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La costituzionalista Carlassare: «Niente privilegi per le scuole paritarie»

Dopo un weekend di accese polemiche l'opinione della costituzionalista Carlassare sull'Ici alle scuole gestite da enti religiosi.

«Devono pagare, non ci sono dubbi. Lo dice la Costituzione».  Lorenza Carlassare professore emerito di diritto costituzionale all’Università di Padova interviene a proposito delle sentenze della Corte di Cassazione che obbligano due istituti religiosi paritari di Livorno a pagare gli arretrati dell’Ici al Comune. «È semplicissimo, basta leggere l’articolo 33 della Costituzione che dice che enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione ma “senza oneri per lo Stato”. Non occorre essere menti superiori per capirlo. Inoltre, sono già troppi i fondi dati alle scuole private – che è inutile che le chiamino scuole paritarie – perché sono private». «Quindi – continua la giurista – questi istituti non devono godere di privilegi né ricevere sovvenzioni almeno fino a  che  le esigenze della scuola pubblica non siano state finalmente soddisfatte, a cominciare dagli edifici fino alla condizione dei professori. Se lo Stato avesse risorse sufficienti, una volta soddisfatto il suo obbligo di rimettere a posto la scuola pubblica, al limite, potrebbe anche disporre del residuo».

E che ne pensa la costituzionalista del giudizio che ha dato il presidente della Cei, definendo la sentenza della Cassazione “ideologica e pericolosa”? «I pericoli sono piuttosto nelle scuole private in cui i docenti non hanno libertà d’insegnamento e possono essere sostituiti se non seguono l’indirizzo della scuola, mentre è il pluralismo ad essere il fondamento di una formazione critica. In questi anni hanno mortificato la scuola pubblica e la dignità dei docenti, gli edifici scolatici sono in rovina, mancano insegnanti di sostegno per i ragazzi più fragili, di cui lo stato ha l’obbligo costituzionale di prendersi cura. E invece lo Stato che fa? Trascura la scuola pubblica a vantaggio di quella private».

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ISIS e PKK, a che gioco gioca la Turchia di Erdogan?

Nell’ultima settimana gli equilibri lungo il confine turco-siriano sono cambiati e Ankara ha improvvisamente scelto di giocare un ruolo attivo nella guerra contro l’ISIS dopo che per mesi aveva chiuso entrambi gli occhi o, come hanno rivelato molte fonti, aveva cooperato con il gruppo estremista religioso, ad esempio consentendo il contrabbando di petrolio. Le ragioni sono molte e vanno messe in ordine.

    •  Lunedì scorso 32 persone sono morte in seguito a un attentato nella città a maggioranza curda di Suruc, al confine con la Siria, tutti volontari in zona per portare aiuti alla ricostruzione di Kobane.
    •  Giovedì due guardie di frontiera vengono uccise dall’ISIS lungo il confine siriano e guerriglieri del PKK uccidono due poliziotti come risposta all’attentato di Suruc che, sostengono, è stato organizzato con l’aiuto e consenso delle autorità di Ankara.
    •  Venerdì le autorità turche arrestano centinaia di persone, legate sia all’ISIS che al PKK, “senza fare distinzioni tra le organizzazioni terroristiche”, come spiegano fonti governative turche.
    •  Sabato è la volta di bombardamenti contro campi del PKK e dell’ISIS; il PKK annuncia la fine del cessate-il-fuoco unilaterale.
    •  Domenica un’autobomba uccide due soldati turchi a Diyarbakir, mentre i bombardamenti continuano e a Istanbul va in scena la protesta – repressa con violenza – che infiamma anche le città del Kurdistan turco, dove il PKK è molto forte.

A loro volta i curdi siriani dell’YPG (alleato del PKK) denunciano che alcune loro formazioni e il villaggio di Zormikhar sono stati bombardati da artiglieria turca. Ankara nega. Viene annunciato l’accordo tra Turchia e Stati Uniti per creare una zona libera dall’ISIS che potrebbe anche diventare una zona di accoglienza per i rifugiati siriani in fuga.

 

Per mesi Ankara aveva negato l’uso delle basi aeree agli americani impegnati nei raid anti-ISIS in Siria. In teoria al patto partecipano anche le forze che combattono l’ISIS sul terreno, la più importante tra queste è l’YPG. La trattativa con Ankara, chiusa in maniera definitiva dopo una telefonata tra i presidenti Obama ed Erdogan, è stata avviata dal generale John Allen e il sottosegretario alla Difesa statunitense Christine Wormuth. L’uso delle basi turche consentirà missioni più rapide agli aerei americani, che avranno a disposizione piste meno lontane dagli obbiettivi.

I curdi, l’ISIS e la situazione sul terreno (Cfr.org)

 

Martedì si riunisce il consiglio Nato, convocato d’urgenza su richiesta turca per discutere “della nuova situazione creatasi” in seguito alle azioni terroristiche dei giorni scorsi. Ankara mette assieme le azioni dell’ISIS e del PKK e chiede un avallo dell’Alleanza Atlantica a questa lettura della situazione sul terreno. Resta da capire se gli occidentali, Stati Uniti in testa, sono disposti ad accettare l’idea che la ripresa della guerra interna contro il PKK sia una parte della lotta al terrorismo islamico in Siria e Iraq.

 

L’attentato di Suruc, dove muoiono dei turchi e dei curdi, viene usato da Ankara come pretesto per avviare una campagna militare che risponde alla necessità di intervenire contro l’ISIS in una situazione cambiata sul terreno: il pericolo che la violenza del gruppo militante islamico si trasferisca all’interno della Turchia e il ruolo sempre più determinante giocato dell’YPG alleato del PKK, che sta producendo un oggettivo rafforzamento anche del gruppo guidato da Abdullah Ocalan. La presa per mano curda di Tel Abyad, città di confine, sembra aver determinato la scelta. La vera chiave, poi, è quella di trovare un pretesto riaprire le ostilità proprio nei confronti del PKK e di cercare, grazie alla contemporanea apertura di un fronte anti-ISIS, la copertura internazionale.

L’atteggiamento della Turchia nei confronti della vicenda siriana è mutato diverse volte. L’aiuto a gruppi islamisti collegati ad al Qaida è appurato, così come l’accondiscendenza nei confronti dell’ISIS e l’ostilità nei confronti dell’YPG – nei giorni più duri dell’assedio di Kobane Ankara è stata criticata anche da molte capitali occidentali.

Il nuovo atteggiamento turco è destinato a cambiare molto la situazione in Siria. Ma molto di quel che è successo in questi giorni riguarda il quadro politico interno turco. L’opposizione di sinistra e curda del Hdp, entrata in Parlamento alle ultime elezioni con un risultato sopra le aspettative, ha accusato Erdogan di voler trascinare il Paese nella guerra civile. Il leader del Hdp, Selahattin Demirtaş, ha dichiarato: “Un governo e un primo ministro provvisori stanno trascinando il paese in una guerra civile e regionale. La Turchia è impantanata in Medio Oriente a causa delle politiche sbagliate verso la Siria”.

Di rischio di guerra civile parla anche Richard Haass, direttore del Council on Foreign Relations, il primo think-tank di politica estera Usa con un tweet:

Interessante, se pure viene da una parte molto in causa, il comunicato del leader di Hezbollah, Nasrallah, che sostiene che colpendo i curdi, i turchi fanno gli interessi dell’ISIS. Naturalmente Nasrallah, che combatte al fianco di Assad, spiega che ISIS è protetto anche dagli Usa. Altrettanto interessante che parli dei curdi come di “combattenti per la libertà”, visto che gli stessi sono in guerra contro il regime di Damasco – un segno come un altro di quanto intricata sia la situazione siriana.

A cosa si riferiscono tutti quando parlano di guerra civile in Turchia e perché la scelta di tornare alla guerra con il PKK? In parte si è detto delle preoccupazioni alla crescita di influenza e forza dell’YPG. Ma non basta. Alle elezioni dello scorso giugno il partito di Erdogan, l’Akp, ha perso la maggioranza assoluta e non è per ora in grado di formare un governo. Questo significa due cose: la prima è che probabilmente si tornerà al voto; la seconda è che il presidente comanda de facto il Paese nonostante non abbia quel mandato (la Turchia non è una repubblica presidenziale). Il governo in carica è quello a interim e uscito sconfitto dalle elezioni, di Ahmet Davutoglu, in carica dall’elezione di Erdogan alla presidenza nell’agosto 2014.

La riapertura del fronte curdo è probabilmente una strategia di politica interna di Erdogan che mira così a catturare quel voto nazionalista legato alle forze armate a cui non piace l’idea di una maggioranza a carattere religioso e a cui, di converso, piace molto l’idea di una lotta senza tregua al PKK. Certo è che con gli equilibri instabili della regione, i curdi rafforzatisi politicamente e militarmente nei Paesi confinanti, l’idea di tornare al conflitto degli anni 90, che ha fatto 40mila morti, è più che pericolosa. C’è almeno da sperare che la Nato non scelga di lasciar fare a Erdogan una nuova guerra sporca.

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Ddl Madia, per cementificare basterà un silenzio assenso

Non erano solo parole quelle del premier Matteo Renzi contro l’operato delle soprintendenze, nei discorsi pubblici , più volte tacciate di essere d’ostacolo alla modernizzazione. Come è nel suo stile il presidente del Consiglio è presto passato dalla parola ai fatti. Con il decreto Sblocca Italia che espone il Paese a nuove colate di cemento, con la riforma Franceschini che limita fortemente il ruolo delle soprintendenze e ora con la riforma della pubblica amministrazione, al voto in Senato, che svaluta del tutto le competenze di chi lavora nelle soprintendenze togliendo loro autonomia decisionale. Il disegno di legge Madia (1577/2015) sulla riorganizzazione dell’amministrazione statale, infatti, non solo reintroduce all’articolo 3 la famigerata norma del silenzio- assenso (per cui la mancata risposta della soprintendenza entro 90 giorni diventa automaticamente assenso) ma all’articolo 8 prevede addirittura la confluenza delle soprintendenze nelle prefetture.

«Si tratta del più grave attacco al sistema della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale mai perpetrato da un governo della Repubblica. Anzi, si tratta dell’attacco finale e definitivo», commentano giuristi, archeologi e storici dell’arte come Stefano Rodotà, Salvatore Settis e Tomaso Montanari. Con loro intellettuali e scrittori come Corrado Stajano, Dario Fo, Carlo Ginzburg e molti altri. Insieme hanno lanciato un appello (che si può firmare su Change.org) rivolto al presidente della Repubblica e al ministro dei Beni culturali chiedendo loro di «opporsi con ogni mezzo a tale disegno politico».

Se il provvedimento dovesse passare, alla politica di drastici tagli al budget per la cultura, alla privatizzazione di importanti fette del patrimonio pubblico iniziata con la discesa in campo di Berlusconi e continuata da Renzi, si aggiungerebbe anche il congelamento degli enti pubblici di tutela. Con danni incalcolabili per il patrimonio d’arte disseminato per tutto il territorio italiano e che ha un intimo legame con il paesaggio.

Forse il premier Renzi non sa – e con lui il ministro Madia – che l’Italia non è solo il Paese con il maggior numero di siti Unesco, ma anche che è il Paese che per primo ha inserito la tutela dell’arte e del paesaggio nella Costituzione. Venendo poi presa a modello da molti altre nazioni, non solo europee. Il lungimirante articolo 9 della Costituzione della Repubblica italiana per altro non nasceva ex novo, ma sussumeva la lunga tradizione di salvaguardia del patrimonio d’arte preesistente nella Penisola all’unificazione politica.

Le radici di questa cultura civica e giuridica si trovano nella nascita dei comuni, a partire dal XII secolo, quando si sviluppò un concetto di cittadinanza secondo il quale i monumenti costituivano un elemento di identità civica e un bene comune della città ben governata. Come suggerisce Salvatore Settis pensiamo alla delibera della municipalità di Roma del 1162 sulla Colonna Traiana: «Per salvaguardare l’onore pubblico della Città di Roma, la Colonna non dovrà mai essere danneggiata o demolita ma restare così com’è, per tutta l’eternità, intatta e inalterata fino alla fine del mondo. Se qualcuno attenterà alla sua integrità, sarà condannato a morte e i suoi beni saranno confiscati dal fisco». Oppure pensiamo agli Statuti della municipalità di Siena (1309) in cui si legge: «chi governa la città deve in primo luogo assicurare la sua bellezza e il suo ornamento, essenziali alla felicità e alla gioia dei forestieri, ma anche all’onore e alla prosperità dei senesi».

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Scuole paritarie cattoliche e tasse da pagare: una sentenza storica, ecco perché

La Chiesa deve pagare l'Ici. Lo stabilisce a corte di Cassazione con due sentenze. Foto di : Robert Cheaib

Una bomba a orologeria. La sentenza della Cassazione che obbliga due istituti religiosi (scuole paritarie) di Livorno a pagare al Comune gli arretrati dell’Ici per un totale di 422mila euro ha sollevato un polverone tale le cui conseguenze sono ancora tutte da definire. Perché altri Comuni schiacciati dai tagli potrebbero ripercorrere la stessa strada dell’amministrazione toscana e perché questa sentenza mina alla base il concetto stesso di scuola paritaria, definendola “attività con modalità commerciali”.

Un terremoto che rimette finalmente in discussione il rispetto della laicità nel nostro Paese. E come spesso accade negli ultimi anni, sono i giudici che ristabiliscono situazioni di uguaglianza secondo il dettato costituzionale, mentre la politica sta in silenzio.

Che sia una sentenza storica si capisce anche dalle reazioni “indignate” dei vescovi. Monsignor Galantino, segretario generale della Cei ha definito la sentenza della Suprema Corte “pericolosa e ideologica”. Ci si potrebbe chiedere come si possa permettere un esponente di uno Stato straniero di criticare così duramente l’operato di uno dei poteri costituzionali di un altro Stato, ma lasciamo perdere.

La Cei ha paura. Oggi su Repubblica monsignor Galantino dice: “Credo che il rischio di un effettivo contagio dopo questa sentenza esista”. Che l’affaire sia pesante lo dimostrano anche gli appelli dei cattolici del Pd.
Fioroni, che è stato anche Ministro dell’istruzione, sempre su Repubblica invoca Renzi perché faccia “subito un decreto della presidenza del consiglio dei ministri in cui si dice che le scuole paritarie non sono imprese commerciali”. Il ministro Giannini si era già limitata a dire, all’indomani della sentenza, che sarebbe stata opportuno fare una riflessione. Insomma, il governo probabilmente correrà ai ripari, magari con un decreto in cui si “salveranno” le scuole paritarie dal pagare le imposte comunali, Ici, Umu e Tasi.

Il fatto: a Livorno due istituti religiosi obbligati a pagare l’Ici

Due sentenze (n.14225 e 14226 dell’8 luglio scorso) obbligano due istituti religiosi di Livorno a pagare l’Ici. L’amministrazione guidata dal pentastellato Filippo Nogarin raccoglie il successo di un contenzioso che aveva fatto iniziare la precedente amministrazione e che va avanti dal 2010 tra il Comune e gli istituti “Santo Spirito” e “Immacolata”.
In pratica il Comune di Livorno aveva richiesto il pagamento della imposta per gli anni 2004-2009 per i quali vi erano stati sia “omessa dichiarazione” che “omesso pagamento” della tassa sugli immobili. Gli istituti si sono rifiutati ed è partita una vicenda giudiziaria la cui parola fine è stata messa dalla Suprema Corte l’8 luglio scorso. La sentenza è chiara: gli istituti sono obbligati a pagare perché non possono rientrare nell’esenzione della legge 504 del 1992. “Nel caso di specie – si legge nella sentenza – si tratta della gestione di una scuola paritaria i cui utenti (per quanto risulta dalla stessa sentenza impugnata) pagano un corrispettivo, che erroneamente il giudice di merito ritiene irrilevante ai fini Ici, in quanto è un fatto rivelatore dell’esercizio dell’attività con modalità commerciali”. E quindi essendo attività con modalità commerciali, non si sfugge: bisogna pagare ciò che altre attività pagano. La Cassazione va ancora oltre: gli istituti avevano fatto notare che erano in perdita, con i conti in rosso, ma la Corte ribadisce che si tratta di imprenditori anche se l’attività è in perdita. E il fatto che siano istituti religiosi? Non conta affatto: “nè ad escludere tale finalità è sufficiente la qualità di congregazione religiosa dell’ente”, scrivono i giudici.

Questa la cronaca. Ma la sentenza è destinata a entrare nella storia della giurisprudenza e soprattutto in quella travagliata del diritto alla laicità in Italia. I privilegi alla Chiesa cattolica e ai suoi addentellati, scuole, ospedali, oratori ecc, non hanno mai provocato grandi scossoni tra Stato e Vaticano. Anzi, è stato un quieto vivere per molto, moltissimo tempo. Nel 2012 la Commissione di Bruxelles aveva aperto un procedura d’infrazione contro l’Italia per “presunti aiuti di Stato illegali” con l’esenzione dall’Imu degli edifici religiosi. Ma poi nel dicembre 2012, dopo l’introduzione con il governo Monti dell’Imu per le attività commerciali degli enti cattolici, Bruxelles aveva fatto marcia indietro. Adesso è la prima volta che si ammette che le scuole paritarie private religiose sono attività commerciali e come tali soggette alle imposte come tutte le altre. I giudici della Cassazione hanno sancito che si producono servizi che vengono pagati attraverso le rette.

Le conseguenze della sentenza della Corte di  Cassazione [social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/dona_coccoli” target=”” ][/social_link] 

Quali conseguenze da questa sentenza? Potrebbe cadere come un castello di carte tutto l’impianto delle scuole paritarie private. Se i Comuni, sempre più a caccia di finanziamenti, visti i tagli del governo centrale, decidessero di fare come ha fatto l’amministrazione comunale di Livorno, beh, tutto l’impianto scolastico religioso andrebbe molto, molto, in crisi. Non a caso don Francesco Macrì, presidente della Fidae (Federazione istituti attività educative) ha detto subito dopo la sentenza: “Chiuderemo”. Intanto l’Anci si riunirà la prossima settimana e si saprà la linea di comportamento da parte dell’associazione degli enti locali guidata da Piero Fassino. Lo stesso sottosegretario De Vincenti sottolinea che c’è “una difficoltà interpretativa nel caso delle scuole paritarie”.

Il ministro dell’Istruzione Giannini ha sostenuto la necessità di questo tipo di scuole. Ha anche citato il Veneto come regione virtuosa in cui il 67% della scuola primaria e dell’infanzia è affidata a istituti religiosi. Sì, è vero, ma ci sono dei particolari che i giornali non dicono. Il Veneto finanzia questi istituti molto generosamente, quest’anno, per esempio, sono stati sborsati 21 milioni del bilancio regionale. Quante scuole pubbliche potrebbero nascere? Perché siamo sempre lì, l’articolo 33 della Costituzione recita: “Enti e privati hanno il diritto di istruire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. E invece poi è arrivato il governo D’Alema con Luigi Berlinguer ministro dell’istruzione che partoriscono la legge 62/2000 che garantisce fondi pubblici agli istituti privati nel momento in cui diventano paritari. Legge, inutile a dirsi, che in questi giorni tutto il fronte cattolico sbandiera come un proprio vessillo.

 Perché continuare a dare finanziamenti a imprese commerciali?

Questa sentenza ha anche il significato di intaccare, diciamo per ora dal punto di vista etico, l’impianto stesso del sistema di finanziamento dell’istruzione paritaria – per il 63% in mano a istituti religiosi -. Essendo stato dimostrato che sono imprese commerciali, come si possono spiegare fondi pubblici a soggetti che si fanno pagare per fornire servizi? I fondi elargiti alle 13.625 scuole paritarie – con oltre un milione di studenti iscritti – sono 700 milioni per l’anno in corso (si veda Left n.9 del 14 marzo). Lo Stato versa circa 500 milioni, il resto gli enti locali. Tra l’altro, come spesso denunciato (si veda il Libro nero della scuola italiana di Paolo Latella), questo tipo di scuole, oltre a non fornire una formazione e un apprendimento adeguati (rilevazioni Ocse Pisa), sottopongono talvolta a un vero sfruttamento i propri insegnanti. E quando va bene, comunque, i docenti non ricevono lo stesso compenso delle scuole pubbliche. Infine, nella Buona scuola un capitolo riguarda gli sgravi fiscali per chi iscrive i propri figli alle scuole paritarie, circa 400 milioni di detassazione.

Al di là dell’aspetto “etico”, secondo il costituzionalista Vittorio Angiolini (Left n.25 del 4 luglio) quest’ultimo aspetto della Buona scuola dimostra una criticità che potrebbe essere considerato un aspetto illegittimo della riforma. “La famiglia che manda i propri figli alla scuola paritaria ha dei finanziamenti aggiuntivi rispetto alle famiglie degli alunni della scuola pubblica. In pratica è il rovesciamento del disegno costituzionale che prevede addirittura che la scuola privata sia costituita senza oneri per lo Stato”.

Il mondo cattolico e anche tanti politici del Pd difendono le scuole paritarie sostenendo che sono necessarie perché vanno a riempire dei vuoti dello Stato. Sì, ma perché continuare a mantenere l’assenza dello Stato? E’ il solito discorso della carità: si fornisce una stampella invece di far sì che si cammini con le proprie gambe. In più, in questo caso, la stampella si paga.

Foto di: Robert Cheaib

Dopo un anno di silenzio, parla Rita Borsellino

Dopo un anno di silenzio, Rita Borsellino racconta la sua Sicilia. Da sabato in edicola su Left.

Nel frastuono di dichiarazioni e controdichiarazioni, in mezzo a un ruba bandiera di politici tutti pronti a scattare nel tentativo di attestarsi trionfanti il fazzoletto ormai ridotto a straccio dell’antimafia, dal chiasso di un Pd che aspetta di capire da che parte cade il peso della convenienza, emergono limpide le parole di Rita Borsellino. La sorella del magistrato Paolo, spazzato via 23 anni fa assieme a molte speranze di questo Paese nell’attentato di via d’Amelio, parla a Left all’indomani del 19 luglio, e di un’ondata di strazio – con la vicenda Crocetta – che nuovamente ha travolta la sua famiglia e la Sicilia.

Nelle mani di chi andrà la Sicilia, adesso?

«Eh, non lo so… (sospira, poi silenzio). Abbiamo provato tante volte a sperare – non dico a credere perchè io non ho mai creduto in tutti quei proclami – però non mi aspettavo che si arrivasse davvero fino a questo punto»

Rita, se glielo chiedessero, tornerebbe a proporsi come guida?

«Ma manco per idea, guarda!». Una risposta che non lascia adito a dubbi, se non fosse altro che per la spontaneità: «Ho fatto il mio servizio per come ho potuto, soprattutto in Europa, ho cercato di fare quello che potevo e qualche risultato l’abbiamo anche raggiunto, ma il prezzo è troppo alto. Il prezzo», ripete, «è troppo alto».

 

Per leggere l’intervista integrale acquista il nuovo numero di Left qui

 

Largo ai giusti e agli onesti di Sicilia.

corradino mineo la sicilia di crocetta

«Se sia più nobile soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine», si chiede il giovane Amleto. È probabile che se in Sicilia si andasse a votare in autunno, gli elettori archivierebbero “la rivoluzione” che Crocetta si vanta di aver portato nell’isola e punirebbero il Pd, per tre anni il nemico interno del presidente, adducendo ragioni di potere senza una proposta alternativa. Così Crocetta chiede un’ultima chance, prima di dimettersi. Vuole il tempo per approvare la riforma delle Province, una per l’acqua pubblica e una terza «in favore dei poveri». Per non dover uscire di scena subissato dai fischi e portandosi dietro il fango di quella telefonata (in cui l’amico medico Tutino auspicherebbe per Lucia Borsellino la stessa fine del padre), che il presidente considera una bufala, un’odiosa “macchinazione” ai suoi danni. Renzi sarebbe d’accordo: si voti pure in Sicilia e a Roma, ma in primavera, quando la sinistra Pd sarà stata archiviata e sarà pronto per il tagliando elettorale – grazie alla promessa di tagliare le tasse – un nuovo soggetto “vincente”: il Partito della Nazione.

«La coscienza ci rende tutti codardi», diceva Amleto, ed è probabile che i sondaggi abbiano ragione quando prevedono che, se si votasse a ottobre, vincerebbe M5s. Tuttavia in Sicilia si sta giocando qual- cosa di più importante del risultato di una elezione. Sono in questione l’onore, la credibilità e lo stesso futuro di quelle forze – ce ne sono – che la lotta alla mafia vogliono farla davvero. È in gioco la memoria degli “eroi” – da Borsellino a Impastato – che avrebbero preferito, loro, cambiare le cose piuttosto che morire “martiri”, e subire, a ogni commemorazione, l’insulto dei sepolcri imbiancati che li impietrisco- no con la retorica. È in gioco l’anima della Sicilia, perché lì con tutto si può giocare tranne che con la mafia e l’antimafia. 

All’inizio Crocetta aveva suscitato speranze e azzeccato qualche iniziativa. Le speranze, per la verità, venivano risposte più nella sua stessa persona, sta- rei per dire nel suo corpo – così come era la presenza fisica del re che guariva le malattie. Il primo presi- dente operaio, omosessuale, comunista, sindaco antimafia, che promette una rivoluzione. Tocchiamolo, a costo di soffrire i suoi ritardi, subire monologhi infiniti, sorridere per battute talvolta oscure: ci guarirà! Tra le scelte condivisibili, la sostituzione di funzionari inefficaci, il licenziamento di giornalisti in eccesso, la battaglia contro la pastetta della formazione regionale.

Poi la spinta rivoluzionaria si è via via appannata, mentre si sviluppava una diuturna, fastidiosa e incomprensibile bagarre politico-mediatica tra presidente e Pd siciliano. Oggi il tempo di Crocetta, purtroppo, è scaduto perché la Sicilia annega nel debito e di fatto è commissariata dal governo di Roma, perché la gestione amministrativa è stata confusa e contraddittoria, ma soprattutto perché la rivoluzione comincia a puzzare di restaurazione. È evidente la crisi di Sicindustria, storico sostegno del presidente, sospettata ora di aver usato il bollino antimafia per favorire qualche amico e fare affari di vecchio stampo. Sono troppi i resti politici dell’era Lombardo e Cuffaro che si stanno riciclando con Crocetta o con il Pd. C’è un presidente, circondato di una corte dei miracoli maleodorante che – lo dimostra il caso Borsellino – sembra impastata con una cultura del potere che in Sicilia si esprime come cultura mafiosa.

È ora di tagliare il nodo gordiano e bene ha fatto Fabrizio Ferrandelli che si è già dimesso da parlamentare siciliano e ha chiesto – se ben capisco – l’azzeramento del gruppo dirigente e parlamentare del Pd. Ma ci vuole anche altro: un’iniziativa trasversale, e dal basso, per salvare la Sicilia e quel che resta dell’autonomia. 

Lanciare un appello agli onesti e ai giusti, costruire in ogni città e in ogni ateneo comitati di salute pubblica contro la borghesia parassitaria e intermedia- ria che è la spina dorsale della mafia. E contro la cultura mafiosa, quella per intenderci del “calati junco ca passa a china” (piegati, lascia passare la piena del fiume). Senza fare sconti alla sinistra che ha fallito la sua occasione, mettendo alla prova i 5 Stelle, sfidando la destra a rompere ogni contiguità con lobby e gruppi di potere in odore di zolfo. Una politica per i siciliani, dunque, non quella mediocre pratica del posizionamento, che si propone di apparire e non di essere, di arraffare il potere e mantenerlo a lungo, galleggiando.

 

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Riforma Rai, tanta fretta e strani ibridi legislativi

riforma della rai

Cosa sta accadendo alla riforma Rai? Perché è arrivato all’ultimo minuto quell’emendamento del governo? Che cosa significano le modifiche – contenute nell’emendamento – all’articolo 6 relative alle norme transitorie? In pratica sono due: si può rinnovare il consiglio di amministrazione con l’attuale legge Gasparri e, una volta approvato il ddl 1880 – il voto finale previsto il 31 luglio -,  il direttore generale avrà i super poteri dell’amministratore delegato che sono definiti appunto nella riforma renziana. Uno strano ibrido che fa pensare. Il governo ha paura che si vada per le lunghe e quindi, prorogherebbe ancora per un po’ l’attuale Cda, già scaduto, peraltro? Ma perché, visto che il lavoro in commissione è proceduto abbastanza bene, senza tanti colpi di scena, anzi, verrebbe da dire, nel silenzio generale?

Il senatore Alberto Airola (M5s) dice di essere rimasto molto colpito dall’emendamento del governo. «Sarebbe una proroga della proroga che tra l’altro durerebbe tre anni. Non solo, il comma 3 dice che il dg nel momento in cui venisse approvata la legge acquisirebbe gli ampi poteri che avrebbe l’amministratore delegato della riforma. Questo sembra un ‘quasi Gasparri’: tu ti tieni il cda lottizzato, io mi prendo l’amministratore delegato con i nuovi poteri».

Anche il senatore del partito democratico Federico Fornaro, primo firmatario di un disegno di legge di riforma Rai molto diverso da quello governativo, perché prevedeva la distinzione tra la gestione e il controllo di garanzia e indirizzo, è piuttosto scettico. «Francamente non ne capiamo le ragioni,  le cose che ho letto non mi convincono, si è fatto tutto questo lavoro…Adesso c’è una norma transitoria che, portata ai limiti, significa che per tre anni rimane il dg nominato con la Gasparri, con i poteri previsti dalla nuova normativa. Potrei capire l’ibrido se lo è per trenta giorni ma se è un ibrido che teoricamente può durare tre anni, c’è differenza. È vero che una grande azienda non può essere lasciata senza guida, ma c’è limite a tutto», afferma Fornaro.

Quale scenario quindi in aula la prossima settimana? Intanto Fornaro ha presentato due emendamenti soppressivi, esattamente dei comma 1 e comma 3 dell’emendamento del governo, quelli, appunto, della governance “ibrida”. Naturalmente rimane in piedi tutto l’aspetto “centralistico” del ddl 1880. Cioè la riduzione dei consiglieri da 9 a 7, due eletti dalla Camera e due dal Senato, due designati dal Consiglio dei ministri, uno dall’assemblea dei dipendenti Rai. Con l’amministratore delegato dotato di super poteri e nominato su proposta dell’assemblea degli azionisti. “Il problema è sempre quello: comunque resta un testo che mette la governance in mano alla politica”, dice Airola che racconta come qualcosa delle proposte dei M5s siano passate in Commissione. E cioè che almeno in merito alle competenze, i consiglieri non siano dei condannati. «Noi chiediamo però che non venga nominato come consigliere chi almeno negli ultimi cinque anni non abbia avuto funzioni governative o cariche elettive», sottolinea il senatore M5s. 

Anche per Fornaro rimangono molti punti interrogativi. E infatti sono due gli emendamenti firmati dal senatore Pd e da altri su «due nodi: la fonte di nomina dell’ad e del presidente del Cda». E qui ritorna il tentativo, fatto da più parti politiche di collocare la riforma Rai in una cornice europea. Ma soprattutto quello di garantire che l’informazione non dipenda troppo dai governi di turno. L’indipendenza cioè, di un mezzo di comunicazione così importante per la formazione dell’opinione pubblica.

«Rispetto alla nomina dell’ad noi riteniamo che siamo più in linea con il resto d’Europa se è il consiglio di amministrazione a nominare l’ad, punto e basta. Invece nel testo di legge c’è scritto ‘su proposta dell’assemblea’, ma l’azionista, non dico di maggioranza ma praticamente assoluto, è il governo», continua Fornaro. E allora «è chiaro che la nomina dell’amministratore delegato sarebbe di nomina governativa, ma questo avviene, come è stato detto dalla direttrice della European broadcasting union, soltanto in Bulgaria, mentre in altri Paesi o c’è il modello fondazione come per la Bbc o quello classico del board».

Il secondo punto è la fonte di nomina del presidente. «C’è una soluzione di compromesso ma non è soddisfacente, se si vuole un presidente di garanzia, la via maestra è che sia nominato d’intesa tra i presidenti di Camera e Senato», dice il senatore Pd.

Infine il capitolo delle deleghe in bianco, contenute nell’articolo 4 (sul canone) e nell’articolo 5 sulla possibilità da parte del governo di mettere mano al testo unico del sistema radiotelevisivo. Due temi che non sono da poco se si parla di riforma Rai. Sia Airola che Fornaro chiedono che il sottosegretario con delega alle Comunicazioni  Alberto Giacomelli renda i due articoli più chiari e che almeno le deleghe vengano precisate.

C’è molta fretta, anche se giustificata perché una grande azienda come la Rai, non può rimanere senza una guida certa. Ma anche in questo caso, un po’ come è avvenuto per la scuola, il governo pensa all’organizzazione ma non ai contenuti. «Non è partito il dibattito soprattutto a livello culturale. Un silenzio assordante: l’informazione è considerata come società dello spettacolo, anzi, una degenerazione dello spettacolo», conclude Airola.

 

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Dal Gambia è vietato fuggire. Se 21 anni di terrore vi sembran pochi

migranti gambia diritto di asilo

Africa Occidentale, su un frammento di terra fertile c’è lo Stato più piccolo del Continente: 11.300 chilometri per una popolazione di nemmeno 2 milioni di abitanti. È la Repubblica presidenziale del Gambia, completamente circondata dal Senegal tranne nel punto in cui l’omonimo fiume sfocia nell’Oceano Atlantico. Eppure sono tantissimi i gambiani sbarcano sulle nostre coste. Il Gambia è il terzo dei Paesi da cui proviene chi cerca di entrare in Europa attraverso il Mediterraneo. Quella del Gambia è una vera e propria fuga di massa: sono 8.556 i richiedenti gambiani nel nostro Paese, il 386% in più dell’anno precedente (quando se ne sono contati 1.760). E quest’anno non si registrano cifre inferiori, anzi. Secondo il Viminale, nei primi due mesi del 2015 il Gambia è il primo Paese dal quale proviene chi chiede asilo: dal Gambia (1.639), dalla Nigeria (1.220), dal Senegal (1.194). Sono questi i tre principali Paesi di origine delle 11.247 richieste d’asilo registrate in Italia.

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Fonte: Viminale

Delle 5.804 domande esaminate nei primi due mesi del 2015 (che non corrispondono agli arrivi data la lentezza burocratica delle commissioni): a 428 persone (il 7%) è stato concesso lo status di rifugiato, a 1.143 la protezione sussidiaria (20%), a 1.292 il permesso per motivi umanitari (22,5%), a 2.799 il diniego (48,5%). Chi scappa dal Gambia, per molte delle commissioni territoriali che “analizzano” e decidono sulla concessione della protezione, è “solo” un migrante economico, escluse rare eccezioni. E sono tanti i ricorsi in tribunale e chi arriva a farlo spesso lo vince.

Fonte: Cir
Fonte: Cir

 

Perché i gambiani scappano?

Esattamente da 21 anni (dal colpo di Stato del 22 luglio 1994) in Gambia regna il clima di terrore instaurato dal presidente Yahya Jammeh. Più di un ventennio di regime dopo, la situazione dei diritti umani non smette di aggravarsi. Nell’ultimo anno sono state arrestate decine di persone, tra sospettati e loro parenti e amici, accusati di aver preso parte a un tentativo di colpo di stato nel dicembre 2014 sono stati arrestati e spariti nel nulla. E tra i desaparecidos ci sarebbe anche un bambino.

 

Yahya Jammeh, il sanguinario presidente-dittatore del Gambia
Yahya Jammeh, il sanguinario presidente-dittatore del Gambia

 

Le Nazioni Unite e l’Unione Africana hanno già chiesto in proposito l’apertura di un’indagine. Ma il presidente Jammeh continua a ignorarli. Lo scorso marzo il relatore speciale delle Nazioni Unite contro la tortura ha scritto nel suo rapporto sul Gambia: «La tortura è brutale e viene praticata mediante pestaggi, scariche elettriche e soffocamento». Alcuni detenuti, poi, hanno denunciato di essere stati costretti a infilare la testa in una busta di plastica piena di acqua bollente e altri liquidi ustionanti.
Il clima di terrore si è acuito pochi giorni fa. Il 17 luglio Jammeh ha disposto la ripresa delle esecuzioni, annunciando l’ampliamento del numero dei reati per cui è prevista la pena di morte. Ecco il motivo per cui tra coloro che vengono soccorsi mentre cercano di attraversare il Mediterraneo o muoiono nel tentativo, vi sono tanti gambiani.
Ecco da cosa scappano i gambiani che respingiamo.

E chi viene respinto rischia di commettere un reato, perché  un recente emendamento ha introdotto nel codice penale il reato di «rendersi irreperibili alle autorità».

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Il New York Times, Marino e il degrado come questione morale

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Sulla prima pagina dell’edizione internazionale del New York Times di oggi compare, poi ripreso dall’edizione statunitense, un reportage sull’incuria e l’abbandono della Capitale che titola: «A virtous mayor versus Rome’s vice» – «un sindaco virtuoso contro il vizio di Roma» – e continua: «Il sindaco è senza macchia, ma questo è sufficiente per fermare il declino della città eterna?».
Il pezzo, firmato da Gaia Pianigiani, racconta le difficoltà di Marino, descritto come un “Forrest Gump” assediato da pressioni politiche e da oggettive problematiche nel gestire la Capitale che sembra in tutto e per tutto in preda a una crisi che secondo la corrispondente del Nyt è prima di tutto morale.

 

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Il quotidiano evidenzia infatti il degrado dei quartieri storici, ostaggio di spaccio, buche, erbacce e rifiuti. Soprattutto fa del paesaggio un segno premonitore di quel che accade nei palazzi del potere: «L’erba in alcuni parchi pubblici ondeggia alta fino al ginocchio. Il personale di servizio della metropolitana scontento ha rallentato il servizio che ora corre praticamente a passo d’uomo. Un incendio ha reso il più grande aeroporto della città affollatissimo e caotico. Gli arresti di funzionari pubblici si accumulano, rivelando diffuse infiltrazioni criminali all’interno del governo della città.Tutto questo si aggiunge a quello che i Romani chiamano “degrado” – il degrado dei servizi, degli edifici e del loro tenore di vita – e al senso generale che la loro antica città, anche più del solito, stia cadendo a pezzi».

La cronista del Nyt assolve però il sindaco Marino: «Un ex chirurgo la cui integrità rimane senza macchia». Un puro insomma, proprio per questo incapace di reagire a questa Roma abituata a giochi di potere cinici e complessi e resa impermeabile al cambiamento da un lasseiz fair, culturalmente diffuso, che rende impossibile rimettere in piedi la Città.Acquista «I romani – scrive infatti la Pianigiani – sono noti per il loro cinismo per quanto riguarda la politica, quanto per la loro rassegnazione di fronte a servizi antiquati e alla burocrazia che si espande a macchia d’olio».

Quello che sicuramente non può essere negato è che per quanto riguarda la criminalità in effetti anche i dati più recenti sembrano dar ragione alla testata newyorkese nel descrivere Roma come un mondo allo sfascio. Un’indagine effettuata dall’ossevatorio sulla Criminalità regionale in collaborazione con l’Eures pubblicata questo febbraio ha messo in evidenza infatti un incremento di furti e rapine nel Lazio ( si passa da 192mila circa a 201.800). A Roma inoltre, con 276.500 reati, si compie ben l’83% dei crimini dell’intera Regione, con un indice di rischio pari a 66,2 reati ogni mille abitanti (mentre nel Lazio si attesta attorno al 58,3).
Dello stato di salute di Roma Left si è occupato in un numero speciale, all’interno del quale sei esperti hanno espresso le loro diagnosi sui mali della Capitale. Ora siamo in attesa di una cura.

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Guida alle buone vacanze: ecco il mare giusto

Guida alle buone vacanze

Tempo di vacanze, sì, ma anche di mare giusto, questo il titolo della copertina di Left in uscita il 25 luglio. Un viaggio tra le mille spiagge della penisola, dal Friuli alla sperduta isola di Linosa, per cercare relax e natura incontaminata. Una guida che comprende spiagge riservate agli animali, riserve naturali, luoghi dove praticare sport e mare davvero sicuro. Perché uno dei problemi dell’Italia, così ricca di coste – ottomila chilometri – e anche di opportunità per lo sviluppo turistico, è la balneabilità a rischio. Impianti di depurazione e opere fognarie scarse: ecco l’amara verità di un Paese che tra il 2007 e il 2013 aveva a disposizione 4,3 miliardi e ne ha spesi invece solo 47 milioni. E per la terza volta viene condannata e multata dalla Ue proprio per le carenze del nostro sistema di depurazione. E per i lettori in cerca di “buone” vacanze Left consiglia app e travel blogger per consigli preziosi e il nostro viaggio del cuore. In Grecia, ovviamente! Nell’estate in cui un intero popolo lotta per far valere la propria dignità, ecco la nostra guida alle isole greche più belle e appartate.

Uno dei temi più “caldi” del momento, il futuro della Sicilia, è il tema di due interviste a grandi personaggi della società civile dell’isola: il magistrato Nino Di Matteo che torna sulla Trattativa e sull’isolamento a cui è stato condannato, e Rita Borsellino. La sorella del giudice assassinato dalla mafia 23 anni fa, parla delle dimissioni della nipote Lucia e dell’atmosfera carica di tensione che si respira nella politica siciliana. «Guardo ai più giovani e mi chiedo quali punti di riferimento abbiano», dice Rita Borsellino a Left.

Sempre Sud, stavolta all’insegna di un’utopia che potrebbe diventare realtà: la Città dello Stretto, ovvero un’idea di comunità metropolitana innovativa che unisca Messina e Reggio Calabria. Ne parlano i due sindaci: Renato Accorinti e Giuseppe Falcomatà, protagonisti tra l’altro dell’incontro di Leftintour del 24 luglio.

Non poteva mancare l’economista Ernesto Longobardi che fa le pulci all’idea lanciata da Matteo Renzi di tagliare la tassa sulla prima casa.

Mentre negli Esteri i retroscena dello storico accordo sul nucleare e il racconto di quanto sta accadendo in Grecia: la delicata partita di Tsipras e lo scontro con i dissidenti di Syriza.

In Cultura l’archeologo Paolo Matthiae, lo scopritore di Ebla, lancia l’allarme sui tesori della Mesopotamia minacciati dall’Isis: «Aiutiamo gli archeologici siriani e iracheni che rischiano la vita per difendere il loro patrimonio culturale». Pietro Greco racconta poi la storia dello scienziato “truffatore” che ha falsificato i dati su un vaccino anti Hiv e che è stato condannato a cinque anni di carcere. Infine il cibo, ma su binari diversi: il boom di una dieta a base di insetti e lo show di Donpasta, tra cucina popolare e musica.

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