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Left a Palermo: “Gli intrattabili. Voci di chi non tratta con la mafia” (diretta)

La diretta streaming della tappa di Palermo di #LeftInTour “Gli intrattabili. Voci di chi non tratta con la mafia”.Con noi, il pm Nino Di Matteo e l’europarlamentare Rita Borsellino. E tanti, tanti altri. A moderare le firme di Left Ilaria Giupponi e Giulio Cavalli.

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Il nuovo numero di Left: ma quale Troika ridateci Keynes

ma quale troika ridateci keynes

L’economia di stampo keynesiano mai come adesso sarebbe necessaria per produrre un po’ di crescita ed eliminare le diseguaglianze crescenti. Di fronte alla politica europea fatta di lacrime e sangue, come dimostra l’accanimento nei confronti della Grecia, Left racconta un altro tipo di economia che punta su piena occupazione e stabilità dei prezzi e che non si preoccupa del rapporto tra deficit e Pil. È la cosiddetta Mmt (Modern money theory) che si rifa a Keynes e che viene spiegata su Left da Giacomo Bracci. Ma perché la politica non la pratica? La conclusione è sconfortante: con la piena occupazione verrebbe meno il “controllo” delle imprese sui lavoratori. Eppure, dopo la crisi del ’29, il pensiero economico di Keynes coniugato con quello lungimirante del presidente Franklin Delano Roosvelt riuscì a far ripartire gli Stati Uniti. Guido Iodice – uno degli autori del Keynes blog – racconta la grande guerra contro la disoccupazione realizzata con il New Deal. Opere pubbliche, messa in sicurezza del territorio, e anche salari minimi e pensioni pubbliche, tutte soluzioni che via via vengono suggerite anche dai nostri economisti ma che naturalmente non vengono prese in considerazione. Di necessità di investimenti pubblici e di maggiori tutele e welfare per far ripartire l’economia parla anche James Galbraith consigliere del presidente Obama e collega e amico dell’ex ministro della finanze greco Varoufakis in una intervista esclusiva a Stefano Santachiara. Sul fatto che le teorie keynesiane siano ignorate, Galbraith ha la risposta: «Nella maggior parte dei casi, i mezzi di comunicazione mainstream riflettono gli interessi finanziari dei loro proprietari».

In Società, un’intervista a 360 gradi alla deputata M5s Giulia Sarti, impegnata sul fronte della giustizia e dell’Antimafia, fotografa il movimento in questo preciso momento storico, tra «l’esempio della Grecia» e la richiesta di Emiliano che vuole i 5 stelle in giunta. E ancora: il vento indipendentista al Nord, un’inchiesta sul turismo sessuale e le ultime strategie di lotta del mondo della scuola.

Negli Esteri, Nadia Urbinati analizza il progetto di Europa portato avanti dai tedeschi, definito “un club privé”. E poi Left racconta ancora la Grecia “dal vivo”, con reportage e articoli da Atene: le voci dei cittadini sempre più poveri, il racconto dall’ospedale Nikea, la solidarietà dal basso. Il no del popolo greco che mette in gioco l’identità dell’Europa assume un profondo significato nel pensiero contemporaneo: lo spiega in Cultura lo psichiatra Gianfranco De Simone che parla della necessità di superare la razionalità del logos occidentale e del comunismo per una nuova identità della sinistra. E ancora: Majakovskij “suicidato” dal regime nell’ultimo libro di Serena Vitale, il nuovo rinascimento della Città della scienza di Bagnoli e un’intervista al giovane cantautore Antonio Dimartino.

 

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Ecco come e cosa si potrà fumare se passa la legge sulla cannabis

Gli alfaniani, minacciando come di consueto una crisi nella maggioranza di governo, sono già saliti sulle barricate. «Se lo scordino» ha detto Maurizio Lupi, estendendo così alla legalizzazione della cannabis la battaglia che al Senato gli alleati di Renzi stanno già conducendo contro le unioni civili. Seguono dichiarazioni di Gasparri, Giovanardi, Formigoni. Poi quelle note di Matteo Salvini («Legalizzerei la prostituzione, che il sesso non fa male, ma le canne sì», ha detto) e Giorgia Meloni. È stata però presentata in parlamento una proposta di legge bipartisan, sul tema, sottoscritta da 218 parlamentari. E mai si era riusciti a coalizzare un fronte così largo.

 

>> INFOGRAFICA | La proposta di legge sulla legalizzazione

 

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Si può quindi scegliere senza troppo imbarazzo (solo fantasticando un po’) di farsi trascinare dall’entusiasmo di Benedetto Della Vedova, il senatore e sottosegretario che ha coordinato i lavori dell’intergruppo parlamentare “Cannabis legale”, che tiene dentro 5 stelle, Pd, Sel, qualche deputato di Scelta Civica e pure due di Forza Italia.
Mettiamo dunque che questa volta ce la si faccia. Ecco come e dove si potrà fumare.

Cominciamo dai divieti. Mai se si è minorenni. Mai se si è in luogo pubblico o aperto al pubblico. Non si potrà fumare uno spinello neanche al parco, se invece avete un giardino privato, lì sì. Come per l’alcol, non ci si potrà stordire prima di mettersi alla guida. Resta da capire come si misurerà “l’effetto drogante”, ma il principio sarà simile a quello dei bicchieri di vino: uno sì, ma se barcolli non va bene. Sempre per dimostrare che la legge non invita a strafarsi liberamente, poi, il 5 per cento dei proventi da tasse e Monopoli sarà destinato al Fondo nazionale di intervento contro la droga. È poi fissato il limite di grammi da tenere in tasca: non più di cinque se siete fuori casa; fino a 15, invece, se ne potranno tenere nei cassetti della propria abitazione.

Veniamo alla produzione. Con una semplice comunicazione, ognuno potrà coltivare a casa propria per uso personale e ricreativo fino a cinque piante femmine, tenendo per se tutto il raccolto. Diventano 250, però, se con altri 50 appassionati ci si costituisce in un Cannabis social club. Rimane però l’uso personale per gli associati: niente vendita né spaccio. Per quello, ci saranno negozi autorizzati e produttori con la licenza assegnata dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. Vietato ogni sorta di importazione ed esportazione: cannabis autarchica, sarebbe, quella legalizzata. Facilitato, invece, l’uso terapeutico di spinelli e farmaci contenenti thc.

 

Quanto vale la legalizzazione della cannabis?

 

legalizzazione in numeri

 

La fine del proibizionismo, spiegano gli esperti, darebbe una stretta al giro d’affari della criminalità organizzata facendo risparmiare le cifre enormi investite dallo Stato nella repressione del fenomeno.

Stime fornite dai Radicali inoltre rivelano che proprio lo Stato Italiano potrebbe incassare dalla legalizzazione fino a 8 miliardi di euro.

In America i numeri per le casse del fisco sembrano essere già molto positivi, la legalizzazione negli stati di Washington e Colorado, avvenuta attraverso referendum popolare, ha portato rispettivamente un guadagno di 67 milioni di dollari e 580 milioni di dollari. Qualche altro numero interessante lo trovate anche qui.

 

>> SONDAGGIO | Cosa pensano le persone della legalizzazione?

 

 

>>MAPPA | Legislazione sulla cannabis nel resto del mondo

 

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I greci fannulloni e la questione meridionale in salsa europea

crisi greca

Lazy southern: i fannulloni del Sud. Sfaticati, indebitati, arretrati. Ellenici pigri che non hanno voglia di lavorare, che hanno vissuto “al di sopra delle loro possibilità”. Baby-pensionati che vogliono scaricare su di noi il peso dei loro privilegi. I greci, in fondo, se la sono cercata la crisi che stanno pagando. In linea di massima è così che il resto d’Europa liquida la questione, o almeno lo fa quella parte d’Europa che non si trova in quelle condizioni. Ma la Grecia, in realtà, è il Paese dell’Unione dove si lavora di più: nel 2013 (austerity in corso) si sono registrate 2.037 ore per dipendente (poco più delle 2.034 dell’anno precedente): 267 ore in più della media europea (1.770), 649 più della Germania. E la Grecia è anche il Paese dove si guadagna di meno: lo stipendio medio è di appena 18.495 euro l’anno (in ulteriore calo dai 19.766 euro del 2012), mentre la media tedesca sfiora i 36.000 euro.

Infographic: Greeks work the longest hours in Europe | Statista

 

Non solo, la ricerca Ocse – riporta il Sole 24 ore – evidenzia cosa non quadra: la forbice tra quantità e qualità si scava in un’organizzazione “irrazionale” del lavoro. La Grecia adotta misure minime, o inconsistenti, per qualsiasi forma di part time e work-life balance, l’elasticità vita-lavoro che fa impennare la produttività a Nord delle Alpi. Con il risultato che un’ora di lavoro, nel 2012, oscillava poco sopra un valore di 34 dollari Usa: 20 in meno rispetto ai 59,5 di Francia e Danimarca.

 

germania e grecia a confronto

 

La questione greca (e perché no italiana e del Sud Europa), sembra la versione europea della vecchia questione meridionale, quella che Antonio Gramsci affrescò così un secolo fa: «La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento», scriveva Gramsci in Alcuni temi della quistione meridionale. Che sia Napoli o Atene, il risultato non cambia.

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Welfare e regole per Wall street, il programma di Hillary Clinton per l’economia

Le diseguaglianze sono ciò che rallenta l’economia, servono investimenti infrastrutturali, una riforma dell’immigrazione, più welfare di cura per bambini e anziani e liberare le donne, più regole per la finanza. Hillary Clinton ha presentato la sua agenda economica con un discorso di 45 minuti alla New School di New York e ancora una volta ha mostrato di voler correre una campagna piuttosto a sinistra. Certo, rispetto al suo unico rivale degno di questo nome – Bernie Sanders – l’ex Segretario di Stato è una moderata (non vuole colpire le banche, le vuole regolare), ma la verità è che l’America che propone è migliore di quella di oggi, individuando alcune storture cruciali del sistema e del suo funzionamento e proponendo delle riforme migliorative. Se pensiamo alla crisi greca e al modo in cui l’Europa ha risposto, ascoltare o leggere le parole di Clinton è rinfrancante. Hillary infatti è l’ala mainstream e potente del suo partito, non una giovane ribelle dell’ala sinistra. Nel frattempo ha anche fatto in tempo a dirsi d’accordo con l’ipotesi di accordo raggiunto con l’Iran sul nucleare, altro tema che assieme a Cuba sarà un cavallo di battaglia repubblicano contro i democratici, che verranno accusati di mettere in pericolo la sicurezza degli americani.

Il discorso di Hillary – di cui potete leggere ampi stralci qui sotto – risponde alle campagne che negli ultimi anni si sono battute per l’introduzione del salario minimo e di alcuni diritti (maternità, malattia), parla alle giovani famiglie, anche bianche e anche nei segmenti alti del mercato del lavoro metropolitano, che avrebbero bisogno di servizi di cura adeguati a orari di lavoro e impegni non cadenzati come un tempo. Parla agli immigrati e soprattutto ai loro parenti cittadini americani che votano, parla alle donne e ai loro bisogni di persone che lavorano. E anche ai neri, che sono quelli che guadagnano meno.

 

Ancora una volta la coalizione Obama, quel complesso di interessi e identità comunitarie che ha garantito due vittorie al presidente, è servita. Con una novità: il discorso è prettamente economico e quindi parla anche a quell’America bianca rimasta indietro dagli anni della presidenza di Bill in poi. Quei blue collar rimasti soli in città che sono stati templi dell’industria pesante e che oggi non sanno bene cosa chiedere al futuro. E che spesso, se oltre una certa età, diventano semplicemente conservatori, rimpiangono un passato che non torna e votano a destra. Compito di Hillary per vincere in alcuni Stati cruciali per la vittoria finale (Ohio, Indiana, Wisconsin, Michigan ad esempio) è convincere un pezzo di questo gruppo sociale che è tornata l’ora di votare democratico. Con i ragionamenti sullo stato dell’economia americana, scintillante e dinamica in alcuni comparti, ma arrugginita come la rust belt (la cintura della ruggine) degli Stati ex industriali, Hillary parla ai giovani impegnati nelle start-up sulla costa est e ovest (che New York ormai rivaleggia con San Francisco), ma anche alle minoranze. Il suo, pur essendo un discorso da campagna elettorale, è un discorso di verità: le economie avanzate, dopo 30 anni di tagli alle tasse e alla spesa per i diritti hanno bisogno di tornare a essere più eque, coinvolgere tutti e modernizzare il welfare, rendendolo adeguato ai bisogni di un mercato del lavoro e di tempi di vita più flessibili e articolati.

Ci crede davvero Hillary? Probabilmente si, anche se in passato ha condotto campagne più moderate e centriste. Non solo i tempi sono cambiati, c’è stata la crisi che ha cambiato la società americana, ma lei stessa ha una storia personale più a sinistra della sua storia pubblica. Il tentativo di fare la riforma sanitaria durante la prima presidenza Clinton è un esempio di una propensione a lavorare su grandi questioni che riguardano i diritti. Certo sarà difficile fare campagna elettorale a sinistra per una persona che da 30 anni e più vive da ricca e privilegiata. Un esempio? La battuta di Rand Paul, senatore repubblicano e candidato alle primarie del suo partito. Nel suo discorso Hillary fa una critica alla sharing economy (giusta peraltro), spiegando che a fianco di giovani che avviano esperimenti innovativi e di grande interesse ci sono multinazionali che sfruttano gli autisti ammantandosi di innovazione. Il riferimento è alle limousine di Uber. A quella frase Paul risponde con tweet efficace: Gli americani non dovrebbero ascoltare consigli sulla sharing economy da una che viene portata a spasso in Limousine da 30 anni”.

 

Azzeccato, ma difficilmente il partito che si è caratterizzato per difendere gli interessi più forti, anche negli anni della crisi, riuscirà a presentare se stesso alla sfida del 2016 come il partito dei derelitti. Più difficile, per Clinton, spiegare come finanziare tutte le proposte che avanza. Su questo media e repubblicani la incalzeranno.

 

 Qui sotto stralci del discorso di Hillary Clinton

Sulle diseguaglianze

 Non creeremo abbastanza posti di lavoro e nuove imprese senza una maggiore crescita, e non possiamo costruire famiglie forti e sostenere la nostra economia molto basata sui consumi senza una maggiore equità. Abbiamo bisogno di entrambi, perché se è vero che l’America è di nuovo in piedi, non stiamo ancora correndo come dovremmo. I profitti delle imprese sono a livelli da record e gli americani lavorano duro come sempre – ma gli stipendi si sono appena mossi in termini reali. Le famiglie fanno fatica a far quadrare i conti, le spese sanitarie extra-assicurazione, quelle per l’assistenza all’infanzia e la cura dei genitori anziani aumentano molto più velocemente dei salari.

I progressi tecnologici e l’espansione del commercio mondiale hanno creato interi nuovi settori di attività commerciale e aperto nuovi mercati per le nostre esportazioni, ma troppo spesso sono anche stati alla base della polarizzazione crescente la nostra economia: ne beneficiano i lavoratori altamente qualificati, ma determinano il trasferimento all’estero e la dequalificazione delle tute blu e di altri lavori di medio livello che garantivano redditi adeguati per milioni di americani.

Le proposte

 Le piccole imprese creano oltre il 60 per cento dei nuovi posti di lavoro americani. Per questo devono essere una priorità assoluta. Ho detto che voglio essere il Presidente dello small business, e dico sul serio. E in tutta la campagna ho intenzione di parlare di come possiamo aiutare gli imprenditori con meno burocrazia, accesso al capitale più semplice, sgravi fiscali e semplificazione. Promuoverò una riforma fiscale per stimolare gli investimenti in America, e cancellando quelle falle che favoriscono le imprese che spostano posti di lavoro e profitti all’estero.

E so che, sebbene non è sempre il modo in cui tutti la vediamo, che un altro motore di forte crescita sarebbe una riforma globale dell’immigrazione. Voglio che mi ascoltiate bene: ci sono stime che indicano come fare entrare milioni di persone laboriose nell’economia formale aumenterebbe il nostro prodotto interno lordo di 700mila milioni dollari in 10 anni.

Poi ci sono gli investimenti pubblici che vi aiuteranno imprese consolidate e gli imprenditori a creare la prossima generazione di posti di lavoro ben remunerati. (…)Quindi cerchiamo di creare una banca per le infrastrutture in grado di convogliare i fondi pubblici e privati, incanalare i fondi per finanziare nuovi aeroporti di classe mondiale, ferrovie, strade, ponti e porti. E costruiamo reti più veloci a banda larga – e assicurare che ci sia una maggiore diversificazione dei fornitori in maniera da dare più scelta ai consumatori.

Le donne e il welfare

 E’ tempo di riconoscere che servizi per l’infanzia di qualità e a prezzi accessibili non sono un lusso ma una strategia di crescita. Ed è il momento di porre fine allo scandalo per cui tante donne ancora guadagnano meno degli uomini sul lavoro – e le donne di colore ancora meno delle altre. (…) Sono ben consapevole del fatto che per troppo tempo, queste sfide sono state derubricate come ‘problemi di donne.’ Beh quei giorni sono finiti.

Retribuzione equa e tempi di lavoro programmabili, congedo parentale retribuito e giorni di malattia guadagnati e asili nido sono essenziali per la nostra competitività e crescita.

Wall Street e finanza

 Nel corso di questa campagna, presenterò proposte per limitare l’assunzione di rischi eccessivi da parte degli operatori di Wall Street e assicurino che i mercati azionari funzionino per gli investitori normali e non solo quelli ad alta frequenza e collegamenti più veloci (l’ultimo grido di Wall Street: scambi così rapidi da far guadagnare chi ha connessioni più rapide e arriva pochi millesimi di secondo prima degli altri ndr.).

Potenzierò e responsabilizzerò le autorità di regolamentazione che sappiano che l’esistenza di istituti Too big to fail – troppo grandi per fallire – è ancora un problema molto serio. Faremo in modo che nessuna impresa è troppo complessa da gestire e sorvegliare. E perseguiremo gli individui così come le imprese quando commettono frodi o altri illeciti penali. E quando il governo recupererà soldi da aziende o individui che hanno danneggiato il pubblico, li useremo per un fondo fiduciario indipendente a beneficio di tutti. Potrebbe ad esempio contribuire a modernizzare le infrastrutture o anche essere restituito direttamente ai contribuenti.

Io corro per la presidenza per costruire l’America di domani, non quella di ieri. Un’America costruito sulla crescita e l’equità. Un’America dove se fate la vostra parte, potrete raccogliere i frutti. Dove nessuno viene lasciato fuori o indietro.

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Grecia, economisti e uso dei dati. Esempio Giavazzi

Succede che gli economisti si facciano prendere la mano. E succede che gli economisti litighino tra di loro. Specie in tempi di crisi e necessità di individuare delle risposte e di aspre contese politiche come quelle di questi anni. Negli Stati Uniti del dopo Lehman, così come nell’Europa della possibile Grexit. E, infine, succede che gli economisti, quando scelgono di commentare, usino i dati a sproposito o non li usino affatto. Ci era sfuggito – ed era sfuggito a molti, che non se ne trova grande traccia nella rete scritta in italiano – l’articolo di stroncatura delle posizioni di Francesco Giavazzi sulla Grecia espresse sul Financial Times scritto per Medium dal professor Karl Whelan. Ne parliamo oggi perché ci pare che sulla vicenda greca si sia fatta molta cattiva informazione e si sia parlato molto a sproposito. Basandosi su pre-concetti e non sui numeri.

Non contestiamo le tesi di Giavazzi e non abbracciamo quelle di Whelan, ma ci limitiamo a riportare quel che l’economista di stanza a Dublino segnala come scarsa aderenza ai dati della column del professore italiano. Per carità, di recente ci sono stati casi clamorosi di uso a sproposito dei numeri in economia: Thomas Herndon, giovane Phd americano ha stroncato Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff e il loro “Growth in a Time of Debt”, che in teoria doveva essere la “prova provata”, che se il debito pubblico di una nazione raggiunge la soglia del 90% del Pil, diventa un ostacolo non aggirabile alla crescita. E, per venire ad economisti di sinistra, Thomas Piketty si è dovuto difendere dalle accuse del Financial Times sulla qualità dei suoi dati relativi alla diseguaglianza (il cuore del suo lavoro).

Ma veniamo a Giavazzi e alla Grecia e sottolineiamo come in questo caso si tratti di un articolo di commento e non di una teoria economica. Più facile trovare i dati giusti, meno grave, che il tempo di un articolo passa in fretta. Nel suo commento (la traduzione è nostra), Giavazzi scrive:

Cinque anni di negoziati che hanno ottenuto praticamente nulla (le poche riforme che erano state adottate, come una piccola riduzione del numero gonfiato di dipendenti del settore pubblico, sono state cancellate dalla coalizione guidata da Syriza. E ‘abbastanza evidente che i greci non hanno voglia di modernizzare la loro società.

Troppo Stato, insomma e nessun passo avanti negli ultimi cinque anni. Ma è proprio così? Davvero in materia di deficit, pensioni e occupazione pubblica quei pigri dei greci non hanno fatto nulla? Di seguito le tabelle che Whelan usa per smentire Giavazzi. La prima riguarda l’occupazione nel settore pubblico, effettivamente un po’ gonfio per un piccolo paese. Bene, i dati sono piuttosto chiari: poco meno di 300mila posti tagliati in sei anni, circa un terzo della forza lavoro statale. E Syriza, scrive l’economista su Medium, promette di riassumerne 16mila – ma questo era prima dell’Eurogruppo.

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Veniamo al deficit, dalla tabella qui sotto si evince come la Grecia sia passata da un -9,9% sul Pil nel 2008 a un -2,5% nel 2014 (lasciamo stare le previsioni per il 2015). Un rientro enorme e faticoso, specie perché fatto in anni senza crescita del Pil. L’Italia, di questi tempi spesso elogiata per il rigore, fa scendere il deficit di tre punti percentuali. E ciascun italiano sa quanto questa sia e sia stata una cura difficile da digerire per il Paese.

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Quanto all’età pensionabile, la tabella qui sotto mostra come, nel 2060 i greci saranno tra quelli che andranno in pensione più tardi (la linea rossa rappresenta l’età pensionabile dopo la riforma). Qui Whelan commette un mezzo errore sull’Italia spiegando che la riforma pensionistica italiana è stata cancellata dalla corte costituzionale. La verità è che la Corte è intervenuta sull’indicizzazione delle pensioni (quindi sulla spesa) non sul sistema pensionistico.

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Il tema resta lo stesso: in tempi di ragioneria e contabilità è bene usare i numeri giusti, dare giudizi portando esempi corretti. Altrimenti il rischio è non prendere nessuno sul serio. Sarebbe un peccato.

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Think-tank e politica, troppi intrecci, poco pensiero. La ricerca Openpolis

Tempi duri per i partiti che diventano sempre più “liquidi” e impalpabili. Lo dimostrano le continue trasmigrazioni da un gruppo all’altro in Parlamento, il numero crescente di “dissidenti” e i tentativi di creare nuove formazioni. Se i partiti non sono più quelli di una volta, con una forte identità,  avanzano invece a vele spiegate i think tank, le associazioni e fondazioni che spesso, va detto, hanno come un punto di riferimento proprio un esponente politico. Qualche esempio? Matteo Renzi è legato alla Fondazione Open, Massimo D’Alema a ItalianiEuropei, Angelino Alfano a Fondazione Alcide De Gasperi, de Magistris a DemA, Flavio Tosi è il personaggio di riferimento di Ricostruiamo il Paese, Giovanna Melandri di Human Foundation, l’ex segretario del Pd Pierluigi Bersani di Nuova economia, nuova società… e così via. La Fondazione Vedrò di Enrico Letta ai tempi del suo governo ha battuto tutti i record: ben cinque membri (Alfano, Lupi, De Girolamo e Orlando, e lo stesso Letta) avevano contemporaneamente incarichi di governo e facevano parte di Vedrò.

 

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Un quadro aggiornato su quanti e quali sono i think tank italiani lo fornisce il minidossier dell’associazione Openpolis “Cogito ergo sum”. I pensatoi censiti sono 65, alcuni esistono dagli anni Cinquanta, ma oltre la metà, 33, sono fioriti tra il 2000 e il 2009. Openpolis ha censito 1800 membri complessivamente dei quali, per 1541, sono state rintracciate le competenze. Ebbene, per il 36 % sono esponenti politici mentre per il 35 % appartengono al mondo accademico. Una differenza enorme con i think-tank anglosassoni, che si vivono a stretto contatto con la politica, ci dialogano e lavorano, ma non sono emanazione di questa. Semmai sono un buen retiro per politici in pensione che vogliono continuare a lavorare un tema e dialogare con i media. Ma vi sono anche imprenditori (11,03%), dirigenti (3,83%) e giornalisti (3,70%). Due sono i ruoli principali dei think tank: organizzare convegni e seminari e promuovere attività editoriali. La loro connotazione politica è abbastanza chiara: il 30,7% si può ascrivere al centrosinistra, il 24,6% al centrodestra, il 10% sono di sinistra, il 6 di destra, il 13 % di centro e infine sempre 13 % sono bipartisan.

 

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Sono quattro secondo la ricerca Openpolis i thik tank che detengono il record per “connessioni” con altri soggetti e con l’esterno. ItalianiEuropei il cui personaggio di riferimento è Massimo D’Alema, Astrid (Franco Bassanini), Aspen Institute Italia (Giulio Tremonti e Giuliano Amato) e la Fondazione ItaliaUsa (Barbara Contini) in cui 18 persone fanno parte di altre associazioni. Infine, tra i personaggi che detengono il record di appartenenza a più associazioni troviamo Stefano Rodotà (Fondazione Basso, Rosselli, Astrid, Critica liberale), Marta Dassù (Humain Foundation, ItaliaUsa, Aspen e ItalianiEuropei), Ernesto Realacci (Open, Symbola, Ecodem, Centro per un futuro sostenibile), Franco Bassanini (Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII, Astrid, ItalianiEuropei, ItaliaUsa).

 

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Insomma, un grande intreccio all’interno dei think tank italiani di cui il 66% ha almeno un membro in un altro organismo. Con scambio di cervelli, interessi e relazioni. E con un tratto che li contraddistingue tutti: la scarsa trasparenza. Come hanno messo bene in evidenza i ricercatori di Openpolis, solo il 6,15 % mostra online l’elenco dei soci, l’1,54 % l’elenco dei finanziamenti e infine, il 7,69% il proprio bilancio.

Parla Varoufakis, «Ci hanno detto: Questo è un cavallo, ci sali o sei morto»

Torna a farsi vivo Yanis Varoufakis, che non essendo più un ministro greco può parlare e togliersi sassolini dalle scarpe. In un pezzo scritto per Die Zeit e in un’intervista al New Statseman, l’ex ministro greco parla di un piano Schäuble per ristrutturare l’unione europea. Di mancanza di processo democratico e dei toni ultimativi usati dal ministro tedesco nei suoi confronti e di differenze nette di tono tra la premier tedesca Merkel e il suo ministro delle Finanze. Varoufakis nota anche come molti governi indebitati siano stati tra quelli più duri nei confronti della Grecia e come l’alleanza con partiti di sinistra non abbia portato risultati: “Non c’era molto che Podemos potesse fare”. Infine, riferendosi ad Alexis Tsipras e al suo successore, racconta di come non ci siano mai state vedute diverse tra loro e di come i tre restino molto vicini. La risposta cruciale dell’intervista spiega in parte le dimissioni e ci dice perché Tsipras abbia deciso di sacrificare il suo compagno alla trattativa.

 

Non ho mai creduto che saremmo dovuti andare direttamente a una nuova moneta. La mia visione era che se avessero osato chiudere le nostre banche, avremmo dovuto rispondere con una mossa aggressiva ma senza attraversare il punto di non ritorno. Avremmo dovuto emettere i nostri pagherò, o anche, almeno annunciare che ne avremmo emessi; tagliare i buoni del 2012 in mano alla BCE, o annunciare che stavamo per farlo e prendere il controllo della Banca di Grecia. Queste erano le tre cose, che penso avremmo dovuto fare. Ho messo in guardia il gabinetto su quanto stava per accadere per un mese (…). Quando poi è successo – e molti dei miei colleghi non ci potevano credere – la mia raccomandazione fu di dare una risposta energica. Il governo ha deciso di non sostenere la mia posizione.

Non c’era un potere alternativo all’interno del gruppo, i francesi non sono un bilanciamento del potere tedesco? Solo il ministro delle finanze francese ha espresso opinioni diverse dalla linea tedesca, ma in forma molto moderata. Si intuiva che sceglieva di usare un linguaggio molto giudizioso, per non fare intuire di essere troppo in opposizione. E in ultima analisi, quando Schäuble dettava la linea, il ministro francese chinava il capo e accettava.

 Sarebbe scioccato se Tsipras si dimettesse? Niente mi sconvolge in questi giorni – la nostra zona euro è un luogo molto inospitale per le brave persone. Non mi scioccherebbe neppure che decidesse di rimanere accettando un pessimo accordo. Capisco che si senta in obbligo verso le persone che lo sostengono, e ci hanno sostenuto, di non lasciare che il paese vada in default.

 

Questa l’anticipazione dell’articolo per Die Zeit postata sul blog dell’economista.

Cinque mesi di intensi negoziati tra la Grecia e l’Eurogruppo non hanno mai avuto possibilità di successo. Condannati a produrre una situazione di stallo, il loro scopo era quello di preparare il terreno per quello che il dottor Schäuble aveva deciso essere la soluzione ‘ottimale’ ben prima che il nostro governo fosse stato eletto: che la Grecia venisse spinta fuori da zona euro, al fine di mettere in riga gli stati membri a resistere il suo piano per la ristrutturazione della zona euro.

Come faccio a sapere che la Grexit è una parte importante del piano di Dottor Schäuble per l’Europa? Perché me lo ha detto lui!

Ho scritto questo articolo non da politico greco critico nei confronti della stampa tedesca per il modo in cui ha trattato le nostre proposte ragionevoli, del rifiuto di Berlino di prendere in seria considerazione il nostro moderato piano di ristrutturazione del debito o della decisione meramente politica della Banca centrale europea di soffocare il nostro governo o ancora della decisione dell’Eurogruppo di dare luce verde alla BCE sulla questione della chiusura delle nostre banche.Ho scritto questo articolo come europeo che osserva lo svolgersi di un piano per l’Europa – il Piano del dottor Schäuble. E pongo una semplice domanda di lettori informati Die Zeit: Si tratta di un piano che approvate? Lo considerate un bene per l’Europa?

 

 

La vendetta dell’Europa: cosa c’è nell’accordo con la Grecia

Fiducia, fiducia, fiducia. E poi unanimità. Il tono del testo adottato dopo la maratona dell’Eurosummit insiste molto sulla necessità, per la Grecia, di riguadagnare la fiducia delle istituzioni europee. A Tsipras e al suo governo si imputa di aver chiesto con il referendum cosa pensassero i greci del pacchetto proposto dall’Europa. E i leader dell’Europa (Tusk, Juncker) insistono sul fatto che l’accordo sia stato sottoscritto da tutti.

La verità è che l’unanimità viene perché il fronte che voleva scaricare la Grecia e punire Tsipras ha ottenuto quel che voleva: per tutto sabato, infatti, la Finlandia faceva circolare la notizia per cui non avrebbe accettato nulla di meno di quel che c’è nell’accordo capestro raggiunto. La Grecia è stata commissariata, in cambio di fondi per respirare.

Nella notte di trattative si è parlato di “waterboarding” psicologico nei confronti del premier greco, sono volati insulti, giacche (Tsipras ha gettato la sua sul tavolo chiedendo se i partner europei non volessero anche quella) e molti rapporti tra Paesi si sono incrinati. I toni usati dalla Germania e il primo testo sottoposto al vaglio dei greci erano inaccettabili: dall’ipotesi di Grexit temporanea al fondo di garanzia da trasferire a Lussemburgo in un fondo nel cui board siede anche il ministro Schaeuble.

Il governo greco ha ottenuto che il fondo rimanga in Grecia e piccole concessioni sul debito: la premier tedesca Merkel ha detto che “l’Eurogruppo è pronto a concedere un periodo di grazia e prestiti più a lungo termine”. Non è la ristrutturazione del debito ma è almeno la concessione di una discussione sul tema. E’ molto poco.

L’accordo è peggiore di quello respinto dai greci con il referendum, per raggiungerlo si è sfiorata una crisi senza precedenti nell’asse Franco-tedesco. Nella conferenza stampa finale, il presidente francese Hollande, che ha abbracciato Tsipras all’uscita dal summit, era scuro in volto. La Germania ha mostrato di non avere nessuna capacità di leadership egemone, ma solo di voler imporre in maniera ottusa delle regole scritte in un altro momento storico. Le socialdemocrazie hanno mostrato l’incapacità di pensare europeo. Forse Tsipras ha guadagnato ossigeno e tempo. Ma l’Europa che conoscevamo, non particolarmente solidale, ma neppure spietata, non esiste più. I prossimi mesi ci diranno se e come la politica sarà capace di restituirle un volto diverso da quello rabbioso mostrato in questi giorni con la Grecia.

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I principali punti dell’accordo Grecia/Eurogruppo

 

  • Attuare riforme pensionistiche e specificare i criteri per compensare pienamente l’impatto fiscale della sentenza della Corte Costituzionale sulla riforma delle pensioni del 2012 e ad attuare la clausola di deficit zero o misure alternative reciprocamente accettabili entro l’ottobre 2015. Aumento dell’Iva per le isole.
  • Adottare riforme del mercato dei prodotti (…) tra cui la liberalizzazione degli orari e l’apertura dei negozi la domenica (più interventi su farmacie, panetterie e latte) e apertura al mercato in alcuni settori cruciali (quello dei traghetti, ad esempio, settore cruciale).
  • Privatizzazione del gestore della rete di trasmissione dell’energia elettrica;
  • Mercato del lavoro: riforma della contrattazione collettiva (liberalizzazione), dei licenziamenti collettivi.
  • Adottare le misure necessarie per rafforzare il settore finanziario, compresa l’azione decisiva su crediti in sofferenza e misure per rafforzare la governance della HFSF e le banche, in particolare eliminando qualsiasi possibilità di interferenza politica nei processi di nomina.
  • Infine c’è la creazione di un fondo da 50 miliardi (il 23% del Pil greco) nel quale trasferire le attività da privatizzare per poi usare quei soldi per ripagare il debito. Tsipras ha ottenuto che il fondo non fosse a Lussemburgo. E’ una delle poche cose spuntate, oltra a una frase vaga sul debito.
  • Tra le cose su cui Tsipras ha dovuto chinare la testa c’è l’accettazione di rivedere buona parte delle leggi votate dal parlamento greco da quando Syriza ha vinto le elezioni. Un altro duro colpo è quello relativo al ruolo del Fondo monetario: i greci non lo volevano, nel testo c’è scritto che dovrà avere un ruolo cruciale.

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Ora la palla passa al governo e al parlamento greci, che entro mercoledì dovranno trasformare in legge le decisioni assunte dall’Eurogruppo. Terrà la maggioranza o i creditori otterranno anche il commissariamento del governo, un allargamento della maggioranza e la spaccatura di Syriza? Il premier greco ha accumulato un forte capitale politico e c’è la possibilità che i greci continuino a fidarsi della sua volontà di continuare a trattare dopo aver superato l’emergenza delle scadenze e il pericolo di uscita dalla zona euro – Tsipras, lo ha sempre ribadito, ha un mandato per rimanere nell’eurozona. Possibile e probabile che l’accordo di stanotte generi scossoni nella politica greca e anche in quella europea. A partire dalla discussione e dal voto che, oltre che per il parlamento greco, dovrà passare anche per diversi parlamenti nazionali. Alcuni tra questi sono molto critici nei confronti della Grecia e potrebbero persino riservare sorprese.

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I quotidiani della sinistra europea sono molto critici con l’accordo e l’atteggiamento di Eurogruppo e Germania. E probabilmente registrano un umore generalizzato nel continente. Qui sotto le copertine del Guardian, Libération e l’apertura del sito tedesca Tageszeitung. Il primo titola “A che gioco gioca la Germania?”, il britannico/globale scrive “L’Europa si vendica di Tsipras”, mentre l’apertura del giornale tedesco è: “Così fallisce l’Europa (nel senso di affonda, come si evince dalla foto), l’alleanza Merkel-Schaeuble impone tutte le richieste tedesche”.

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Per finire tre commenti importanti, il primo è quello di Paul Krugman, che stanotte ha postato sul suo blog le considerazioni qui sotto:

Supponiamo di considerare Tsipras un incompetente, di voler cacciare Syriza dal governo e spingere quei greci fastidiosi fuori dall’euro. Anche se tutto questo avesse senso, le richieste dell’Eurogruppo sono e l’hashtag ThisIsACoup (“Questo è un colpo di Stato”, molto in voga si Twitter da due giorni, ndr) è corretto. Questo pacchetto va al di là della vendetta pura, è la completa distruzione della sovranità nazionale senza nessuna speranza di sollievo per l’economia (…) Quello che abbiamo imparato nelle ultime due settimane è che essere un membro della zona euro significa che i creditori possono distruggere la tua economia non appena mettete un piede in fallo. Potrà la Grecia uscire con successo dalla sua situazione? Sarà la Germania a cercare di bloccare la ripresa? (Ci dispiace, ma questo è il tipo di domande che dobbiamo porre). (…) Al progetto europeo – un progetto che ho sempre lodato e sostenuto – è appena stato inferto un terribile colpo, forse fatale. E qualunque cosa si pensi di Syriza, o della Grecia, non sono stati i greci che lo hanno assestato.

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Qui sotto Walter Munchau sul Financial Times, da sempre critico con il governo del suo Paese:

Hanno distrutto la zona euro per come la conoscevamo e demolito l’idea di un’unione monetaria come passo verso un’unione politica democratica. (…) Hanno degradato la zona euro a sistema tossico di cambi fissi con una moneta condivisa, gestito nell’interesse della Germania e tenuto assieme dalla minaccia di povertà assoluta per coloro che sfidano l’ordine dominante. La cosa migliore che si può dire del fine settimana è che coloro che lavorano a questo risultato sono stati di un’onestà brutale … il fatto che una Grexit formale sia stata evitata è irrilevante: la Grexit tornerà sul tavolo al primo, minimo, incidente politico – e ci sono ancora molte cose che potrebbero andare male, sia in Grecia che in altri parlamenti della zona euro. Qualsiasi paese che in futuro decidesse di sfidare l’ortodossia economica tedesca si troverebbe ad affrontare problemi simili.

Molto dura anche Suzanne Moore del Guardian, questa la conclusione del suo commento:

Non c’è remissione del debito in questa famiglia. Tsipras dovrà vendere questo accordo al suo popolo in maniera che le banche possono riaprire. La sua resistenza è stata notevole, e ne servirà ancora. L’insostenibilità del debito greco, anche se il paese dovesse riprendere a crescere, resta. Le parole credibilità e fiducia sono state molto utilizzate, ma dalle persone sbagliate. La fiducia in questo progetto europeo è perduta. Francois Hollande può blaterare sulla storia e la cultura della Grecia. Ma quel valore è puramente simbolico, non vale nulla. La famiglia dell’euro si è rivelata un conglomerato di strozzinaggio che non si cura della democrazia. Si tratta di una famiglia autoritaria. Questo “salvataggio”, che verrà venduto come “crudele per il bene dei greci” non è nulla del genere, è semplicemente spietato.

 

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Libri per bambini vietati a Venezia, il sindaco non cede

brugnaro libri proibiti teoria del genere

Non demorde il sindaco Brugnaro di Venezia che il 24 giugno scorso aveva fatto togliere dalle scuole dell’infanzia libri definiti “gender”. Una “lista di proscrizione”, ricordiamo, di 49 titoli, fra cui tre capolavori di Leo Lionni (Guizzino, Pezzettino e Piccolo Giallo e Piccolo Blu), ma anche Piccolo uovo disegnato da Altan o Ernest e Celestine diventato anche un film di successo. Ora tutti questi libri sono sotto esame di una apposita commissione comunale.

«I cittadini hanno votato perché questi libri non siano nelle scuole ed è questa, la democrazia» ha detto il sindaco di centrodestra durante una conferenza stampa. Brugnaro se l’è presa anche con Amnesty International. «Persino il direttore di Amnesty International, nei giorni scorsi, mi ha scritto per attaccarmi: questo la dice lunga su come vada riaccesa la luce, in Italia, per evitare che non riparta. Se c’è gente che ha tempo di mandare mail per attaccare, così come è avvenuto anche con Goletta verde, sarebbe meglio che, prima, si candidasse alle elezioni, per vedere se la gente la pensa come loro». Insomma, sembra proprio che il sindaco si reputi un esperto didattico. Sempre nella conferenza stampa ha infatti dichiarato, come riporta Il Gazzettino: «Quelli sull’antirazzismo o l’inclusione sociale, che fanno parte anche della mia storia, saranno reintrodotti, a differenza dei pochi che abbiamo ritenuto non adatti per i bambini dell’asilo, visto che la teoria del gender non è integrazione: il Comune non li distribuirà più, perché decidere che libri dare sarebbe il vero fascismo, e saranno genitori ed insegnanti a prendersi le proprie responsabilità in merito, andandoli se del caso a prendere in biblioteca».

Che cosa accadrà adesso? Va detto che la mobilitazione contro la decisione del sindaco, era subito stata notevole. Una mobilitazione immediata di genitori, insegnanti, scrittori ed editori o associazioni come Ibby, il cui comunicato si intitola Liberi di leggere tutto, leggere per essere liberi. Una pagina facebook Liberiamo i libri per bambini, segue puntualmente tutta la vicenda e informa delle iniziative e delle letture pubbliche che adesso continuano ancora più determinate. C’è anche chi ha proposto di leggere tutti i 49 libri proibiti e lanciarli su youtube.

Il 10 luglio la petizione indirizzata al ministro dell’Istruzione Giannini su Change.org contro la censura dei libri era stata salutata come una vittoria.  Lanciata  dall’attrice Martina Galletta spinta dal suo amore per la lettura – “Sarei una persona diversa se non avessi letto tutti i libri che ho letto” -, ha scritto, ha raggiunto in breve tempo la quota di 30.078 firme. Ma soprattutto si era registrata anche la presa di posizione del sottosegretario all’Istruzione Faraone. Il quale aveva  ribadito infatti che i sindaci proprio non ci devono entrare con le scelte scolastiche. Faraone, come riporta La Nuova Venezia, ha detto: “Solo dirigente scolastico, insegnanti e genitori a prendere insieme qualsiasi decisione che riguardi il piano dell’offerta educativa e formativa in una scuola. Vale anche per i libri e le biblioteche scolastiche. Nessun sindaco può intervenire in tal senso, né meno che mai può decidere quali libri possono stare o meno all’interno di un istituto: è un ambito di competenza comune della comunità scolastica, fatta di famiglie e operatori della scuola“. Faraone si riferisce poi ad una circolare del 6 luglio del Miur  in cui nero su bianco si afferma che il Pof, il piano dell’offerta formativa è il perno dell’identità culturale della scuola e alla stesura di un così importante “documento” contribuiscono il collegio dei docenti e infine, per l’approvazione finale, il Consiglio d’Istituto. Va detto che con il Ddl appena diventato legge, il preside potrà “definire gli indirizzi” del Pof. Tenendo conto delle proposte e dei pareri dei genitori. Ma certo non dei pareri dei sindaci del territorio a cui appartiene la scuola.

A questo punto cosa accadrà? Sembra profilarsi un conflitto a tutti gli effetti tra governo centrale rappresentato dal Miur e governo locale, quello della nuova aministrazione comunale di Venezia.

Infine, un po’ di poesia, con uno dei libri vietati:  Pezzettino di Leo Lionni.

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