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Giorgio Napolitano: da Presidente di maggioranza ad architrave delle larghe intese

i presidenti Napolitano e Obama (2006)

Nel giorno del funerale laico di Giorgio Napolitano (del quale su Left abbiamo talora criticato le scelte, pur riconoscendo la sua statura di politico democratico) ripercorriamo la storia del suo doppio mandato con questo intervento del costituzionalista Andrea Pertici, autore del libro Presidenti della Repubblica (Il Mulino) e professore di diritto costituzionale nell’Università di Pisa

Giorgio Napolitano è stato il primo ad essere stato eletto presidente della Repubblica per due volte. La prima, nel 2006, arriva piuttosto inattesa. Infatti, nel 2004, Napolitano lascia l’Europarlamento e la sua carriera politica sembra giunta al termine. Ma il 23 settembre 2005, il Presidente Ciampi lo nomina senatore a vita per avere illustrato la patria per altissimi meriti in campo sociale. Così, quando l’anno successivo lo stesso Ciampi termina il suo mandato come Presidente della Repubblica, Napolitano si trova a Palazzo Madama e il suo nome viene presto fatto per succedergli al Quirinale. Non si tratta, in realtà, della prima scelta. Il centrodestra, sconfitto di misura nelle elezioni, reclama una scelta “bipartisan”, ma l’unico nome che soddisfa la richiesta è quello del Presidente uscente, Carlo Azeglio Ciampi, che, però, rifiutava, dicendo: «Nessuno dei precedenti nove Presidenti della Repubblica è stato rieletto. Ritengo che questa sia divenuta una consuetudine significativa. È bene non infrangerla. A mio avviso, il rinnovo di un mandato lungo, quale è quello settennale, mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato».

Il centrosinistra propone, quindi, Massimo D’Alema, che, pur con un curriculum di prestigio, appare ancora troppo al centro della scena politica e quindi difficilmente elevabile a un ruolo ‘super partes’. A fronte di tale obiezione, il centrosinistra fa il nome di Napolitano, che con D’Alema aveva condiviso l’appartenenza al Pci-Pds-Ds, ma che era ormai in una posizione assai più defilata. L’anziano senatore a vita è stimato anche nel centrodestra, che però non lo vota. Così Napolitano risulta eletto, al quarto scrutinio, con i voti della sola maggioranza. Non succedeva da molto tempo: gli ultimi Presidenti – Pertini, Cossiga, Scalfaro e Ciampi – erano stati tutti espressione di un ampio accordo parlamentare.

In un Parlamento in cui la maggioranza è stretta e il leader dell’opposizione non ha accettato la sconfitta, non si tratta di una posizione semplice. Forse anche per questo Napolitano è esigente con la maggioranza che lo ha eletto e che sostiene il governo Prodi II, tanto che quando questo, un anno e mezzo dopo, vede negarsi la fiducia, non esita a sciogliere le Camere. Le elezioni riportano al governo Berlusconi, con quella maggioranza di centrodestra che non aveva votato per Napolitano al Quirinale. La convivenza non sembra facile: presto Napolitano interviene a difesa del Parlamento, denunciando la compressione dei tempi di discussone e l’abuso dei decreti-legge e, nel febbraio del 2009, rifiuta di firmare il “decreto Englaro”. È scontro aperto, ma Napolitano tiene il punto. Intanto, quella che sembrava una maggioranza granitica si indebolisce per i contrasti tra Berlusconi e il Presidente della Camera Fini, che, dal vertice di Montecitorio, fonda un nuovo partito, presentando, alla fine del 2010, una mozione di sfiducia. Napolitano teme che questo possa mettere a repentaglio l’approvazione della legge di bilancio e quindi chiede che sia data priorità all’approvazione di questa. La richiesta, che viene assecondata, porta ad un affievolimento della spinta della nuova forza politica riconducibile a Fini e al mutamento di posizione di alcuni parlamentari, che decideranno di non sfiduciare il Governo, che rimarrà così in carica quasi un altro anno. La sua caduta arriverà per una serie di motivi, tra i quali certamente pesa molto la perdita di credibilità, soprattutto di fronte all’Unione europea, per vincere la quale Napolitano pensa che a Palazzo Chigi debba andare una persona che goda di piena fiducia a Bruxelles. Nasce così, come “Governo del Presidente”, l’Esecutivo guidato da Mario Monti, ex commissario europeo, che pochi giorni prima lo stesso Napolitano ha nominato senatore a vita. Lo appoggia uno schieramento trasversale di forze politiche di centrodestra e centrosinistra, con la ‘benedizione’ dello stesso Napolitano, che sembra ritenere che, per affrontare problemi rilevanti come quelli dell’Italia, servano riforme che solo la collaborazione tra forze politiche diverse, e ‘responsabili’, può realizzare. Quest’idea sembra accompagnare il Presidente anche nel passaggio alla nuova legislatura, quando non ritiene di affidare l’incarico di formare il Governo al leader del partito più rappresentativo, come normalmente avviene nelle democrazie parlamentari, per vedere se può raccogliere attorno a sé una maggioranza per governare, ritenendo probabilmente più adeguata una maggioranza come quella che aveva sostenuto Monti. Se questa non si riesce inizialmente a ricomporre, non se ne trova comunque una alternativa, tanto che Napolitano, ormai in scadenza, decide di lasciare al successore il compito di formare il nuovo Esecutivo. Ma anche sull’elezione del suo successore al Quirinale si crea presto uno stallo, per superare il quale serve un accordo “bipartisan”. E il Pd, Forza Italia e i centristi guidati dallo stesso Monti lo trovano solo chiedendo a Napolitano la disponibilità a rimanere sul Colle. Il Presidente, a differenza di Ciampi, accetta, ma a condizione che “tutte le forze politiche si prendano le loro responsabilità”. La richiesta, in effetti, non può che essere rivolta (anzitutto) a chi lo ha voluto confermare. E, infatti, solo una settimana più tardi si formerà un governo appoggiato esattamente da quelle forze politiche che hanno votato Napolitano. L’uscita di Berlusconi, qualche mese dopo, non cambia di molto lo schema politico grazie alla formazione del ‘partito dei ministri’ azzurri, guidati da Alfano, che si chiamerà ‘nuovo centrodestra’. Lo schema sembra addirittura rafforzarsi con l’arrivo al governo di Renzi che, particolarmente a suo agio nel guidare una maggioranza di quel tipo, le imprime una nuova spinta. E, infatti, all’inizio del 2015, Napolitano, ritenendo che una stabilità sia stata ritrovata, decide di dimettersi. Saranno gli elettori, con i referendum e le elezioni, a indicare la preferenza per altre soluzioni, ma la differenza di idee è l’essenza della politica. Napolitano ha cercato di risolvere le complesse questioni che gli si ponevano di fronte attraverso le sue.

In foto il presidente Giorgio Napolitano con il presidente Obama

Di Quirinale.it, Attribution, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=8966198

Condoni, solo condoni

“Mercoledì saranno incardinate due proposte di Forza Italia al Senato per risistemare le città, e all’interno di questo progetto che dovrebbe portare anche alla riduzione delle emissioni si può vedere di inserire qualche aggiustamento per piccole cose fatte in violazione delle legge”: sono le parole del ministro Antonio Tajani, Forza Italia, che rilanciano l’idea del condono edilizio lanciata da Matteo Salvini. Leggendole bene si vede anche la strategia: buttarla sul green. Poiché in fondo si vergognano anche loro di quello che vorrebbero fare l’ambientalismo gli torna utile.

Ieri il governo ha tirato dritto anche sulla sanatoria per commercianti e autonomi che abbiano violato gli obblighi di certificazione dei corrispettivi e di conseguenza presentato dichiarazioni dei redditi falsate: un “ravvedimento operoso” con il quale chi tra gennaio 2022 e il 30 giugno 2023 si è reso responsabile di errori e omissioni in materia trasmissione telematica dei corrispettivi giornalieri all’Agenzia delle entrate e dunque versamenti insufficienti potrà tornare in regola versando imposta, interessi e sanzione ridotta da un decimo di quella ordinaria a un quinto di quella minima. Con il vantaggio che si riduce via via che aumenta la distanza tra pagamento omesso e regolarizzazione.

Vi ricordate quando Giorgia Meloni durante un comizio parlò delle tasse come “pizzo di Stato”? Dicevano che si era “espressa male” e che i giornalisti avevano strumentalizzato. Invece avevamo capito benissimo.

Buon martedì.

Toglietegli le scarpe

Ospite alla trasmissione “Diritto e rovescio” su quella Rete 4 che si professa “ripulita dal trash” e invece ha rovesciato il trash nel contenitore dell’informazione l’ex ministro dell’Inferno Matteo Salvini ha svelato la natura sua e di questo governo. Alla domanda del conduttore su come potrebbero trovare 5mila euro i migranti che sbarcano in Italia per poter pagare il racket di Stato previsto nella nuova mortifera norma, Salvini ha risposto letteralmente: molti arrivano con «telefonino, scarpe, catenina, orologino».

La frase è tecnicamente razzista – ovviamente – poiché chiede a una specifica “razza” di dimostrare la propria povertà adattandosi alla narrazione che la vorrebbe descrivere. Come ogni frase razzista pronunciata dai componenti di questo governo è anche profondamente ignorante: se Salvini si ritrovasse in condizioni di disperazione che lo costringono a partire per un lungo viaggio siamo sicuri che si procurerebbe delle scarpe per attraversare il deserto, per scavalcare i muri e le reti che i Salvini come lui gli farebbero trovare per strada e per scappare da cani e bastoni. Siamo anche sicuri che avrebbe un telefono per fare sapere alla sua fidanzata o alle sue ex mogli o ai suoi figli di essere ancora vivo e per verificare in quale parte d’Europa si trovi. Siamo anche sicuri che non lascerebbe a casa il suo rosario a cui è feticisticamente attaccato e che considera un portafortuna elettorale.

Siamo sicuri anche che se avesse studiato un po’ di Storia saprebbe che ai deportati della Shoah venivano tolte le scarpe come primo atto di spoliazione. Ciò che gli possiamo augurare è di non incontrare un ministro come lui.

Buon lunedì.

Nient’altro che rappresaglie

Nient’altro che una rappresaglia. L’attacco al direttore del Museo Egizio di Torino Christian Greco ha la forma e l’odore di una rappresaglia senza nemmeno bisogno di manganelli e di olio di ricino. 

Parte tutto dall’assessore regionale al Welfare della Regione Piemonte Maurizio Marrone il cui nome da quelle parti ricordano quasi tutti a proposito di un assalto dodici anni fa ai  Murazzi a Torino quando comparvero scritte come “Viva il Duce”, “Boia chi molla” e “Partigiani infami”. Siamo nel tempo in cui uno così – proprio perché è così – diventa classe dirigente del Paese. Che intenda l’esercizio del potere come la possibilità di rivalersi in ogni dove è una caratteristica naturale di quella categoria. Marrone aveva ancora in gola il can can che si era sollevato intorno al direttore Greco quando decise di praticare sconti all’ingresso per le coppie arabe. A quel tempo anche Giorgia Meloni decise di umiliarsi di fronte al Paese accusando Greco di “discriminazione al contrario”, senza nessun fondamento poiché gli sconti si applicavano (e si applicano) ciclicamente a tutte le categorie. In quell’occasione il direttore con invidiabile calma aveva spiegato che nessun “non studente” aveva mai urlato contro gli sconti per studenti. Meloni rimediò una magra figura, ora arriva quella che sembra una rappresaglia.

Così mentre 92 egittologi esprimono la loro costernazione per un attacco politico in un tema che richiederebbe un minimo di competenza tecnica (e un minimo di dignità nell’attività politica) noi da fuori assistiamo all’ennesima puntata di una purga nazionale che non sembra si comprenda ancora del tutto.

Buon venerdì.

Nella foto: frame del video (La7) del confronto Christian Greco-Giorgia Meloni, 15 febbraio 2018

Per approfondire su Left due interviste al direttore del Museo Egizio:

Christian Greco: Il museo non è solo un luogo di conservazione 

Christian Greco: Il museo del futuro mette al centro la ricerca

Riscopriamo la musica di Busoni, compositore aperto alle culture dei popoli

Un post-it mi ricordava: su Rai 5, domenica 3 settembre 2023, ore 10, seguire i tre candidati finalisti della 64esima edizione del Concorso pianistico Ferruccio Busoni.
Non ho così particolare cultura musicale: ma questa, che è stata la prima volta di diretta e di diffusione in mondovisione del concorso, ho realizzato, è un vero evento, il cui significato parla d’arte nel mondo, anzi di dialogo d’arte. In nome di Busoni, continuando il pensiero cui l’artista aderiva, tradizioni e creatività sono raccolte e rilanciate, in un moto perpetuo di cui sono testimoni precipui i giovani musicisti, in particolare i tre giunti a questa finale. Dunque sì, ho seguito e ho creduto di avvertire: ma molti conoscenti già sapevano, e le osservazioni si sono incrociate. Nella trasmissione si sono alternati i momenti concertistici nella sala del Teatro Comunale di Bolzano, proposti dai tre giovani finalisti – l’americano Anthony Ratinov, il russo Arsenii Mun, il giapponese Ryota Yamazaki: la giuria ha infine attribuito il premio infine a Arsenii Mun – con le narrazioni condotte nel foyer dai due conduttori, Francesco Antonioni e Elena Biggioggero, infine con gli inserti dalla città di Bolzano, gli interni delle famiglie ospitanti, i luoghi delle esibizioni pubbliche.

Ma è la diretta mondiale che dà slancio particolare a questa edizione: sdoganando e proponendo ad una vasta riflessione, l’abbinamento di due nomi caratterizzati dall’essere posti “à l’écart”, Bolzano e Busoni. Il che dà risalto a risvolti storici che interpellano la convivenza nel mondo, pagine di narrazione che non risultano mai abbastanza centrate e esaurienti. L’evento prese le mosse nel 1949, a opera di Cesare Nordio: triestino, la sua biografia di cittadino e musicista era varia, certo partecipe alle molte vicende storiche del Paese, all’epoca. Dal 1948 direttore del Conservatorio Monteverdi di Bolzano, l’anno successivo fondò il premio pianistico per giovani, onorando i 25 anni dalla scomparsa di Ferruccio Busoni (1866-1924). Era divenuto consapevole di come il pur grandissimo Ferruccio Busoni, fermamente estraneo ai furori nazionalistici che dallo scorcio del XIX secolo imperversano, rischiava di essere tagliato fuori della memoria. È così, infatti: sono ristrette sia la memoria della creatività di Busoni, e quindi la sua comparsa nei cartelloni, sia la narrazione delle sue scelte di vita.

Per me vivere a Empoli, dove è stata salvaguardata la casa dove Ferruccio Busoni nacque – nel 1958 fu presa a cuore dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, che la inaugurò poi nel 1961, così che oggi è inserita nel Sistema museale Case della Memoria in Toscana – dà un interesse costante a alimentare e confrontare notizie sull’artista, anche se, pur tornato più volte, egli si formò in ambiente triestino, quello della famiglia materna: era allora la Trieste grande porto per Vienna, e crocicchio di tradizioni.

Approfitto per allargare via via le notizie, e consolidare il ritratto morale dell’artista. Che è, in primo luogo, quello di un formidabile, organizzato lavoratore: se il detto di Cesare Pavese, “Lavorare stanca”, suona intriso di riluttanza, di una nobiltà fittizia, si potrebbe rovesciare per Busoni, in “Lavorare realizza il soggetto nel profondo”: ma egli era vissuto tra altri fermenti, circa quaranta anni prima. Colpisce, in effetti, come ogni intervallo imprevisto di tempo che all’uomo capitasse, nelle incertezze e i vuoti degli appuntamenti, diventasse occasione di appunti e prove, anche silenziose.

Busoni seguì alcune linee di attività, di diversa rinomanza. Il massimo di notorietà ebbe la sua vita di concertista e di insegnante, presso istituzioni o nel privato. Ma si intonò a questo aspetto la sua attività di trascrittore, via, per lui, di entrare nello specifico modo con cui gli autori si erano adattati alle strumentazioni e agli ambienti del comporre in tempi diversi, in qualche modo storicizzandone il gusto, rivitalizzandolo e preparandosi a prenderne distanze modulari per dedicarsi in consapevolezza al proprio comporre. Al vertice degli studi del trascrittore, e specialmente in quanto organista, si staglia Bach. Tra gli equivoci che hanno coperto la notorietà di Busoni, c’è quello che il lato del trascrittore sia predominante. Invece non è così, e la sua produzione originale è ampia, innovativa, capace di ottenere frutti originali dai germi più vari, sempre comunque indagati nel profondo.

Se c’è un aspetto che colpisce l’ascoltatore di Busoni, è lo sviluppo cosmopolita delle composizioni – come cosmopolita era il suo ascolto dei popoli, e la sua capacità plurilingue di esprimersi. I popoli fiorivano, almeno dalla fine del Settecento: non solo nel Mediterraneo della Grecia e dell’Italia. Una fitta diplomazia, più forte delle armi, una partecipazione accorta delle masse e degli intellettuali, premevano per portare all’indipendenza compagini, come i norvegesi, come i finlandesi cui si ascriveva la famiglia della moglie Gerda Sjöstrand. Come i nativi d’America, che Ferruccio Busoni tenne presenti nelle numerose tournée in Usa fatte tra Otto e Novecento, e comunque prima che scoppiasse la Grande guerra. Nel 1910, in occasione dell’ultimo giro statunitense, Busoni ritrovò l’allieva Natalie Curtis, e, scrivendo alla moglie, la informò dell’imponente ricerca sulla musica dei Nativi che essa aveva compiuto. Anzi, nel 1907 aveva pubblicato ricerche etnologiche, The Indians’ Book. Di qui Busoni prese le mosse per studi, trascrizioni, e più tardi per compiute sue rielaborazioni di musiche indiane.

La guerra, le scommesse di distruzione e di potere che essa comportò erano l’antitesi dello studio per la convivenza, che questo artista propugnava: mettendo a disposizione la sua capacità di ascolto e rielaborazione, di riprove infinite. Volle il campo neutro, trasferendosi da Berlino a Zurigo. Bene attento alle domande d’arte in ogni campo, e al bisogno di innovazione che in molti esprimevano, non ammetteva tuttavia che in nome del nuovo si ignorasse la continuità dello sviluppo artistico.

Umberto Boccioni, Maestro Busoni, 1916

Tra gli innovatori in pittura, strinse una relazione profonda con il giovane Umberto Boccioni, cui si devono tele importanti dedicate a Ferruccio Busoni, onorandone profondamente la memoria quando il giovane morì, vittima di un banale incidente. Nelle opere teatrali Busoni meditò a fondo sulle tradizioni e gli ambienti italiani: disegnò in Parma un episodio importante del suo Faust, maturato in un arco lungo di considerazioni, cui non fu estranea la meditazione su Leonardo da Vinci – allora, in Italia e in Europa, in molti ne facevano oggetto di ricostruzioni e approfondimenti. E per Busoni, la cui famiglia proveniva dal territorio dell’artista rinascimentale, specifico era l’interesse –. Così, fu sintesi di tradizioni e mentalità condivise nel tempo l’Arlecchino ovvero le finestre. Capace, come ho detto, di essere poliglotta, in prevalenza Ferruccio Busoni scrisse in lingua tedesca le opere letterarie: e, mi dicono, merita per queste di essere considerato un grande autore. Peccato, allora, che non si sia ancora trovato come trasporle in buona traduzione italiana. Forse non ci sentiamo ancora preparati a seguire una disseminazione d’arte che fu ampia e generosa.

Tra i suoi allievi, anche Kurt Weill: dopo la fine della guerra, quando, riordinata da Gerda, fu ancora la casa di Berlino che ospitò la famiglia dell’artista: per pochi anni ancora, prima che le malattie ne interrompessero il pensiero e la laboriosità. È appunto a Berlino l’Archivio delle sue opere, in parte disperse tra gli eventi accaduti nel XX secolo. Oggi, pensarlo nelle atmosfere attuali torbide e feroci, vuole essere momento che impugna solidamente la speranza: di cercare, e individuare, gli spazi e i modi della convivenza. Come sapeva fare Busoni, artista e filosofo delle modulazioni e rimodulazioni: per adattarsi, non per soffocare.

L’autrice: Franca Bellucci, storica e saggista, ha coordinato il lavoro per il volume I secoli delle donne (Viella)

Governo per decreto

Nel Consiglio dei Ministri di inizio settembre il governo Meloni ha approvato ben 3 decreti. Di questi uno è anche stato successivamente modificato per aggiungere nuove norme di contrasto all’immigrazione, seguendo la crescente onda della cronaca nazionale. La decretazione da parte del governo non è una novità della politica italiana ma con Giorgia Meloni sta raggiungendo vette significativa.

Di contro ogni decreto ingolfa inevitabilmente i lavori del Parlamento dovendo essere convertito in legge entro 60 giorni. Così il Parlamento ne esce non solo svilito ma anche bloccato. Confrontando il numero dei decreti dei governi per eventi si scopre che solo questo è riuscito a raggiungere la vetta di 3,55 Dl pubblicati in media ogni mese. Seguono i governi Draghi (3,2), Conte II (3,18) e Letta (2,78), secondo la rilevazione di Openpolis. 

Delle 52 leggi approvate definitivamente dal Parlamento il 55,8% sono conversioni di decreti. C’è un’ulteriore criticità: i decreti legge emanati affrontano congiuntamente temi anche molto diversi tra loro, nonostante la Corte costituzionale nella sentenza 22 del “012 rimarcasse come il loro contenuto dovrebbe essere pacifico, omogeneo e corrispondente al titolo. Openpolis cita come esempio il decreto legge 105/2023 riconducibile a ben 10 distinte finalità, tra cui interventi volti a velocizzare i processi, contrastare gli incendi boschivi, per il recupero dalle tossicodipendenze, la riorganizzazione del ministero della cultura e la revisione di alcune norme in tema di Covid-19. Anche l’urgenza è più che discutibile, a meno che non si voglia considerare “urgente” il Ponte sullo Stretto. 

Buon giovedì. 

Videoartisti al liceo con il Creative audiovisual lab

L’obiettivo affascinante di stimolare la creatività è lo scopo della pluriennale e appassionata ricerca condotta da Mery Tortolini, artista e ricercatrice, insieme ad Annio Gioacchino Stasi, scrittore, linguista e sceneggiatore. Un lavoro che negli anni li ha portati dalle aule universitarie della Sapienza di Roma a progetti transnazionali come il Creative audiovisual Lab (CrAL) i cui risultati saranno presentati il prossimo 23 settembre, a Roma, presso l’auditorium dell’Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi (Icbsa) di via Caetani. Il progetto europeo CrAL è nato tre anni fa per stimolare e diffondere, tra gli studenti delle scuole medie superiori, una visione critica sul mondo delle immagini e dei suoni riprodotti, grazie ad un percorso di formazione innovativo, ricco di contenuti didattici multimediali e multilingue. Il CrAL ha coinvolto cinque Paesi europei, oltre all’Italia: Spagna, Grecia, Croazia e Lituania. Ad aver condotto, elaborato, prodotto e sperimentato sono Tortolini e Stasi, forti della loro metodologia didattica originale che, a partire dalla fine degli anni Novanta, hanno ideato nella prassi del Laboratorio di immagine e scrittura creativa presso l’Università La Sapienza di Roma.

Annio Gioaccchino Stasi e Mery Tortolini

«Tutto ebbe inizio grazie alla disponibilità di Tullio De Mauro – racconta Stasi -. Il laboratorio è diventato negli anni un corso universitario, poi un’attività sperimentale nelle biblioteche del Comune di Roma ed infine una metodologia didattica sul pensiero per immagini in movimento». La stessa metodologia è stata poi applicata nell’ambito dell’alternanza scuola lavoro di alcuni licei romani presso l’Icbsa del ministero della Cultura e infine estesa, in via sperimentale, a cinque Paesi europei. Negli anni, l’attività di ricerca è stata arricchita dal confronto con studiosi, artisti e docenti universitari: Remo Bodei, Francesca Sanvitale, Claudio Zambianchi, Giancarlo De Cataldo, Alberto Oliverio, Pietro Montani, Valerio Magrelli.

«Ma la dialettica fondamentale – spiega Tortolini – si è svolta con Tullio De Mauro e Massimo Fagioli, grazie ai quali, sia sul piano linguistico che su quello essenziale delle dinamiche psichiche di formazione del pensiero non cosciente, si sono poste le basi di un metodo di stimolazione e formazione per una azione didattica innovativa originale». Gli studenti coinvolti sono stati e sono centinaia. Così, negli anni si è definita, in una serie di pubblicazioni, e nella prassi del laboratorio, una metodologia didattica in cui il concetto stesso di “insegnare” ha assunto nuovi connotati (Il laboratorio di immagine e scrittura creativa, prassi e teoria. Una ricerca sul pensiero rappresentativo, Ibiskos 2007).

Inizialmente, la ricerca di Stasi e Tortolini era incentrata sulla relazione tra segno visivo e scrittura, in seguito, si è ampliata al linguaggio audiovisivo, con temi che interessano la Media literacy (alfabetizzazione mediatica), in armonia con le indicazioni della Comunità europea che promuove e stimola la formazione di un pensiero critico nell’ambito della Media literacy. Ma, spiega Stasi, «le attuali tendenze interpretative, quali lo storytelling, risultano parziali in quanto assumono come categorie conoscitive e di analisi quelle di una narrazione in linea con le logiche di mercato dell’industria dell’intrattenimento occidentale, tralasciando ciò che noi invece intendiamo con il termine di pensiero rappresentativo». Si tratta, per il ricercatore, «di assumere un punto di vista dinamico, diverso dall’osservazione logico-razionale, si tratta di entrare in rapporto con il pensiero e il linguaggio non coscienti».

Quello che viene proposto è un processo in cui prima si pensa per immagini e poi si elabora un pensiero verbale. «L’espressione, che nella mano trova l’ultimo elemento del gesto creativo che utilizzerà stilo, colore, fotocamera, computer, deve prima riconquistare una reazione a ciò che ci circonda. Una reazione sensibile di un pensiero non definito, dal preverbale al verbale, dal silenzio al suono della voce. Ritrovare la capacità di creare la linea che ci definisce nel confronto e nella separazione con la realtà. Dalla capacità di immaginare alla capacità di rappresentare che è propria della nostra specie».

È un percorso stimolante che dovrebbe poter trovare terreno fertile proprio nell’ambiente scolastico, in una fase in cui il rapporto tra chi insegna e chi chiede conoscenza è quanto mai importante e delicato. In merito a ciò il progetto CrAL ha cercato di garantire tre livelli di formazione, interconnessi, per tutor, insegnanti e studenti. «Le nuove generazioni, chiuse in bolle comunicative social e brand consumistici, corrono il rischio di non poter sviluppare reazioni immaginative e di sensibilità umana che rendano possibile una visione interpretativa della realtà» prosegue Tortolini, «si tratta allora di proporre un percorso di scoperta critico, di rapportarsi ad un tempo diverso da quello della ripetizione, di cercare la propria espressione».

Nel corso del progetto, Stasi ha realizzato dieci videolezioni narrative e, con Mery Tortolini, ha tenuto dei workshop formativi per tutor, presso l’Università autonoma di Barcellona. Le fasi sono state documentate su una apposita piattaforma interattiva che ha avuto anche la funzione di raccolta e diffusione dei materiali. Gli studenti hanno realizzato dei brevi cortometraggi, sia in forma individuale che collettiva, che saranno presentati nel corso dell’incontro a Roma. In questa occasione ogni nazione coinvolta sceglierà un cortometraggio che parteciperà ad un concorso internazionale, il cui vincitore sarà premiato a Zagabria il prossimo 25 settembre.

Il laboratorio ha fornito, inoltre, indicazioni storiche sull’evoluzione degli strumenti di riproduzione audiovisiva, sulla storia del cinema, sull’uso di telecamere e registratori audio; è stato trattato il racconto per immagini sia di taglio documentaristico che di fiction. In particolare, il prossimo 23 settembre saranno presentati i risultati del gruppo di lavoro CrAL dei licei T. Tasso e F. Silvestri di Roma e le modalità di sviluppo della ricerca didattica in ambito italiano in collaborazione con Icbsa e DiCultHer, associazione internazionale per la cultura digitale. «È essenziale che l’idea, l’immagine generante la storia, parta dai ragazzi o dal rapporto tra studenti e insegnanti. Cioè, l’elemento conflittuale deve essere reale e presente in chi poi andrà a raccontare ed esprimere».

Durante la visione e la realizzazione dei filmati si favorisce, quindi, la ricerca di una propria espressione in chiave individuale e collettiva. Il mezzo audiovisivo diventa per i giovani uno strumento per indagare e per sviluppare una visione critica, superando il concetto ancora così radicato dell’intrattenimento. Per Tortolini e Stasi, tutto il percorso di questo lavoro pone in evidenza la necessità di scoprire forme di pensiero e di linguaggio non coscienti che, per le loro modalità di elaborazione, producano, in stato di veglia, movimenti di immagini che costituiscono il pensiero rappresentativo. «Si tratta di temi scottanti che hanno una prospettiva storica di lunga durata. Inevitabile è il confronto con paradigmi conoscitivi riferiti alla cultura greca logico-razionale, per superare la quale sono indispensabili nuove modalità di approccio, nuove ipotesi, nel nostro caso qualitative, sulle forme di pensiero».

Nella foto: frame del video Hey kids

Qui i link di due video realizzati durante il laboratorio

https://youtu.be/_tWxVBxbvO4 Il filo sospeso

https://youtu.be/xShh5MQfDfE  Hey kids

L’evento del 23 settembre

 

Porta Pia, l’altra Liberazione

C’era una volta una monarchia in cui si poteva professare soltanto una fede e rinchiudeva gli ebrei in un ghetto. Nessun diritto umano: le libertà di pensiero, di espressione, di stampa, di voto erano negate. Il potere reprimeva il dissenso con violenza, ricorrendo all’esercito e alla pena di morte. Non c’era la scuola dell’obbligo: era considerata “un errore”. Quello Stato era lo Stato Pontificio.
Gli oltre mille anni di totalitarismo reale terminarono il 20 settembre 1870, quando i bersaglieri entrarono in Roma attraverso la breccia di Porta Pia. Fu l’apice del Risorgimento e una liberazione per chi vi viveva. Gli ebrei uscirono dal loro quartiere, i protestanti portarono a Roma le loro bibbie, gli atei cominciarono a definirsi tali. Tanti uomini e tante donne pensarono che si stava aprendo una nuova era. Non è andata esattamente così. Certo, come accadde quasi ovunque, lo scontro tra il Vaticano e il nuovo Stato durò decenni. Le élite erano anticlericali (ma raramente atee) perché vedevano nella Chiesa un ostacolo alla modernizzazione degli Stati e all’emancipazione delle popolazioni. Si statalizzarono molte proprietà ecclesiastiche destinandole a usi pubblici. Il Venti Settembre era festa nazionale e aveva un impatto simbolico fortissimo: il primo film a essere stato proiettato in Italia (davanti a una folla enorme) si chiama La presa di Roma. So bene che immaginare come poteva essere quella società richiede un grande sforzo. Provate a pensare alla Francia: bene, l’Italia, allora, era molto simile alla Francia. I cugini, nel 1905, approvarono la legge fondamentale sulla laicità. In Italia, nel 1913, i liberali di Giolitti stipularono invece un accordo con l’Unione elettorale cattolica, il Patto Gentiloni. E i due Paesi presero strade molto diverse. La Francia divenne un baluardo della democrazia, l’Italia finì nelle mani di Benito Mussolini. L’arci ateo folgorato sulla via della conciliazione firmò i Patti Lateranensi: nacquero lo Stato della Città del Vaticano e – grazie alle somme corrisposte dallo Stato – lo Ior. Il matrimonio ecclesiastico ebbe valore di legge, l’ora di religione tornò nelle scuole, il Vaticano ottenne enormi privilegi fiscali. La festa del Venti Settembre, che ormai imbarazzava il regime clerico-fascista, fu abrogata. Venne la Liberazione, ma non per la laicità. I parlamentari francesi la citarono nella Costituzione, quelli italiani vi inserirono il Concordato. Abbandonato dalle istituzioni politiche, dalla stampa, dalla Rai, il Venti Settembre finì nel dimenticatoio, tanto che noi dell’Uaar lo chiamiamo “la giornata degli smemorati”. C’era una volta un Paescon una grande voglia di laicità. C’è ancora, e ancora più di prima. Ma non c’è più una classe dirigente capace di concretizzare le aspirazioni di un popolo, mentre i clericali ne approfittano per riscrivere la storia. Alle cerimonie ufficiali del Venti Settembre ho visto cose che anche voi laici non potreste immaginarvi. Nel 2008 un delegato del sindaco Alemanno, tale Torre, fece suonare l’inno pontificio ed elencò uno per uno gli zuavi pontifici morti durante la presa di Roma. Come se alla commemorazione dello sbarco in Normandia si suonasse l’inno nazista e si ricordassero i soldati della Werhmacht. Nel 2010 fu concesso di parlare al numero due vaticano, il cardinal Bertone. Le autorità civili presenti (Napolitano, Gianni Letta, Polverini, Zingaretti, Alemanno) rinunciarono al loro discorso. Bertone glorificò il Concordato e Pio IX, l’ultimo papa re fresco di beatificazione. Ero lì, ma la Digos – con lo stile dalla polizia religiosa saudita – non mi permise di ascoltare, e non lo permise a tutti i potenziali critici di un evento orwelliano. E oggi? Fateci caso: nel centro delle vostre città vi sono ancora vie e piazze dedicate al Venti Settembre. Ci ricordano l’evento che unificò l’Italia e liberò un popolo. Il fascismo tradì quella liberazione, ma altrettanto hanno fatto i governi successivi. Il Venti Settembre non è una data qualunque: è un simbolo di laicità, di un principio fondamentale della Repubblica. Quel giorno l’Italia ebbe la sua capitale, e non può dimenticarlo solo perché, per averla, dovette fare guerra al papa.

Raffaele Carcano (Uaar) è direttore della rivista Nessun Dogma

Questo articolo è tratto dal libro di Left Porta pia 150, la riconquista della laicità.

Per acquistare il libro: https://left.it/2020/09/11/172681/

In foto La breccia di Porta Pia in una litografia a colori del tempo
 

 

Sindaco denuncia te stesso

Sul Fatto Quotidiano di ieri Thomas Mackinson scrive del sindaco di Portofino Matteo Viacava, effimero eroe del centrodestra perché fu tra i primi che voleva dedicare una via a Silvio Berlusconi, sfidando i termini di legge, con grande giubilo dei berluscones.

Il sindaco Viacava tra le altre cose è proprietario di un “tabacchi con rivendita di souvenir” a pochi passi dal palazzo comunale e a pochi metri dalla sede della polizia locale ai suoi comandi. Portofino, la località che vorrebbe essere regina del glamour è la meta di migliaia di turisti stranieri che considerano la città un simbolo dell’eleganza italiana. Solo che dentro la tabaccheria del sindaco vengono vendute borse di altisonanti marchi della moda palesemente contraffatte, a pochi euro. Se Viacava fosse nero c’è da scommettere che al prossimo Consiglio dei ministri avremmo avuto un nuovo decreto legge, dal nome “Portofino sicura”, che avrebbe inasprito le pene per la contraffazione. 

Pizzicato dal giornalista Viacava non nega, anzi rilancia. Dice che non gestisce personalmente il negozio, nonostante il giornalista l’abbia trovato proprio lì dentro, indaffarato a servire i turisti, e rilancia il grande successo turistico dell’ultima stagione. Un sindaco che è titolare di una tale attività nel centro della città che amministra godendo dell’indifferenza di chi dovrebbe controllare (giornalisti inclusi) è il paradigma del “fate quel che dico ma non fate quel che faccio”. Ora non gli resta che costituirsi parte civile per un processo contro sé stesso. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: Portofino e il sindaco Matteo Viacava (fb)

Crisi climatica, giornata di studi a Roma con economisti, giuristi, storici e attivisti

Di nuovo un convegno sull’ambiente? Forse basterebbe la gravità della situazione, l’ultimo disastro ambientale che ha colpito la Libia con migliaia di perdite umane, per giustificarlo. Perché siamo troppo vicini all’orlo dell’abisso per poter rinviare la questione che rischia di mettere fine alla avventura del genere umano su questo pianeta.
Ma c’è, in questo caso, una ragione in più; come ha detto Piero Bevilacqua, che del Convegno (20 settembre Spin Time, Roma) ne è l’anima e l’organizzatore: «L’ambientalismo senza politica, che non contempli il conflitto fra le classi come chiave per la comprensione dei problemi, è una nobile pratica che non esaurisce né soddisfa le nostre esigenze. E soprattutto lascia irrisolti pressoché tutti i nodi di una situazione ormai drammaticamente insostenibile».

Dunque la questione ambientale richiama quella politica e viceversa. L’Europa non può pensare di eliminarla ricorrendo esclusivamente alla tecnologia, come se per evitare la catastrofe imminente bastasse sostituire petrolio e carbone con fonti rinnovabili – e magari con un fantomatico nucleare di nuova (?) generazione che, nonostante tanto clamore, nessuno sa cosa vuol dire.
A livello istituzionale si ripete la solita litania: la crescita è sacra e se essa produce effetti dannosi, noi siamo sempre in grado di ricorrere alla scienza e alla tecnologia per annullare questi effetti collaterali.

A contraddire questa affermazione basterebbe la lettura di un vecchio libro di Rachel Carson, edito nel 1962 (Silent Spring), nel quale la nota ricercatrice americana, vera e propria antesignana dell’ambientalismo, denunciava i rischi connessi all’uso sempre più frequente dei pesticidi (in particolare il famoso ddt) e per questo perseguitata e screditata fino alla sua morte.

Dunque un convegno sull’ambiente ma anche un convegno politico: cosa fa la politica per scongiurare il prossimo collasso della biosfera? Poco o niente: al di là dei suoi inutili proclami, continua a trivellare il suolo alla ricerca di più fossili con i quali alimentare la crescita fattasi sempre più insostenibile e produttrice di disuguaglianze e nuove povertà.
Conosciamo pur troppo bene i disastri che il capitalismo genera nella ricerca del massimo profitto: «Esso è una macchina produttiva, estrattiva e dissipativa incapace di arrestarsi. Perciò senza una nuova economia che cessi di guardare alla natura come a una cava da saccheggiare, che ridia agli uomini che lavorano piena dignità, e senza un ordine cooperativo e multilaterale del mondo, creare fonti alternative di energia costituisce un obiettivo drammaticamente insufficiente».

Da queste premesse scaturisce il convegno; coniugare ambiente e modello di produzione, un binomio diventato ossimorico ai nostri tempi.
Le nostre città, le città di tutto il mondo, sono diventate incubi metropolitani e il vivere in esse somiglia ormai a un vero corso di sopravvivenza per il traffico, per lo smog, per i rifiuti che ci sommergono, oltre a costituire luoghi di emarginazione, di povertà, di solitudine disperata. Quello che era un famoso motto nel medioevo: l’aria della città rende liberi, si è tramutato nel suo esatto contrario.

Ecco allora che il convegno si articola (strumentalmente) in due parti. Quella dell’approfondimento scientifico e quella politica del: che fare?
Nella prima parte studiosi e ricercatori di diverse discipline tenteranno un confronto a partire dalle proprie professionalità: giuristi, storici, ingegneri, antropologi, economisti. Nella seconda parte interverranno quei politici che hanno maturato la loro esperienza nel corso delle lotte e dei conflitti sociali.
L’ambizione è quella di riuscire a redigere una Carta di Roma, con proposte, iniziative e analisi in grado di mettere al primo posto nell’agenda politica il tema dell’ambiente, senza il quale le città rischiano di diventare gusci senza storia e senza anima per famelici turisti in cerca di sensazioni.

Programma
Officina dei saperi Unione Popolare
MERCOLEDI 20 SETTEMBRE ORE 9,30, Spin Time Via di Santa Croce in Gerusalemme, 55 Roma

Coordina Maurizio Fabbri
Piero Bevilacqua, Introduzione
Luigi Ferrajoli, Per una costituzione della Terra
Laura Marchetti, La natura è madre. Ambientalismo ed ecofemminismo
Paolo Maddalena, I beni comuni, la Costituzione, le privatizzazioni selvagge contro i cittadini e contro l’ambiente
Enzo Scandurra, La città come ecosistema
Federico M.Butera, Nucleare e CO2 sottoterra per impedire la transizione ecologica
Angelo Tartaglia, Il clima, come cambia, cosa accade alla Terra.
Guido Viale, Dallo sviluppo all’economia della cura.
Piero Bevilacqua, Una nuova agricoltura per il cibo sano, la rigenerazione delle risorse, la tutela della biodiversità
Pino Ippolito Armino, I danni al pianeta della guerra russa-ucraina.

ORE 15,30
Roberto Musacchio, L’ Ue tra green washing, guerra e giustizia climatica.
Paola Nugnes, Esperienze parlamentari in difesa dell’ambiente
Luigi De Magistris, Il ciclo dei rifiuti e la lotta alla criminalità organizzata.
Pinuccia Montanari, Le comunità energetiche in Italia
Eliana Como, Il lavoro, Il sindacato la sfida dell’ambiente
Maurizio Acerbo, Quanto era ecologista Marx? Una prospettiva ecosocialista.

Interventi: Giuseppe De Marzo, Libera; Beatrice Pepe, Ultima generazione; Daniela Padoan, Libertà e Giustizia; Emanuele Genovese, Fridays for future; Daniele Ognibene, Servizio pubblico; Marina De Felici, Rete ecosocialista Roma; Simona Maggiorelli, Left; Anna Maria Bianchi, Carte in regola
A seguire: interventi liberì