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Piero Ciampi e gli ukelele? Ecco Sinfonico Honolulu

Otto ukulele, un basso acustico e la voce psichedelica di Steve Sperguenzie. Il Sinfonico Honolulu è pronto. E lancia il singolo “Fra cent’anni” pubblicandone il video in anteprima su Left.

Facciamola breve. Le parole chiave sono tre: ukulele, Livorno e spensieratezza. Il Sinfonico Honolulu è la prima orchestra di ukulele in Italia. Al centro del suono c’è quella sorta di “piccola chitarra” che trasuda note hawaiiane, nata dalle mani di esperti liutai portoghesi, immigrati alle Hawaii per lavorare nei campi di canna da zucchero. Il cordofono della famiglia delle chitarre, in genere a quattro corde, è l’adattamento del cavaquinho strumento tuttora fondamentale nella musica popolare brasiliana (ma non nella bossa nova). Piccolo ma con un grande storia. George Harrison compose “Something” proprio su un ukulele e la leggenda narra che la “piccola chitarra” sia stata il primo strumento acquistato sia da Syd Barrett che da Joe Strummer. Per non parlare del gran ritorno di questi anni. Un titolo per tutti è Ukelele songs, album solista di Eddie Vedder, cantante dei Pearl Jam.

copertina SIngle def
La Sinfonica Honolulu è composta da Steve Sperguenzie (al secolo Luca Vinciguerra), Daniele Catalucci bassista dei Virginiana Miller, Luca Carotenuto, Filippo Cevenini, Francesco Damiani, Giovanni Guarneri, Luca Guidi, Gianluca Milanese, Giorgio Mannucci. E Matteo Scarpettini alle percussioni

E lo troviamo pure tra le mani di Marylin in A qualcuno piace caldo, di Ollio e di Mia Farrow sul finale scritto e voluto da Woody Allen per La rosa purpurea del Cairo. Dall’Oceano Pacifico al porto di Livorno. Il brano – che anticipa l’uscita dell’album di inediti prevista per ottobre 2015 – è una rivisatazione di “Fra cent’anni” del grande Piero Ciampi, livornese come loro. Nel 1962 Piero Litaliano (così Ciampi incideva i suoi dischi in quel periodo) scrive e incide,  insieme a Gian Franco Reverberi, un pezzo che non ebbe all’epoca successo né di pubblico né di critica. E che oggi l’orchestra decide di omaggiare. Cosa avrebbe detto Piero Ciampi di un tale spensierato arrangiamento? Non è dato saperlo. La sua poetica è quasi irriconoscibile immersa tra le note di un frizzante ska tropicale. E di suggestioni sixties è pieno anche il video: un piccolo televisore, carta da parati e cravattini neri beat. Ascoltare (e guardare) per credere.

Piaciuto? Bene, potete risentire “Tra cent’anni” qui

La scuola che vogliamo. La tappa bolognese di Left in tour

Il video del primo incontro di Left in Tour alla Festa dell’Arci di Bologna. A discutere della “Scuola che vogliamo e del futuro dell’istruzione pubblica” sono il senatore Corradino Mineo, la senatrice M5s Michela Montevecchi insegnante e critica acuta del Ddl Buona scuola, il direttore di Left, Ilaria Bonaccorsi e la redattrice Donatella Coccoli. Altre voci sono quelle di Elisabetta Amalfitano, docente di Storia e filosofia, Stefania Ghedini portavoce della Lip (Legge di iniziativa popolare) e Francesca Ruocco segretaria generale Flc Cgil di Bologna.

#LeftIncontra Mercoledi 24 giugno la presentazione de Il Momento Eureka, pensiero critico e creatività

È immaginabile l’innovazione senza una nuova cultura? Pensiero critico fa rima con “La Buona Scuola”? Come sostenere la creatività in un momento in cui la finanziarizzazione dell’arte, l’asservimento della ricerca di base alle sue applicazioni industriali e i tagli alle risorse pubbliche limitano fortemente l’iniziativa individuale e di gruppo in Italia? Sono alcune delle importanti domande a cui cerca di rispondere il nuovo libro di Michele Dantini.

Se ne parla nella redazione di Left, il 24 giugno. A partire dal nuovo libro di Michele Dantini, Il momento Eureka, edito da Doppiozero/Che fare.

Con l’autore ci saranno Carlo Testini, e Marco Trulli dell’Arci, Francesco Sylos Labini di Redazione Roars, ‪Bertram Niessen, ‪‎Manuel Anselmi, ‪Andrea Masala e Stefano Chiodi. Coordina Simona Maggiorelli della redazione di Left.

#LeftIncontra
In collabrozione con:
Arci
Che fare

Scarica il libro qui: www.doppiozero.com/libro/il-momento-eureka

Per informazioni:  3386793581 – 3397905846

#SulleRotteDeiMigranti il live twitting di Left

migranti viaggio verso il confine

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Gli eroi delle stive e la mappa del nuovo mondo

Alla fine se ragioni per quote, ragioni per chili. Chili di carne. E se ragioni per chili di carne, ragioni per pezzi. Mi è capitato di vedere Il figlio di Saul, prima opera di un giovane regista ungherese, László Nemes. Racconta la storia dei forni nazisti di Auschwitz- Birkenau. Di quella fabbrica che “eliminava” i corpi. Migliaia di corpi mai sotterrati, ma fatti sparire nei forni. Resi cenere e dispersi. «Pezzi», così nel film venivano chiamati i corpi. «Oggi arrivano mille pezzi», diceva l’ufficiale nazista. Ed in effetti quel modo di pensare in quella fabbrica concepiva “pezzi”, non vite umane. E neanche corpi, al limite, senza più vita umana, ma “pezzi”, chili, montagne. Da eliminare. Incessantemente. Non dovevano esistere e neanche essere mai esistiti.

Solo qualche mese fa, all’indomani dell’ennesima strage in mare nel Canale di Sicilia, Emma Bonino parlava di nuovi “forni liquidi”, quelli del Mediterraneo, nel quale i corpi dei migranti venivano lasciati morire. Vengono lasciati morire ancora oggi. Inutile persino recuperarli, inutile identificarli, inutile seppellirli. Sono nessuno. Tutto è diverso, certo, ma vagamente simile. Non accade oggi, lo so. Non ci sono nazisti in giro né campi di sterminio, non in Europa almeno.

Eppure fare di vite umane uguali a noi, ladri col macete (vulgata leghista), o più semplicemente “clandestini” (vulgata europea), svuotare di senso quello che sta accadendo, mi ha fatto pensare a Nemes e al suo film. Ai “pezzi”, ai chili. E anche alle “quote” di vite respinte da questa Europa qui. Che pensiero è, mi chiedo, quello che calcola e ragiona su quote, numeri? E che pensiero è quello che chiude le frontiere nel nome di quel calcolo? Quello che respinge; quello che ipotizza blocchi navali o lascia i corpi in fondo al mare perché recuperarli, calcola, è costoso e inutile. È semplice cialtroneria umana e politica o è un parente lontano lontanissimo di quel pensiero/macchina raccontato da László Nemes? Di quel pensiero che svuota, devitalizza, cosifica. Fa “pezzi”.

Quello che per esempio calcola come “salvare la Grecia” ma non i greci, come se 600mila bambini senza cibo sufficiente a vivere, 10mila suicidi dall’inizio della crisi, indigenza, paura, non esistessero. Come se la Grecia fosse invece un’entità astratta. Un “pezzo” anch’essa. Anzi un numero. Quello del suo debito. Nel film di Nemes è impressionante “l’eliminazione totale dei pezzi”, come fosse l’estremizzazione folle della mortificazione del corpo che imponeva il misticismo medievale. E non so perché, ma mi fa pensare anche alle immagini di Ventimiglia, di Milano, di Roma, di Melilla, di Lampedusa. Mi impressiona ciò che “ci si concede” vivano quelle vite umane, persino i loro corpi. Si progetta a tavolino di respingimenti (pur sapendo perfettamente che in Libia ci sono i campi di sterminio), si rinchiudono centinaia di donne, bambini e uomini in condizioni disumane(sono arrivati a cucirsi la bocca con ago  e filo in segno di protesta), si bracca, si spara persino (in Spagna), nel nome di una fortezza o di un numero, di una quota. O di una frontiera decisa da qualcun altro (calpestando Schengen e Lisbona).

Si lasciano “pezzi” in fondo al mare. Ma soprattutto si decide di non “cercarli e salvarli” più (si taglia Mare Nostrum) seguendo la ragione mostruosa del calcolo economico (l’operazione costava troppo) e di un altro calcolo indicibile. Disumano: se li salvi, poi ne arrivano altri. Tanti, troppi. Ebbene, Left non può che ridirvi che la verità umana è un’altra. Lo scrive bene Michela Iaccarino su questo numero: Che si provi a fermarli o meno, gli eroi delle stive stanno riscrivendo quella che Derek Walcott chiamava Mappa del Nuovo Mondo. «Te l’ho detto, dopo qualche giorno di viaggio non sapevo nemmeno in che Stato ero. Non so quanti Stati ho attraversato. A un certo punto ci hanno trattenuto, ammanettato e poi ci hanno detto di andarcene. Credo sia stato in Francia. Comunque nessuno di noi era disposto, certo, dopo tutto quello che avevamo passato, a tornare indietro, mai», mi ha detto Zerit, giovane eritreo. Gli eroi delle stive stanno riscrivendo la Mappa del Nuovo Mondo. Non c’è ostacolo che tenga.

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Sognavo l’Europa, Left in edicola da sabato 20 giugno 2015

L’Europa, il continente dell’utopia di Altiero Spinelli, si è fermata su una scogliera. Quella di Ventimiglia, dove stanno ammucchiati i migranti in attesa di varcare il confine per la Francia. La politica arida delle quote, che rende “pezzi” gli esseri umani, come scrive Ilaria Bonaccorsi nel suo editoriale, è il tema della storia di copertina diLeft in uscita il 20 giugno. Proprio il giorno della manifestazione nazionale “Fermiamo la strage”.

Sognavo l’Europa. Left racconta come naufragano i diritti dei migranti

L’Europa, il continente dell’utopia di Altiero Spinelli, si è fermata su una scogliera. Quella di Ventimiglia, dove stanno ammucchiati i migranti in attesa di varcare il confine per la Francia. La politica arida delle quote, che rende “pezzi” gli esseri umani, come scrive Ilaria Bonaccorsi nel suo editoriale, è il tema della storia di copertina di Left in uscita il 20 giugno. Proprio il giorno della manifestazione nazionale “Fermiamo la strage”.

Ma cosa sta facendo il governo italiano? Rimpatri veloci e permessi temporanei, è questa la strategia di Matteo Renzi in attesa del Consiglio europeo del 25 e 26 giugno? E intanto invoca il superamento del Regolamento Dublino III che blocca i richiedenti asilo nel Paese di primo approdo. «Mi chiedo se il premier avrà la forza politica per sostenere questa tesi», dice Christopher Hein, direttore del Cir (Centro italiano per i rifugiati). Ma dietro l’angolo c’è anche la svolta securitaria con il potenziamento dei Cie (Centri di identificazione e detenzione) come ha annunciato il ministro Alfano chiamandoli Hot spot. A questo proposito Left racconta, grazie ai protagonisti della campagna LasciateCIEentrare, la storia drammatica del centro di Gradisca d’Isonzo. Per fortuna in Europa ci sono anche esempi virtuosi di accoglienza come raccontiamo nel reportage sul centro di Grenshof in Olanda.

Il Ddl Madia è sotto accusa anche per la soppressione del Corpo forestale dello Stato. Left dimostra come gli 8mila agenti forestali siano fondamentali per la repressione di reati ambientali. E seguendo il “fil rouge” della tutela del territorio, prosegue l’inchiesta “Strade nostre” nel Sud del Lazio: questa volta Left affronta il fenomeno delle escavazioni.

Negli Esteri le storie di due personaggi protagonisti di una lotta costante per far valere i diritti dei rispettivi popoli. Berta Cáceres, premio Goldman per l’Ambiente, che difende il patrimonio culturale del popolo Lenca, in Honduras e il musicista palestinese Ramzi Aburedwan che promuove l’insegnamento della musica ai bambini dei territori occupati. Left inoltre racconta, con un reportage, la Kobane di oggi, dove i profughi cercano di tornare a casa e dove una staffetta di medici volontari lavora in ospedali completamente distrutti.

Per la scienza Pietro Greco affronta un tema ambivalente: l’inarrestabile ascesa dei robot, che tolgono lavoro agli “umani” ma che possono costruire una nuova economia, offrendoci, perché no, tempo libero. Infine: una intervista a Lydie Salvayre, scrittrice figlia di esuli spagnoli che racconta la guerra civile in Spagna, le nuove frontiere dell’architettura in Danimarca e l’incontro con Fabrizio Bosso, eclettico trombettista che rende omaggio a Duke Ellington.

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Charleston e i numeri dell’odio razziale negli Stati Uniti

Charleston dopo la sparatoria (Ansa)

Nove persone, tre uomini e sei donne, sono morte, uccise mentre pregavano in una delle più vecchie e famose chiese di Charleston, la Emanuel Ema, dove un tempo parlò anche Martin Luther King. La splendida città della South Carolina, vecchio centro del commercio degli schiavi e località turistica di grande attrattiva, non è particolarmente attraversata da tensioni razziali: è ricca, turistica e piuttosto bianca. Tra i presenti in chiesa, sono solo tre i sopravvissuti. L’assassino è un 21enne bianco di nome Dylan Roof, ed è stato arrestato durante la fuga nella confinante North Carolina. Qui sotto la foto del suo ingresso in chiesa e quella del suo profilo facebook. Da notare le bandiere sulla giacca, che sono quelle nazionali della Rhodesia e del Sudafrica, i due paesi dell’apartheid. Un modo di dichiarare la propria ideologia suprematista bianca senza essere troppo riconosciuti.

 

dylan roof

 

 

La strage di Charleston è l’ennesimo caso drammatico di uso delle armi da parte di un cosiddetto “lupo solitario” contro una comunità. Negli anni passati si erano spesso verificati attacchi di questo tipo contro i musulmani o altri gruppi di religioni diverse: nel 2012 il suprematista bianco e veterano di guerra Wade Michael Page aveva ucciso sei sikh all’interno del tempio di Oak Creek in Wisconsin.

Suprematismo bianco e tensioni razziali sono cruciali in uno stato come la South Carolina, orgogliosa (in gran parte della sua popolazione bianca) delle sue piantagioni, davanti al cui Campidoglio sventola ancora la bandiera confederale e troneggia la statua di Ben “forcone” Tillman, governatore a cavallo tra ‘800 e ‘900 noto per le sue posizioni razziste e dove, ad aprile, la polizia ha ucciso, sparandogli alle spalle, Walter Scott, afroamericano di North Charleston città-sobborgo dove metà della popolazione è nera. Ogni anno, il giorno in cui si celebra il Martin Luther King Day, la marcia sfila davanti a gruppi che sfidano gli aroamericani con le loro bandiere confederali. Minoranze estreme, ma ben radicate negli Stati del Sud.

I dati Fbi più recenti riguardano il 2013 e dicono che in quell’anno sono stati commessi 5928 “hate crimes” (crimini motivati da pregiudizio razziale, religioso, di genere), quasi la metà dei quali a sfondo razziale – il 20,8% generati da ragioni legate all’orientamento sessuale, il 17,5% da quello religioso. La strage della chiesa non è quindi una stranezza, ma solo un episodio più grave e drammatico degli altri – nella maggior parte si tratta di intimidazioni, distruzione di proprietà, aggressioni semplici o aggravate.

Volendo fare un’ipotesi – senza conoscere a fondo la dinamica della strage o le sue motivazioni – è probabile che i morti di Charleston siano figli di Ferguson e delle proteste che ne sono seguite. L’azione dei lupi solitari è infatti spesso conseguenza del rumore di fondo dei media: se in onda vanno servizi sul pericolo radicalismo islamico è più probabile che capitino episodi contro luoghi o persone di religione musulmana. Oggi è il tempo di una nuova grande discussione sul pregiudizio razziale della polizia americana e delle proteste dei neri. Tra le vittime della strage, tra l’altro, c’è anche Clementa Pickney, pastore della chiesa, senatore dello stato e forte sostenitore delle videocamere obbligatorie sulle divise della polizia.

Secondo il South Poverty Law Center, un gruppo che tra le altre cose raccoglie i dati sull’estremismo di destra nel Paese, negli Stati Uniti, negli ultimi due-tre anni il numero di gruppi estremisti attivi  è in lieve calo, tra 2009 e oggi sono calate le falangi del Ku Klux Klan e di altri gruppi suprematisti bianchi e aumentate le bande di skinheads e anti-islamici. Gli anni Duemila sono però segnati da un generale aumento dell’attivismo xenofobo. A cui certo l’elezione di Obama ha dato slancio. I dati sono rappresentati nella figura qui sotto e includono anche gruppi di afroamericani anti-bianchi.

 

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Razzisti, suprematisti, estremisti religiosi: 2004-2014 Chi sono gli hate groups, contro chi se la prendono (South Poverty Law Center)

 

A crescere è il numero di hate crimes perpetrati da “lupi solitari”, che questi siano razzisti, nazionalisti o convertiti e aderenti all’Islam. Come si evince dalla figura qui sotto, anch’essa opera del South Poverty Law Center, il numero di attacchi perpetrati da singoli è pari al 74% del totale. I crimini sono per metà “hate crimes” e per metà anti-statali, una tipica bandiera dei gruppi libertari che detestano qualsiasi forma e intervento delle autorità federali nei loro affari. Nel caso di Charleston sappiamo ormai che si tratta di un crimine a sfondo razziale. Uno di quei crimini che, se in America circolassero meno armi, sarebbe altrettanto odioso ma meno tragico.

 

Lupi solitari e gruppi organizzati, gli hate crimes negli Stati Uniti (South Poverty Law Center)

Left in tour da Bologna! Sabato 20 giugno la prima tappa con Corradino Mineo

Il senatore Pd Corradino Mineo, che si presenta come uno dei più fieri avversari del Ddl Buona scuola, è a Bologna per parlare di istruzione pubblica. Mineo è uno degli ospiti dell’incontro in programma sabato 20 giugno e promosso dal settimanale Left e dall’Arci di Bologna.

Tra le proteste dei professori e le guerre tattiche al Senato attorno alla riforma renziana, ecco l’occasione per una riflessione aperta su “La scuola che vogliamo”, questo il titolo dell’incontro che si svolge alla Festa dell’Arci di Bologna (Parco delle Caserme Rosse, ore 18.30).

Con la presenza del direttore responsabile di Left Ilaria Bonaccorsi, prende il via Left in tour, un viaggio per l’Italia promosso dal settimanale per affrontare i grandi temi nazionali e i problemi dei territori. Nella prima tappa a Bologna, il confronto  è su un argomento quanto mai scottante per tutto il Paese ma anche per una città dove l’istruzione pubblica è sempre stata al centro dell’attenzione dei cittadini. Come dimostra il recente  sciopero della fame a staffetta degli insegnanti davanti all’Ufficio scolastico regionale di via Castagnoli o qualche anno fa il referendum per il finanziamento alle scuole private.

Insieme al senatore Mineo partecipa anche la senatrice M5s Michela Montevecchi insegnante e critica acuta del Ddl Buona scuola.  Altre voci sono quelle di Elisabetta Amalfitano, docente di Storia e filosofia, Stefania Ghedini portavoce della Lip (Legge di iniziativa popolare) e Francesca Ruocco segretaria generale Flc Cgil di Bologna.

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Perché Hillary Clinton sceglie di correre a sinistra

Sabato scorso Hillary Clinton è tornata a New York per il lancio definitivo e ufficiale della sua campagna. Il primo discorso in grande stile, non su un tema specifico ma sul significato della sua candidatura. Sole, tanta gente e una scelta del luogo in cui parlare evocativa: l’ex senatrice ha parlato ai suoi sulla Roosevelt island.

Che candidata sarà Hillary Rodham Clinton? Si presenta davvero come una Robin Hood come l’ha dipinta il destro (e spiritoso) tabloid della città, in New York Post, per sottolineare il paradosso di una donna potente e miliardaria che sceglie di lanciare la sua campagna attaccando i miliardari e Wall street? E come mai è così lontana da se stessa o dalle politiche che furono dell’amministrazione di suo marito Bill? Il discorso ci aiuta a dare qualche risposta a queste domande.

La linea politica scelta da Hillary Rodham Clinton è (esclusa la politica estera) piuttosto a sinistra: congedo di maternità, asili, riforma dell’immigrazione, incentivi per l’aumento dei salari, energie rinnovabili. Tutto sotto l’etichetta di un’America che riparta dalle quattro libertà di cui parlava il presidente del New Deal nel 1941 e dipinte da Norman Rockwell nel 1943 (di parola, di culto, dal bisogno, dalla paura): opportunità, lavoro, sicurezza (sociale), diritti civili, miori privilegi per pochi e aumento dello standard di vita per tutti. “La prosperità si costruisce tutti assieme e poi la si divide tra tutti” ha detto Hillary, l’idea per cui se i ricchi sono più ricchi tutta la società ne otterrà dei benefici non ha funzionato. Le differenze con la Clinton del passato sono presto dette: tra i ruggenti anni 90 e oggi l’America è cambiata, sia dal punto di vista dello sguardo della società sulle libertà civili (o sul ruolo delle donne), che in materia economica. La crisi ha rivelato quel che era vero da tempo: negli Stati Uniti c’è troppa ricchezza e troppa povertà e la gigantesca middle class non cresce più come un tempo. E’ quindi tempo di cercare consensi, anche tra i bianchi della middle class, proponendo cose che modifichino con moderazione lo status quo.

C’è poi un calcolo elettorale in questo schema: negli Stati Uniti si vince soprattutto se a votare va il tuo elettorato, se lo convinci che andare alle urne è importante. L’elettorato democratico oggi è più a sinistra di quanto non fosse negli anni 90, sia perché, come l’America, è un patchwork di minoranze, sia perché spesso colpito dalla crisi per quanto riguarda la pensione integrativa, il debito per fare l’università, il lavoro. Clinton sa che per vincere deve intanto galvanizzare la propria base e sottrarla agli sfidanti minori che avrà alle primarie, il senatore socialista del Vermont Bernie Sanders, in testa,  decisi a sottrarle l’elettorato liberal e di sinistra. E per arrivare alla Casa Bianca bisogna intanto vincere le primarie.

Allo stato attuale il modo migliore per vincere per Clinton sembra essere la ricostruzione  della coalizione Obama, per poi eventualmente allargarla a segmenti dell’elettorato bianco che da decenni votano repubblicano. Non è un caso se nel discorso ha parlato di giovani imprenditori della Silicon Valley così come di infermiere, lavoratori dei fast-food, operai (i soli bianchi a maggioranza), categorie che in questi anni sono state protagoniste di battaglie sindacali innovative. E dei diritti per gli Lgbt. Questi gruppi attivi nella società vanno arruolati alla causa, non promettendo un candidato tutto nuovo – che nessuno spin doctor, nemmeno il più geniale, riuscirebbe a vendere Hillary come novità – ma politiche che consolidino il lavoro di Obama e che, superino definitivamente la crisi,  costruiscano un futuro migliore. Politiche per le quali serve una persona esperta, tenace e con le idee chiare. Possibilmente una donna e una nonna.

Le donne, anche quelle della sua generazione, possono essere un altro gruppo importante a cui parlare: “Non sarò la più giovane candidata, ma di certo sarò la più giovane presidente ad entrare alla Casa Bianca (e la prima nonna)” è la battuta che ha già fatto il giro del Web.

Clinton è molto dura con i suoi avversari repubblicani: io non sono giovane? Loro conoscono una sola canzone, “Yesterday” dei Beatles, sono amici dei ricchi – che li finanziano – e negano il cambiamento climatico. Non guardano, insomma, al futuro.

A proposito di minoranze, la proposta sulla registrazione automatica dei cittadini al voto – che sarebbe una rivoluzione per la politica Usa – punta proprio a incentivare il voto delle minoranze. Con la maggioranza dei governatori degli Stati repubblicani, il diritto di voto sarà un tema cruciale della prossima campagna elettorale: ci sono mille modi per disincentivare la partecipazione delle minoranze e i repubblicani li useranno tutti.

Hillary avrà i suoi problemi a vendere all’America di nuovo se stessa e per farlo deve riuscire a convincere gli americani che la sua candidatura non è solo dettata dalla ambizione personale. Dovrà convincere le donne che con lei compieranno un passo storico nella giusta direzione – come fece Obama con le minoranze. E’ una sfida difficile, ma tutt’altro che impossibile. Rispetto a otto anni fa, quando l’attuale presidente le rovinò la festa, Clinton appariva rilassata e a suo agio prima del discorso. Non è una grande oratrice come Obama e dovrà riuscire a entrare in sintonia con l’elettorato, far sentire che sebbene distante dalla middle class, riesce ad avvertirne le ferite, i bisogni, la voglia di futuro. Per riuscire dovrà smussare degli angoli, essere meno Segretario di Stato e molto più nonna. Se ci dovesse riuscire sarà un bene per l’America. E anche per l’Europa, avvitata nella sua crisi da austerity mentre in America si parla, con moderazione, di ampliare i diritti e redistribuzione.

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