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A Caracalla Turandot “non esiste”

Pang: “Turandot non esiste!”
Ping: “Non esiste che in Niente nel quale ti annulli!”
Pong, Pang: “Turandot non esiste!”
Tutto finisce con la morte di Liù nella Turandot in scena quest’estate a Caracalla. Non viene eseguito nessun finale, né quello di Alfano né quello di Berio. Niente duetto d’amore dunque, e nessuna soluzione drammaturgica: le luci si spengono sulle ultime note scritte da Puccini, che al sacrificio di Liù interruppe la composizione e morì, un anno e mezzo dopo, lasciando incompiuta la sua ultima opera.
Al regista Denis Krief, alla sua sesta Turandot, le idee non mancano, e se i movimenti scenici non sono interessanti, le scenografie contengono riferimenti di ogni tipo, dalla Cina degli anni 80 alle avanguardie coeve di Puccini, alla commedia dell’arte e altro ancora. Tanto per cominciare, il Mandarino-clown dell’annuncio iniziale intrattiene con un palloncino bianco (simboleggiante la luna) una danza giocosa che ricorda il Grande dittatore di Chaplin e il suo mappamondo, con lo stesso simbolico scoppio finale.

 

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Turandot Regia di Denis Krief © Yasuko Kageyama Opera di Roma Caracalla 2015

 

Krief impiega poche strutture dalle linee essenziali, portate a mano a scena aperta, tranne la lunga muraglia in legno e bambù di ispirazione costruttivista, che con i suoi moduli fissi e mobili fa da cornice, e insieme da barriera, al coro schierato in alto.
L’effetto è bello, ma in questo modo il popolo di Pechino non partecipa, si limita ad assistere e a commentare l’azione – come il coro della tragedia greca – e l’impiego di questa soluzione in tutti e tre gli atti finisce col renderla un po’ monotona. È straniante l’effetto per cui il coro si affaccia sempre ai moduli più alti, mentre Turandot viene portata in scena, all’interno di un cilindro aperto di plastica, allo stesso livello degli altri personaggi. Sovvertendo l’ordine cui siamo abituati, Krief porta a terra la principessa Turandot, divina apparizione invocata per un intero atto – addirittura la fa accovacciare accanto a Liù, durante l’aria di questa – mentre il popolo domina dall’alto.

 

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Turandot Regia di Denis Krief ©Yasuko Kageyama Opera di Roma Caracalla 2015

 

Più che mitica e fiabesca, questa Turandot appare inconsistente, e se esiste, è solo in virtù di una proiezione, di un sogno, o di un incubo, di Calaf. È lui, per Krief, l’artefice di tutto e il secondo atto non è che la rappresentazione del suo sdoppiamento tra sogno e realtà: i giochi dei ministri Ping Pong e Pang, travestiti ora da maschere della commedia dell’arte ora da gangster, le giovani donne che si muovono in un’atmosfera da “In the mood for love”, i manichini metafisici di De Chirico e Carrà, e Turandot stessa, nel suo guscio rosso rotante. Iréne Theorin (Turandot) ha la potenza del soprano wagneriano ma il fraseggio e l’interpretazione lasciano a desiderare. Problemi di fraseggio anche per Jorge de Leòn, che risulta però abbastanza convincente nei panni di uno stralunato Calaf, mentre Maria Katzarava è una Liù un po’ troppo energica. L’orchestra è guidata con precisione ed efficacia da Juraj Valčuha, direttore dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai dal 2009.

Ai Weiwei torna libero di viaggiare e fa una mostra a Londra

foto postata da Ai WeiWei sul suo account twitter

Dopo quattro anni l’artista cinese Ai Weiwei ha riavuto indietro il suo passaporto. Le autorità cinesi glielo avevano tolto quando, dopo essere stato accusato di attività antigovernative, fu aggredito da agenti e recluso in una località segreta per 81 giorni e poi multato per cifre iperboliche. Rilasciato, nel novembre 2013, l’artista cominciò a protestare contro il divieto di andare all’estero a cui era sottoposto. Lo fece mettendo dei fiori nel cestino di una bicicletta posteggiata fuori dal suo studio a Pechino. E annunciando su twitter che avrebbe aggiunto fiori ogni giorno fino a quando non gli fosse stato restituito il diritto di viaggiare liberamente.

Dopo seicento giorni di “flower for freedom” , con un crescente sostegno dell’opinione pubblica internazionale, Ai Weiwei ha finalmente riavuto la possibilità di uscire della Cina. Ora potrà andare a Londra per collaborare alla retrospettiva che gli dedica Royal Academy of Art e che sarà inaugurata a settembre.

E se il gesto da parte del governo cinese è soprattutto teso ad evitare contestazioni durante la prossima visita in Gran Bretagna del presidente Xi Jinping, ciò che conta è che Ai WeiWei ora potrà tornare a lavorare all’estero ed anche a collaborare con artisti, sodali e amici come Anish Kapoor, che hanno sostenuto la sua battaglia di libertà perfino ballando in Gangnam Style .

Ma a Londra potrà riprendere anche il dialogo con Hans Urlich Obrist, direttore della Serpentine Gallery, con il quale Ai WeiWei ha pubblicato un interessante libro intervista, Io Ai WeiWei (pubblicato in Italia da Il Saggiatore) in cui racconta il lavoro artistico, di contro informazione, e di resistenza civile portato avanti dal 2006 al 2009 attraverso un blog che arrivò ad avere un traffico di milioni di persone e poi fu chiuso dalle autorità cinesi.

La mostra alla Royal society sarà l’occasione per conoscere più da vicino il lavoro di Ai Weiwei diventato popolare in tutto il mondo con opere come lo stadio di Pechino, pensato come un gigantesco e immaginifico nido, un vorticoso gioco di linee luminose per eventi pubblici e collettivi e realizzato nel 2008 in collaborazione con lo studio Herzog & de Meuron.

Ai Weiwei si è sempre mosso liberamente fra disegno, pittura, installazioni, poesia. E poi, quasi “per caso”, ha scoperto di avere un talento anche come architetto, quando ha avuto l’idea di progettare un proprio studio, quasi subito pubblicato dalle maggiori riviste di architettura asiatiche e occidentali. Una forma di arte che per Ai Weiwei è nuova «scultura urbana» e una nuova frontiera di «poesia negli spazi pubblici».

aggiornamento: il governo britannico ha negato un visto di sei mesi all’artista cinese Ai Weiwei, perché avrebbe omesso di dire nella richiesta di visto che ha avuto una condanna. L’artista ha pubblicato su Istagram la motivazione contenuta nella lettera dell’ambasciata britannica a Pechino con cui viene respinta la richiesta mentre si concede all’artista un visto di soli 20 giorni. Il punto è che Ai Weiwei è stato detenuto nel 2001 per 81 giorni senza essere stato condannato per un reato.

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Vi spiego a cosa servono i 5 Stelle. Intervista a Giulia Sarti

«Sono 15 kg di dinamite», così la presentava Grillo dal palco, e mai descrizione del comico fu più azzeccata. Piccola, solare, spiccatamente riminese nei modi e nell’accento, ma con una grinta esplosiva. Non le parlate di ingiustizia, a Giulia Sarti, combattiva deputata del Movimento 5 stelle: 29 anni, una laurea in Legge, è membro delle commissioni Giustizia e Antimafia, e naturalmente del movimento Agende Rosse.

Dall’antimafia del Pd che «è solo apparenza», a Roma che deve tornare a elezioni «per assicurare la pulizia della corruzione che ha dilagato», fino alla Grecia che «non va lasciata sola», passando per la Parma di Pizzarotti alla Puglia di Emiliano, fino a venerdì in edicola su Left, l’intervista a una delle voci più ostinate del Movimento 5 Stelle.

Lei si ritiene di sinistra?

Non so: me l’hanno fatta molte volte questa domanda. Politicamente sono nata dentro il Movimento, parlare di sinistra e destra oggi sarebbe bello, ma è una cosa che vedo molto inattuale. Siamo in un momento di crisi in cui basterebbe ristabilire i valori base di una comunità per riuscire ad avere un Paese civile normale. ecco, in questo momento la nostra presenza serve più che altro a questo: ristabilire i valori di base.

 

Per leggere l’intervista integrale online, qui.

I fatti del G8 di Genova, come se fosse ieri

14 anni dalla diaz g8 genova

Chi ha 30 anni o più, i fatti di Genova, li ricorda come se fosse ieri.  Quartiere Albano, Genova, 20 luglio 2001. Mancano pochi minuti alla mezzanotte e un plotone fa irruzione alla scuola Diaz. Nella palestra della scuola stanno riposando alcuni manifestanti del Genoa Social Forum, giunti fin qui per contestare la globalizzazione capitalista delle 8 Grandi potenze riunite nella città ligure.

Avvolti nei sacchi a pelo, molti di loro sono stranieri. E molti di loro stanno già dormendo quando il Reparto mobile di Roma dà il via all’irruzione, lo seguono poi quello di Genova e Milano mentre i Battaglioni dei Carabinieri non parteciparono attivamente all’irruzione ma si limitano a circondare l’edificio. Gli agenti di polizia irrompono e aggrediscono violentemente gli ospiti: 82 feriti e 93 arrestati. Tra gli arrestati 63 furono portati in ospedale e 19 furono portati nella caserma della polizia di Bolzaneto. Tre in prognosi riservata e uno in coma, è Mark Covell, il giornalista inglese che per primo si imbatte nel “plotone”.

 

>> VIDEO | Il monologo di Arnaldo Cestaro sui fatti della Diaz

Per quella “mattanza” finiscono sotto accusa 125 poliziotti, compresi dirigenti e capisquadra. Lo stesso vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, Michelangelo Fournier, definisce sei anni dopo «macelleria messicana» quell’intervento. È ancora il 21 luglio 2001. E quella sera, tra le 22 e mezzanotte, anche nelle scuole Pertini e Pascoli, fanno irruzione i Reparti mobili della Polizia di Stato con il supporto operativo di alcuni battaglioni dei Carabinieri.

 

Carlo Giuliani, ragazzo

Come se fosse ieri. È il 20 luglio, Carlo Giuliani, 23 anni, anarchico e militante del movimento no-global rimane ucciso durante i disordini in Via Tolemaide nel quartiere Foce, presso la stazione Brignole. Carlo rinuncia alla gita al mare e si dirige al corteo delle Tute Bianche. Dopo una carica abortita in via Caffa (lateralmente al corteo) dei carabinieri, in piazza Alimonda, durante la frettolosa ritirata dei circa 70 militari presenti, una Land Rover Defender con tre carabinieri a bordo (l’autista Filippo Cavataio, Mario Placanica e Dario Raffone), fa manovra per seguire la ritirata degli uomini e rimane apparentemente bloccata contro un grosso cassonetto. Rimane lì per pochi secondi e viene preso d’assalto da alcuni manifestanti. Tra loro, Carlo Giuliani. Il volto coperto da un passamontagna, raccoglie un estintore già scagliato contro il mezzo da un altro manifestante e poi caduto a terra, e lo solleva.

È un attimo, dall’interno del veicolo un carabiniere di leva – Mario Placanica – estrae la pistola e la punta sui manifestanti. Intima loro di andar via. Spara due colpi. Uno dei colpi raggiunge Carlo allo zigomo sinistro. Carlo muore dopo pochi minuti. Il fuoristrada, nel tentativo di fuggire, riprende la manovra e passa sul corpo del ragazzo. Due volte. Una in retromarcia e una a marcia avanti. Sono le 17:27 del 20 luglio 2001.

 

>> VIDEO | La ricostruzione della morte di Carlo Giuliani

© La Storia siamo noi

Il carabiniere ausiliario Mario Placanica, che all’epoca dei fatti non ha ancora compiuto 21 anni, viene indagato per omicidio e poi prosciolto, secondo la giustizia italiana ha agito per legittima difesa contro Giuliani che tentava di colpirlo con un estintore. La Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale la famiglia Giuliani ha fatto ricorso, ha accolto la ricostruzione italiana in merito ai fatti specifici della morte ma ha criticato la gestione dei sistemi di sicurezza attorno al vertice da parte dell’Italia. La Corte ha disposto un risarcimento di 40mila euro ai familiari di Giuliani a carico dello Stato italiano. E ha poi assolto lo Stato Italiano con sentenza definitiva nel 2011.

 

Oggi, 14 anni dopo

Come se fosse ieri. Solo che sono passati 14 anni, processi, sentenze. E una condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, che arriva nell’aprile del 2015: lo Stato italiano deve pagare un risarcimento nei confronti di uno dei feriti che aveva fatto ricorso alla corte. Non solo, ma la Corte evidenzia che durante l’operazione sono avvenuti eventi contrari all’art 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, relativo alla tortura e alle condizioni e punizioni degradanti e inumane. Per la Corte l’Italia non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura; un vuoto legislativo che ha consentito ai colpevoli di restare impuniti. «Questo risultato – scrivono i giudici – non è imputabile agli indugi o alla negligenza della magistratura, ma alla legislazione penale italiana che non permette di sanzionare gli atti di tortura e di prevenirne altri».

Come se fosse ieri, quando il Capo della Polizia di Stato era Gianni De Gennaro, processato perché accusato di avere istigato il questore di Genova a dare falsa testimonianza sui fatti della scuola Diaz e poi assolto in Cassazione perché «i fatti non sussistono». Come se fosse ieri, solo che oggi il reggino De Gennaro è il presidente di Finmeccanica, il primo gruppo industriale nazionale nel settore dell’alta tecnologia e tra i primi player mondiali in difesa, aerospazio e sicurezza. E solo che sull’Italia rimane l’onta del reato di tortura che non c’è.

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Renzi: via l’Imu, avanti il “patto con gli italiani”. Sì ma i soldi?

L’Antefatto

È stato un weekend denso di dichiarazioni per il premier Matteo Renzi che ha ribadito in un intervista al Tg2 ciò che aveva già dichiarato all’Expo, sabato 18 luglio: «L’economia si è rimessa in moto, ora serve il salto di qualità». Per realizzarlo Renzi ha annunciato che a partire dalla prossima legge di stabilità, nel triennio 2016-2018 verrà lanciata una vera e propria «rivoluzione copernicana» sul fisco. L’ennesima “svolta storica” «che non ha paragoni nella storia della Repubblica» che rievoca il contratto con gli italiani di Berlusconi e chiama in causa: proprietari di prime case, pensionati e aziende.

Dal 2016 via la tassa sulla prima casa, l’Imu agricola e quella macchinari industriali, – promette il Sindaco d’Italia- poi dal 2017 tagli all’Irap e Ires e nel 2018 e giusto prima che si concluda la campagna elettorale, rimodulazione degli scaglioni Irpef e pensioni.

Una manovra che taglierà 45 miliardi di tasse. Secondo il Premier tutto questo avverrà tenendo sotto controllo il debito e rispettando i parametri di Maastricht. «Dal 2016 l’Italia sarà tra i pochi paesi a rispettare il principio del 3%, a far calare la curva del debito sia pure un po’ meno rapidamente di quanto vorrebbe il fiscal compact» ha sottolineato Renzi.

Le Riforme sono per Renzi conditio sine qua non.

Punto chiave nella dichiarazione è il rispetto delle riforme istituzionali in programma. Renzi dunque propone – dove l’avevamo già sentita? – un «patto con gli Italiani» in cambio delle riforme, architrave portante della politica dell’ex sindaco di Firenze. Secondo il premier infatti: «Se le riforme vanno avanti saremo in condizione di abbassare di 50 miliardi in 5 anni le tasse agli italiani».

Ma nel frattempo la scaletta degli interventi del governo fa slittare a settembre la riforma “dei carrozzoni pubblici”; il Nuovo Senato dovrà essere votato in Commissione a Palazzo Madama, prima della Legge di stabilità con l’obiettivo di chiudere le doppie letture con il referendum nella primavera del 2016. Come se non bastasse entro il 2015 dovrà essere approvata alla Camera la nuova legge sulle unioni civili di cui manca però la Relazione tecnica sull’impatto economico degli assegni familiari e delle pensioni di reversibilità.

Se tutto questo sarà rispettato e portato a termine nei tempi stabiliti, il premier tirerà fuori dal cilindro la ricetta che darà nuova linfa ai consumi, alla competitività delle aziende e una “rinnovata leadership dell’Italia in Europa”.

Ma dove si trovano i soldi?

Imu e Tasi garantiscono 12 miliardi alle casse dello stato. La domanda sorge spontanea, soprattutto in tempi di crisi e ristrettezze. Dove troverà Renzi i soldi per finanziare questa riduzione nel gettito fiscale? Dove recuperare le risorse che, per non incorrere nelle sanzioni di Bruxelles, non dovranno essere inferiori a 5 miliardi nel solo 2016 e a 20 miliardi rispettivamente per il 2017 e il 2018? Se infatti l’Italia non dovesse rispettare i diktat europei scatterebbero le clausole di salvaguardia oggi bloccate – fino al prossimo 1 gennaio – grazie ai 10 miliardi destinati dal Documento di economia e finanza. In poche parole insomma il contraccolpo di un taglio senza adeguate coperture porterebbe all’aumento dell’ Iva e delle accise sui carburanti.

Per mantenere i “buoni propositi” di Renzi, la soluzione più probabile sarà un adeguamento della spesa pubblica al ribasso, sgonfiando, ancora una volta, il capitolo delle prestazioni sociali. Detto alla Padoan-Schioppa, aumentare (di nuovo) la spending review.

Anche contenere ulteriormente la spesa per 5 miliardi pare però un’operazione molto complessa. L’arma segreta del Governo sembrerebbe essere l’utilizzo di un ulteriore margine di deficit nominale che passerebbe dal 1.8 per cento al 2,2 per cento, possibile solo se l’Italia riuscirà a garantire alla Commissione europea un taglio del deficit strutturale tale da conseguire il famigerato pareggio di bilancio nel 2018. Un corridoio percorribile e comunque possibile, che, tuttavia, potrebbe non avere un impatto decisivo sulla ripresa economica né tantomeno alleggerire nella pratica i piccoli contribuenti.

Ci sembra inoltre doveroso ricordare che la ripresa dell’economia italiana alla base dell’ottimistico consuntivo delle riforme renziane messe in campo fino ad oggi, sembra essere una speranza più che una certezza. «L’Italia che riparte» ad oggi rimane più slogan che realtà. Se da un lato possiamo constatare, dati Def alla mano, un netto trasferimento monetario dai contribuenti alle imprese, dall’altro i presunti successi delle riforme vantati dal Governo non trovano un effettivo riscontro statistico e numerico se non quello derivante da un’opportuna riclassificazione dei dati economici in viso all’analisi dei dati statistici. È ciò che è avvenuto per il Jobs Act come ricorda Marta Fana su Sbilanciamoci.

Cosa ci dovrebbe far pensare che l’abolizione dell’Imu sulla prima casa avrà realmente un impatto positivo sull’economia?
Per prima cosa ci viene in mente per esempio che il taglio dell’imposta potrebbe lasciare indifferenti i proprietari di unità immobiliari modeste che già beneficiano di una detrazione di 200 euro e favorire, invece, quella porzione di italiani che vive in case grandi, insomma Brunetta che aveva tanto contestato l’Imu sulla prima casa sarà finalmente tranquillo.

I primi commenti al “Patto con gli italiani” rimproverano quindi la mancanza di progetti certi per coprire i tagli. Il Governo sembra affidarsi alla magia del deficit come commenta il Professore Fausto Panunzi dell’Università Bocconi in un tweet:

riecheggiando la Voodoeconomy anni 80 e a trovate elettorali anche più recenti, ormai evergreen della politica italiana.

 

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La lettera inviata da Berlusconi durante la campagna elettorale 2013 per il rimborso dell’Imu varato dal Governo Monti

 

Revival a parte. Occorre una certa dose di prudenza nell’accogliere con esultanza questa nuova promessa del premier Renzi. Ricordiamoci che negli ultimi 20 anni, ad ogni taglio di tasse operato dai governi Berlusconi è sempre seguito un aumento delle imposte attuato dai governi di sinistra (o tecnici come il Governo Monti) che sono arrivati subito dopo.

Tassazioni governi

Infine, la tassazione sugli immobili italiani è perfettamente in linea con la tassazione attuata dagli altri paesi Ocse (dice Thomas Manfredi della divisione analisi del mercato e delle politiche del lavoro dell’Ocse). In Francia o nel Regno Unito le tasse sulla casa hanno un incidenza sul Pil fino a due volte più alta che in Italia. Perché quindi non tassare in modo più ragionevole la casa, il bene che meglio si presta, secondo la teoria economica, a finanziare le spese pubbliche locali piuttosto che lasciarsi andare a dichiarazioni spettacolari e devianti rispetto a ciò che gli economisti ritengono una politica economica ideale?
La tassazione, come ogni regolamentazione, ha bisogno di regole certe e alla base ci devono essere istanze di lungo periodo. Il fine settimana appena trascorso sembra invece sfornare la solita ricetta, la stessa torta solo ricoperta di più glassa colorata.

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Contro il razzismo il Tribunale permanente dei popoli

razzismo quinto treviso

Mentre il razzismo nostrano continua a imperversare nei suoi multiformi aspetti, c’è chi, come il Comitato Verità e Giustizia per i nuovi desaparecidos vuole portare davanti a un Tribunale permanente dei popoli gli Stati che hanno permesso le stragi in mare dei migranti. È un tribunale d’opinione, non penale, ma se si arrivasse alla sentenza di crimine di lesa umanità, forse questo sarebbe una leva contro l’ondata di pregiudizi e di intolleranza ormai dilaganti nel nostro Paese. Tra l’altro il Comitato ha di recente pubblicato una lettera proprio per denunciare il silenzio che avvolge le tragedie in mare.

 

Eccola l’Italia dell’accoglienza

e della violenza delle parole

 

Pregiudizi, violenti comunque, e destinati a creare un clima di odio e di intolleranza sempre più asfissiante. Lo dimostrano gli ultimi episodi. In Veneto, tre giorni fa, dopo le proteste dei residenti di Quinto di Treviso – che sono arrivati a dare alle fiamme suppellettili e materassi degli appartamenti dei profughi – il prefetto ha fatto dietrofront e i richiedenti asilo sono stati trasferiti in una ex caserma. A Roma, nella periferia Nord, a Casale San Nicola, contro l’arrivo di 19 profughi in una scuola elementare, si sono scatenati militanti di centrodestra e di Casa Pound. Anche in questo caso è stato deciso il blocco dei trasferimenti. Che cosa accade?

 

Incapacità dello Stato

nella gestione dell’accoglienza

e assenza della sinistra

 

Come ieri hanno giustamente fatto notare sia Chiara Saraceno su Repubblica che Alessandro Portelli sul Manifesto abbiamo assistito a una incapacità dello Stato e a un’assenza della sinistra. Ciò che è avvenuto in Veneto e a Roma secondo la sociologa torinese «è in larga misura la conseguenza dell’insipienza, del pressapochismo del governo e del ministero degli interni, che sembrano continuare a trattare gli arrivi dei migranti, per lo più fatti sbarcare sulle nostre coste dalle navi di soccorso, come un fenomeno imprevedibile e imprevisto». È grave anche il silenzio della sinistra. Dice Alessandro Portelli sul Manifesto di domenica: «Ci siamo riempiti la bocca con Syriza, ma in un paese ben più difficile e con più immigrati del nostro, Syriza nelle strade e nei quartieri c’era, ed è per questo che finora Alba Dorata non egemonizza le piazze…». Dove sono i politici del Pd o di Sel? Perché non si sono fatti sentire per contrastare il dilagare del populismo di destra?

 

Più informazione

contro la deriva razzista

 

Il ruolo dei media è stato uno dei temi affrontati sabato 18 luglio durante l’incontro promosso da Left nello splendido Giardino dei ciliegi al Quadraro, nell’ambito di una rassegna che è anche presidio culturale.

Partendo dal libro curato da Marco Omizzolo e Pina Sodano Migranti e territori (Ediesse), una collettanea di saggi di docenti universitari, ricercatori, giornalisti e funzionari pubblici sulla reale condizione di vita dei migranti nel nostro Paese, il discorso è scivolato inevitabilmente sulla cronaca. E sull’arretratezza dell’Italia rispetto al tema dell’accoglienza. Omizzolo è stato chiaro: «Il modo in cui il nostro Paese si muove sul fronte dei migranti indica il grado di democrazia raggiunto». Mentre per Pape Diaw, portavoce della comunità senegalese a Firenze, occorre puntare sulla formazione e sulla scuola che deve formare i cittadini di domani anche sul rispetto dei diritti dello straniero, Enrico Calamai ha presentato l’iniziativa che dovrebbe partire a settembre.

 

Il Tribunale permanente dei popoli

per indagare sui nuovi desaparecidos,

i migranti morti del Mediterraneo

 

Ex vice console in Argentina nel 1976 al tempo dei generali, Calamai insieme a un sindacalista riuscì allora a salvare centinaia di cittadini di origine italiana perseguitati dal regime, come ha raccontato nel libro Niente asilo politico (Editori riuniti). A lui si deve il Comitato Verità e Giustizia per i nuovi desaparecidos, i migranti morti nel Mediterraneo. Perché Enrico Calamai ha visto, da subito, una correlazione tra la “sparizione” dei giovani argentini e quella dei migranti ingoiati dal mare. Come furono chiare le responsabilità dei generali argentini, adesso sono da tutte da dimostrare quelle degli Stati che hanno permesso – anche con l’omissione di soccorso, perché è impossibile, con i sofisticati strumenti a disposizione, non avvistare le navi dei migranti – le stragi in mare. Oltre ventimila i morti dal 1988, ma sono tutti numeri per difetto.

 

Un Tribunale d’opinione

per arrivare alla sentenza 

del crimine di lesa umanità

 

«Il Tribunale permanente dei popoli è una derivazione del famoso Tribunale Russell – racconta Calamai – che negli anni 70 ha svolto un ruolo politico molto importante. Ha aperto le sue attività studiando la situazione del Vietnam e ha condannato gli Usa in quanto aggressori di un popolo che voleva soltanto la propria indipendenza. Questo fatto ha creato un’opinione pubblica partecipe di quanto succedeva laggiù e ha permesso la sconfitta della superpotenza americana». Il Tribunale ha la sua sede a Roma, alla fondazione Basso, ed è un tribunale d’opinione, emana cioè sentenze che non hanno “forza” come quelle del tribunale internazionale dell’Aja o della Corte europea dei diritti dell’uomo. «Ma sono sentenze che hanno valore d’opinione, morale – continua Calamai – e il tribunale funziona a tutti gli effetti come vero tribunale. Raccoglie elementi per arrivare a dimostrare il crimine di lesa umanità. Noi riteniamo che le ventimila morti non possono essere una catena di incidenti di percorso, ma sono il frutto di una politica di chiusura europea, una sorta di deterrente per coloro che arrivano. E quando siamo di fronte a un crimine di lesa umanità, gli unici responsabili sono i governi. L’obiettivo di ricorrere al Tribunale – conclude Calamai – è di mettere in movimento uno strumento giuridico perché il diritto è l’unica vera arma della civiltà che ponga fine all’impunità di questi politici».

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Riapre l’ambasciata cubana a Washington

Washington – Oggi la bandiera cubana sventola per la prima volta dopo più di 50 anni nella Capitale statunitense dove si è insediata l’ambasciata cubana. La decisione fa parte del processo di normalizzazione dei rapporti tra Usa e Cuba. Questo è infatti l’ultimo segnale concreto del miglioramento delle relazioni tra i due Paesi, dopo che lo scorso dicembre il presidente statunitense Barack Obama e quello cubano, Raul Castro avevano reso pubblico l’avvicinamento dei due Stati. In mattinata il primo ministro degli esteri cubano Bruno Rodriguez  si è recato in visita diplomatica negli Stati Uniti e ha incontrato il Segretario di Stato John Kerry a Washington. Oggi alle 16:30 italiane, 10.30 locali,  è prevista la cerimonia ufficiale dell’alzabandiera.  La prima dal 1959. A Cuba la riapertura dell’ambasciata americana avverrà in occasione della prossima visita nel Paese di Kerry, per l’occasione non sono state previste cerimonie.

>> GALLERY | Cuba e l’America

 

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È qualcosa di più di un calcolo. È una vera ferocia punitiva quella dell’Europa contro la Grecia

L’Europa è morta: quella della libertà diritti, della solidarietà e del rispetto per le persone. Nel calendario di un anno che resterà nella storia la sua agonia è durata dal 4 al 14 luglio. Sono i giorni che ricordano nel mondo le date storiche di due grandi vittorie dei diritti e della libertà: la dichiarazione d’indipendenza degli Stati americani dal dominio inglese (1776) e la presa della Bastiglia (1789). Tra queste due date del calendario 2015, è stata uccisa a Bruxelles la libertà dei popoli europei. Di “crocefissione” ha parlato un funzionario Ue citato dal Financial Times, altri hanno parlato di “waterboarding morale”. In Tsipras è stato offeso il diritto di ogni essere umano al rispetto della sua dignità. E l’offesa continua: basta leggere le sette pagine del comunicato finale per capire che siamo solo all’inizio di un percorso di umiliazioni di un’intera nazione sottoposta a prove durissime. L’obiettivo politico è evidente: spezzare la fiducia fin qui fortissima del popolo greco nel governo di una sinistra che si è dimostrata rispettosa delle regole democratiche. La fiducia, appunto: l’ipocrisia del documento finale ne parla per dire che solo alla fine, quando tutte le sostanze e i beni della Grecia saranno nelle mani di un sovrano straniero, la fiducia resterà sospesa.
Ma c’è qualcosa di più di un calcolo politico condiviso da tutti i regimi di un’Europa sempre conservatrice, reazionaria o francamente fascista. C’è una vera ferocia punitiva contro chi ha osato chiamare alle urne il popolo e ne ha riscosso un mandato pieno. La democrazia è diventata una vana parola, buona per sciacquarsi la bocca da parte di chi in- tanto è impegnato ad alzare muri su muri – contro i migranti, gli zingari, i serbi e quant’altro. Chi ha stilato il comunicato finale in realtà ha scandito di date in rapida successione un’escalation di orrori condannando quel Paese a inabissarsi nel gorgo dei debiti. Oggi il popolo greco viene descritto nell’ultimo numero del settimanale Der Spiegel come un popolo “strano”: un’altra razza, levantina, profittatrice, infida. Quasi come gli ebrei. Intanto la fotografia del pensionato greco svenuto davanti alla cassa di un bancomat dopo una lunga fila, entrerà negli incubi di tutti noi. Risveglierà forse nella men- te di qualcuno un’altra terribile immagine, quella e dei del bambino che marcia con le braccia alzate sotto la minaccia dell’arma di un soldato tedesco. Noi non crediamo affatto che il popolo tedesco sia inguaribilmente nazista, al contrario. Ma bisogna arrendersi all’evidenza: sui popoli smemorati e in preda ad analfabetismo di ritorno che abitano la nostra Europa le iniezioni di liberismo e di egoismo nazionale a cui la finanza internazionale e i governi li stanno abituando, hanno l’effetto di alzare barriere mentali insuperabili, egoismi nazionalistici dominati dal virus dell’odio. Nel caso delle culture nazionali dell’Europa a dominanza germanica questo è il frutto di un esagerato senso della propria virtuosa differenza da parte dei popoli che vivono nella “colpa” del “debito” (Schulde). Ma da dove viene questo feroce rinascente nazionalismo, immemore dei lutti che ha seminato nel mondo intero? Qualcuno ha ricordato nell’anno centenario della guerra mondiale la volontà di potenza che portò la Germania del 1914 ad alzare così tanto la domanda di riparazioni dopo l’assassinio dell’arciduca Rodolfo da spingere la Serbia a dichiarare guerra. Oggi è impossibile elencare quali e quante conseguenze avrà la brutale esecuzione di un popolo e del suo governo messa in atto notte- tempo a Bruxelles sotto gli occhi del mondo intero, tra le resistenze e gli avvertimenti di economisti e uomini politici del resto del mondo. C’è chi – come Obama – ha tentato di esorcizzarla e di ricondurre alla ragione la Troika, il ministro Schäuble e la sua alleata-rivale Merkel. Ma il duo tedesco, immemore della lezione di Helmut Kohl, è pronto a spezzare l’Europa per la terza volta in cento anni. Ora la nuova Europa dovrà rinascere dalle ceneri di quella uccisa dalla prepotenza di un odioso dottor Stranamore germanico e da una mediocre quanto vezzeggiata Merkel, l’Hausfrau dell’Est che, sempre a detta di Kohl, di Europa non sapeva nulla. Ma non possiamo tacere le responsabilità di quei cosiddetti statisti che si sono accodati tutti all’egemonia tedesca. E non prenderemo certo sul serio le blande dichiarazioni di facciata di un Hollande contento di vedersi fotografato a fianco della Merkel. Quanto a noi italiani, nessuna considerazione riscuote l’inesistente “terza via” esibita a cose fatte dal nostro Renzi.

#mondogreco una campagna contro la crisi greca

Raccolte fondi o flash mobe? Non solo. Ecco l’idea lanciata da un gruppi di filellenici, con promotrice Olga Nassis (10mila preferenze alle scorse europee nella sua Sicilia) e a cui Mondogreco aderisce con entusiasmo. Un appello per dare supporto ad un’economia azzoppata dalla crisi ma che potrebbe avere degli insperati sviluppi. Nasce la campagna “Aiutiamo i greci, davvero!”.

La Germania e i suoi alleati da quattro anni stanno strozzando l’economia greca, osserva la Nassis. «Non senza il retropensiero di intervenire a suo tempo per ricostruirla acquisendo a prezzo di svendita le sue risorse». Ha scritto Eric Toussaintche: «all’inizio del 2010, la Grecia è stata vittima di attacchi speculativi dei mercati finanziari atti ad imporre tassi di interesse assolutamente spropositati in cambio di finanziamenti per ripagare il debito greco».

La Germania, a sua volta, aveva beneficiato di ben diverse condizioni da parte della comunità internazionale: «A Londra nel 1953 i creditori della Germania occidentale, ovvero gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia, il Belgio e i Paesi Bassi, hanno concesso ai tedeschi una riduzione molto importante del debito. L’ammontare dei prestiti concessi alla Germania tra le due guerre e subito dopo la Seconda Guerra mondiale è stato ridotto del 62,5%, con una moratoria di cinque anni». (ibid.)

La Grecia invece, abbandonata da tutti e bersaglio esemplare della nomenklatura “Europa”, è sola. Secondo la Nassis «bisogna che noi cittadini dei popoli scendiamo direttamente in campo per aiutare l’economia greca. Acquistiamo le merci greche e sosteniamo il turismo greco. Una campagna concreta che vale più di mille parole».

 

Chi ascoltava Crocetta?

C’è tensione a Palermo, dopo le intercettazioni pubblicate dall’Espresso: si respira, pesante, assieme al caldo. C’è tensione nei corridoi della Presidenza, fra le fronde del meraviglioso giardino d’Orleans, da cui scriviamo. E non potrebbe essere diversamente. Non dovrebbe essere diverso. Non tanto per le frasi uscite sull’Espresso, quanto per la loro oscura origine. Come ha detto ieri sera Rita Borsellino alla Casa Professa, durante la serata di #LeftinTour, «è l’ennesimo buco nero che inizia. Come un dejà-vu. Ancora una volta si rischia che tutti questi buchi neri si salvino fra loro».

E allora sono gli interrogativi, più che le risposte, che oggi fanno la notizia.

Tutti, nel mondo della stampa e della politica, in queste ore si stanno cercando di capirne di più. Tutti, da ore, ci stiamo interrogando, fra noi, lanciandoci in ipotesi che mischiamo a fonti irrivelabili o a conferme e smentite ufficiali. L’Espresso stesso, non in possesso dell’audio, non può dare risposte certe. «Non fanno parte dei documenti a disposizione delle parti», fa sapere il direttore della testata Luigi Vicinanza, «non risulta trascritta nessuna telefonata tra Tutino e Crocetta del tenore sopra indicato», ha smentito il procuratore Francesco Lo Voi, e «non è fra le telefonate agli atti, quelle trascritte, ma nemmeno nelle telefonate non agli atti», ha specificato Agueci, procuratore aggiunto a Palermo che si occupa dell’inchiesta su Tutino.  Hanno riascoltato tutte le registrazioni, con i carabinieri del Nas, e «in nessuna di queste telefonate ce n’è una che abbia un contenuto assimilabile a questa. Se c’è un’altra Procura o un altro ufficio giudiziario che l’ha intercettato, questo non lo possiamo sapere». Il giorno dopo lo ribadiscono.

E allora da dove proviene? Anzitutto, l’audio esiste? Pare di sì, qualcosa i giornalisti dell’Espresso devono averlo sentito. Ma cosa esattamente? Certo è che se i magistrati avessero ascoltato una frase del genere, di sicuro se la sarebbero ricordata. E siamo si torna al punto di partenza: l’audio da dove esce e soprattutto da dove proviene? Chi stava ascoltando il presidente e il suo medico Tutino?

E chi era a conoscenza del contenuto di quest’audio, e ha voluto che uscisse, dopo due anni in cui, pare, fosse a disposizione, proprio quest’anno, in cui il governo di Crocetta è sul baratro pronto a essere spinto giù e sostituito? E chi ha fatto arrivare, proprio in questo momento storico e politico, l’audio alla stampa?L’unica cosa cinicamente comprensibile è che sia uscita alla 23esima vigilia della celebrazione della morte di Paolo Borsellino – cosa che questo lascia a desiderare dal punto di vista dello stile e del rispetto umano, ma comprensibile dal punto di vista dell’effetto mediatico.

La cosa più inquietante è che sono storie e dinamiche già viste, di quelle che si inseguono da anni ma che non si possono raccontare perché le prove non si avranno mai. Oppure, si raccontano con 20 anni di ritardo.

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