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La memoria ritrovata dell’infanzia in Amazzonia

Scritto e diretto da Antonio La Camera, e prodotto da PlayLab Films, Las Memorias Perdidas de los Árboles è stato presentato in anteprima mondiale alla 80esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove è stato premiato come miglior film cortometraggio nell’ambito della Settimana Internazionale della Critica. Le prossime proiezioni, dopo Udine il 3 ottobre, il 10 a Trieste e il 16 a Bolzano.

Attraverso il dialogo immaginario tra due alberi, e la rievocazione di memorie antiche risalenti all’infanzia, in Las Memorias Perdidas de los Árboles affronta tematiche importanti. Racconta di dolore, di solitudine e di depressione come di «qualcosa che colpisce e trascina negli abissi», ma anche di anaffettività. «Sapevo come ti sentivi ma non ho avuto il coraggio di parlarti…ho lasciato che scomparissi».

Cosa ha significato per lei realizzare il film nella foresta amazzonica peruviana e cosa ha potuto sperimentare in quei luoghi che altrove, probabilmente, non sarebbe stato possibile?

Avere avuto la possibilità di girare nella foresta amazonica peruviana è stata sicuramente un’opportunità unica per lasciarsi tutto alle spalle e “ricominciare”, allontanarsi fisicamente e spiritualmente dalla propria quotidianità, facendo tabula rasa per lasciare spazio al nuovo.
Detto ciò, essendo cresciuto nella Calabria rurale in realtà mi sono sentito subito a mio agio nella foresta nella quale ho passato molto tempo da solo, sia di giorno che di notte. E in quei momenti di solitudine, in un ambiente così primordiale e misterioso, la nostra possibilità di ascolto interiore si amplifica e siamo più propensi a connetterci col nostro inconscio e a sentire (non solo con l’udito) l’ambiente che ci circonda.
Tutto ciò credo sia possibile in qualsiasi ambiente naturale, che sia la foresta amazzonica peruviana o le montagne del Pollino. La vera unicità sta nel riuscire a ritagliarsi questi momenti sempre più messi da parte nelle nostre quotidianità, quando invece sono imprescindibili per conoscersi e capire effettivamente quello che ci fa stare bene o meno.

Ciò che colpisce maggiormente nel film è la capacità delle immagini di comporre un linguaggio, di raccontare una storia, anche laddove il senso non viene affidato alla parola. Giochi di luci, ombre, suoni e colori che, rievocando forse i primissimi giorni di vita e allontanandosi dalla mera riproduzione della realtà, sembrano parlare ad ognuno di noi. Quanto la tecnica è stata di aiuto per arrivare a questo potente risultato?

In ogni opera, la parte tecnica che dà vita alla forma stessa dell’opera riveste ovviamente un ruolo fondamentale. Senza di essa il contenuto non può prendere vita e l’opera non esisterebbe. La mia esperienza mi ha portato nel corso del tempo a confrontarmi in prima persona con tutti gli aspetti tecnici che compongono la nascita di un film: dalla fotografia al montaggio, passando per il suono fino ad arrivare agli effetti visivi. Questo mi ha sempre dato modo di lavorare in maniera organica alle mie opere avendo la possibilità di sovrapporre le fasi di pre-produzione, produzione e post-produzione che di solito sono separate in maniera abbastanza rigida. Soprattutto in questo caso specifico, avere la capacità tecnica di girare e montare il materiale immediatamente facendo nel mentre una bozza di sound design e di color, mi ha dato la possibilità di avere un’idea più chiara di quello che stava nascendo, di correggere eventuali errori in corso d’opera e di sperimentare in maniera libera assecondando l’istinto. Credo che seguendo un processo tecnico e produttivo più canonico sarebbe stato molto più complesso e per certi versi impossibile realizzare la stessa opera, anche perché nei mesi successivi al workshop ha cambiato diverse forme prendendosi un tempo che sarebbe impensabile in un contesto canonico. Avere avuto invece la possibilità tecnica in prima persona di “prendermi cura” di tutta questa fase, di provare, sbagliare, riprovare e sbagliare ancora, mi ha dato la possibilità di spingere al massimo il materiale fino a farlo arrivare alla sua forma definitiva.

Due fratelli e una sorella, i giovanissimi protagonisti. E poi, la riflessione su “ciò che resta”, quasi una sorta di lascito: è la speranza che, attraverso rapporti umani validi – come sembra suggerirci la scena finale – sia sempre possibile ritrovare e riconquistare il tempo dell’infanzia. Cosa l’ha spinta a raccontare questa storia?

Nella storia c’è tanto del mio vissuto personale con mio fratello e più in generale del mio rapporto col “non detto” e con i sensi di colpa. La spinta che ha portato alla nascita della storia è stata molto istintiva come spesso accade quando hai poco tempo (in questo caso specifico il tempo del workshop) e si è messi con le spalle al muro senza poter stare troppo a pensarci su. In questi contesti credo che le parti più nascoste del proprio vissuto, se si è disposti ad ascoltarle, escano fuori con forza e, senza che ce ne rendiamo conto, iniziano a manifestarsi nelle opere che mettiamo in scena. A me capita spesso di capire molto tempo dopo il vero senso e la spinta motrice che ha portato la nascita di un’idea e per certi versi mi sentirei in difetto se sapessi tutto in modo esatto già all’inizio del processo, togliendomi così la possibilità di poter scoprire in corso d’opera quello che sta accadendo.

«Nell’oscurità nella quale vagavo, ho visto le ombre grigie di memorie che non sapevo di aver perduto». Sono pochi i dialoghi presenti nel film, ma emerge cuna loro autentica poeticità. Che rapporto ha con la scrittura?

Il mio rapporto con la scrittura è molto conflittuale. Di tutte le fasi che portano alla nascita di un’opera cinematografica è per me la più complessa e sofferta, anche perché è il momento in cui le possibilità sono sterminate e capire dove si sta andando diventa una sfida. In questo caso c’è stata sia una fase di scrittura strutturale preliminare (fatta più che altro di appunti sparsi poi riorganizzati), ma soprattutto una fase di scrittura post riprese, che si è mossa in parallelo alla fase di post-produzione e che è durata diversi mesi. Soprattutto come calibrare i dialoghi, il peso da dare a ogni singola parola, è stato un processo che ha richiesto molto tempo, dove da un lato l’obiettivo era quello di creare un contrappunto narrativo alle immagini e di convogliare una dimensione emotiva, dall’altro c’era anche la volontà di non attingere a un vocabolario inutilmente complesso ma di restare con la parola il più semplici e sinceri possibile. In questo senso, la straordinaria capacità di esaltare la semplicità del quotidiano di Ungaretti è stato un faro da seguire durante la fase di scrittura.

Nel 2022  lei è stato ammesso all’esclusivo CreatorsLab: “una conversazione” è il tema da sviluppare nel workshop. Ed è qui che, sotto la supervisione di Apichatpong Weerasethakul, Palma d’oro al Festival di Cannes 2010, realizza Las Memorias Perdidas de los Árboles. Quanto è stato decisivo il confronto con questo maestro del cinema contemporaneo per riuscire a raccontare in un modo così coraggioso la storia che aveva in mente?

Il rapporto con Api (così lo chiamavamo durante il workshop) è stato decisivo nel nostro sentirci liberi di raccontare quello che sentivamo. Di base durante il workshop lui non entra mai troppo nel dettaglio del progetto dando suggerimenti o consigli troppo specifici: quello che fa è molto più interessante. Riesce a creare uno spazio creativo stimolante, dove ci si sente liberi di poter condividere le proprie idee e soprattutto se stessi, liberi da ogni giudizio e privi di qualsiasi forma di competizione che si sarebbe facilmente potuta creare dato che eravamo 50 registi in totale. Eppure nulla di tutto ciò è mai accaduto proprio grazie all’enviroment “protetto” che Api riesce a creare. Ogni giorno meditavamo dalle 6 alle 7 del mattino, dopodiché si aprivano lunghe conversazioni inerenti temi specifici. In alcuni casi più che un workshop di cinema sembrava di essere immersi in una seduta di psicoterapia di gruppo. Api ci ha condotto in un viaggio fisico e spirituale, aiutandoci ad entrare in contatto con delle parti molto profonde di noi stessi, mettendo in discussione quello che il cinema può essere e guidandoci con gentilezza e curiosità verso dimensioni espressive che potessimo sentire più vicine ai nostri mondi interiori e possibilmente distanti dai nostri riferimenti cinematografici che, volenti o meno, ci influenzano in continuazione.

Non sprechiamo l’occasione delle Europee, diamo voce a chi dice no alla guerra

Pubblichiamo l’opinione dell’economista Pier Giorgio Ardeni sulle elezioni europee del 2024. È passato un anno dacché la destra postfascista è salita al governo del Paese raccogliendo quei 12 milioni di voti che già aveva ottenuto in coalizione nel 2018, sottraendoli a Lega e Forza Italia, ma la sinistra italiana pare essere ancora in stato di coma farmacologico, tra il Pd e i suoi alleati che ne hanno persi un milione e mezzo e i 5 Stelle cui ne sono andati 6 milioni in meno. Tutti elettori che, evidentemente, per non «turarsi il naso» o darli a Calenda e Renzi hanno preferito stare a casa, totalmente disillusi. Eppure, ragioni per ritrovare il senso e la direzione di marcia ce ne sarebbero, con l’Italia che va a pezzi, sfibrata, tanto più che il governo pare tirare a campare – al di là degli annunci – tra l’incompetenza del suo personale e le pulsioni revansciste e reazionarie che ne animano il cuore torbido.

Nel Pd, l’elezione alla segreteria di Elly Schlein ha risvegliato qualche passione, animando desiderata e velleità forse più all’esterno che all’interno del partito, il cui apparato è uscito sconfitto dalla partita giocata con Bonaccini. Una Schlein “movimentista” e “radicale” sembra aver risvegliato più l’appetito dei suoi detrattori a destra e nei media – dal Corriere ai fogli di Angelucci, con le tv al seguito – che nei suoi sostenitori nel partito, i quali non sembrano riuscire a fare altro che farle eco, invece di proporre riflessioni serie e approfondite sui temi sul tavolo. Che l’agenda sociale italiana sia caldissima come non mai non pare stuzzicare né l’apparato del partito né gli intellettuali “di area” che per lo più latitano. Per un partito che doveva “rifondarsi” o quanto meno “ripensarsi” le idee, le proposte politiche e le questioni poste negli ultimi mesi paiono davvero poca cosa, un intangibile cicaleccio di consistenza nulla che non fa ben sperare.

C’è stata, vivaddio, una “iniziativa” sul salario minimo, qualche presa di posizione sui migranti, sulla sanità. Ma se un partito non riesce a farsi promotore di discussione, portando i temi al centro dell’agenda, in una prospettiva che vada oltre il quotidiano, vuol dire che dietro non c’è che il nulla. Un comitato elettorale che riesce solo a vivere in funzione delle prossime elezioni, ossessionato dal posizionamento e dai tatticismi, mentre quelli che dovrebbero essere i suoi referenti nella società sono ormai lontani, usciti dall’orizzonte. A chi sta parlando il Pd di Elly Schlein se non agli stessi a cui aveva parlato fino ad oggi? Perché anche Elly Schlein, va detto, ancora non ha fatto sparire il sospetto che il giorno che tornerà al governo quel partito non riproporrà le stesse ricette che gli hanno fatto perdere negli ultimi quindici anni 5 milioni di voti.

A sinistra, liste e raggruppamenti in cerca d’autore non riescono a trovare un’identità e le lezioni della storia recente non paiono servire, né essi sembrano imparare da ciò che si fa in Francia o in Spagna. Sinistra Italiana, raccolto il minimo indispensabile per entrare in parlamento sotto l’ala del Pd, non ha riconoscibilità, così come non l’hanno i Verdi, che non riescono ad uscire dal ruolo di “testimonianza” nel quale sono intrappolati.
Unione Popolare, nata come lista tra Rifondazione comunista e Potere al popolo, dietro al portavoce Luigi De Magistris, raccogliendo appena 400mila voti, passato un anno non sembra capace di maturare e lontana pare essere la possibilità che diventi un soggetto politico serio in grado di raccogliere consensi oltre la limitata base dei militanti. Il pregiudizio identitario prevale sulla strategia politica. Per l’unico raggruppamento che si era dato una caratterizzazione in aperto contrasto con l’impostazione neo-liberista del Pd, pare non esserci altro all’orizzonte che la protesta che, però, non si traduce in azione politica. Ci sarebbero decine di questioni sulle quali Up potrebbe trovare una voce comune e concrete possibilità di trasformare il disagio in proposta, ma troppe sono le scorie puriste perché l’idea di fare fronte unitario con altri possa farsi strada. E la sua presenza nel panorama politico italiano è evanescente.

Nessuno sembra capire, a sinistra, che è ora di cambiare registro e rotta di fronte alla deriva sovranista e militarista, in cui è la destra, ora, che si fa garante dell’atlantismo. Con le elezioni europee si offre un’opportunità, favorita dal meccanismo elettorale proporzionale e dal fatto che qualunque convergenza non dovrà necessariamente avere ricadute sul piano politico nazionale. L’Italia ha bisogno di far sentire la voce degli italiani, che sono in maggioranza contrari alla guerra. Un diverso ruolo dell’Europa sullo scenario internazionale, un diverso ruolo nella Nato, un’Europa che privilegi l’equità al rigore dell’austerity, che torni ad essere «sociale». Michele Santoro e Raniero La Valle hanno scritto un appello che ha ricevuto molte adesioni, il cui obiettivo è quello di una Lista elettorale «contro la guerra ma non pacifista» rivolta ad un ampio spettro di associazioni. Potrebbe avere i numeri per “sfondare” e andare a rafforzare in Europa il fronte di chi si oppone a questa Ue bellicista e filo-americana. Santoro non sarà forse un grande leader politico, ma l’occasione parrebbe propizia. Eppure, le sinistre varie tentennano, perché, si sa, per alcuni è più importante distinguersi che fare causa comune. Così, un anno è passato e un altro passerà.

L’autore: Pier Giorgio Ardeni è professore ordinario di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna

A Roma, sabato 30 settembre (dalle ore 16) al Teatro Ghione si terrà l’Assemblea per la pace, la terra e la dignità. Info qui

Usa, il governo fa causa ad Amazon

Il 26 settembre la Federal Trade Commission (Ftc), l’agenzia del governo federale che si occupa di concorrenza, e una coalizione bipartisan di procuratori generali di 17 Stati americani hanno fatto causa ad Amazon per concorrenza sleale. L’accusa sostiene nelle 172 pagine del fascicolo della causa che il colosso fondato da Jeff Bezos (che oggi vale più di mille miliardi di dollari), di fatto goda di un regime di monopolio illegale sul settore della vendita al dettaglio online (controlla l’82% del mercato Usa), soffocando la concorrenza e distorcendo il mercato attraverso l’utilizzo di una serie di tattiche punitive e coercitive nei confronti di centinaia di migliaia di venditori. Il procedimento (frutto di un’inchiesta avviata nel 2019) costituisce il più grande attacco al gigante dell’e-commerce e uno dei più grandi mai intentati finora nei confronti delle Big Tech, che secondo la Ftc hanno eluso il controllo normativo per decenni.
La causa della Ftc contro Amazon – come simili recenti e storiche controversie antitrust contro altri giganti della tecnologia – dovrà affrontare un duro percorso perché ci vuole molta certezza prima che il governo degli Stati Uniti blocchi una società statunitense. Gran parte del pubblico, insieme a media e ricercatori, condivide la sensazione che i giganti della tecnologia come Amazon, Google, Apple, Facebook e Microsoft (seppure in competizione tra di loro) siano “troppo grandi” e potenti e dovrebbero essere contrastati e regimati. Ma questo non basta per vincere una causa antitrust: occorrono prove dettagliate secondo cui le pratiche di un’azienda hanno aumentato i prezzi per decine di milioni di consumatori, bloccato i concorrenti e soffocato l’innovazione. Spetterà ora a un giudice federale a Seattle nello Stato di Washington decidere se il caso e le prove sono abbastanza forti da stabilire che Amazon dovrebbe essere responsabile per danni o “rimedi strutturali”, come limiti alla sua condotta o addirittura ad uno smembramento in società più piccole per gestire in modo separato le proprie linee di business. Supponendo che la causa non venga respinta o abbandonata prima che raggiunga un processo, probabilmente ci vorranno diversi anni per essere portata in tribunale, il che significa che passeranno anni prima di sapere quale sarà il suo impatto. Per vincere la Ftc deve dimostrare che:

1. Amazon detiene un monopolio in mercati specifici. La causa della Ftc definisce due mercati in cui Amazon ha un “monopolio durevole”: il “mercato dei superstore online” (“the Everything Store”) che collega i venditori esterni agli acquirenti sulla piattaforma, e il “mercato dei servizi del mercato online”;
2. Amazon ha utilizzato i suoi poteri di monopolio per danneggiare consumatori e concorrenti. La Ftc espone accuse dettagliate secondo cui, ad esempio, la “condotta di esclusione anti-sconto” di Amazon aumenta artificialmente i prezzi (fissando il prezzo minimo) e le sue regole per i venditori possono “costringerli” a utilizzare i suoi servizi di evasione ordini. Amazon punirebbe le aziende che usano la sua piattaforma e che vendono altrove articoli a prezzi inferiori, abbassando il ranking dei loro prodotti sul sito. Attraverso le tattiche di Amazon, la Ftc sostiene che i venditori aumentano i prezzi su mercati online alternativi “per paura di sanzioni da parte di Amazon” o per “evitare sanzioni”.

Inoltre, Amazon costringerebbe i venditori ad utilizzare il suo costoso servizio logistico (Fulfillment-by-Amazon) per accedere ai clienti dell’abbonamento Prime (che tra le altre cose consente spedizioni più rapide). A queste due accuse principali si aggiunge anche quella secondo cui Amazon imporrebbe ai venditori delle commissioni per la pubblicità (visibilità e posizionamento) dei propri prodotti sulla piattaforma che sono particolarmente costose (la FTC afferma che molti venditori pagano quasi il 50% delle loro entrate ad Amazon quando tutte le commissioni vengono combinate). Il risultato di queste interconnesse tattiche anti-competitive (la causa include 20 addebiti) sarebbe il mantenimento di prezzi più alti per i consumatori, su Internet anche al di fuori della piattaforma di Amazon.
“Amazon è un monopolista che usa il suo potere per aumentare i prezzi per i consumatori statunitensi e per addebitare commissioni molto alte a centinaia di migliaia di altri venditori”, ha dichiarato John Newman, vicedirettore dell’ufficio concorrenza della Ftc. “Raramente nella storia del diritto antitrust statunitense una causa potrebbe beneficiare così tante persone”, ha aggiunto. Secondo la FTC, le presunte pratiche anticoncorrenziali portano a un servizio clienti degradato su Amazon, a risultati di ricerca che preferiscono i prodotti Amazon rispetto ai concorrenti e a commissioni più elevate per i venditori su Amazon.
Quella contro Amazon non è la prima né sarà l’ultima delle cause intentate contro una Big Tech. Ma a finire alla sbarra con la creatura di Jeff Bezos è un business da 1.300 miliardi di dollari che con oltre 1.2 milioni di dipendenti (non sindacalizzati) e oltre 300 magazzini/centri logistici in 45 Stati è il secondo più grande datore di lavoro privato negli Stati Uniti.
Inoltre, il procedimento è un test cruciale per l’amministrazione Biden, che punta a limitare il potere dei colossi del digitale. In queste settimane, infatti, il dipartimento di Giustizia sta seguendo un processo antitrust contro Google (per abuso di posizione dominante nella ricerca online) in corso in un tribunale di Washington, DC, mentre la FTC ha intentato una causa anche contro Meta, che possiede Instagram, Facebook e WhatsApp.
Amazon però è considerato il “pesce grosso” e al suo inseguimento l’amministrazione Biden ha nominato Lina Khan, presidente dell’organismo antitrust, nota per aver pubblicato nel 2017 un articolo intitolato Amazon’s antitrust paradox in cui sosteneva che le leggi americane non erano riuscite a frenare l’ascesa di un’azienda che aveva di fatto stabilito un monopolio illegale nel settore della vendita online, accumulando un potere incontrastato su clienti, concorrenti e fornitori. «La nostra denuncia espone come Amazon abbia utilizzato una serie di tattiche punitive e coercitive per mantenere illegalmente i suoi monopoli», afferma la Ftc in una nota secondo cui «Amazon punisce i venditori che fanno sconti pesanti rendendoli ‘effettivamente invisibili’ nei risultati di ricerca e costringendo i venditori a utilizzare la sua costosa rete logistica». «Nel complesso, questa linea di condotta auto-rafforzante blocca ogni importante via di concorrenza», afferma la denuncia. «Con il suo potere di monopolio consolidato, Amazon sta ora ottenendo profitti di monopolio senza intaccare – e anzi accrescendo – il suo potere di monopolio». Molti piccoli venditori hanno dato il loro appoggio alla causa della Ftc.

Amazon respinge tutte le accuse
È probabile che gli avvocati di Amazon metteranno in discussione ogni ipotesi, definizione e numero delle 172 pagine presentate dalla Ftc, motivo per cui i processi antitrust sono noti per la loro lunghezza e la loro mancanza di drammaticità.
«La causa dimostra che la Ftc si è allontanata dalla sua missione di proteggere i consumatori e garantire la concorrenza», ha dichiarato David Zapolsky, vicepresidente senior delle politiche pubbliche globali e consigliere generale di Amazon. «il ricorso presentato dalla Ftc è sbagliato dal punto di vista sostanziale e legale, e non vediamo l’ora di presentare le nostre argomentazioni in tribunale», ha aggiunto. «Le pratiche che la Ftc sta sfidando hanno contribuito a stimolare la concorrenza e l’innovazione nel settore della vendita al dettaglio e hanno prodotto una maggiore selezione, prezzi più bassi e velocità di consegna più rapide per i clienti Amazon e maggiori opportunità per le numerose aziende che vendono nel negozio Amazon», ha scritto Zapolsky.
Secondo Amazon, da una eventuale vittoria della Ftc nella causa deriverebbero prezzi più alti e consegne più lente per i consumatori, danneggiando le aziende, «l’opposto di ciò che la legge antitrust è progettata per fare».

Consumatori in trappola
Il commercio online dovrebbe essere un settore dinamico, ma è dominato da un’unica azienda. La Ftc ha già avuto a che fare con Amazon in passato. Nel giugno scorso ha presentato una denuncia contro l’azienda per aver ingannato e «intrappolato i consumatori» con la registrazione per l’abbonamento Prime (che raggruppa insieme molti servizi disparati nel vasto impero di Amazon, dalla spedizione allo streaming), che si rinnova automaticamente ed è difficile da cancellare (per questo caso sono stati denunciati anche tre dirigenti di Amazon).
La Ftc ha anche contestato Amazon per il mancato rispetto della privacy: nel maggio scorso l’azienda ha accettato di pagare più di $ 30 milioni per risolvere le accuse legate alle sue videocamere di sicurezza Ring e agli altoparlanti intelligenti Alexa.
Da quando ha assunto la guida della Ftc Lina Khan ha subito alcune sconfitte in tribunale. A luglio un tribunale federale ha respinto il ricorso della Ftc contro l’acquisizione del gigante dei videogiochi Activision Blizzard da parte di Microsoft, per $ 69 miliardi. In precedenza era stato respinto un ricorso contro l’acquisizione di Within, una startup di fitness per la realtà virtuale, da parte di Meta, proprietaria di Facebook.
La nuova causa è molto importante per Khan, che si è fatta conoscere in ambito accademico per aver messo in discussione l’efficacia delle leggi antitrust nell’era digitale nel suo articolo del 2017. La sua era una replica a un’opera fondamentale dello studioso conservatore Robert Bork, secondo la quale le autorità incaricate di garantire la concorrenza dovrebbero rinunciare a perseguire le aziende a meno che non sia dimostrato un chiaro rischio di aumento dei prezzi, con conseguenze negative per i consumatori. L’approccio di Bork incentrato sul «benessere del consumatore» – solitamente indicato attraverso quanto i consumatori devono pagare per i beni – è stato adottato per decenni dal governo e dai tribunali, favorendo la concentrazione delle imprese. Nelle 96 pagine del suo articolo, Khan aveva sostenuto che gli effetti dannosi delle pratiche commerciali monopolistiche di Amazon si estendono ben oltre il costo delle merci, danneggiando la concorrenza e i consumatori nei molteplici mercati che domina o in cui opera (spedizioni/logistica, cloud computing, web services, streaming, generi alimentari e sanità).
Nel giugno 2021 il presidente Joe Biden ha nominato Khan alla guida della Ftc. Lo stesso anno Amazon ha presentato un ricorso alla Ftc, chiedendo che Khan non si occupasse di questioni antitrust che riguardavano l’azienda, sostenendo che non fosse imparziale.

foto della sede di Amazon scattata da Joe Mabel, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=73808200

Italiani nostalgici in trasferta

A proposito di italiani all’estero. Due giovani di 24 anni hanno avuto la formidabile pensata di andare in Germania, fare il saluto nazista, riprendersi ovviamente con il loro cellulare e credere che le regole siano lasche come quelle italiane. Il fatto è accaduto all’Oktoberfest di Monaco di Baviera dove, come riporta il sito Tz, sono stati fermati dagli addetti alla sicurezza intorno alle 17.45 locali su uno dei viali dell’evento dopo essere stati sorpresi a fare l’Hitlergruss, il saluto nazista. 

La sicurezza ha trattenuto i due giovani per consegnarli alla polizia locale che ha denunciato i giovani italiani in trasferta per aver utilizzato simboli anticostituzionali. Poiché da quelle parti i nostalgici nazisti vengono presi tremendamente sul serio i due giovani sono stati trasferiti in custodia cautelare in attesa di incontrare il giudice che deciderà se confermare la detenzione.

I contorni della vicenda stridono con il lassismo italiano, dove negli ultimi mesi abbiamo assistito a diverse assoluzioni per lo stesso gesto e dove la politica e un certo pensiero diffuso credono che i simboli nazisti (e fascisti) siano sciocchezze da affrontare con il sorriso.

La differenza sostanziale tra l’applicazione della legge in Germania e ciò che accade qui in Italia consiste nella consapevolezza della vergogna di un periodo storico su cui no, non c’è niente da ridere. 

Anche perché se dovessimo applicare la legge tedesca dalle nostre parti il primo a poter finire sotto processo sarebbe un presidente del Senato, pensandoci bene.

Buon venerdì.

La strage nazifascista di Marzabotto e la resistenza dei partigiani di Stella Rossa

Gli eccidi perpetrati dai nazifascisti dal 29 settembre al 5 ottobre 1944 nella zona di Monte Sole, sull’appennino tosco-emiliano, nei territori degli attuali comuni di Marzabotto, Monzuno e Grizzana Morandi, furono tra i più efferati ai danni della popolazione civile. Il tragico bilancio fu di 770 morti di cui 217 bambini, 132 anziani e 392 donne. Claudio Bolognini, autore del romanzo partigiano Stella Rossa (Red Star Press, 2023), ricostruisce per Left quei giorni drammatici.

Settembre 1944, Appennino tosco-emiliano.
La Quinta Armata americana e l’Ottava Armata britannica premono sulla Linea Gotica. Il sistema difensivo tedesco pare abbia i giorni contati. Gli Alleati sono giunti a una manciata di chilometri dalla zona di Monte Sole, dove è asserragliata la brigata partigiana Stella Rossa. I partigiani possono scorgere con il cannocchiale le truppe alleate, ma in mezzo ci sono i tedeschi.
In un’area a sud-ovest di Bologna si è acquartierata la 16ª Divisione “Reichsführer-SS”. La Divisione è costituita da truppe responsabili di stragi di ebrei in Unione Sovietica e unità adibite alla sorveglianza nei campi di concentramento. Nella notte tra il 28 e il 29 settembre, il maggiore delle Waffen-SS Walter Reder raduna il suo battaglione esplorante nei pressi della valle del Setta. Il piano d’attacco viene illustrato dal maggiore Helmut Loos, del servizio spionaggio e controspionaggio delle SS. La missione consiste in un’operazione di rastrellamento e annientamento di partigiani e civili.
La popolazione è fuggita dalla vallata rifugiandosi sulle colline per timore di violenze da parte dei tedeschi in ritirata. Sono soprattutto vecchi, donne e bambini, e pensano che la loro manifesta debolezza li protegga naturalmente. E poi sulle alture ci sono i partigiani della Stella Rossa e si sentono protetti. Conoscono bene gli uomini della brigata, sono quasi tutti del posto e tra loro ci sono figli, fratelli, padri, mariti, fidanzati, amici e compagni di scuola.
Le quattro compagnie del battaglione di Reder si dislocano lungo il torrente Setta per iniziare la manovra di accerchiamento. Il maggiore Reder ha avuto l’incarico dal generale Max Simon, comandante supremo della 16ª Divisione “Reichsführer-SS”. Il generale Simon aveva già ordinato stragi di civili in Toscana, la più cruenta a Sant’Anna di Stazzema.
La brigata Stella Rossa, capeggiata dal comandante Lupo (Mario Musolesi), combatte con tenacia i nazifascisti e compie azioni di sabotaggio alle vie di comunicazione. L’ordine che giunge dal comando tedesco recita: “La resistenza partigiana deve essere infranta senza riguardo ai civili”.

La strage
Il battaglione esplorante di Reder deve attaccare da est verso occidente, inoltrandosi verso Monte Termine e Monte Sole. È stato attrezzato un treno corrazzato per cannoneggiare la zona e proteggere l’operazione.
Le truppe si spostano in silenzio oltre la strada principale in Val di Setta. Reder resta al casolare del comando per dirigere via radio le operazioni. Gli uomini incaricati del rastrellamento hanno mappe aggiornate e, con l’aiuto di spie fasciste, individuano ogni sentiero e casolare.
Il comandante Lupo e il vicecomandante Gianni (Giovanni Rossi) sono con altri partigiani nel vicino casolare di Cadotto. Tutti credono che i tedeschi si stiano preparando alla ritirata, ma la rete di informatori dei partigiani si è sfaldata e nessuno comunica loro i movimenti delle truppe.
Alle ore 6 del mattino di venerdì 29 settembre 1944, le quattro compagnie di Walter Reder si mettono in marcia.
Il massacro ha inizio.
Cadotto viene attaccato, il comandante Lupo ucciso, il vicecomandante Gianni ferito e i civili trucidati. Senza la guida del Lupo la brigata Stella Rossa è allo sbando. I pochi partigiani che rimangono sul terreno di battaglia sono costretti a ritirarsi: troppa differenza di uomini, mezzi e armamenti. La brigata ha solo armi leggere e vecchi moschetti con poche pallottole, non ha più ricevuto armi e munizioni dagli Alleati e non possono far altro che ripiegare.
Il massacro continua.
La popolazione atterrita cerca di salvarsi dalla violenza delle SS. Fugge terrorizzata dai casolari in fiamme e cerca rifugio nelle chiese. Vengono però profanati anche i luoghi sacri. Nella sola chiesa di Cerpiano, quarantaquattro persone indifese, in maggioranza donne e bambini, trovano morte nella cappella. Non vengono risparmiati nemmeno i preti. Don Marchioni viene fucilato ai piedi dell’altare della chiesa di Casaglia e i fedeli massacrati nell’adiacente cimitero. Decine di civili vengono sterminati senza pietà davanti alla chiesa di San Martino. Don Casagrande viene ammazzato insieme alla sorella. Don Giovanni Fornasini viene ucciso dalle SS dietro il cimitero di S. Martino mentre cerca di dare sepoltura a dei cadaveri martoriati.
Al termine di quei terribili giorni non c’è più vita in tutta la zona. I pochi superstiti, feriti e affamati, vagano nei rifugi di fortuna e nei boschi. Case, scuole, chiese, cimiteri e poderi sono distrutti. Ogni paese, frazione, borgo o casolare conta i suoi morti. Vengono trucidati persino donne incinte e anziani inabili. Centinaia di corpi giacciono insepolti e davanti alle stalle agonizzano animali squartati. I campi e i sentieri sono minati, molti cadaveri sono imbottiti di esplosivo e qualcuno è saltato in aria cercando di seppellire i corpi. Per fare la conta dei morti, non riuscendo a ritrovare tutti i cadaveri, si esaminano gli elenchi dell’anagrafe per un raffronto con i sopravvissuti.
La più grande strage nazifascista in Italia si è consumata in 115 luoghi diversi nei territori dei comuni di Marzabotto, Monzuno e Grizzana. Il bilancio finale dell’eccidio è di 770 vittime di cui 217 bambini, 132 anziani e 392 donne.
Una comunità intera è stata distrutta, e con essa un’antica cultura.
L’eccidio di Monte Sole si rivela un massacro pianificato. Una strategia ben collaudata dai nazisti in Italia. Lo scopo evidente è terrorizzare la popolazione civile per stroncare il sostegno attivo alla Resistenza.

I processi
Nel 1946 i primi processi vedono la condanna di due fascisti coinvolti nella strage (Lorenzo Mingardi e Giovanni Quadri). Il primo con la pena di morte, poi commutata in ergastolo. Il secondo con 30 anni, poi ridotti a dieci e otto mesi. Entrambi vengono in seguito liberati per amnistia.
Nel 1947 viene processato il feldmaresciallo Albert Kesselring (comandante supremo di tutte le forze tedesche in Italia) e condannato a morte, sentenza trasformata poi in ergastolo. Viene rilasciato nel 1952 senza aver mai rinnegato la sua lealtà a Adolf Hitler.
Il generale Max Simon viene processato a Padova e condannato a morte, sentenza poi commutata con il carcere e trasferito in Germania per scontarvi la pena. Viene liberato nel 1954.
Nel 1951 il maggiore Walter Reder viene condannato all’ergastolo con sentenza confermata nel marzo del 1954. Nel 1964 Reder si appella al sindaco di Marzabotto per ottenere il perdono dei sopravvissuti e ottenere la libertà. La comunità si esprime con un referendum: 288 votanti, 282 voti contrari al perdono, 4 a favore, una scheda bianca e una nulla. Un altro referendum nel 1984 ribadisce la contrarietà al perdono. Nel 1985 il governo Craxi decide la liberazione e lo rimpatria in Austria. Nel gennaio 1986, Reder dichiara al settimanale Die ganze Woche: «Non ho bisogno di giustificarmi di niente» e ritratta la richiesta di perdono del 1964.
Il maggiore Helmut Loos non viene mai ricercato e muore di vecchiaia a Brema il 19 agosto del 1988.

L’armadio della vergogna
Nel 1994 vengono rinvenuti 695 fascicoli presso la Corte militare d’appello di Roma. Recano il timbro ARCHIVIAZIONE PROVVISORIA, ma la data è del 14 gennaio 1960. I fascicoli sono nascosti in un armadio girato verso il muro, da allora denominato Armadio della vergogna. I documenti contengono notizie di ufficiali delle SS responsabili di crimini di guerra. Il ritrovamento permette un nuovo processo contro 17 imputati della 16ª Divisione “Reichsführer-SS”. Si può così giudicare chi ha compiuto attivamente e con consapevole adesione l’eccidio. Il processo vede le vibranti e commoventi testimonianze di alcuni sopravvissuti e parenti delle vittime del massacro.
Il 13 gennaio 2007 il Tribunale Militare di La Spezia ha condannato all’ergastolo dieci imputati per l’eccidio di Monte Sole.

Nella foto (dal libro di Claudio Bolognini Stella rossa, Red Press Star), i partigiani della Brigata Stella Rossa nella zona di Monte Sole. Da sinistra a destra, Adriano Lipparini, Pierino Bolognesi, Gino Gamberini, Rino Cristiani, Giuseppe “Pippo” Venturi e Sergio Beccucci

 

IL ROMANZO STELLA ROSSA

Claudio Bolognini, bolognese, autore di diversi libri dedicati a momenti conflittuali della storia politica e sociale italiana (tra cui uno con Fabrizio Fabbri sulla strage di Reggio Emilia del 1960), ha scritto Stella Rossa ispirandosi alla storia vera della leggendaria brigata partigiana che tenne in scacco i nazifascisti sull’Appennino tosco-emiliano. Uno dei protagonisti del libro, scandito da un ritmo concitato che ben restituisce il clima di quei giorni, è Paolo, un ragazzo finito in prigione per reati comuni e che viene liberato dai partigiani il 9 agosto 1944 dal carcere di San Giovanni in Monte insieme ai loro compagni di resistenza. Attraverso lo sguardo di Paolo, che per la prima volta viene a contatto con i partigiani e i loro ideali, si dipana la storia di Stella Rossa. Uomini e donne, storie d’amore di morte, tra i casolari sperduti sull’Appennino e la minaccia dei nazisti affiancati dalle odiose spie repubblichine. Il libro Stella rossa sarà presentato il 5 ottobre (ore 18) alla Casa della conoscenza di Casalecchio di Reno (Via Porrettana 360). Con l’autore dialogherà il giornalista Giorgio Tonelli (red).

Propaganda, autoritarismo e false promesse: dietro la maschera di Giorgia Meloni

Nella vita di ogni politico, ma vale per ogni umano, c’è un momento in cui si incrocia la sorte intesa non come destino, fato, fortuna o sfortuna. Sorte intesa in maniera laica: un insieme di circostanze che, per chi si dedica all’arte più controversa della storia, la politica appunto, è legata al proprio partito e a fattori sociali, economici, culturali. E anche al carattere. Nel caso di Giorgia Meloni è il caso sottolineare la coincidenza della scomparsa di Giorgio Napolitano che nel 2011 spinse Silvio Berlusconi alle dimissioni per insidiare un governo tecnico guidato da Mario Monti. I dieci anni di austerità che seguirono hanno fatto esplodere il fenomeno del populismo, in versione 5 Stelle e leghista, e del sovranismo. È stato il trionfo delle promesse roboanti e ingannatrici, un falò delle vanità che ha trascinato un pezzo importante di opinione pubblica a votare in maniera schizofrenica.

All’inizio Fratelli d’Italia rimane in un angolo a mangiare la polvere, ma ciò consente a Meloni di costruire attorno alla sua figura la narrazione dell’urderdog: una donna che urla di essere madre e cristiana, che rimane all’opposizione mentre il Cavaliere  vota la fiducia a Monti considerato da lei il terminale delle “consorterie europee” e di una sorte di golpe orchestrato da Francia e Germania. Il centrodestra si divide, un pezzo importante del suo elettorato vota il Pd di Matteo Renzi e Matteo Salvini nel 2018 commette l’errore di imbarcarsi in una maggioranza con i grillini, lasciando all’urderdog il monopolio dell’opposizione. La grancassa sovranista, in Italia e in Europa fino agli Stati Uniti, fa il resto, aumentando il volume delle promesse. Meloni in particolare lancia, tra le tante, la bufala del blocco navale mentre arrivano migliaia di migranti sulle nostre coste mettendo in crisi gli esecutivi di centrosinistra. Agita la bandiera securitaria, che fa sempre presa sugli elettori di destra, quella identitaria della stirpe italica. Capisce che è il momento di riprendersi i voti che furono dell’Msi e di Alleanza nazionale, che Salvini aveva cannibalizzato. Comprende che deve affondare il coltello nell’elettorato di Berlusconi ormai in piena fase di decadenza politica e biologica.

In sostanza quel 26 per cento ottenuto di Fratelli d’Italia il 25 settembre dello scorso anno ha cambiato la fisionomia del centrodestra. Oggi è una destra che domina la politica italiana con il moncherino di un pallido centro guidato da Antonio Tajani, senza il carisma del fondatore di Forza Italia. Così l’underdog entra nelle stanze dei bottoni dal portone principale di Palazzo Chigi, la prima donna premier che avrebbe dovuto mantenere le promesse elettorali. E qui arriva all’appuntamento con la sorte, anzi con il contrappasso della storia, con il fenomeno dell’immigrazione. Le navi militari non sono uscite dai porti per formare una muraglia di acciaio davanti alle coste tunisine e libiche. Ma era chiaro che si trattava di una soluzione impossibile, anche se ora viene declinata come una nuova operazione Sophia, quindi europea e con il consenso dei Paesi da cui partono i migranti. Per dirla con un linguaggio caro a Meloni: “Ciao core”. Per inciso, l’operazione Sophia è stata smantellata quando nel primo governo Conte il ministro dell’Interno era Salvini.
La nemesi poi ha voluto che l’Europa, prima matrigna, ora è diventata essenziale per “blindare” i confini esterni e siglare accordi con alcuni piccoli dittatori maghrebini, in cambio di soldi e senza garanzie sui diritti umani. Bruxelles, che nella propaganda sovranista era additata come la capitale dei mondialismi liberali, aguzzini dei popoli, adesso ha il volto di Ursula von der Leyen diventata amica di Meloni. I loro rapporti sono talmente stretti che la premier la vorrebbe di nuovo alla presidenza della Commissione Ue dopo le elezioni europee del 2024. Con un’incognita terribile per la sorte meloniana. Cosa succederà se dalle urne europee, come è molto probabile, non uscirà una maggioranza alternativa ai Socialisti? La premier spera di portare a Strasburgo tanti eurodeputati Conservatori, insieme ai polacchi. Una dote parlamentare tale da essere autosufficiente al gestire il nuovo potere di Bruxelles con i Popolari di Manfred Weber e Ursula von der Leyen.
Mancano nove mesi al voto, ma non sembra possibile mandare all’opposizione i Socialisti, il governo socialdemocratico tedesco, quello socialista di Sanchez nonché i liberali di Macron. Quindi, Meloni dovrà decidere se rimanere lei fuori dalla nuova maggioranza Ursula o sedersi attorno al tavolo con gli acerrimi nemici di sinistra che in questi giorni vengono indicati da Roma come coloro che complottano contro gli interessi italiani.
Ecco, questo è uno di quei bivi in cui la leader di Fratelli d’Italia si giocherà tutte le sue fiches. Non a caso Salvini, che non vede l’ora di riprendersi tutti i voti che gli ha sfilato sotto il naso l’underdog, la sta incalzando proponendogli il patto anti-inciucio (mai con i socialisti). Lo stesso patto che lui nel 2018 si rifiutò di siglare a Roma.

Ecco, dopo un anno di governo, per Meloni è arrivato il momento di far capire chi sia veramente o vorrà essere. Non basta, anzi non serve, a mio avviso, continuare a dire che lei è fascista, che il suo stretto giro viene dai consanguinei, parenti, dal Fronte della Gioventù, da Colle Oppio o dalla Garbatella. Per lei sono medaglie al petto che rinsaldano radici e un pezzo di elettorato di destra. Non è sufficiente constatare che è nemica del mondo Lgbt, ha introdotto nella normativa italiana l’incredibile reato universale sulla maternità surrogata, sta tentando di sostituire l’esangue e tramontata egemonia culturale di sinistra con una improbabile egemonia di destra.

Molto più interessante per capire come girano le cose è analizzare le sue metamorfosi.
La premier è schierata con l’elmetto in testa al fianco dell’Ucraina e degli Stati Uniti. Va a Washington ed esce dalla Sala Ovale della Casa Bianca promettendo di stracciare il memorandum sulla Via della Seta (come poi ha fatto) e con l’eco delle parole di Joe Biden che dice alla stampa «io e Giorgia siamo diventati amici». La stessa Giorgia che presto dovrà dire se è ancora una grande fan di Donald Trump nella prossima campagna elettorale americana, se si sente ancora dalla parte dei Repubblicani che vorrebbero tagliare l’arsenale di Zelensky. Le metamorfosi rispetto all’Europa le abbiamo citate e siamo solo all’inizio. Quella sui conti pubblici è in queste ore sotto gli occhi di tutti. Pochissimi risorse che costringono il ministro dell’Economia Giorgetti a scrivere la prossima manovra finanziaria come facevano i tecnici delle “consorterie europee” e i vari premier del Pd durante i “favolosi” anni dell’opposizione meloniana: prudente, sobria, con venature forti di austerità, in sintonia con Bruxelles. Niente flat tax, cancellazione della riforma Fornero, ponte sullo Stretto e promesse elettorali varie. Tutto in stand by. Ma certo, dicono in coro nella maggioranza, abbiamo ancora quattro anni di legislatura. Di più, di più, assicura Salvini di cui fidarsi è meglio di no: “cinque più cinque”, minaccia il leghista, immaginando due legislature.

Metamorfosi Giorgia è il titolo del mio libro in uscita in questi giorni (il 28 settembre per i tipi de Linkiesta), un anno di governo Meloni. Un anno sul filo della dicotomia irredimibile, una sorta di schizofrenia politica. La premier pretende di tenere insieme tutto il suo passato di destra radicale e identitaria e le forche caudine di chi deve governare un Paese del G7. È l’acrobazia di rimanere sovranista-patriottica e allo stesso tempo praticare la consapevolezza che solo con il sovranismo europeo una piccola Patria come la nostra può affrontare i giganti della geopolitica, essere autonoma dal punto di vista energetico, sopravvivere all’impetuosa rivoluzione tecnologica in cui siamo immersi e rischiano di annegare milioni di lavoratori.
Non è certamente la ridotta di una destra nazionalista che può fare gli interessi del Paese. Per questo Meloni dovrà uscire dalla confort zone delle metamorfosi e magari accettare di avere avversari a destra, come Salvini. Del resto, lei è la vera erede di Berlusconi e di quell’elettorato che nel mio libro chiamo i “patrioti interessati” ovvero quell’elettorato interessato alla pura convenienza economica, all’abbassamento delle tasse, alle sanatorie, alle rottamazioni e ai condoni. Intendiamoci, è un elettorato trasversale, ma in passato il fondatore di Mediaset lo ha interpretato e rappresento nel migliore dei modi, assicurando al suo partito percentuali stabilmente attorno al 30 per cento. La stessa cosa sta succedendo a Fratelli d’Italia. È una banale constatazione ricordare che i voti di quelli che votavano MSI e An non hanno mai superato il 10 per cento. Ora il partito di Meloni rimane ancorato alle percentuali che avevano una volta Forza Italia e la Lega fino ad alcuni anni fa. Fino a quando durerà la luna di miele?
Dall’opposizione non sembrano venire pericoli per questa destra che ha portato al governo una classe dirigente modesta e non sta mantenendo le promesse elettorali. Come era prevedibile. Il punto è se l’elettorato che unisce “patrioti umorali” e quelli “interessati” comincerà ad essere deluso. Ricordiamoci che in quegli ultimi lustri gli italiani si sono ciclicamente innamoratI e disinnamorati di vari “masanielli”, saltando come cavallette da un partito all’altro, da un populista a un altro che gridava più forte.
Non credo che la pallina della roulette si sia fermata. Magari per un po’ sì, ma potrebbe ricominciare a girare alle europee. È possibile che ci sia un’autocombustione nella maggioranza: pensate cosa potrebbe succedere se Meloni si accodasse alla tavola di una nuova maggioranza Ursula, insieme ai Socialisti, mentre Salvini passeggia sconsolato davanti a Palazzo Berlaymont a braccetto di madame Le Pen.
È un film tutto da vedere e potremmo anche divertici e mangiare pop corn, se non fosse che non c’è nulla di divertente. Sono in ballo, e non è retorico dirlo, non solo la sorte politica di un pugno di leader politici, ma quella di tutti noi, del Paese, di chi ogni giorno deve fare i conti con i pochi soldi in tasca, con il lavoro precario e sottopagato, con un titolo di studio da buttare nel cestino. E non si può nemmeno permettere il lusso di evadere o elude le tasse.


L’ipocrisia (ancora) su Giulio Regeni

L’Egitto non può impedire che l’Italia processi gli imputati per il sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni, e il giudizio nei loro confronti potrà celebrarsi anche in loro assenza. Lo ha stabilito la Corte costituzionale che ha annunciato oggi la sua decisione.

La Consulta ha raccolto la richiesta avanzata dalla Procura di Roma per sbloccare il processo contro quattro appartenenti alle forze di sicurezza della Repubblica araba d’Egitto: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Mohamed Athar Kamel e Helmy Uhsam, il maggiore Magdi Ibrahim Sharif. Sono accusati di aver rapito al Cairo, la sera del 25 gennaio 2016, il ricercatore italiano Giulio Regeni, ritrovato cadavere lungo la strada per Alessandria il 3 febbraio successivo. Il maggiore Sharif è accusato anche delle percorse e dell’omicidio di Giulio.

Il processo si è incagliato per la reticenza dell’Egtto e del suo presidente al Sisi. Verrebbe da pensare che un atteggiamento del genere da parte delle autorità egiziane abbia fatto perdere la pazienza anche alla politica, soprattutto con un governo che si professa sovranista, in difesa “della Patria” e occupato a fare ottenere giustizia “prima agli italiani”.

Niente di tutto questo. Alice Franchini, responsabile campagne di EgyptWide, ieri ci ha fatto sapere che «l’export di armi italiane all’Egitto non solo non si è ridotto, come qualcuno sostiene, ma dal 2018 osserviamo un trend di crescita costante»: il volume è passato dai 35 milioni di euro del 2021 ai 72 milioni del 2022. Praticamente il doppio.

Buon giovedì. 

foto del Comune di Torino – Comune di Torino, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=48032436

Guai a criticare la politica di Israele riguardo alla Palestina, si è accusati di antisemitismo

Il 13 settembre la British society for Middle Eastern studies (Brismes) e lo European legal support center (Elcs), organizzazione che offre consulenze legali gratuite e assistenza a individui e gruppi impegnati nella difesa dei diritti dei palestinesi in Europa e nel Regno Unito, hanno reso pubblico un rapporto dedicato alla libertà accademica e libertà di parola nelle università britanniche. Nel documento mettono in evidenza quello che chiamano l’adverse impact della definizione di antisemitismo della International holocaust remembrance alliance (Ihra) su questi diritti fondamentali. La definizione, queste le conclusioni dell’analisi, viene utilizzata sia da singoli individui sia da gruppi di pressione interni ed esterni alle università come un’arma per silenziare, censurare, frenare sul nascere discussioni che partano da posizioni critiche del sionismo e di Israele. Per questo costituirebbe una vera e propria minaccia alla missione di ricerca e formazione delle istituzioni universitarie e, impedendo un dibattito libero sulla situazione in Israele/Palestina, finirebbe per confondere le acque e ostacolare anche la lotta all’antisemitismo. L’accusa è grave, ma non nuova. Proviamo a fare un po’ di chiarezza sui termini della questione.

La definizione messa a punto dall’Ihra nel 2016 è formata da un testo base che descrive l’antisemitismo come «una certa percezione degli ebrei, che può essere espressa come odio verso gli ebrei» (traduzione mia). Nella sua vaghezza, il testo intende aiutare a isolare aggressioni verbali e fisiche dirette a ebrei e motivate dal solo fatto che i bersagli sono – o sono ritenuti – ebraici. L’operazione non è sempre semplice, e si complica in modo evidente quando nel quadro si inseriscono il sionismo e Israele.

Tornando alla definizione Ihra, il testo base è seguito da 11 esempi, di cui 7 si occupano proprio di Israele. È antisemita – ci viene detto – negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, ad esempio sostenendo che lo Stato di Israele persegue politiche ispirate a principi razzisti. Ugualmente antisemita sarebbe applicare a Israele uno standard più severo rispetto a quello usato nel giudicare le azioni di altre democrazie. All’apparenza si tratta di frasi di buon senso, ma in realtà finiscono per legittimare l’attuale configurazione di Israele come unico possibile sbocco del diritto all’autodeterminazione ebraica e per etichettare come antisemita uno spettro molto ampio di critiche. Sulla base di questi esempi sono stati accusati di antisemitismo i sostenitori del movimento Boycott, divestment, sanctions (Bds), la relatrice speciale dell’Onu per i Territori palestinesi occupati Francesca Albanese, Amnesty International per avere accusato Israele di aver instaurato un regime di apartheid, e la lista sarebbe lunga. (Quasi) ogni difesa dei diritti dei palestinesi rischia di incorrere in un’accusa di antisemitismo.

La definizione Ihra è stata adottata da 43 Paesi compresa l’Italia (seduta del Consiglio dei ministri del 17 gennaio 2020) ed è sostenuta dal Parlamento europeo. La sua potenziale adozione da parte dell’Onu è oggetto di un acceso dibattito. In Italia la definizione è il perno della Strategia nazionale di lotta all’antisemitismo elaborata dal gruppo di lavoro presieduto dall’allora coordinatrice nazionale Milena Santerini – poi sostituita dal prefetto Giuseppe Pecoraro – e delle Linee guida sul contrasto all’antisemitismo nella scuola (2021) del ministero dell’Istruzione.

Il governo britannico ha adottato ufficialmente la definizione nel dicembre 2016 e nell’ottobre 2020 l’allora Education secretary Gavin Williamson ha ingiunto alle università di fare lo stesso entro il Natale di quell’anno pena la minaccia di un taglio ai finanziamenti. La posizione di Williamson ha generato immediate proteste da parte di specialisti di Jewish e Middle Eastern studies ma anche da parte di giuristi, che hanno denunciato l’incompatibilità fra l’adozione della definizione Ihra, la Dichiarazione universale dei diritti umani e lo Human rights act britannico (lettera pubblicata sul Guardian del 7 gennaio 2021).
La definizione non è giuridicamente vincolante – non ha quindi forza di legge -, ma questo status giuridico indeterminato non vuol dire che non sia influente.

Queste premesse sono fondamentali per capire meglio il rapporto Brismes/Elcs e le sue conclusioni. Il report analizza 40 casi denunciati a Elcs nel periodo compreso fra 2017 e 2022. Di questi, 24 riguardano docenti, 9 studenti e 7 associazioni studentesche. A parte due casi in cui non è stata ancora raggiunta una decisione definitiva, le accuse di antisemitismo sono state ritenute prive di fondamento al termine dei procedimenti disciplinari. Premesso che l’antisemitismo è un problema reale, grave e presente nel Regno Unito (così come in Italia), e che è urgente individuare modalità di contrasto efficaci, cosa ci insegna, che problemi ci segnala questo testo?

Punterei il dito su almeno due aspetti. Da un lato abbiamo la pretestuosità delle accuse portate nei casi analizzati. I procedimenti disciplinari non hanno portato a sanzioni, nonostante le accuse fossero state prese molto seriamente dalle istituzioni coinvolte. Dall’altro, il rapporto rileva – anche attraverso una serie di interviste – come il clima creato dalle accuse di antisemitismo abbia compromesso seriamente la possibilità di affrontare, in sede di ricerca ma forse ancor più di didattica, una serie di temi scomodi come la natura delle azioni israeliane nei territori occupati, la legittimità dell’occupazione, i diritti (negati) ai palestinesi e via dicendo. Questo clima non favorisce la costruzione di un rapporto di fiducia fra colleghi e fra docenti e studenti, ed esiste un rischio molto concreto di ricorso all’autocensura preventiva. Perché emergano ostacoli alla libertà di parola e di insegnamento non occorre che si verifichino casi eclatanti di licenziamenti o sanzioni (che peraltro sono avvenuti negli Usa); basta che si sia indirettamente costretti a evitare determinati argomenti, mentre la missione delle università dovrebbe essere quella di incoraggiare il pensiero critico e offrire strumenti complessi per affrontare argomenti divisivi. Proprio per questo lo stesso estensore della definizione Ihra, Kenneth Stern, si è a più riprese espresso contro l’adozione del testo da parte delle università.
Brismes e Elcs raccomandano che il governo britannico ritiri la sua ingiunzione ad adottare la definizione, e che le università britanniche non adottino il testo o non lo utilizzino se già adottato.

Personalmente concordo in pieno con queste conclusioni e con la lettura proposta dal rapporto, anche sulla base della mia esperienza personale. Fra il 2014 e il 2020 ho insegnato allo University college London e ho assistito – e partecipato – al dibattito suscitato dall’adozione della definizione Ihra da parte dell’università nel 2019. Quello che ho visto e ascoltato conferma l’uso fazioso che può essere fatto di questo strumento, e la sua inefficacia nel combattere gli episodi – purtroppo presenti – di antisemitismo. Nel caso di Ucl l’Academic board ha finito con il raccomandare non la rinuncia alla definizione Ihra ma l’adozione contestuale di altre definizioni per certi versi contrapposte, fra cui la Jerusalem declaration on antisemitism (Jda), da utilizzare congiuntamente allo scopo di stimolare il dibattito. Il Council, organismo direttivo dell’università composto prevalentemente da non accademici, ha ritenuto di non seguire questa raccomandazione e di mantenere il testo Ihra (marzo 2023).
La pubblicazione del rapporto Brismes/Elcs rende evidente l’urgenza di un confronto sulla situazione italiana, non solo nelle università ma anche nel mondo della scuola.

L’autrice: Carlotta Ferrara Degli Uberti è docente dell’Università di Pisa

Nella foto: Un checkpoint nei Territori occupati 

Nota di redazione: questo articolo è pubblicato anche ne La strage dei bambini, raccolta di articoli pubblicati su Left. L’autrice Carlotta Ferrara Degli Uberti ci ha comunicato la sua non condivisione e presa di distanza dal progetto, riguardo al titolo, alla copertina che riporta disegnata una bandiera di Gaza e all’impianto «politico» del fascicolo

La fine della pace

La guerra, lo sappiamo tutti, è scoppiata quando le armi hanno iniziato ad intonare il loro lugubre canto, il 24 febbraio 2022. Nessuna guerra scoppia all’improvviso come un fulmine a ciel sereno. Specialmente questa guerra che è stata preceduta da una lunga incubazione e da un conflitto odioso che si trascinava dal 2014. Se la guerra è iniziata il 24 febbraio, la pace ha cominciato ad estinguersi molto tempo prima. Noi sappiamo quando inizia la guerra, ma dobbiamo chiederci – come fa Cassandra di Christa Wolf – quando è iniziata la vigilia della guerra?
Quando ha iniziato ad oscurarsi quell’orizzonte luminoso, balenato con la demolizione del muro di Berlino e lo smantellamento dello strumentario della guerra fredda?
Il processo di degradazione delle relazioni internazionali e di costruzione del nemico di norma avviene per fasi, però ci sono dei passaggi salienti. Le vere scelte che cambiano il clima geopolitico del 1989 vengono effettuate nel corso del 1997 dall’amministrazione Clinton che, stracciando gli impegni assunti con Gorbaciov, decide di estendere la Nato ad est, cominciando ad inglobare Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. Si trattava della scelta politicamente più impegnativa che sia stata fatta dall’amministrazione Usa, dopo quella del contenimento dell’Urss, che ha dato origine alla prima guerra fredda. Contro questa scelta insorsero proprio coloro che la guerra fredda l’avevano teorizzata e praticata. In un articolo sul New York Times del 7 febbraio 1997 il diplomatico americano George Kennan, uno dei teorici della guerra fredda, lanciò un grido d’allarme, osservando:
«La decisione di espandere la Nato sarebbe il più grave errore dell’epoca del dopo guerra fredda. Una simile decisione avrebbe l’effetto di infiammare le tendenze nazionalistiche antioccidentali e militariste nell’opinione pubblica russa, pregiudicherebbe lo sviluppo della democrazia in Russia, restaurerebbe l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni est ovest, spingerebbe la politica estera russa in direzioni a noi decisamente non favorevoli».
Se vogliamo individuare una circostanza precisa in cui è stato formalmente deciso di avviare la costruzione del nemico, identificando la Russia, non più come un partner con il quale collaborare ma come un avversario da stringere d’assedio, questa è il summit che si svolse a Madrid l’8 e il 9 luglio 1997, dove la Nato assunse la decisione di estendersi ad est, cominciando ad includere Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, che furono formalmente ammesse nel 1999.
È dal 9 luglio 1997 che si è verificata la svolta nella storia: è stato programmato l’avvio di una nuova guerra fredda. Una guerra fredda di cui l’opinione pubblica è stata tenuta rigorosamente all’oscuro. Infatti nessun dibattito politico è stato aperto sulla scelta di allargamento della Nato che è passata, senza ostacoli o ripensamenti, come se fosse un’operazione banale, non degna di nota. All’epoca non si poteva prevedere la guerra che sarebbe scoppiata 25 anni dopo, però non era difficile comprendere che la nuova guerra fredda che si stava impiantando sarebbe stata molto più pericolosa della prima perché avrebbe attizzato derive nazionalistiche molto più irrazionali del confronto ideologico che animava, ma frenava anche, la prima guerra fredda. Tuttavia, una scelta, così densa di incognite, è passata inosservata, la politica si è voltata dall’altra parte e nessuno si è accorto che si stava impiantando nel cuore dell’Europa una nuova cortina di ferro.
Il passo successivo è stato quello di cambiare la missione della Nato, che ha “superato” la sua natura di patto difensivo e si è trasformata in un formidabile strumento militare del tutto svincolato dal rispetto della Carta dell’Onu. Questa nuova missione è stata sperimentata con l’aggressione alla Jugoslavia: settantotto giorni di bombardamenti ininterrotti, volti a smembrare l’integrità territoriale della Jugoslavia con la separazione del Kosovo. Nel summit per il cinquantenario della Nato a Washington il 23 e 24 aprile 1999, la Nato legittimava questo suo nuovo volto, dichiarandosi competente a compiere operazioni militari al di fuori dell’art. 5 del Patto Atlantico, cioè si riappropriava del diritto di guerra. Nel disinteresse generale è proseguita l’espansione della Nato ad est, che ha inglobato nel 2004 anche quelle Repubbliche che una volta facevano parte dell’Unione Sovietica (Estonia, Lettonia e Lituania). L’allargamento della Nato ha comportato il dispiegamento di un dispositivo militare ostile ai confini della Russia e come tale è stato percepito.
Un ulteriore passo che ha aggravato la tensione è stato il ritiro degli Usa dal Trattato Abm. A seguito di ciò gli Stati Uniti hanno impiantato una base Abm in Polonia e in Romania. Il sistema Abm utilizza lanciamissili “Aegis”, che possono utilizzare diverse varietà di missili fra cui il missile da crociera con testata nucleare Tomahawk, con una gittata di 2.400 km.
Nel 2008, da un dispaccio dell’ex ambasciatore USA a Mosca, Burns, pubblicato da Wikileaks, intitolato “Niet significa niet” emergeva che non solo Putin, ma l’intera classe politica russa era assolutamente contraria all’allargamento della Nato a Est.
È  tuttavia, proprio nel 2008, la Nato lanciava un altro guanto di sfida alla Russia. Nel summit svoltosi a Bucarest il 2 aprile 2008, il Consiglio atlantico stabiliva il “principio della porta aperta” per l’ingresso di Ucraina e Georgia nella Nato.

Gli eventi politici successivi, con il golpe di Maidan del 2014, hanno comportato la definitiva inclusione dell’Ucraina nella sfera d’influenza degli USA e l’esplosione di un gravissimo conflitto politico fra la Russia e l’Ucraina, collegato all’annessione della Crimea alla Federazione russa ed alla secessione del Donbass, che ha dato luogo ad una sanguinosa guerra civile che gli accordi di Minsk non sono riusciti ad arginare.
Attraverso questo lungo percorso nell’orizzonte internazionale la Pace si è progressivamente degradata, è cresciuta l’ostilità fra l’Occidente e la Russia, di pari passo con l’accresciuta minaccia militare.
Siamo così arrivati alla vigilia dello scoppio della guerra. Nell’inverno del 2021, la pressione militare della Russia nei confronti dell’Ucraina si era fortemente accresciuta, dal canto suo la Nato aveva rafforzato il suo dispositivo militare e aveva mostrato i muscoli con diverse esercitazioni militari. In particolare in Estonia, nel 2020 aveva condotto un esercitazione a fuoco vivo a 110 km del confine russo e sempre in Estonia nel 2021 aveva lanciato 24 razzi per simulare un attacco contro obiettivi di difesa aerea all’interno della Russia.
In altre parole l’ostilità ed il confronto fra due blocchi politico-militari era arrivato ad un punto di tensione tale che mai si era verificato durante la prima guerra fredda, se si esclude la crisi dei missili a Cuba nel 1962.
Nel dicembre del 2021 vi erano solo due alternative: o si aprivano delle trattative per ridurre la pressione militare ed il confronto fra i due blocchi contrapposti, oppure bisognava rassegnarsi alla guerra, che sarebbe iniziata con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.
La Russia ha deciso di dare una chance alla pace e di riannodare i fili del dialogo e della cooperazione sul tema della sicurezza reciproca. Il 15 dicembre ha pubblicato sul sito del ministero degli Esteri in russo ed in inglese una bozza di trattato da siglare con la Nato ed un’altra bozza da siglare con gli Usa. Al centro delle proposte russe c’era l’impegno dei Paesi occidentali a non espandere ulteriormente la Nato ad est e la richiesta di ridimensionare la pressione militare della Nato, annullando la dislocazione di basi missilistiche e ritirando le armi nucleari Usa dislocate sul territorio di Stati non nucleari (come l’Italia e la Germania). Non si trattava di un diktat, ma di una proposta di negoziato che puntava ad arrestare la corsa agli armamenti e a depotenziare il confronto strategico politico-militare.

Qualche giorno fa, il 7 settembre 2023 il segretario generale della Nato ha confessato dinanzi alla Commissione esteri del Parlamento europeo che la Russia voleva trattare per evitare lo scoppio della guerra e si è vantato di aver chiuso la porta in faccia ad ogni dialogo. In pratica Stoltenberg ha riconosciuto che la vera causa della guerra, e il motivo per cui si continua a combattere, è la spinta incessante degli Usa ad allargare la Nato all’Ucraina. Ecco le parole rivelatrici del segretario Nato:
«Sullo sfondo c’era la dichiarazione del presidente Putin dell’autunno del 2021, che in realtà aveva già inviato una bozza di trattato che voleva far firmare alla Nato, in cui ci chiedeva di promettere di non allargare ulteriormente l’Alleanza. Era una condizione preliminare per non invadere l’Ucraina. Naturalmente noi non abbiamo firmato, anzi è successo l’opposto. Putin voleva che firmassimo l’impegno a non allargare mai la Nato e voleva che smobilitassimo le nostre infrastrutture militari atlantiche in tutti i Paesi entrati a far parte dell’Alleanza dopo il 1997. Si trattava di metà della Nato, voleva dire che avremmo dovuto rimuovere la Nato da tutta l’Europa centrale e orientale, introducendo una sorta di adesione di serie B. Abbiamo respinto questa richiesta. Perciò Putin è entrato in guerra, per evitare che ci fosse più Nato ai suoi confini e ha ottenuto l’esatto opposto».
Riflettiamo su queste parole, Stoltenberg ha riconosciuto che il blocco di ogni ulteriore allargamento della Nato «Era una condizione preliminare per non invadere l’Ucraina».
Stoltenberg e Biden hanno preferito la guerra, pur di non rinunziare al loro progetto di piantare la bandierina della Nato in Ucraina.
Il 16 dicembre 2021 Stoltenberg nel corso di una conferenza stampa congiunta con Zelensky, respinse orgogliosamente al mittente le proposte russe.
Quel giorno è finita la pace in Europa.

 

Questo è il testo dell’intervento del giurista e saggista Domenico Gallo al convegno “Il coraggio della Pace” che si è svolto a Firenze il 23 settembre. Ecco il video dell’evento

Il governo apparecchia il bottino per le mafie

Può andare sempre peggio, possono sempre fare peggio. La bozza dell’ennesimo decreto migrazione che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si prepara a discutere con i suoi ministri è un ulteriore passo sul sentiero della disumanità e della cretineria politica.

Svetta tra gli orrori la modifica che riguarda i “minori stranieri non accompagnati”. Sono in sostanza – vale la pena di dirlo – bambini e ragazzini che attraversano l’Africa, passano tra i denti della Libia e sbarcano (se non annegano) sulle coste italiane. Purtroppo per loro sono neri e non hanno una pesca con cui intenerire il pubblico televisivo italiano in un lacrimevole spot pubblicitario.

Dalle parti del governo hanno deciso che d’ora in poi l’età potrà essere “apparente”, al pari della temperatura percepita, affidata a un non specificato “sesto senso di Stato”. Quelli “apparentemente” sedicenni potranno essere controllati su mandato “orale” della Procura senza più doversi preoccupare che gli esami avvengano in “un luogo idoneo” e con tutte le cautele “rispettose dell’età presunta, del sesso e dell’integrità fisica e psichica della persona”  come accadeva fino a oggi.

A questo punto i minori percepiti potranno essere gettati in mezzo agli adulti, fingendo che i migranti minorenni siano i più vulnerabili. Accadrà quindi che questi ragazzi con ancora meno tutele diventeranno il bottino perfetto per ingrossare la manovalanza della criminalità organizzata più di quanto già avvenga. A quel punto certi giornalacci di destra potranno strillare contro la mancata integrazione e la propensione criminale e Meloni e Salvini potranno riproporsi per risolvere il problema che hanno ceato.

Buon mercoledì.