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Una campagna crowdfunding per pagare il debito greco

ripagare il debito greco

Vuoi aiutare la Grecia? Aiutala a pagare il suo debito. È l’idea sicuramente singolare che ha avuto Thom Feeney, un ragazzo di 29 anni, che lavora a Londra come commesso in un negozio di scarpe e non si è mai interessato di politica greca. Ma Thom non poteva rimanere indifferente a quello che leggeva sui giornali e vedeva in tv e ha pensato che qualcosa forse si poteva fare. Così ieri ha lanciato la campagna crowdfunding “Greek Bailout Fund” sulla piattaforma Indiegogo.com per raccogliere gli 1,6 miliardi di euro necessari ad Atene per ripianare il debito con il Fondo Monetario Internazionale. Il popolo di internet ha colto al volo la sfida e ha cominciato a donare e a condividere il link sui social tanto che nel giro di 24 ore si sono già raccolti più di 250 mila euro donati da circa 17 mila persone. 

 

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Thom sulla pagina dedicata alla raccolta – tanto cliccata nelle ultime ore da mandare in blocco i server della piattaforma – scrive: «Non si tratta di uno scherzo. Ero stanco di assistere alle trattative dei politici, mentre le persone reali soffrono terribilmente a causa della crisi. Questa campagna non ha solo lo scopo di avvicinare i cittadini alla questione greca, ma soprattutto cerca di offrire un contributo dal popolo per il popolo. Gli Europei sono un popolo generoso, forse la Merkel e Cameron sono un’eccezione, ma ci sono 500 milioni di persone nell’Ue e non dovrebbe costare troppo a ognuno di loro contribuire, anche perché sarebbe un po’ come farlo per loro stessi in fondo». E come in ogni campagna crowdfunding ad ogni donazione corrisponde una piccola ricompensa: si va da una cartolina di Alexis Tsipras spedita dalla Grecia a cesti con prodotti tipici, per chi dona 5 mila euro addirittura una vacanza per due persone al sole della penisola ellenica. Come accade per tutti i progetti a caccia di finanziamenti su Indiegogo le donazioni non sono vincolanti e i soldi verranno infatti effettivamente versati solo al raggiungimento dell’intera cifra necessaria a ripagare il debito. L’impresa è ardua, ma Thom si dice «fiducioso nel popolo europeo», convinto che un’altra Europa sia possibile.

Per contribuire al crowdfunding basta cliccare qui

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Referendum greco, cosa dicono gli economisti sui grandi giornali

Tutti i grandi giornali del mondo si occupano di Grecia, del referendum e delle possibili conseguenze di una vittoria dei “Sì” o dei “No”. E molte autorevoli firme dell’economia internazionale sono estremamente critiche nei confronti dell’Unione europea. Alcuni se la prendono anche con quello che chiamano il populismo del premier greco Alexis Tsipras. Abbiamo selezionato qualche parere autorevole partendo proprio da un’opinione molto critica, quella di Luis Bassets pubblicata dallo spagnolo El Pais. “Il golpe anti-europeo di Tsipras rilancia la democrazia diretta e la piena sovranità, ma se i greci vogliono continuare a far parte della globalizzazione dovranno accettare di essere governati anche dall’Unione europea. In caso contrario avranno due opzioni: cadere nelle mani di un impero che funziona verticalmente, senza curarsi degli strumenti che usa e a-democratico come potrebbe essere la Russia, o affrontare la globalizzazione da soli, con il rischio di finire nel precipizio di depressione e povertà”.

Interessante da notare, i paesi sottoposti alla discutibile cura da cavallo dell’austerity sono anche quelli dove tutta la stampa importante bacchetta con più forza il governo greco. L’Italia è naturalmente tra questi. E lo stesso premier Renzi, che rilascia una lunga intervista al Sole24Ore tende a dare la colpa del precipitare della situazione al governo greco – pur criticando la linea tedesca dell’austerity e la scelta del presidente della Commissione Juncker di entrare a gamba tesa nella politica interna greca.

 

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Sul francese Liberation si segnala questo testo autocritico pubblicato in rete dall’ex direttore del Fondo Monetario Dominique Strauss-Khan – in questo periodo di nuovo sotto i riflettori per le vicende legate alle accuse di abusi sessuali. DSK avanza alcune proposte: la Grecia non dovrebbe ricevere nuovi finanziamenti da Ue e Fmi, ma ottenere un allungamento della scadenza del debito e un suo massiccio ridimensionamento. DSK critica il carattere “inetto e disastroso degli aggiustamenti di bilancio troppo severi” che hanno caratterizzato la crisi europea e sostiene che “si continua a ripetere gli stessi errori”. Costringere il governo greco a cedere creerebbe un precedente tragico per la democrazia europea e potrebbe mettere in moto una reazione a catena incontrollabile”. Se in questa uscita di DSK ci sia da leggere anche un missile contro Christine Lagarde, che ha preso il suo posto al Fondo, lo possono dire solo quelli che seguono da vicino quello che avrebbe dovuto essere il candidato socialista alle scorse elezioni presidenziali di Francia.

Di cancellazione del debito parla anche l’editoriale della direzione del New York Times: “Date le enormi conseguenze di quello che sta per accadere, i greci meritano la possibilità di dire se vogliono o meno restare nell’euro (…) Il potere di rendere le cose migliori in ultima analisi, spetta alla zona euro e al Fondo monetario, entrambi hanno lanciato una campagna informale per influenzare il voto degli elettori greci, rendendo pubbliche le loro condizioni per il mantenimento del piano di salvataggio. Avrebbero un argomento più forte se promettessero anche di fare l’unica cosa che possa dare ai greci un reale incentivo a rimanere nell’euro e avviare vere riforme. Che è quello di cominciare a strappare un po’ delle loro cambiali”.

Qualche giorno sul Financial Times era Walter Munchau a disegnare alcuni scenari. “Ci sono due risultati probabili. Il primo è un regime a tempo indeterminato dei controlli sui capitali, forse con una ristrutturazione del sistema bancario come parte di un pacchetto più ampio di riduzione del debito. Ciò consentirebbe alla Grecia di restare nella zona euro”. Il secondo scenario è la Grexit. Il primo sarebbe preferibile ma il secondo è comunque preferibile all’accordo che Tsipras ha respinto, o al ritorno a un consenso pro-austerity. Munchau si poneva poi la domanda: Cosa succede se l’elettorato greco sceglie il Sì, ma la Grecia è lo stesso costretta ad uscire dalla zona euro perché creditori e BCE non lasciano altra scelta? “Questo è lo scenario più pericoloso perché implica che un’unione monetaria senza unione politica possa esistere soltanto in violazione dei principi fondamentali della democrazia”.

In molti, nel mondo anglosassone che insistono da tempo sull’errore che è stato fatto nel creare una moneta unica tra entità tanto diverse economicamente (e senza dotare l’Europa di istituzioni conseguenti). Tra questi c’è Paul Krugman, che nell’ultimo post sul suo blog scrive: “E’ facile perdersi nei dettagli, ma il punto essenziale ora è che alla Grecia è stata presentata una proposta prendere-o-lasciare indistinguibile dalle politiche che sono state imposte ad Atene egli ultimi cinque anni. Un’offerta che Alexis Tsipras non può accettare – e presumibilmente pensata proprio per quello. (…) L’obiettivo deve essere quindi proprio quello di farlo fuori, cosa che probabilmente accadrà se gli elettori greci” decideranno di votare Sì. (…) Non si tratta di punti di vista diversi, ma di potere – il potere dei creditori di staccare la spina all’economia greca, un potere che persiste fino a quando l’uscita di euro è considerata impensabile. Sarebbe dunque giunto il momento di porre fine a questo impensabilità. In caso contrario, la Grecia dovrà affrontare un’austerità e una depressione senza fine”.

Intervistato dal Washington Post, Austan Goolsbee, ex consigliere economico di Obama, uno dai toni moderati e tecnici, sostiene che ci siano solo quattro soluzioni di scuola in casi come quello greco: le prime due sono mobilità del lavoro e sovvenzioni permanenti – “due cose che abbiamo negli Stati Uniti, ed è per questo nessuno ha mai chiesto dopo l’uragano Katrina, se la Louisiana o il Mississippi avessero intenzione di abbandonare il dollaro. Abbiamo la mobilità interna e un’unione fiscale”. Oppure la Germania dovrebbe essere disposta a far crescere di quattro o cinque punti l’inflazione per un paio d’anni(…) Oppure la Grecia potrebbe abbassare il proprio costo del lavoro e far crescere la produttività”. La verità, spiega Goolsbee, è che solo l’ultima carta è nelle mani dei greci, che però è irrealistica e non porterebbe il Paese fuori dalla crisi. Senza uno sforzo collettivo europeo simile a quello avvenuto con la Germania Est, non se ne esce, sembra dire Goolsbee. Che ammonisce sul pericolo contagio, magari a medio termine e aggiunge: “Se la Grecia tornasse alla propria valuta separata e, a due anni da oggi e dopo la svalutazione, tornasse a crescere a fare bene, la lezione per il resto della zona euro potrebbe essere molto diversa da quella che appare oggi”. Anche per questo “si ha la sensazione che i governi dei paesi creditori vogliono che il trauma greco sia il più doloroso possibile, in modo che nessun altro sia tentato a imitare Atene. Vogliono che sia brutto e potrebbero riuscire a renderlo tale. Ma c’è una possibilità che a due anni da oggi, la realtà non sia poi così brutta”.

 Il premio Nobel Joseph Stiglitz parla di crisi democratica. “E’ abbastanza certo, quello che stiamo osservando (…) è l’antitesi della democrazia: molti leader europei vogliono vedere la fine del governo di sinistra di Alexis Tsipras. Dopo tutto, è estremamente scomodo dover trattare con un governo tanto contrario ai tipi di politiche che hanno fatto aumentare le disuguaglianze in tanti Paesi avanzati, un governo impegnato a ridimensionare il potere sfrenato dei più ricchi”. A Bruxelles e Berlino “Sembrano credere che a forza di bullismo si possa far capitolare il governo greco e fargli accettare un accordo che viola il mandato ricevuto dai cittadini”.

Prima di chiudere con la appassionata opinione della corrispondente del mensile della sinistra americana The Nation, Maria Margaronis, pubblicata dal Guardian notiamo che sullo stesso quotidiano britannico Daniel Howden accusa tutti i sostenitori del No di non capire nulla della situazione greca e di essere solo dei tifosi della sinistra radicale. “In pochi immaginavano che si sarebbe davvero arrivati a questo. Ma ci siamo e, a meno di un miracolo, una scelta terribile dovrà essere fatta: anni di lento soffocamento o un salto in un mare sconosciuto e profondo. Non c’è modo di prevedere cosa accadrà con il voto referendario. Un tempo l’Europa era una un continente, una cultura, una tradizione. Nel tentativo di porre fine alla sua storia di guerre nazionali è diventato un club di soci. Ora si sta comportando più come la “Europa Spa”, anteponendo i numeri alle persone, affondando il coltello nel proprio cuore. Come la piccola figura sul fondo del vaso di Pandora, una speranza segreta rimane: forse l’Europa imparerà qualcosa da questa catastrofe. La Grecia, però, rimarrà divisa per molti anni a venire”.

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“Io, la natura e dio”. Il triangolo no, grazie.

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Sono giorni che le pagine di qualunque giornale cartaceo (o meno) vengono invase da elogi sperticati alla nuova enciclica Laudato si’ di Francesco. 192 pagine in cui Bergoglio affronta cambiamenti climatici, inquinamento, scarsità delle risorse primarie, crisi sociali ed economiche, fino agli Ogm e alle sperimentazioni sugli animali. C’è tutto e di tutto. Perché il papa sentiva l’urgenza di chiedere a tutti «una conversione ecologica». Anzi di predicare una «autentica ecologia umana», così la chiama. Come mai, mi chiedo, tanta attenzione a cose così “terrene” da parte del leader del mondo ultraceleste? Poi, leggendo il testo, è chiaro. Perché la premessa dalla quale si parte è delle più classiche (e, nonostante il titolo, molto poco “francescana”), e cioè il famoso triangolo: io la natura e Dio. Una delle vecchie glorie migliori, “se fai male alla natura, fai un peccato contro Dio” ma non perché – come voleva il poverello d’Assisi – Dio è in ogni cosa ma perché ogni cosa è di Dio. Anche la natura. È uno dei suoi doni, anzi dei suoi “prestiti”, come la vita stessa. Noi, al più, siamo «amministratori responsabili», come scrive nell’enciclica, ma la proprietà della «casa comune» rimane “privata”. Dunque se fai un danno, lo commetti contro l’“unico” proprietario. Dio. E lo fai di sicuro, perché la seconda premessa su cui fonda l’«autentica ecologia umana» di Bergoglio è la retorica, anche quella straclassica, dell’uomo originariamente “cattivo” perché marchiato dal peccato originale, base insindacabile di qualunque “pensiero” cristiano e cattolico: «Questa sorella (la natura) protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari […] La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi». Suolo, acqua, aria ed esseri viventi, il legame è presto fatto: «L’interdipendenza delle creature è voluta da Dio. Il sole e la luna, il cedro e il piccolo fiore, l’aquila e il passero […] nessuna creatura basta a se stessa, che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre, per completarsi a critica all’antropocentrismo deviato […] non possiamo illuderci di risanare la nostra relazione con la natura senza risanare tutte le relazioni umane fondamentali». Cattivi e interdipendenti sempre e per sempre, solo grazie a Dio e ai suoi “prestiti” possiamo “risanare” tutte le relazioni umane fondamentali. Bene, benissimo ma come? «Dal momento che tutto è in relazione – scrive Francesco – non è neppure compatibile la difesa della natura con la giustificazione dell’aborto. Non appare praticabile un cammino educativo per l’accoglienza degli esseri deboli […] quando non si dà protezione a un embrione umano, benché il suo arrivo sia causa di disagi e difficoltà. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono». È chiaro? Lo so che pensate, “dal papa che ti aspetti?”. Ed io, in effetti, da lui non mi aspetto nulla di diverso. Mentre mi aspetterei meno pagine sulla magnifica critica al modello consumistico della nostra società di questo papa “così moderno” da parte, almeno, di quei colleghi che da anni scrivono articoli contro i family day di turno o in difesa della legge 194. Anzi mi aspetterei pagine diverse da loro. Perché dentro questa enciclica ci sono passaggi “spietati” sugli esseri umani, la loro natura e le loro relazioni, che non è possibile non vedere, neanche nel nome di tutti i fiori e i venti e i mari e gli uccellini del mondo. E non è possibile perché a non vedere o a vedere solo “pezzi” che convengono (nel senso che ci piacciono di più), si fa una fine brutta. Per esempio, noi donne potremmo finire “interdipendenti” a casa, umili e sobrie, a fare i lavoretti con tutti quanti i figli che Dio decide di mandarci. Io piuttosto terrei bene a mente, tra le 192 pagine, passaggi come questo: «Per questo non basta più parlare solo dell’integrità degli ecosistemi. Bisogna avere il coraggio di parlare dell’integrità della vita umana […]. La scomparsa dell’umiltà, in un essere umano eccessivamente entusiasmato dalla possibilità di dominare tutto senza alcun limite, può solo finire col nuocere alla società e all’ambiente. Non è facile maturare questa sana umiltà e una felice sobrietà se diventiamo autonomi, se escludiamo dalla nostra vita Dio e il nostro io ne occupa il posto, se crediamo che sia la nostra soggettività a determinare ciò che è bene e ciò che è male». E poi terrei a mente anche tutto il tempo che passiamo con i nostri figli e amici e amanti cercando di renderli autonomi, diversi da noi, indipendenti, sicuri della loro identità e certi di poter determinare il loro stare bene o meno bene. Per evitare che la soluzione sembri davvero quella del “rivoluzionario” Francesco: «Fermarsi a ringraziare Dio prima e dopo i pasti», e contemplare il mistero «in una foglia, in un sentiero, nella rugiada, nel volto di un povero».

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Le “sinistre” nuove devono ripartire da questa Europa con la matita rossa.

Io non so se avete avuto occasione di leggere il documento su cui la Grecia di Tsipras e la tecnocrazia europea stanno trattando le fasi finale della diatriba iniziata proprio con l’elezione (democratica) del leader di Syriza. Se volete dargli un’occhiata lo trovate qui: sembra il compito in classe corretto da una maestrina stizzita solo che le regole in discussione hanno una consistente parte politica. L’Europa insomma, ancora una volta, sta imponendo la distruzione dello stato sociale adducendo parametri economici che contravvengono le democratiche scelte di un popolo. E quello che non capisco, se mi è concesso, è perché se da una parte la politica (e la stampa al suo servizio) gioiscono sbavando di fronte al pugno duro con la Grecia dall’altra parte tutti quelli che continuano a ripeterci quanto la questione greca sia anche e soprattutto una questione di democrazia e di una diversa Europa siano così disuniti e silenziosi. Ci sia gioca talmente tanto su questo foglietto stropicciato e stracorretto che una diversa sinistra non può che partire da qui. Accettando anche la sfida di rendere golosa una notizia che in pochi vogliono dare.

(Fonte)

La Corte Suprema costituzionalizza il matrimonio gay. Cosa cambia?

C’è una bella lettera che la Casa Bianca sta girando alle sue mailing list, è quella di Jim Obergefell, la persona che con suo marito, morto 20 mesi fa, ha portato il caso sul matrimonio tra persone dello stesso sesso davanti alla Corte Suprema. “John e io abbiamo cominciato questa battaglia perché volevamo che sul suo certificato di morte in Ohio (che sapevamo sarebbe giunta presto) ci fosse scritto che era sposato”. I due si erano sposati in Maryland, dove una legge sui matrimoni gay esiste da tempo e vivevano in Ohio, dove non solo fino a oggi sposarsi è vietato, ma non si riconoscono i matrimoni celebrati in altri Stati.

La storica decisione di una Corte Suprema guidata da un ultra-conservatore ha concesso a Jim e John il diritto di essere riconosciuti come una coppia sposata. La maggioranza della Corte è variabile: dei nove giudici quattro sono conservatori e quattro liberali e per molte decisioni la divisione ideologica tende a riproporsi e a lasciare il cerino in mano al giudice Kennedy, che oggi ha votato con i liberali. Le parole nel parere di Kennedy, che è quello votato dagli altri che hanno composto la maggioranza, sono chiare: “Secondo la costituzione le coppie dello stesso sesso cercano lo stesso trattamento giuridico di quelle tra persone di sesso diverso, e negare loro questo diritto significherebbe denigrarne le scelte o attribuire loro una individualità ridimensionata”. Il tema, secondo Kennedy, quindi, non è politico come per molti di coloro che protestano negli Usa in queste ore, ma giuridico: le persone sono uguali e devono godere degli stessi diritti. Se a ciascuno di noi piace o non piace l’idea che due persone dello stesso sesso si possano sposare non è un tema che riguarda la Corte Suprema o il diritto.

Cosa cambia?

Molto, ma nella direzione in cui gli Stati Uniti erano già avviati: fino a ieri il matrimonio era legale in 37 Stati su 50 e valeva per il 70 per cento della popolazione. Da oggi, secondo i calcoli della Ucla (University of California, Los Angeles) tre milioni di omosessuali in più avranno questo diritto: Ohio e Texas lo negavano e sono stati piuttosto popolati. E qualunque coppia voglia cambiare Stato avrà diritto agli stessi diritti ovunque.

Dove comincia la storia del matrimonio gay negli Usa?

Forse con gli scontri di Stonewall, a New York, il 28 giugno 1969, quando scoppiarono disordini tra omosessuali e polizia, in occasione di una retata contro i primi. Fu quello il primo atto politico di massa della comunità. La battaglia giuridica per il riconoscimento passa invece, come spesso succede negli Usa, per gli Stati. Nel 1993 la corte suprema delle Hawaii sentenzia che il bando al matrimonio omosessuale potrebbe essere anti-costituzionale. Nel 1996 la risposta conservatrice passa per il Defense of Marriage Act, una legge che norma cosa sia matrimonio e vieta allo Stato federale di riconoscere coppie sposate dello steso sesso. Dal 2003 le coppie gay si possono sposare in Massachusetts, primo a riconoscere il matrimonio. Nel 2007 si unisce il Connecticut, poi New Hampshire, Iowa, Vermont, Washington DC e dal 2011 New York. Da li in poi le leggi sono decine. Parallelamente alcuni stati conservatori a guida repubblicana cambiano le loro costituzioni per stabilire cosa sia il matrimonio che lo Stato riconosce. Per dieci anni la battaglia si combatte a suon di referendum, modifiche costituzionali, proposte di legge. Ma siccome negare i diritti acquisiti è molto complicato, la marea non si ferma e giunge fino alla Corte Suprema e alla decisione di ieri. La storia in questo senso è cambiata rapidamente: qui sotto il mutamento dell’opinione pubblica negli anni secondo le rilevazioni Gallup, fino al biennio 2010-2012 il paese era diviso. Oggi non lo è più: tutti conoscono una coppia sposata, quando le cose diventano concrete le opinioni cambiano.

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Quanti Stati del mondo riconoscono il matrimonio?

Solo ventuno. Gli Usa insomma sono un’avanguardia, nonostante la presenza di una consistente porzione di popolazione conservatrice. Tredici sono in Europa, tre in America Latina, una in Africa.

Come reagiscono i democratici?

Obama ha inviato il tweet qui sotto e fatto una dichiarazione che vedete qui sopra: è un discorso che parte dal principio costituzionale secondo cui “tutti gli uomini sono sttai creati uguali” e che parla di come questo concetto e i diritti che si porta dietro siano mutanti al mutare della società. Hillary Clinton ha cambiato le foto di sfondo dei suoi account social e il simbolo della sua campagna è diventato arcobaleno. E poi prova a fare un po’ di cassa vendendo gadgettistica per matrimoni gay. Con le decisioni su Obamacare e matrimonio la coalizione sociale democratica è più solida.

 

Come reagiranno i conservatori?

Male. Il giudice John Roberts, presidente della Corte Suprema dall’espressione sempre uguale, si è lasciato andare a commenti durissimi: “Ma chi pensiamo di essere?”. L’idea di Roberts è che la decisione dei suoi colleghi abbia trasformato per sempre l’istituzione base della società che ne è il nucleo da millenni. I candidati alle primarie repubblicane mantengono toni diversi. Alcuni, tra questi Jeb Bush e il senatore della Florida Marco Rubio, ribadiscono che secondo loro dio ha stabilito che il matrimonio è una sola cosa ed è sacro, ma si inchinano davanti alla legge. Altri sottolineano che la Corte ha fatto un errore, ma che rispetteranno il giudizio del massimo organo giuridico del Paese. L’ex pastore evangelico Mike Huckabee parla invece di “tirannia giudiziaria e anti-costituzionale e di Corte imperiale”. Altri ancora sottolineano l’aspetto di tirannia federale su una decisione che doveva essere lasciata agli Stati. Quest’ultimo è un tema vero dal punto di vista degli equilibri federali: su molte questioni gli Stati sono gelosi delle loro prerogative. Per il più conservatore di tutti, Ted Cruz, “c’è un problema di legittimità della Corte”. La verità è che la decisione è un favore indiretto ai repubblicani meno estremi: il tema smette di essere discusso se non nelle ali estreme della destra perché ormai è legge. Dover rispondere a domande sul gay marriage per un candidato presidente repubblicano che abbia qualche possibilità di farcela sarebbe stato un gran guaio. Alcune contee dell’Alabama, riporta Vox.com, smetteranno per un po’ di celebrare qualsiasi matrimonio.

@minomazz

Per il centenario di Alberto Burri un pieno di artisti a Città di Castello

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Nel centenario della nascita il museo Guggenheim di New York, dal 9 ottobre, renderà omaggio ad Alberto Burri (1915-1995) con una grande retrospettiva, che si annuncia come la più completa dedicata all’artista umbro negli ultimi 35 anni in America.

Intanto, venerdì 26 e sabato 27 giugno, a Città di Castello, città natale dell’artista, si tiene un importante convegno di studi internazionali dal titolo Au rendez-vous des amis: una due giorni organizzata dalla Fondazione Burri a cui partecipano direttori di musei italiani e stranieri, critici e artisti che hanno fatto la storia dell’arte degli ultimi cinquant’anni come Emilio Castellani e maestri dell’Arte povera come Janis Kounellis, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio, Eliseo Mattiacci e Hidetoshi Nagasawa con Ettore Spalletti. E poi ci sarà una star come Joseph Kosuth, insieme ad artisti già affermati delle generazioni più giovani come Grazia Toderi. E ancora Nunzio, Paladino, Isgrò e altri che per la recente mostra a Parma, Fuoco nero: materia e struttura attorno e dopo Burri, hanno realizzato opere che dialogano con i suoi drammatici “sacchi”, “buchi” e cellophane arsi.

Alberto Burri, Sacco nero e rosso (1955)
Alberto Burri, Sacco nero e rosso (1955)

Il compito di dare spessore visivo al dibattito articolato su più tavoli tematici è affidato alla mostra curata dal direttore della Fondazione Burri, il critico e curatore Bruno Corà che si apre il 27 giugno negli ex seccatoi del Tabacco, in Palazzo Albizzini e in altri spazi .

Burri divenne pittore quando, medico e capitano che si rifiutava di collaborare, fu rinchiuso in un lager in Texas.
Era tutto d’un pezzo, gli americani lo trattavano come nemico.
E lui si mise a dipingere.
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Città di Castello offre dunque un’occasione storica per ricordare e conoscere più da vicino questo schivo artista che ha anticipato l’Arte povera e reinterpretato l’Informale, usando materiali umili come tela, cera e carbone per realizzare opere che denunciano la distruzione e gli abissali buchi neri causati dal nazismo. Fin dagli anni Quaranta, Burri ha saputo sviluppare un proprio percorso nell’astrattismo, senza mai perdere di vista l’umano. Anzi riuscendo a evocare dimensioni profonde con una pittura materica e inquieta, libera da ogni intento mimetico e figurativo.

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Alberto Burri, 1972

«Burri nasce alla pittura, maturo», scrive Vittorio Brandi Rubiu nell’agile monografia Alberto Burri, (Castelvecchi, 2015), ricordando le circostanze estreme in cui divenne pittore. Accadde quando, medico e capitano che si rifiutava di collaborare, fu rinchiuso in un lager in Texas. «Burri era tutto d’un pezzo, gli americani lo trattavano come nemico. E lui si mise a dipingere».

Non lo fece iniziando dal disegno dal vero, ma usando carbone e sacchi di juta per rappresentare forme emerse dalla fantasia, ritorte, poi ribollenti e bituminose e fiammeggianti. Che ci parlano di una realtà umana lacerata ma non vinta, resistente nonostante le ferite che ha dentro. Pittura come riscatto dalla prigionia. Come passionale rifiuto della coartazione e della violenza. Forse per questo la tavolozza di Burri non ha colori piatti, eterei, dissanguati.

Il rosso e il nero primeggiano insieme ai colori caldi della terra. Come Fontana cercava una nuova dimensione spaziale, non solo fisica. Anche se il senso delle sue tele e cellophane è più drammatico. Come ha colto con una straordinaria sequenza Aurelio Amendola, che nel 1976 fotografò l’artista al lavoro, mentre realizzava una delle sue celebri combustioni, bruciando un pezzo di plastica, slabbrato, dai margini neri.

È possibile trovare maggiori informazioni sugli eventi legati alla celebrazione del centenario su www.burricentenario.com

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Ebola, guerre, volontari e musica: l’incontro nazionale di Emergency in diretta streaming

Emergency sarà a Cagliari da oggi, 26 giugno, fino a  domenica 28 per il suo XIV Incontro nazionale. Volontari di tutta Italia, medici e infermieri impegnati nei progetti e poi un ricco programma di incontri, proiezioni, concerti insieme a Gino Strada e Cecilia Strada per raccontare il lavoro dell’organizzazione e condividere l’impegno contro la guerra. Qui sotto il programma e qui sopra la possibilità, per chi non è a Cagliari o nelle vicinanze, di seguire in diretta streaming discussioni e musica delle serate del 26 e 27.

Venerdì 26 giugno, dalle 17.00 alle 19.30 presso il Centro Congressi Fiera Internazionale della Sardegna, si parlerà dell’epidemia di Ebola che ha messo in ginocchio tre Paesi africani e del lavoro in Sierra Leone con i medici che per oltre 7  mesi hanno lavorato senza sosta nel Paese, Roberto Satolli, giornalista scientifico, e Nico Piro, inviato Esteri del Tg3, con la presentazione del documentario inedito “Killa Disez”.

Alle 21.30, presso il Teatro Massimo, Cecilia Strada, Gino Strada, Geppi Cuccari, Lella Costa, Blas Roca-Rey, Mario Spallino e Marco Baliani racconteranno come la guerra non possa essere la soluzione di nessun conflitto nella serata “Il cerchio della guerra”.

Sabato 27 giugno, dalle 10.30 alle 13.00, presso il Centro Congressi Fiera Internazionale della Sardegna, si parlerà di Afghanistan e di Iraq, con gli operatori di Emergency e Rod Norland, del New York Times.

Dalle 16.00 alle 19.00, ci si sposta al Teatro Lirico, per parlare di Sardegna e delle numerose servitù militari con Cecilia Strada, presidente di Emergency, Mariella Cao, Gettiamo le Basi, Vincenzo Migaleddu, Medici per l’Ambiente, Maddalena Brunetti, giornalista, autrice di Lo sa il vento – libro inchiesta sul poligono di Quirra, Enrico Lobina, circolo Me-Ti, Ciro Auriemma, del collettivo di scrittori Mama Sabot, e il professor SIlvano Tagliagambe dell’Università di Sassari. L’incontro sarà moderato da Giacomo Serrelli, de La Nuova Sardegna.

La serata si concluderà con una festa: dalle 21.30, presso Centro Congressi Fiera Internazionale della Sardegna, un grande concerto all’aperto con Geppi Cuccari, Fiorella Mannoia, Nek, Frankie Hi-Nrg MC, Sikitikis, Piero Marras, Bandabardò e Patty Pravo. Il Sardegna Pride si concluderà proprio nello spazio del concerto.

Un ultimo appuntamento sarà domenica 28 giugno, dalle 10.00 alle 12.00, presso il Centro Congressi Fiera Internazionale della Sardegna, per parlare di Repubblica Centrafricana e soprattutto di Italia. Saranno presenti gli operatori di Emergency che stanno lavorando per assistere i migranti che sbarcano sulle coste siciliane con Agostino Miozzo, esperto di Relazioni internazionali, e Antonello Mangano, scrittore e giornalista.

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Come sta Roma? 6 esperti fanno il bilancio della giunta Marino

Roma in crisi è una delle grane più grosse nel Pd di Matteo Renzi. Il sindaco Marino, che rappresenta per molti un simbolo di onestà, è solo, abbandonato da un partito cittadino che deve fare i conti con vicende giudiziarie e un passato pieno di ombre. Come emerge anche dall’indagine effettuata da Fabrizio Barca sui circoli romani del Pd. Left ha deciso di indagare lo stato di salute di Roma. Cosa è successo in questi primi due anni di amministrazione del “marziano” (come si definiva lo stesso Marino durante la campagna elettorale)? Nella storia di copertina abbiamo chiesto a sei esperti un giudizio su Roma e la sua amministrazione. Ne viene fuori un lucido ritratto della Capitale attraverso le analisi di Pietro Spirito (trasporti), Paolo Berdini (urbanistica), Massimo Piras (rifiuti), Sandro Medici (diritti) e Adriano la Regina (cultura) e con un’anticipazione del nuovo libro Roma coloniale di Walter Tocci.

Left affronta anche un disegno di legge che sta per arrivare in aula al Senato, dopo la Buona scuola, a luglio tocca alla Rai. Il copione è più o meno lo stesso: un consiglio di amministrazione e un amministratore delegato con super poteri. Secondo il senatore Corradino Mineo, intervistato da Left, il vero nodo è quello costituito da due deleghe in bianco che concedono al governo il potere di ridisegnare tutto il sistema radiotelevisivo, pubblico e privato.

Left non abbandona la questione dei migranti: un reportage di Giulio Cavalli racconta il suo viaggio con loro da Termini fino a Bolzano, tra volontari, mediatori e loro, i rifugiati in attesa di una nuova vita, oltre confine.

E ancora, il ritratto – a cura di Stefano Santachiara – di Claudio Costamagna, il nuovo presidente di Cassa depositi e prestiti, ex uomo di Goldman Sachs.

Negli esteri Left racconta l’Europa “matrigna” con un ampio servizio dall’Ungheria dove Orbàn ha deciso di costruire un muro al confine con la Serbia, contro l’arrivo dei migranti. Carlotta Sami, portavoce italiana dell’Unhcr, sprona gli Stati: «Bisogna rendersi conto che non è possibile, oltre che ingiusto chiudere le frontiere e innalzare muri davanti a una crisi umanitaria così grave». E ancora: un approfondimento sulle forze conservatrici e centriste che in Grecia strizzano l’occhio alla Troika e il racconto della vita del dissidente ucraino, Andrej Mironov, attivista per i diritti umani in Russia, che un anno fa moriva ucciso da un colpo di mortaio.

In Cultura si va da Achille Bonito Oliva che approfondisce il significato del tempo nell’arte a Mannarino che parla della sua esigenza di trovare un un linguaggio nuovo per raccontare. E ancora: la festa della musica a Parigi e il fumetto di Pat Carra. Infine, per la scienza, Pietro Greco parla del nuovo libro di Gino Strada, su Ebola e l’egoismo dell’Occidente.

Trovate il giornale in edicola ed in digitale su http://sfogliatore.left.it/

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Left lancia una petizione: basta cemento nel Parco nazionale del Circeo

parco nazionale del circeo

A seguito del nostro articolo La stretta del cemento sul Patrimonio Unesco, seconda puntata del ciclo di inchieste Strade nostrepubblicata su Left n.21 (la puoi leggere qui),  la piattaforma change.org si fa promotorice di una petizione rivolta al Presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, affinché faccia in modo che l’Assemblea legislativa calendarizzi e approvi il prima possibile il Piano del Parco, che giace nei cassetti della Regione dal 2012. Il Piano sarebbe uno strumento fondamentale per riuscire a bloccare in maniera incisiva l’abusivismo che nonostante le leggi continua a mangiare pezzi del Parco nazionale del Circeo.

parco del circeo

Iniziativa che abbiamo accolto con piacere, perché significa che in un Paese abituato a delegare e lamentarsi, a lamentarsi e delegare, l’informazione può fare la differenza. Informare ed essere informati (correttamente) può spingere le persone a partecipare a migliorare anche solo un pochino lo stato delle cose che ci circondano.

In meno di 24 ore e senza alcuna promozione, hanno aderito oltre 1000 sostenitori. Per firmare basta cliccare qui.

Come ci ha spiegato il presidente dell’Ente Parco Gaetano Benedetto infatti, con il Piano regionale:

Riusciremmo ad abbattere direttamente gli edificati abusivi. E soprattutto si limiterebbero in maniera definitiva e indiscutibile, nuove costruzioni.

E soprattutto, a farlo in un territorio considerato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Patrimonio che ora, è nelle vostre mani. O meglio, nei vostri mouse.

parco del circeo

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Cosa sta succedendo a Kobane

Is entra a Kobane

Un’autobomba molto potente di primo mattino e poi un attacco da tutti i lati della città. A pochi mesi dalla presa di Kobane da parte dei curdi dell’Ypg, l’ISIS ha lanciato una nuova offensiva contro la città divenuta simbolo della resistenza dei curdi all’avanzata dello Stato islamico. Tutte le notizie che arrivano dalla città, dove si combatte, indicano che l’attacco dell’ISIS è arrivato dalla frontiera turca. Ma non ha preso il controllo della città.

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Foto come quella contenuta nel tweet qui sotto tendono ad avvalorare questa versione. Ankara ha sofferto molto il protagonismo curdo – l’Ypg è alleato del Pkk curdo-turco – ed evidentemente è disposta a chiudere entrambi gli occhi sull’attivismo dell’ISIS pur di ridimensionare le aspirazioni curde. Il buon risultato dell’Hdp alle recenti elezioni che hanno segnato una battuta d’arresto del disegno politico di Erdogan ha forse accentuato il fastidio delle autorità di Ankara.

 

 Perché questo nuovo attacco contro una città semi-distrutta dalla guerra da parte dell’ISIS? C’è la necessità di riconnettere il territorio in mano all’ISIS e garantire le strade di rifornimento e poi, come spiega nel tweet qui sotto Charles Lister, esperto di Brookings Institution, c’è l’aspetto distrazione: i curdi sono all’offensiva e premono su Raqqa, la capitale del territorio controllato dall’ISIS e ogni volta che la pressione militare è troppo forte, il gruppo islamista attacca altrove per cercare di distogliere armi ed energie militari dal punto in cui è più vulnerabile.


I combattenti dell’ISIS si sarebbero avvicinati alla città vestiti con insegne di gruppi alleati al Free Syrian Army. Dopo l’esplosione della prima autobomba hanno scatenato l’attacco. La prima bomba ha ucciso almeno 12 civili, ma il contor di morti e feriti, a giudicare dalle immagini che arrivano è destinato ad aumentare. La rabbia dei curdi in ogni angolo del mondo vola sui social media, che rilanciano notizie e accusano Ankara di essere una capitale del terrotismo.

Prima della guerra Kobane contava 400mila abitanti, almeno 100mila sono fuggiti dopo la prima presa dell’ISIS. La città era stata governata dai curdi dopo che l’esercito siriano l’aveva abbandonata. Nei giorni scorsi l’ISIS ha conquistato parti di Hassakeh, prima città del nord siriano e più vicina al poroso confine iracheno. Hassakeh è parzialmente sotto il controllo delle forze armate fedeli ad Assad e in parte all’YPG. L’ISIS avrebbe preso alcune aree sotto il controllo dell’esercito siriano.

 

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