiles di Sergio Marchionne. Fino al 25 settembre 2016 tutti i 4.110 lavoratori (3.805 operai, 243 impiegati e 62 quadri) seguiranno a rotazione corsi di formazione e rientreranno gradualmente in fabbrica. Come l’avranno presa a Mirafiori? «I miei genitori sono entrambi cassintegrati, quindi questa notizia mi fa arrabbiare, perché so perfettamente cosa significa ricevere a casa una cartolina con su scritto: sei in cassa integrazione. È un incubo. Se hai 50 anni o più non è facile reinserirti nel mondo del lavoro». Spesso i tre protagonisti Carlo (Giorgio Colangeli), Franco (Alessandro Haber) e Delfino (Antonio Catania) sono al centro di scene sovrapposte, tra un passato fatto di masse oceaniche in lotta e un presente che li vede da soli, al centro di una commedia amara, stendere uno striscione con su scritto “fabbrica occupata” e suscitare quasi sgomento nell’eseguire quel gesto.

La fabbrica è luogo simbolo di molte contraddizioni: come quella tra la nostalgia per un passato di lavoro e conquiste sindacali che non esiste più e un senso di liberazione dalla fatica alienante, che muove invece a un sentimento quasi di rimozione. Orgoglio o liberazione? Per il regista, «sono fasi successive. Prima la rimozione, c’è il bisogno di costruire un’esperienza di vita meno faticosa. Oltre la fatica fisica, nessun psicologo ha mai analizzato lo stress di chi per 30 o 40 anni doveva avvitare oggetti e non aveva il tempo di andare in bagno, di chi non poteva fidarsi del vicino, con l’incubo del controllo».

Poi, però, riemergono gli esempi: «Le persone che affrontano il lavoro e la fatica, che lottano per i loro diritti, che pensano come noi, è quello che vedevo e sentivo a tavola». A tavola, come nelle più classiche delle scene di vita quotidiana della famiglia operaia. Ed è proprio a tavola che si svolge quella che si può ritenere “la scena madre”, quando Haber (operaio e padre di famiglia) discute con il figlio che rivendica le sue tante ore di lavoro dietro a un computer. E i due faticano a capirsi. Scene che hanno il sapore di una calda scrittura autobiografica. «Beh», sorride Di Polito, «quella è la cucina di casa mia e io ero Stefania, la figlia. A quella tavola ho voluto rappresentare le persone, anche quelle della mia generazione, di quarantenni, che deve sentirsi responsabile. Nelle singole scelte quotidiane. Nel tentativo intimo e familiare di recuperare quegli insegnamenti ma anche nel tentativo pubblico e politico di tornare a farsi sentire, da lavoratori precari, partite Iva, da lavoratori creativi e non per forza solo da operai».

Perché un film? «Forse la lotta in un momento come questo compete di più all’arte: sensibilizzare le coscienze. Perché è più libera, perché sono cambiati gli strumenti di lotta. L’arte e la buona informazione possono costruire una cornice intellettuale e artistica attorno a un messaggio, in modo che diventi ancora più politico, vivo e incisivo nella società». Insomma, questo film è un intimo e privato modo «per chiedere scusa a Mirafiori», ammette Di Polito. «Perché da una periferia si scappa e poi invece ci si riscopre fieri». Ma è anche e soprattutto un modo «per recuperare la memoria sentimentale», conclude il regista. «Perché se lasciamo che tutto passi solo dalla testa allora non è conveniente protestare, ma se stai parlando al cuore, parlando di te stesso, della tua famiglia, ti commuovi e rivivi le lotte e i rischi. La memoria sentimentale ti porta ad agire e costruire un luna park che è un futuro più leggero, più felice».

Alla proiezione della prima, a Torino, l’intero quartiere ha ritrovato questa “memoria sentimentale”. Sarebbe bello se ogni fabbrica potesse vivere questo momento quasi liturgico della propria vita operaia.

Usa, il ritorno dell’eroina come sostituto degli anti-dolorifici

Negli Stati Uniti è in corso un grande ritorno dell’eroina. Non immaginate crack-house e ghetti neri, non immaginate fricchettoni di ritorno o giovani drop-out e marginali. L’epidemia è casalinga e suburbana ed è l’effetto indiretto e ritardato della campagna aggressiva di promozione di potenti anti-dolorifici che danno dipendenza e che, dopo che si è diffuso l’allarme, sono sempre più difficili da trovare e costano più dell’eroina. Con questa condividono i principi attivi derivati dall’oppio. A consumarli sono spesso persone di mezza età che hanno cominciato ad assumerle perché avevano mal di schiena o articolari e i loro figli che trovano le medicine negli armadietti del bagno e hanno sentito parlare dei loro effetti.

La campagna di promozione dei farmaci degli anni 90 ha funzionato a meraviglia e, sebbene alcuni colossi del farmaco siano stati multati per pubblicità ingannevole (la Purdue Pharma ha pagato 600 milioni di dollari nel 2007), il numero di prescrizioni mediche degli oppiacei è salito alle stelle: tra 1996 e 2010 si passa da 91 a 210 milioni di ricette (cfr il grafico qui sotto).

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L’epidemia di consumo di farmaci oppiacei ha prodotto anche un boom di overdose e morti. Come si può notare dal grafico qui sotto, fino al 2010, in generale i morti per overdose di farmaci sono molto più numerosi di quelli per droga – da notare la live diminuzione die morti per cocaina dopo il 2008, l’inizio della crisi economica. Gli anti dolorifici battono ogni altra categoria (+265% tra gli uomini e +400% tra le donne). Secondo le statistiche del National Institute on Drug Aubse e del Center for Disease Control, le persone che più finiscono vittime dell’overdose da farmaco antidolorifico sono le donne bianche e i nativi americani e dell’Alaska.

 

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(Center for Disease Control)

A partire dal 2010 a crescere e sostituire in parte il consumo di farmaci oppiacei è il mercato dell’eroina. Le morti per overdose sono aumentate in maniera spaventosa (anche a causa di alcune partite tagliate con medicinali pericolosi). La ragione cruciale è il diffondersi della droga tra i consumatori di farmaci: dopo che le agenzie federali hanno riscontrato il boom di morti e dipendenze da oppiacei farmacologici hanno dato un giro di vite alla loro diffusione, rendendo più caro il prezzo delle pasticche sul mercato illegale. L’eroina, a quel punto, diventa un’alternativa meno cara alla sostanza legale dalla quale si dipende.

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(Center for Disease Control)

Circa il 9 per cento degli intervistati dalla ricerca annuale della Substance Abuse Mental-Health Services Administration (Samhsa), ha sostenuto di avere un relativo facile accesso al mercato dell’eroina. E le statistiche del detto di eroina sarebbe “abbastanza o molto facilmente disponibili”, secondo i più recenti dati di Salute e Servizi Umani. Tre americani su mille spiegano di aver fatto uso di eroina nel 2013, erano die su 100 dieci anni prima. americani su mille rispondono di aver usato eroina nel 2013, contro i due su mille di dieci anni fa. Nel frattempo l’incidenza tra le donne è raddoppiata. Se guardiamo alle regioni del Paese scopriamo che il problema più serio di eroina si manifesta nel nord est, mentre la dipendenza da farmaci è diffusa nel Sud. L’MDMA è il grande problema del West: del resto Breaking Bad era ambientato in New Mexico, non a New York o Chicago.

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La crescita del consumo, secondo la Food and Drug Administration, è riscontrabile tra tutti i gruppi che hanno alti tassi di prescrizione e di abuso di oppiacei: donne, bianchi non ispanici, redditi più elevati. Circa il 45% di chi usa l’eroina è anche dipendente dai farmaci anti-dolorifici.

Il boom dell’eroina e la legalizzazione della marijuana in molti Stati americani sta provocando anche un cambiamento delle politiche dei cartelli della droga messicani. Il numero di sequestri di pasta di oppio è cresciuto del 500% tra 2013 e 2014 e i campi di papaveri da oppio scoperti e sradicati in Messico (cfr la foto in alto) sono aumentati del 47%, mentre i sequestri di eroina al confine con gli Usa del 42%. Del resto, un contadino messicano guadagna circa 20 dollari per un chilo di marijuana contor i 900 per un chilo di pasta da oppio.

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Renzi sta sereno e gioca a biliardino. I romani meno.

renzi festa unità roma

Ha vinto Renzi, manco a dirlo, a calcio balilla. Lunedì sera il premier è andato alla festa dell’Unità di Roma. Ci sarebbe dovuto andare il giorno dopo, martedì, ma per evitare le annunciate e numerose contestazioni (i soliti docenti, ma non solo) ha pensato che era meglio fare una carrambata, e andare senza dirlo a nessuno, anticipando, senza neanche avvisare la stampa, che tanto basta il fido Filippo Sensi, il portavoce, con il suo smartphone: una foto su instagram e via, rimbalzi su tutti i giornali e i tg.

Biliardino #festaunita #roma

Una foto pubblicata da Nomfup (@nomfup) in data:

Renzi – lo avrete visto – ha giocato una partita a biliardino. In squadra con lui c’era Luca Lotti, il sottosegretario. Dall’altra parte c’era Matteo Orfini, in una riedizione dello scontro alla playstation, e Luciano Nobili, dirigente locale del Pd, renzianissimo. È finita 10 a 8. Il dibattito? Annullato, e tanti saluti ai militanti del partito, che magari ci tenevano: a Renzi non mancano certo le occasioni per far giungere ovunque il suo verbo, e questo solo conta. Sono le ore in cui si chiude il rimpasto di Ignazio Marino, la manovra che ha trasformato il governo della città di Roma in un monocolore del Pd. E la foto di Renzi che gioca contro Orfini ha la stessa identica funzione di quella diffusa in occasione delle regionali, la notte in cui arrivavano risultati non certo positivi. Il messaggio è: «Noi siamo sereni, perché continuate a preoccuparvi?» E invece noi qui ci preoccupiamo ancora. Ci preoccupano i tagli alla sanità, che aumentano le disuguaglianza molto più di quanto non le riduca il taglio delle tasse sulla prima casa (altro annuncio che ci preoccupa comunque, e lo spiega bene Emanuele Ferragina, a pagina 21). Ci preoccupa che in Germania crescano i movimenti anti islamici (c’è un bel reportage da Monaco, a pagina 56) e che qui nessuno replichi a Giorgia Meloni quando dice che il giornalista Pietrangelo Buttafuoco non può essere il candidato del centrodestra in Sicilia perché «convertito all’Islam». Ci preoccupa ovviamente lo stesso varo della nuova giunta capitolina.

Perché Marino non è riuscito a cavare poi molto e – tolto l’innesto alla scuola del “tecnico” Rossi Doria, costato comunque il posto al competente Paolo Masini – la scelta di Marco Causi al bilancio e Stefano Esposito ai trasporti, lascia molti dubbi. I due, per cominciare, non intendono dimettersi da parlamentari: è vero, non prenderanno il gettone da assessore, ma due cose insieme, due cose così, tipo risanare l’Atac e stare appresso alle riforme, ci riesce difficile immaginare di poterle fare bene. Poi, del primo possiamo notare che è stato protagonista della gestione Veltroni, sempre al bilancio, giudicata dallo stesso Marino «allegra»; e del secondo potremmo comporre una carrellata di gaffe a condimento dell’entusiasta militanza ProTav.

Siccome Marino ha aperto alla privatizzazione di Atac (l’azienda dei trasporti romana) anche questo ci preoccupa. Ci preoccupa, infine, che pure a Roma non esista più il centrosinistra, con Sel ridotta all’appoggio esterno. La scelta è strategica e non esclusiva- mente imposta dal Pd. Sel ha annusato l’aria di elezioni anticipate, che sono ancora lì, in agguato – e il fatto che Causi ed Esposito tengano la doppia poltrona fa pensare a un incarico a breve termine, e ha deciso che alle amministrative di primavera, insieme agli altri cocci della sinistra, si presenterà in alternativa al Pd, alme- no al primo turno. Ma è comunque triste che Marino di fatto sia stato commissariato, e che il modello del partito della Nazione, che fa da solo, anche a costo di imbarcare Verdini e di fare tutte le riforme scritte nel programma di Alfano, verrà applicato presto anche a Roma. Difficile, anche per chi ha difeso il sindaco, fare il tifo per la squadra di Renzi e Lotti.

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Istat: disoccupazione record tra i giovani. Niente effetto Jobs Act

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Sorpresa, la disoccupazione riprende a crescere. Dopo il quadro terribile delineato nelle anticipazioni del rapporto Svimez, è la volta della rilevazione mensile dell’occupazione. Pessima notizia per il governo quella contenuta nel comunicato dell’Istat sugli occupati. Per il secondo mese consecutivo il numero di persone senza lavoro è diminuito (-0,3% a maggio, -0,1, ovvero 22mila posti a giugno). L’effetto Jobs Act non c’è, almeno per ora, e la disoccupazione giovanile tocca livelli record (44,2%, +1,9 in un mese). L’unico aspetto positivo è quello relativo alla partecipazione al mercato del lavoro: gli inattivi sono diminuiti del 0,2%. Sono solo dati mensili, certo, ma non sono comunque confortanti.

 

 

Altro dato confermato è quello di una crescente partecipazione delle donne al mercato del lavoro: il numero di persone attive (ovvero che lavorano o che cercano attivamente un’occupazione) cresce grazie a loro, mentre il numero di maschi attivi continua a diminuire. La maggior presenza sul mercato del lavoro non è però dovuta a maggiori opportunità occupazioneli: nell’ultimo mese infatti la disoccupazione cresce sia tra gli uomini (+0,9%) che tra le donne (+2,8%). Lo stesso andamento si osserva per i tassi di disoccupazione: quello maschile, pari al 12,3%, aumenta di 0,1 punti percentuali, mentre quello femminile, pari al 13,1%, aumenta di 0,3 punti. Il dato sulla maggiore partecipazione al mercato delle donne – che è positivo in assoluto – va dunque letto anche (non solo) come ricerca di redditi aggiuntivi all’interno del nucleo familiare o di tentativo di cercare lavoro a fronte della sopravvenuta disoccupazione del partner.

Un discorso simile si può fare per i giovani. Anche in questo caso la disoccupazione aumenta assieme alla crescita del tasso di attività.

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La grafica qui sopra è riprodotta da Economist.com e ci segnala come in tutti i Paesi sottoposti ai rigorosi piani europei di austerity il tasso di disoccupazione di lungo termine è molto più alto che altrove (i Paesi azzurri sono quelli dove la disoccupazione è a breve termine, i gialli quelli dove è a lungo termine, più scuro l’azzurro migliore il dato, più scuro il giallo, peggiore il dato). In Italia e in Grecia il tasso di disoccupazione di lungo termine è rispettivamente pari al 60 e 70%. Dei 25 milioni di disoccupati europei circa metà non lavora da almeno un anno. La nota che accompagna la grafica rende perfettamente la gravità del problema e i rischi che pone per le economie nazionali nel medio e nel lungo termine:

Nel corso degli ultimi sei anni, la disoccupazione di lungo termine in Europa è esplosa. Oltre all’aumento dei livelli di povertà, questa determina un’ulteriore set di difficoltà che possono auto-alimentarsi. Si perdono competenze, si perde la fiducia in se stessi, diminuiscono i tassi di fertilità e la povertà fa crescere i rischi per la salute.

La durata della crisi occupazionale e la sua incidenza tra i giovani è dunque un problema di lungo termine: molti anni di non lavoro e la mancata partecipazione al mercato rischiano di far perdere capacità ai lavoratori espulsi dal mercato e di non consentire ai più giovani di formarsi sul lavoro.

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Droghe e studenti: “Informazioni pratiche e serie sulle sostanze, così si salvano vite”.

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Che fine ha fatto la “Relazione annuale al Parlamento su droga e dipendenze 2015″? Sul sito della Presidenza del Consiglio dei ministri si legge che deve essere presentata ogni anno entro il 30 giugno, ma per il momento tutto tace. Eppure la Relazione, a cui contribuiscono tra l’altro, quattro ministeri (Giustizia, Salute, Interno e Difesa), l’Istituto superiore di Sanità, l’Istat, il Cnr, il Coordinamento Regioni, è fondamentale perché fornisce le informazioni utili per gli interventi legislativi e i servizi contro le tossicodipendenze. Interventi quantomai necessari, viste le ultime notizie di cronaca che raccontano della morte di un sedicenne in una discoteca a Riccione e di seri disturbi neurologici per tre ragazzi napoletani. Il primo aveva assunto Mdma (il principio attivo dell’ecstasy), gli altri, “amnesia”, un mix di marijuana spruzzata di metadone.

Per comprendere il grado di consapevolezza dei giovanissimi a proposito degli effetti delle droghe, abbiamo sentito Sabrina Molinaro, ricercatrice responsabile della ricerca Epsad che viene realizzata dall’Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr attraverso questionari distribuiti fra ragazzi tra i 15 e i 19 anni. Questo studio, insieme a quello relativo alla popolazione in generale, fornisce dei dati che sono contenuti proprio nella Relazione annuale 2015.

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«I ragazzi non hanno nessun tipo di coscienza rispetto all’uso delle droghe, soprattutto rispetto alle sostanze chimiche», afferma la ricercatrice. «Alla domanda sull’uso di sostanze sconosciute un 4 % dichiara di averlo fatto e un 2 % sostiene di usarne costantemente, quindi è facile dedurre che manca una percezione reale delle sostanze che assumono» .

Dallo studio emerge il dato per cui 27 studenti su 100 hanno assunto nell’ultimo anno una sostanza e che un terzo ha dichiarato di aver fatto uso di cannabis almeno una volta nella vita. Cannabis che, come per la popolazione in generale, è in testa, seguita da cocaina, sostanze chimiche, allucinogeni ed eroina. «La cosa importante sarebbe fare educazione – continua Molinaro -, educare i ragazzi sui rischi correlati ad alcuni comportamenti. Ma l’educazione va fatta in una maniera giusta. Per esempio è inutile sostenere che la cannabis fa venire ‘i buchi al cervello’, invece è importante dire ai ragazzi che se  uno comincia a sudare freddo e gli batte forte il cuore e gli manca l’aria, ecco questo può essere un attacco di panico scatenato dal Thc che c’è dentro la cannabis. Quindi importante è non spaventarsi e soprattutto chiamare qualcuno in aiuto». E a proposito della morte in discoteca: «Se a quel ragazzo avessero spiegato che prendendo Mdma sarebbe andato incontro a disidratazione, con 45 gradi,  mente stai ballando e dimentichi di bere e di fare la pipì, ecco, se gli fossero state fornite le informazioni attraverso quella che anni fa si chiamava riduzione del danno, il ragazzo sarebbe potuto essere ancora vivo», sottolinea.

Interventi di informazione che nel caso per esempio del gioco d’azzardo “problematico”, hanno funzionato. «Negli ultimi cinque anni dopo che il gioco d’azzardo è stata considerata una dipendenza, nelle scuole sono stati fatti interventi di prevenzione: ebbene nei territori dove in qualche modo ai ragazzi si facevano vivere e conoscere esperienze legate al gioco, nelle scuole la dipendenza è diminuita del 30 per cento». Anche se qua e là ci sono esperienze di educatori di prossimità, di strada, che vanno nei rave o stazionano con i camper davanti alle discoteche, «è tutto delegato alla volontà degli operatori, non ci sono campagne nazionali serie». Ma i ragazzi sono disponibili a essere “educati”? «Ai questionari rispondono volentieri, anche con troppi dati, a volte. È chiaro che la nostra ricerca riguarda una parte della fascia giovanile perché mancano i drop out, cioè quelli che non vanno a scuola, e anche quelli che sono talmente dentro al problema che non rispondono ai questionari. Ma non c’è chiusura, anzi, sarebbero felici di confrontarsi con chi ha competenze sulla materia», conclude Sabrina Molinaro.

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Nuove droghe vecchie politiche. Ecco cosa troverete nel nuovo numero di Left.

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È un sabato qualunque, il 18 luglio 2015. Un ragazzino di sedici anni insieme agli amici va in una discoteca sulla Riviera romagnola, beve acqua con Mdma (il principio attivo dell’ecstasy) e muore.  A Napoli tre ragazzini hanno riportato gravi disturbi neurologici dopo aver assunto una sostanza, l’amnesia, che è un mix di marijuana spruzzata  di metadone. Ogni anno in Europa si producono almeno 100 “pasticche” nuove. E l’Italia arranca, sia nella prevenzione che negli interventi di riduzione del danno, dove non rispetta neanche le indicazioni europee.

Questa settimana Left affronta “la carica delle pillole”, droghe sintetiche che uccidono, raccontandone la composizione e gli alert europei. Lo fa raccontando le poche esperienze – a cura soprattutto di volontari – che sono nate attorno alle discoteche o ai freeparty.  Il quadro che emerge è inquietante: in Italia per esempio non si fa nemmeno il pill test, cioè l’analisi in loco della sostanza: non essendo istituita per legge, nessun servizio la fa.  «Nel nostro Paese le politiche sulle droghe sono ancora ideologiche e così non andremo da nessuna parte», è la conclusione degli operatori. Eppure una risposta da parte dello Stato è sempre più necessaria, come dimostra una ricerca del Cnr condotta tra i ragazzi tra i 15 e 19 anni, di cui Left pubblica in anteprima i risultati.  Paolo Fiori Nastro, responsabile dell’Unità operativa di Psicoterapia al Policlinico Umberto I di Roma interviene sul problema. «Importante è non criminalizzare l’uso della cannabis, ma bisogna fare un grosso lavoro sul disagio giovanile, perché dietro l’uso di sostanze ci può essere una sofferenza personale», afferma lo psichiatra. La Società si apre con l’intervista a Maurizio Landini: «La nostra finalità non è sostituire qualcuno in politica, è cambiare la politica». Dando appuntamento a ottobre per una nuova iniziativa della Coalizione sociale. Poi due inchieste particolarmente attuali: una sulle mille opere incompiute d’Italia e l’altra sulle nuove cure miracolose ma costosissime per l’epatite C. Negli Esteri, un viaggio all’interno dei movimenti della destra xenofoba e razzista in Germania, mentre in Grecia un reportage ricostruisce la corruzione che ha portato alla privatizzazione dei porti e al loro progressivo declino.  Parla con Left anche il leader turco dell’Hdp Selahattin Demirtas, l’Obama curdo, anti Erdogan ma anche anti Isis.

In Cultura lo scienziato del futuro e lo scrittore William Darlymple.

Buona lettura!

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