Filippo Agostini e il romanzo dopo la fine del comunismo ne La fine di Marx
C’era un ragazzo che come me amava Lucio Battisti e Francois Truffaut… Viene voglia di parafrasare Gianni Morandi parlando de La fine di Marx (Zona contemporanea) di Filippo Agostini. Perché? Perché come una volta ha detto Pasolini niente come una canzonetta ci restituisce il passato, e infatti il romanzo oscilla tra sapori d’epoca evocati anche dalle canzoni e meditazione morale.
Attraverso un grande corteo – immaginario – da piazza Esedra a piazza del Popolo, il 58enne Tullio, detto Marx, rievoca la propria vita, tutti i cortei che ha fatto, i militanti di una volta, la lotta politica, le mode e il costume, la passione ideale poi dissolta.
Il rischio dell’album scolorito da reduci è sventato da una freschezza di tono ammirevole, e poi dal bilancio impietoso di Tullio, e dalla sua terribile scelta finale: ha in tasca il biglietto ferroviario di sola andata per Lugano, dove ricorrerà all’eutanasia.
Una scelta incongrua, dato che Tullio è allegro, vitale, pieno di umorismo, e soprattutto il romanzo è brulicante di personaggi, storie, amori, cibo, e insomma di vita. Qual è allora la versione di Tullio? La consapevolezza di aver fatto la propria parte, entro il generale fallimento di tutte le speranze di quegli anni. La sua è una disperazione fredda, apparentemente “razionale”.
Eppure vorrei dirgli, senza essere troppo predicatorio (in fondo resta un personaggio letterario): guarda che la Politica, la Storia, l’Impegno sono importanti ma la dimensione reale dell’esistenza è un’altra, legata al quotidiano e agli affetti, guarda che quella fede religiosa nella Rivoluzione si è trasformata, e non si è tradotta solo nella scelta di far carriera ma in una qualità delle relazioni, in tante piccole utopie…
Insomma: il suo gesto disperato ha una lucida coerenza, ma riduce forzosamente la vita umana a un’unica tinta, ad un’unica possibilità. Come diceva Chesterton, pazzo non è chi ha perso la ragione ma chi ha perso tutto fuorché la ragione!
Le cinque delle 20.00
L’Eurogruppo accoglie con favore i progressi dei negoziati e le intenzioni delle autorità greche di accelerare il lavoro con le istituzioni e riconosce che serve più tempo e sforzi per colmare i problemi che restano aperti. Lo scrivono i ministri dell’economia dell’Eurogruppo al termine dell’incontro di oggi. Grexit sventato o soltanto rimandato?
“Noi non voteremo più il Pd perché indignati dal ddl La Buona scuola”. Questo messaggio ha “bombardato” la bacheca Facebook del presidente del Consiglio Matteo Renzi per protestare contro la riforma della scuola #buonascuola
Disordini a Foggia per l’arrivo di Matteo Salvini. Le forze dell’ordine hanno caricato una cinquantina di manifestanti che hanno lanciato fumogeni, uova, pomodori e banane contro l’ingresso dell’hotel Cicolella dove era entrato il leader della Lega Nord Matteo Salvini.
Elezioni amministrative: a Trento e Aosta vince al primo turno il candidato del centrosinistra mentre Bolzano va al ballottaggio. Turno caratterizzato da un crollo dell’affluenza. Il dato politico è invece che il Pd tiene, crolla Forza Italia, la Lega Nord quasi raddoppia i consensi e cresce il M5S.
Bisogna distruggere il modello di business dei trafficanti di immigrati ed essere sicuri che i barconi non vengano più usati: lo ha detto l’Alto Rappresentante dell’Ue Federica Mogherini a margine del Consiglio di Sicurezza Onu.
Stefano Fassina a Left: la traiettoria del Pd su jobs act, Italicum e Buona scuola è insostenibile
«Quando li ho incontrati in piazza, martedì scorso, non sono riuscito a dire agli insegnanti che in queste ore stanno scrivendo al premier su facebook, che devono votare ancora Pd, che il Pd è ancora casa loro». Parte dalla Buona Scuola l’intervista rilasciata da Stefano Fassina al settimanale Left.
«Così come non ho votato la delega sul lavoro, la revisione del Senato e l’Italicum, senza radicali modifiche non voterò il Ddl sulla Scuola» dice Fassina, sempre più con un piede fuori dal Pd.
Se gli dici poi che le sue sono dichiarazioni fatte dall’uscio del partito, Fassina ride: «Credo che siamo arrivati alla fine di un percorso in cui è evidente che non siamo di fronte a degli incidenti e a episodi di sbandamento. Il partito democratico di Renzi si è riposizionato in termini di cultura politica, in termini di programma, in termini di interessi che intende rappresentare. La traiettoria tracciata dai provvedimenti, dal jobs act, dall’Italicum, dalla Buona scuola, per quanto mi riguarda, è insostenibile».
Certo, «insieme ad altri sto discutendo», precisa, ma poi aggiunge: «Credo però che siamo giunti a un punto di rottura che vedo difficilmente reversibile». E se fosse un cittadino ligure? Voterebbe per la candidata del Pd o per il civatiano Pastorino, uscito dal Pd e candidato della sinistra? «Non voterei certamente per la Paita» dice Fassina, «anzi posso dire che voterei per Pastorino». E lo Statuto? Parlamentari e dirigenti dovrebbero votare i candidati del partito. Ma «quando perdiamo una figura come Sergio Cofferati senza battere ciglio e imbarchiamo figure improbabili che vengono da Forza Italia e dalla destra», continua Fassina, «credo che oltre lo Statuto valga anche la politica».
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Grexit? Un precedente ripetibile. Parola di Mario Draghi
Molti commentatori si stanno interrogando in questi mesi sui possibili effetti di un’insolvenza ed eventualmente dell’uscita della Grecia dall’euro. Secondo alcuni, tale evento non comporterebbe la fine della moneta unica. Richiamano l’attenzione sul fatto che non si scatenerebbe un effetto contagio sul sistema bancario europeo (come sarebbe avvenuto nel 2010), poiché il debito pubblico greco è oggi quasi totalmente in mano alle “istituzioni” (Fondo Salvastati, Bce e Fmi). La prova sarebbe costituita dal mancato panico sui mercati finanziari in occasione delle trattative tra il nuovo governo greco e la (ex) Trojka.
Un ragionamento sensato, ma che rischia di sottovalutare la fragilità dell’eurozona. Tutti sanno che se l’euro esiste ancora è perché la Banca centrale europea è intervenuta spendendo la sua credibilità attraverso il programma Omt nel luglio 2012 e ora il Quantitative easing, garantendo la tenuta della moneta unica. Ma un default da parte della Grecia darebbe ai mercati il segnale opposto. Se si lascia fallire la Grecia, i mercati inizierebbero a chiedersi “chi è il prossimo che verrà lasciato fallire/uscire dall’euro?”. Esattamente come accadde nel 2008 negli Usa con il mancato salvataggio di Lehman Brothers. Ciò potrebbe portare ad una nuova crisi dei debiti sovrani (e a un nuovo credit crunch), ma con la differenza che stavolta la Bce avrebbe già fatto fallire e uscire uno Stato di cui era creditrice, e pertanto i mercati potrebbero perdere fiducia nella “fungibilità” della moneta unica e dei suoi collaterali, potenzialmente avviando il processo di dissoluzione incontrollata.
Mario Draghi lo ha spiegato ad Helsinki nel novembre scorso (si noti che la Finlandia è uno dei Paesi che vedrebbe con favore il Grexit). Nel suo intervento Draghi ha chiarito ed esteso il famoso discorso di Londra nel 2012, quello del “faremo qualsiasi cosa sia necessaria per preservare l’euro” che, dopo Helsinki, diventa faremo di tutto per preservare l’eurozona: «Se un Paese può potenzialmente uscire dall’unione monetaria – ha sottolineato il presidente della Bce – si crea un precedente ripetibile per tutti gli altri. Questa situazione a sua volta minerebbe la fungibilità della moneta, in quanto i depositi bancari e gli altri contratti finanziari in un qualsiasi Paese sarebbero soggetti al rischio di ridenominazione. Dovrebbe quindi essere evidente che il successo dell’unione monetaria in qualsiasi sua parte dipende dal suo successo in ogni sua parte. L’euro è, e deve essere, irrevocabile in tutti gli Stati membri che l’hanno adottato, non solo perché è scritto nei trattati, ma perché senza irrevocabilità non può esistere una moneta realmente unica”. Un default “accidentale” di un Paese all’interno dell’Eurozona, e ancor più la sua uscita dall’area euro, potrebbe innescare processi potenzialmente incontrollabili.
Gli ottimisti a Berlino dovrebbero riflettere sul fatto che, anche qualora la probabilità che l’uscita della Grecia dia il via a un effetto domino fosse molto piccola, la posta in gioco è così alta che correre un rischio del genere sarebbe davvero irresponsabile. L’impegno per l’indissolubilità dell’euro, insomma, è un vincolo per le istituzioni europee e gli stessi creditori. Un vincolo che la Grecia, nel suo piccolo e con tutti i suoi limiti, sembra intenzionata a sfruttare a proprio favore.
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La storia di Rio Mavùba, il capitano del Lilla campione di Francia, nato in mare
Mafuìla Mavùba era chiamato il mago perché autore di splendide punizioni e perché è stato il primo dalle sue parti a segnare da calcio d’angolo. E poi c’era sempre qualcuno pronto a giurare di averlo visto sventolare, come i prestigiatori, un fazzoletto bianco prima del tiro. E magari era solo un rito animista per lui, mezzala del Vita Club di Kinshasa, dirimpettaia di Brazzaville: capitale dell’altro Congo sulla sponda opposta dell’omonimo fiume raccontato da Joseph Conrad.
Era il ’71 e un altro Joseph, il presidente Mobutu aveva appena deciso di chiamarsi Sese Seko e di rinominare Zaire l’ex dominio di re Baldovino del Belgio i cui interessi rimanevano saldi nelle miniere del Katanga, dove dieci anni prima era stato trucidato Patrice Lumumba, l’unico democraticamente eletto nella storia del Paese. Le dittature, è ben noto, necessitano sempre di rappresentative calcistiche e infatti, già nel ’68, il Congo-Kinshasa aveva vinto la Coppa d’Africa per ripetersi nel ’74 con il nuovo nome e grazie ai gol del centravanti Mulamba detto “l’assassino” che portò lo Zaire di Mobutu ai mondiali in Germania.
Mafuìla “Ricky” Mavùba figurò tra i convocati con il numero 18 ma rimase in panchina nelle tre gare contro Scozia, Jugoslavia e Brasile che significarono 0 gol fatti, 14 subiti e l’immediato ritorno a casa tra le braccia vendicative del monarca che, come tutti i burattini al potere, aveva puntato molto sulla vetrina internazionale pur conservando nella manica l’asso di riserva: il match tra Alì e Foreman previsto sul ring di Kinshasa nell’ottobre dello stesso ’74.
Ricky Mavùba, classe ’49, smette presto di giocare e rimane a vivere nel quartiere di Makala. Dopo aver sposato Teresa, una donna angolana, si trasferisce proprio nella vicina Angola in cerca di una vita migliore, ma scoppia la guerra civile, provocata dai soliti mercenari al soldo della Cia che mirano a rovesciare il governo socialista e alimentata dal bianco Sudafrica i cui soldati invadono il ricco territorio dell’ex dominio portoghese.
Mentre arriva in soccorso l’esercito di Cuba, Ricky e Teresa, incinta all’ottavo mese, si imbarcano a Luanda su di un battello carico di gente in fuga sperando di arrivare vivi a Marsiglia. Il viaggio è lungo e massacrante tanto che in un punto qualsiasi dell’Atlantico tra il Golfo di Guinea e Gibilterra, Teresa è sopraffatta dai dolori del parto e mette al mondo un maschietto in ottima salute. Lo chiamano Rio, Rio Antonio Mavùba. È l’8 marzo ’84.
I tre sono accolti in Francia da rifugiati e da rifugiati sopravvivono. Il piccolo Rio perde la sua mamma a 2 anni e il papà a 12. Rimane solo contro tutti, solo con il suo sogno: diventare anche lui un centrocampista. Gavetta nelle giovanili del Bordeaux, debutto nel campionato maggiore a 19 anni, mezza stagione in Spagna e trasferimento a Lilla nella squadra di cui ancora oggi è capitano e con cui ha vinto scudetto e coppa di Francia. Prima di esordire nella Nazionale di Parigi, ha respinto le offerte della Repubblica Democratica del Congo cui ha voluto regalare una fondazione per gli orfani del quartiere di Makala. Rio Mavùba ha sempre affermato: “Io sono francese”, così come certifica il suo passaporto: Nato in mare.
La #buonascuola del preside che non vuole diventare “caporale”
Mentre il ddl Buona scuola è stato licenziato alla Commissione Istruzione senza grandi modifiche sui poteri assoluti del dirigente scolastico e adesso si appresta a essere discusso alla Camera, Left racconta la storia di un preside “contro”. E una visione ideale e una pratica di scuola che non è quella prevista dalla riforma renziana.
Preneste Anzolin: preside, non caporale
“Sono un dirigente scolastico e non ho studiato per fare il “caporale”. No alla scuola di classe”. Un cartello scritto a mano appeso al collo, la giacca tenuta elegantemente sulle spalle, il preside Preneste Anzolin ha fatto il boom di like su facebook e sui siti. Migliaia di commenti di stima e di entusiasmo per quella scelta di campo così netta, il giorno dello sciopero generale del 5 maggio contro il ddl scuola. “Ho usato ‘caporale’ non a caso, mi riferivo a quei figuri che all’inizio del secolo scorso – specialmente nelle nostre terre del sud – passavano all’alba nelle piazze a scegliere i braccianti, a seconda della corporatura, della forza, dell’età, ma anche della simpatia o della parentela. Noi presidi ci vogliono far diventare così”, dice il professor Anzolin al telefono. Quello con il dirigente scolastico che non vuole diventare un “caporale” è stato un incontro molto interessante. La dimostrazione, se ce ne fosse stato bisogno, di come il nostro Paese sia ricco di insegnanti che sperimentano, studiano e vivono la scuola come un mondo in continuo movimento. La scuola come presidio di cultura e di democrazia.
La storia di Preneste Anzolin ne è un esempio. Una formazione politica nel partito comunista, fondatore del movimento ambientalista e pacifista di Taranto, vive e lavora a Palagiano. “Mi sono laureato alla Sapienza negli anni 70 ma decisi di tornare giù, eravamo idealisti pensavamo che se tutti fossero scappati, il Sud non si sarebbe mai ripreso”. Un nome rarissimo (“il villaggio dove approdò Enea e visto che sono ateo, nessun santo da festeggiare”), un cognome veneto (“dal bisnonno di mio padre”) e un doppio incarico: preside da undici anni dell’istituto comprensivo Gianni Rodari di Palagiano e reggente nell’istituto superiore Marisa Bellisario di Ginosa. “Questo la gente lo deve sapere, ci sono tante scuole che non hanno diritto ad avere un dirigente, nonostante ci siano presidi che hanno vinto un concorso, ma ovviamente al Ministero fa più comodo avere un reggente che pagare uno stipendio intero a un dirigente”, dice.
Una mobilitazione mai vista
Quando lo sentiamo al telefono, il preside è appena tornato da una manifestazione che ha attraversato la città di Taranto, dal piazzale dell’arsenale fin sotto la prefettura. Tantissima gente, tutti i sindacati uniti, un documento comune – in cui si chiede il ritiro del ddl – consegnato al prefetto, alla presenza di alcuni sindaci e assessori dei Comuni tarantini. “Il prefetto si è impegnato a far giungere il documento sul tavolo del ministro Giannini”, racconta. Insegnanti, genitori e amministratori pubblici che si rivolgono a un prefetto per far cambiare idea al governo: soltanto questo basta per far comprendere il clima che sta provocando il ddl 2994, diramazione della Buona scuola renziana.
“L’obiettivo è il ritiro del ddl e la riapertura di un dialogo serio sulle esigenze della scuola”, continua Preneste Anzoin. Dopo il boicottaggio delle prove Invalsi alle elementari, probabilmente la stessa cosa accadrà il 12 maggio alle superiori. E intanto continuano i flashmob in piazza e in rete.
I sindacati non scartano nemmeno l’idea del blocco degli scrutini, che ne pensa? “Il movimento chiede il ritiro del ddl, questo è chiaro. D’altra parte io penso che il risultato dello sciopero sia stata una sorpresa anche per lo stesso sindacato – l’80 % di adesione non si era mai visto -. E questo li deve far riflettere”. In passato non era mai accaduta una partecipazione così vasta, anche da parte di chi, in genere, non è sindacalizzato. “Mi sono stupito anch’io per quanto è accaduto nella mia scuola dove la partecipazione attiva è sempre benvenuta. Alcuni docenti si sono organizzati, hanno fatto volantinaggio davanti ai cancelli, hanno attaccato degli striscioni alla recinzione. Con una grande partecipazione anche dei genitori che non hanno mandato i bambini a scuola per le prove Invalsi”.
Sarà una scuola di classe
Il presidente del Consiglio dice che la riforma non è stata capita. Ma il preside Anzolin invece è certo: “La gente sta percependo benissimo che dietro questo disegno di legge c’è un’altra idea di scuola, in negativo. Il ritorno alle scuole di serie A e di serie B. Quelli che stanno nei quartieri bene e quelli delle periferie sgarrupate. I genitori comprendono che con il 5 x mille versato alla propria scuola, ci saranno scuole povere e ricche. Non ci vuole un grande economista per capirlo”, continua. E poi la chiamata diretta da parte del preside dei docenti è un altro fattore che preoccupa.
“La gente fa due più due e si chiede: ma come saranno individuati? Quali meccanismi scatteranno se già oggi nella pubblica amministrazione c’è tanta corruzione e ci sono tanti meccanismi indegni a cui si fa ricorso, come per esempio la parentopoli universitaria?”. I docenti più bravi poi, se potranno scegliere, andranno nei quartieri del ceto medio “illuminato” delle città, non certo a Scampia, Napoli o a Tamburi, Taranto. Stessa cosa vale per gli sponsor. “Certo, dove ci sono sponsor più ricchi tanto più ci saranno risorse, ma è altrettanto evidente che tanto più ci sono sponsor tanto più questi potranno imporre i loro desiderata, le loro scelte e quello che fa loro più comodo, soprattutto alle scuole superori”, sottolinea Anzolin.
L’uomo solo al comando non fa bene alla scuola
Come sarà il ruolo del dirigente scolastico? “Assistiamo a due facce della stessa medaglia – dice il preside pugliese -. Il dirigente che sceglie: sarà questo il meccanismo che si instaurerà e non a caso su quel cartello che è diventato famoso, ho scritto ‘non ho studiato per fare il caporale’. Noi dovremo leggere i curricula, ma cosa dovremo leggere? Ne dovremo consultare centinaia e centinaia ed è chiaro che è un meccanismo ignobile. L’altra faccia è quella dell’uomo solo al comando”. Una soluzione controproducente.
A scuola, ricordiamolo, esistono gli organi collegiali che “è vero, funzionano se si vogliono far funzionare e questo dipende dal dirigente, però è anche vero che gli organi collegiali almeno fino ad oggi avevano dei poteri. E’ anche vero, e va detto fino in fondo, che gli organi collegiali , quelli per i quali ci siamo battuti negli anni 70 con i decreti delegati, sono stati via via svuotati. Non si volevano, perché la partecipazione di tutte le componenti ha sempre fatto paura. A me non hanno mai fatto paura – ribadisce Preneste Anzolin – io li ho sempre fatti funzionare, certo a volte occorre anche coinvolgerli, renderli partecipi per far sentire che hanno un ruolo importante”. Nella scuola di Palagiano, per esempio, esiste un comitato dei genitori “che non è quello spontaneo che si crea quando c’è un problema”. Il comitato dei genitori è un organo collegiale riconosciuto dai decreti delegati che si riunisce, ha un suo presidente e obiettivi da raggiungere. Adesso, insieme al preside e al consiglio d’istituto sta conducendo una battaglia nei confronti del comune per la costruzione di un’altra ala della scuola.
La scuola aperta al territorio
Lo si dice spesso come slogan, ed era un cavallo di battaglia di Luigi Berlinguer, ma a Palagiano, avviene nella realtà: l’istituto comprensivo è aperto dalla mattina alla sera. Per le attività scolastiche, ma anche per quelle delle associazioni del comune: uno scambio continuo. E anche in questo caso il preside Anzolin si indigna: “E’ il collegio dei docenti e non il preside a definire il Piano dell’offerta formativa, a definire il rapporto con il territorio. Il collegio dei docenti è l’organo tecnico per eccellenza, lì ci sono le competenze, quello è l’organo per ideare il Pof e gli scambi e collaborazioni con l’esterno”.
Il Jobs act della scuola
Dietro il ddl di Renzi e Giannini, al di là del singolo comma o articolo, c’è un disegno. “Semplificando si può dire che quello che nel privato si è realizzato con il Jobs act, nella scuola si realizza con questo disegno di legge. I docenti si devono assumere, lo ha detto la Corte europea di giustizia. Ma i docenti che si devono assumere non sono “altri” lavoratori – questo non si dice – sono lavoratori che ci lavorano già nella scuola, anzi, la mandano avanti da decenni, solo che lo fanno da precari, per cui al 10 giugno o i più fortunati al 30 giugno, devono ricominciare da capo. Un po’ come accade per il Jobs act, la mobilità triennale varrà solo per i nuovi assunti e non per quelli di ruolo. E quando questi ultimi cambieranno scuola anche loro saranno assoggettati al volere del dirigente”.
La valutazione serve, ma non quella del ddl
Sta passando l’idea che i docenti non vogliono essere valutati e che tanta opposizione alla riforma renziana derivi dalla volontà di difendere privilegi corporativi. “Tante scuole operano bene, con insegnanti che fanno molto volontariato – dice il preside – anche a se ci sono, è vero, sacche di parassitismo e indolenza. Il punto è: cosa si può fare per mettere in grado tutte le scuole di avere docenti che sanno fare bene il proprio lavoro? Mettiamoli allora in condizione tutti quanti – anche obbligatoriamente – di doversi aggiornare ogni cinque anni, mandiamoli, pagando, per 3 mesi 6 mesi all’università! Se ci sono poi insegnanti che non vogliono fare il proprio dovere ci sono già adesso gli strumenti per intervenire, che prevedono perfino il licenziamento”.
E la valutazione, che viene usata come una clava dai renziani? “Nella scuola c’è già la valutazione di sistema che non è quella sul singolo docente ma è la valutazione di cosa la scuola fa, nel suo complesso, gli obiettivi e i risultati che ottiene. Se ne dimenticano sempre, ma da diversi anni sono attivi dei sistemi sperimentati di valutazione per il miglioramento: il Caf europeo e il Vales. Da quest’anno parte il sistema nazionale di autovalutazione che prevede l’autodiagnosi nella prima fase, con esperti, una cabina di regia. Io con i miei docenti – continua Preneste Anzolin – faccio da due anni il Caf, abbiamo imparato a fare l’autodiagnosi, cioè a individuare i punti di forza e i punti di crisi. Detto così sembra facile, ma andarli a studiare sulla base di criteri scientifici è un’altra cosa: ci vogliono mesi, ci vogliono consultazioni, confronto con gli organi collegiali, con gli stakeholders, i soggetti esterni alla scuola che sono interessati alla scuola.
E’ un lavoro lungo, faticoso, che abbiamo fatto sulla base di volontariato, centinaia di ore gratis. Alla fine di quel processo si progetta il piano di miglioramento che si attua in un anno, tre, a seconda della complessità. Ma per le misure di miglioramento – è una banalità dirlo – occorrono le risorse. Per esempio se uno dei punti di criticità è il fatto che il 50% dei docenti non sa usare il computer io devo organizzare un corso di formazione, devo pagare gli esperti”.
In conclusione: “Fare valutazione con dei quiz è impossibile. Mentre la valutazione di sistema si deve fare, aiuta la scuola stessa a individuare gli strumenti di miglioramento per superare le criticità”.
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La favola di Renzi e la realtà di Gabriella
#lavoltabuona che questo Paese lo rovinano davvero. Devo ammettere che lunedì, in un impeto di pessimismo, l’ho pensato. Scusatemi. Chiusa da 48 ore dentro una Utic (Unità terapeutica intensiva cardiologica) per motivi familiari, ho guardato le votazioni per l’approvazione dell’Italicum in uno stanzino senza finestre di uno dei tanti ospedali che cade a pezzi della Capitale. E ho pensato, questa è davvero #lavoltabuona: Jobs act, Buona scuola, riforma del Senato, Italicum.
Renzi ha fatto filotto, direbbe un bambino. Ha tirato giù tutto. Che altro deve fare? Poi sono uscita dallo stanzino e ho incontrato Gabriella. Settant’anni, capelli bianchi, italiana (lo scrivo solo per Salvini e per quelli che, come lui, pensano faccia la differenza), stava sistemando il lenzuolo e la coperta sopra le sedie della sala d’attesa della Terapia intensiva del terzo piano. È la seconda sera che la incontro, ed è la seconda mattina che la vedo andare via, dopo aver piegato la sua coperta e il suo lenzuolo con cura e averli messi nel bagno (della sala d’attesa) con un cartello sopra: “Non toccare, è di Gabriella. Grazie”.
Un lenzuolo, una coperta, un telo blu, un giornale per coprire il tutto e il suo cartello. Ogni mattina lo ripone in un angolo del bagno, ogni sera lo riprende e lo stende di nuovo sulle sedie della sala d’attesa della Terapia intensiva del terzo piano. Sulle stesse sedie dove io mi siedo di giorno, quando lei va in strada aspettando la sera per rientrare. La notte vado via, la saluto. Lei non mi saluta.
Gabriella non è preoccupata per l’Italicum. Ne sono sicura. «Non ha niente», mi dice il medico che opererà mio padre. «Niente, non ha casa, viene qui ogni sera da almeno un anno, vive da noi. È assurdo, lo so. Ognuno le porta qualcosa, tutti sappiamo. È Gabriella. È italiana, è una signora per bene». Mi ripete. Scendo le scale, penso a Gabriella, al mio pessimismo, e poi a Renzi. Ha twittato: «Impegno mantenuto, promessa mantenuta. L’Italia ha bisogno di chi non dice sempre di no. Avanti con umiltà e coraggio. È la volta buona». Parole svuotate e ripetute centinaia di volte, sempre le stesse: il Paese noi lo cambiamo, noi le cose le facciamo. Noi gli impegni li manteniamo, gli italiani stanno con noi. Noi non ci fermeremo. Noi all’Italia #cambiamoverso…
Vorrei chiedere a Gabriella della sua vita, se è cambiata, se qualcuno ha mantenuto gli impegni, se il “verso” le sembra giusto. Ma oggi non me la sento. Capisco che è fuori dalla favola di Renzi, esce dal foglio. E la vedo male, non c’è spazio per lei. Lei, al più, può sperare che la lascino dormire su quelle sedie della sala d’attesa anche domani. Non ha altro. Non ci sono droni possibili per lei. Non c’è guerra. Non può tornare a casa sua. È italiana. È per bene. Ma non ha niente. E non gliene importa niente che la “sera stessa delle elezioni si sappia chi ha vinto”. Questo è il mantra di Renzi, non il suo. Quasi la democrazia fosse uno sport.
Lui vuole vincere, Gabriella vivere. Per ora sapremo chi vince. Renzi. In 334 l’hanno deciso anche per me. E per Gabriella. La favola di Renzi e la realtà di Gabriella. Entrambe non raccontano la verità. La verità, mettiamocelo bene in testa, è tutta da fare. Forse dobbiamo farla noi.
“Renzi ha scommesso sulla debolezza degli avversari”, ha detto uno dei tanti commentatori della tv. Penso, allora, sia ora di scommettere sulla forza degli avversari, sulla forza di chi oggi trova l’onestà di “avversare”, di opporsi, di contrastare quella favola che favola non è. È racconto distorto. Che non vede la realtà. Figuriamoci la verità.
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A quando l’alternativa? Left in edicola da sabato 9 maggio
Il video di presentazione del nuovo numero di Left in edicola da sabato 9 maggio e online acquistabile nello Sfogliatore . Animazione a cura di VVVVID.

























