Home Blog Pagina 191

Come “intimidire” i disperati

Tra le soluzioni che non risolveranno nulla da oggi potete aggiungere l’aumento a 18 mesi dei tempi di detenzione nei Centri permanenza per il rimpatrio (Cpr) che il governo ha pensato per “intimidire” i disperati che partono e convincerli a non partire più.

Al di là dell’infantile credenza che qualcuno che scappa dalla fame e dal piombo possa essere minimamente scoraggiato dall’indurirsi delle nostre regole ci sarebbe da studiare con attenzione che fine abbiano fatto negli ultimi due anni i 50 milioni di appalti per la gestione che hanno foraggiato multinazionali e cooperative a discapito di qualsiasi diritto umano che dovrebbe essere garantito.

Si potrebbe rileggere l’ultimo rapporto per il Garante dei diritti che racconta come nel 2022 sia stato effettivamente rimpatriato in media il 49,4% delle persone trattenute (dal Cpr di Macomer, ad esempio, solo il 23%) in media con gli ultimi 25 anni. Si potrebbe rileggere anche il Garante quando scrive che quel tipo di detenzione è a tutti gli effetti illegittima: “tale privazione sia giustificata da una percorribile ipotesi di rimpatrio: ciò rende illegittima la restrizione della libertà quando non ci siano accordi con il Paese di destinazione che rendano questa ipotesi concretamente realizzabile”.

Come ricorda Cild (coalizione italiana per i diritti civili) «i Cpr esistono ormai da 25 anni, un periodo di tempo sufficiente per sapere che le persone o vengono riconosciute o rimpatriate nelle prime settimane, oppure non si riuscirà più a farlo. Già in passato i tempi di permanenza erano di 18 mesi e i rimpatri erano percentualmente come negli anni successivi in cui i tempi erano stati ridotti drasticamente».

Siamo pronti, quindi, all’ennesimo fallimento sulla pelle dei disperati.

Bravi.
Buon martedì.

Il merito e la laurea del presidente di Confindustria

Da qualche settimana l’economista e professore universitario (e quindi laureato) Riccardo Puglisi si domanda e domanda se l’esperto di geopolitica Dario Fabbri sia laureato. La sua legittima domanda ha aperto un dibattito su X (ex Twitter) che verte soprattutto sulla presentazione di Fabbri come “dottore” in diverse occasioni. La platea del dibattito si divide tra chi sottolinea che Fabbri non ricopra ruoli pubblici e abbia già ampiamente dimostrato il suo valore con le sue analisi e chi invece ritiene che la trasparenza sul proprio percorso di studi sia responsabilità di un personaggio pubblico. 

Da qualche giorno il nodo della laurea è emerso anche per il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Bonomi non è laureato eppure viene presentato come “dottore” e non ha mai smentito la propria laurea. La sua pagina Wikipedia, che lo indicava come laureato in economia, è stata corretta in fretta e furia dopo l’uscita di primi articoli giornalistici sulla questione. Si sa che Bonomi, esaurito il mandato in Confindustria, vorrebbe sedersi sulla poltrona di presidente del cda della Luiss, l’università confindustriale. Peccato che serva una laurea. Il decreto legge numero 13 del 24 febbraio scorso, quello per l’attuazione del Pnrr, al comma 9 dell’articolo 26 introduce quale requisito per la carica di presidente di un’università il possesso di un titolo di studio non inferiore alla laurea. C’è di più: Bonomi (imprenditore che imprende con il 4,5 per cento di un’azienda che distribuisce apparecchi “elettromedicali”) è colui che tutti i giorni ci dà lezioni di “merito” e di “fatica per guadagnarsi un lavoro”. Qualcuno dice che siano questioni di lana caprina. Forse sì, siamo in un tempo in cui la credibilità è caprina. 

Buon lunedì. 

Nella foto: Carlo Bonomi (Wikipedia)

Il nuovo Museo etnografico di Budapest, vetrina del nazionalismo populista di Orbán

Inaugurato nel 2022 nel più grande parco cittadino di Budapest, il nuovo Museo etnografico rappresenta uno dei più ambiziosi progetti di edilizia pubblica della capitale ungherese. L’edificio fa parte di un progetto, in corso di realizzazione, che prevede la realizzazione di un polo museale all’interno del parco, il “liget Budapest”, un distretto nel quale raggruppare i più importanti musei del Paese e che faceva parte della piattaforma elettorale di Fidesz nel 2010 (anno in cui il partito di Orbán vinse le elezioni). Secondo questo piano, in corso d’opera, i nuovi edifici si sarebbero aggiunti ai già preesistenti Museo di belle arti, che risale al 1906, e che nel suo edificio dalla facciata in stile rigidamente neoclassico (ma con interni in stile più eclettico) ospita la principale collezione di arte moderna europea del Paese, e alla antistante Galleria d’arte Műcsarnok, sempre in stile rigidamente neoclassico, uno spazio espositivo realizzato qualche anno prima del Museo. Le due facciate si trovano ai due lati del Piazzale degli eroi, dove è collocato il Monumento del millennio, concepito nel 1896 per celebrare i mille anni dalla fondazione del primo Stato ungherese e nel quale sono custodite le spoglie del milite ignoto. Uno spazio dal forte valore simbolico che apre quello che dovrebbe diventare il distretto museale ungherese più importante.

Proprio nel retro della Galleria Műcsarnok si trova la sede del nuovo museo di etnografia. Le sue dimensioni monumentali e le sue fattezze, che in nulla richiamano quelle neoclassiche del vicino piazzale, non possono rimanere inosservate nemmeno dal turista più distratto. Il valore simbolico di un’opera pubblica di queste dimensioni, peraltro realizzata in tempi record, è, con tutta evidenza, legato a un disegno politico-culturale perseguito da Fidesz, il partito al potere dal 2010. Lo spiega bene il giurista Balázs Majtényi il quale, nel saggio “Il nazionalismo esclusivista populista. I casi dell’Ungheria e del Regno Unito” (in: Il senso umano delle cose. Ripensare la società oltre la pandemia a cura di Francesca Zappacosta, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2021) racconta come nel 2019 il governo ungherese abbia fondato anche un “Istituto di ricerca per la nazione ungherese” con lo scopo principale di costruire una identità nazionale etnocentrica (Majtenyj, p. 213), nello spirito di quella che Bauman definisce “retropia”.

La prima pietra dell’edificio venne posta nel dicembre del 2017 secondo il progetto dello studio di architettura ungherese Napur, risultato di un concorso internazionale di progettazione, sotto la direzione dell’architetto Marcel Ferencz; dopo la sua inaugurazione l’edificio ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali (tra cui quello dell’International Property Awards). Il suo primissimo schizzo era chiamato “la gondola” perché le due estremità si sollevano secondo una linea curva che ricorda quella delle due estremità della tipica imbarcazione veneziana. Al di sopra di queste estremità rialzate ci sono degli spazi verdi, sorta di “giardini pensili”, mentre al centro si trova una scultura monumentale, creando un complesso dal forte impatto visuale. Sulla facciata, dove si trova l’ingresso principale del museo, è stata collocata una vetrata con motivi che ricordano quelli dei tradizionali merletti, ma questo è l’unico richiamo, nella struttura dell’edificio, che ricorda in qualche modo la sua funzione.

Il museo vero e proprio si trova al di sotto della parte centrale della “gondola” (per il 60% lo spazio espositivo si trova al di sotto del livello terra).
La nuova sede sarà in grado di ospitare solo una minima parte della enorme collezione del magazzino (170.000 reperti), in precedenza custodita nella sede dove si trovava dal 1973: un edificio monumentale risalente alle fine dell’800 inizialmente concepito in stile eclettico (con elementi rinascimentali, barocchi e neoclassici) per ospitare il Palazzo di giustizia che si trova proprio davanti alla sede del Parlamento (divenuta poi l’icona della città e nota proprio per il suo stile eclettico neo-gotico). Prima del 1973 questo edificio ospitava la Galleria Nazionale ungherese, poi trasferita nel Palazzo Reale.

Ciò testimonia l’importanza attribuita a questa collezione etnografica da parte degli ungheresi nelle diverse epoche (la collezione era nata presso il Museo nazionale ungherese nel 1872 sotto la dicitura di “collezione etnografica”), un fatto già degno di nota, se considerata la scarsa importanza data ad analoghe collezioni museali in altre capitali europee. La stragrande maggioranza dei reperti di questa collezione è legata alle tradizioni popolari ungheresi, ma non mancano pezzi provenienti da altri continenti, frutto delle classiche “spedizioni coloniali” ottocentesche o acquistati da collezionisti privati.
La scelta di costruire un edificio monumentale per concezione e proporzioni non fa che confermare l’importanza data a questa collezione. L’allestimento del museo è concepito secondo i principi museali più moderni: ogni reperto è contestualizzato in un orizzonte diacronico e sincronico mondiale e comparato con analoghi reperti provenienti da altri continenti; la sezione didattica multimediale è rivolta alle scuole e a un pubblico di bambini e ragazzi e non mancano audioguide dotate di versione in inglese nonché esposizioni temporanee volte ad approfondire singoli aspetti del mondo delle tradizioni popolari.

La realizzazione di un progetto di queste dimensioni e caratteristiche può essere considerato in sostanza una titanica sfida, una domanda a cui solo un arco di tempo più lungo potrà offrire una risposta. Un investimento così azzardato (sia nei costi che nella concezione) per un museo di etnografia pone già un primo quesito. Probabilmente non diventerà il primo polo di attrazione per i turisti stranieri, che raramente mostrano interesse per questo genere di musei, ma non è escluso che un edificio monumentale dalla concezione così ardita e originale possa diventare un punto di riferimento anche per i turisti più distratti. L’edificio in sé vale una visita, e il discorso vale sia per gli interni che per gli esterni.

Alcune voci critiche hanno sottolineato la scarsa disposizione degli spazi interni ad ospitare oggetti museali, e questo è un aspetto che si può facilmente percepire: il visitatore, in uno spazio già così fortemente caratterizzato, può sentirsi “spaesato”. Ma anche in questo caso potrebbe trattarsi di una sensazione destinata a svanire col tempo (lo stesso discorso potrebbe valere, ad esempio, per il celeberrimo Beaubourg di Parigi o per il Museo Guggenheim di Bilbao, in cui il contenitore è il protagonista molto più del contenuto).
Si sarebbe portati a pensare (giusto o sbagliato che sia) che un edificio dalla concezione così “ardita” debba ospitare opere altrettanto innovative, come, ad esempio, le “provocazioni” dell’arte contemporanea.

L’accostamento tra reperti di carattere etnografico e una struttura architettonica di questo genere può essere considerato già in sé una “dissonanza”, ma questo non è necessariamente un male. Un ulteriore quesito riguarda l’opportunità di questa “spettacolarizzazione” dell’etnografia: può essere utile, o persino necessaria, una sua riformulazione in chiave post-moderna proprio nel momento in cui il mondo sta attraversando una trasformazione così vorticosa? Per fare un esempio provocatorio, il famoso e iconico cellulare Nokia, che tutti conoscono per via del suo successo planetario, è già diventato un oggetto da museo che un domani, forse, potrebbe trovare spazio in museo etnografico? Per non parlare, ad esempio, delle macchine da scrivere, o di quelle da cucire a pedale. Oppure rientrano in questo campo esclusivamente gli oggetti legati al mondo contadino? Le due opzioni si escludono o possono essere ricomprese in un unico insieme? Anche in questo caso non mi sento di dare una risposta definitiva. Credo però che sia giusto e opportuno riflettere su queste domande, che tra l’altro implicano anche il concetto stesso di “museo” (cosa e perché dobbiamo o vogliamo conservare in un museo? A cosa serve un museo?).

Se si considera lo spazio museale come un laboratorio aperto, nel quale lo spettatore è sollecitato a porsi delle domande, e non solo ad ammirare passivamente il reperto (cosa però del tutto lecita e persino auspicabile, specie nel caso di un reperto di valore artistico), in questa ottica ha senso un museo post-moderno di etnografia, anche se magari destinato ad essere snobbato dal turismo di massa.
In ogni caso, anche se questo nuovo museo fosse concepito come una vetrina di una politica culturale del partito attualmente al governo dai risvolti inquietanti (le posizioni anti-europeiste, anti-immigrazione e contrarie a una società aperta dell’attuale premier ungherese sono note), questo aspetto col passare degli anni è destinato a dissolversi tra le pieghe delle future vicende storiche ungheresi (non sarà certo un museo etnografico a determinare i futuri destini del Paese).
Da parte mia, ho ritenuto opportuno visitare il museo in questione e credo ne sia valsa la pena. Ad esempio, dalla disposizione della collezione di ceramiche ho imparato che in tutti i continenti, nell’epoca pre-moderna erano comparsi motivi geometrici comuni.

La storia già scritta di Salvini e Meloni sull’immigrazione

Andrà così. Matteo Salvini in questi mesi si è tenuto a freno accumulando la rabbia per essere stato superato nelle sue elezioni che riteneva “buone” per coronare il suo desiderio (più per narcisismo che per politica) di diventare presidente del Consiglio. 

Non è un politico con molte frecce nel suo arco: sclerotizzato nella caccia allo straniero come unica arma di propaganda da quando ha perso la punta insanguinata di Morisi alla guida dei suoi social balbetta di argomenti che non scaldano gli sfinteri dei suoi elettori, veleggiando tra un ponte sullo stretto e una disordinata guerra alle auto elettriche, con un velo di negazionismo sul clima. 

Fin dall’insediamento del governo però Salvini ha saputo che proprio sui migranti avrebbe potuto logorare Giorgia Meloni e tentare una riabilitazione da leader. È in attesa, come un cane da ferma, del momento opportuno per mordere Giorgia Meloni. La strategia è già scritta: “voleva essere la donna forte ma non ne è stata capace per troppo poco coraggio”. È esattamente il sotto testo delle parole di ieri del vicesegretario della Lega Andrea Crippa. Accusare Meloni di essersi rammollita fingendo di non sapere che le regole internazionali sono queste. 

Andrà così. Matteo Salvini (lo sta già facendo) proporrà soluzioni impraticabili ma profumate chiedendo più voti per indurire il pugno. È lo stesso schema che alle ultime elezioni ha portato l’Italia sul baratro visibile a Lampedusa e nell’isolamento internazionale. 

Resta da vedere un’unica cosa: se (e quanti) gli elettori ci cascano ancora. Buon venerdì.

Foto tratta dalla mostra Altromare. Fonte: Camera dei deputati

La risposta al cambiamento climatico. Il libro di Romanelli letto dai Fridays for future

La risposta è la prima fatica letteraria di Mauro Romanelli, storico attivista ecologista toscano con un lungo passato nella politica provinciale e regionale. Già dal titolo si intuiscono alcune delle caratteristiche più distintive della sua personalità: la passione per le battaglie ambientaliste coniugata con la fiducia nella capacità dell’attivismo ecologista di poter rispondere ai grandi interrogativi davanti ai quali ci pone la crisi climatica.
Romanelli è stato tra i primi e tra i più caldi sostenitori dei nuovi movimenti per il clima, come Fridays for Future (quello da cui provengo). Fin dall’inizio ha sempre messo a disposizione la sua grande esperienza per supportare noi giovani attivisti, fornendoci consigli come farebbe un fratello più grande senza mai l’intento di prevaricare o scadere nel paternalismo. È grazie a lui se si è costituito il primo grande coordinamento delle realtà ecologiste, da Legambiente a Extinction Rebellion, che si batte per promuovere la diffusione delle energie rinnovabili.

Il libro di Mauro Romanelli si può acquistare su Amazon, Feltrinelli, Mondadori, Ibs, ecc., sia in formato digitale, che in formato cartaceo. In formato e-book qui

Per tutti questi motivi, il libro La risposta (Youcanprint) ha da subito incuriosito molti di noi: personalmente immaginavo che fosse un ‘manuale di istruzioni’ su come attuare la riconversione energetica in Italia. Invece, sfogliandolo, mi sono accorto che si trattava di molto di più.
In questo breve saggio, Romanelli riesce a mettere in fila una serie di questioni che spaziano dall’ingegneria energetica, alla filosofia, alla politica. In un capitolo si analizza dettagliatamente lo stato dell’arte delle batterie, in un altro si delinea il progetto politico eco-socialista dei prossimi vent’anni, in un altro ancora si ragiona sul paradosso di Fermi. Proprio grazie alla sua passione e alla sua esperienza, Romanelli riesce ad essere visionario sia sul versante politico-strategico che su quello tecnico-scientifico. Una combinazione necessaria, ma assai rara nel mondo del movimentismo ecologista italiano.

In questi anni sono stati pubblicati molti libri che analizzano le possibili risposte di un Paese come il nostro alla crisi climatica, segno che l’opinione pubblica ha finalmente realizzato il pericolo che stiamo correndo ed è alla ricerca di soluzioni. Ma pochi volumi forniscono delle risposte così dirette, approfondite ma facilmente comprensibili come fa l’autore del libro. Tutte le questioni più dibattute e divisive vengono affrontate “di petto”, senza lasciare nulla di sottinteso, anche laddove può sembrare rischioso esporsi in maniera netta.

Il ruolo che ha avuto Romanelli nella crescita dei giovani movimenti ecologisti è stato importante e lo è tuttora, ma non è solo per questo che il suo testo è stato così apprezzato nel nostro ambiente. Anzi, a volte, nonostante abbia meno della metà dei suoi anni, mi trovo in difficoltà a condividere l’ottimismo e la fiducia che Romanelli nutre nella società o quantomeno nei settori più consapevoli di essa, di fronte alla catastrofe imminente. Tuttavia, libri come questo permettono di capire che siamo ancora padroni del nostro destino: la transizione ecologica è possibile, è necessaria, è l’unica via per garantire un futuro a noi e alle generazioni future. Abbiamo “la risposta”, il grande compito che ci attende è quello di diffonderla e di trasformarla in realtà.

L’autore: Luca Sardo è attivista di Fridays for future Torino

Robert Perišić, la Croazia e il senso di smarrimento di una generazione

«Sandra stava raccontando qualcosa. Poi il suo volto è scomparso. Si è spento, non c’era nulla. Era una cosa imbarazzante, brutta, alcuni piccoli quadratini lampeggiavano al posto del suo viso. Lei sorrideva disperatamente e terribilmente, come a dire: “È finita, adesso saremo così.”».
Questo breve passo va ben oltre l’idea di una semplice disintegrazione, al contrario evoca una condizione ancor più crudele: restare vivi, testimoni e osservatori del proprio svanire. Un’immagine che sintetizza il contenuto non soltanto della raccolta di racconti Disastri esistenziali e spese folli (Bottega Errante Edizioni, settembre 2023) bensì dell’intera opera dello scrittore croato Robert Perišić, nato nel 1969 a Spalato e apparso sulla scena letteraria croata a metà degli anni Novanta.

Sin dall’inizio la penna di Perišić ha saputo riconoscere e leggere la straordinarietà del contesto storico e delle transizioni che stavano per investire quell’area geografica: quarant’anni di socialismo seguiti dal suo crollo, culminato in un conflitto sanguinoso e infine l’arrivo del capitalismo, già oltremodo rodato nei suoi meccanismi perversi nell’Occidente e ora pronto a dilagare anche nell’Est Europa.
Lo sguardo da antropologo dell’autore croato è attratto in modo particolare dalle trasformazioni esistenziali che i movimenti politici, sociali ed economici innescano o determinano nell’individuo e nella collettività.

Nello scollamento schizofrenico tra individuo e sistema Perišić trova il suo ritmo: da un lato la marcia accelerata, frenetica, disumana delle vicende storiche che incalzano, dall’altro i personaggi che Perišić ci restituisce sono persone comuni, giovani uomini e donne della sua generazione, annichiliti, spaesati, interrotti. Alle spalle un passato abitato da fantasmi, colpe, perdite e nostalgie, davanti un futuro straniante di promesse irreali, mondi luccicanti, traguardi che sfuggono man mano che ci si avvicina. L’unica dimensione temporale alla quale aggrapparsi è il presente, ma in questi ventitre racconti di Disastri esistenziali e spese folli scritti nell’arco degli ultimi trent’anni, il presente somiglia a un deserto privo di qualsiasi senso storico dell’esistenza.

Nel racconto “I ragazzi sono fuori di testa al cento per cento” l’autore ci porta direttamente dentro l’assurdità della guerra, scegliendo un particolare punto di vista, ci catapulta in un villaggio appena occupato da soldati esaltati che, in quel posto povero e dimenticato da Dio, trovano in maniera del tutto inattesa una Ferrari e grazie alla potenza dell’auto devastano tutto ciò che trovano sulla loro strada, ammazzandosi infine. Oppure nel racconto “Addio alle armi”, chiaro omaggio a quello che in effetti è uno dei suoi maestri, dove un ragazzo e una ragazza nel bel mezzo di un goffo approccio sessuale, sono raggiunti dalla prima sirena dell’allarme generale della loro vita: «L’ho guardata con fare da maschio, cercando di dire qualcosa che la calmasse, ma aveva un aspetto strano, il suo viso si stava contorcendo, le sopracciglia, gli occhi… Isteria. E questo mi ha spaventato. Era iniziata la guerra. In quel bagno senza la finestra».

Nei racconti ambientati immediatamente dopo la guerra campeggia un’atmosfera di devastazione psichica e scissione emotiva che partorisce personaggi feroci, traumatizzati, alcolisti e tossicodipendenti, toccanti nella loro totale inadeguatezza alla vita.
Man mano che ci si addentra negli anni Duemila la scena cambia, il richiamo seducente della ricchezza, gli standard elevati di competizione, l’inevitabilità del fallimento in un sistema brutale, l’incapacità di crescere e diventare adulti sono le tensioni che muovono i personaggi, tutti abitati da un’anomalia persistente, una mancanza radicata da qualche parte nelle proprie profondità.

Un maestro del less is more, Perišić non indugia nelle ferite, le apre con un colpo secco, una prosa asciutta ed essenziale, per poi posizionarsi subito sull’altra sponda del dolore, quella dell’ironia pungente, sempre intelligente e rivelatrice.
Il linguaggio stesso è un personaggio per un autore consapevole che il mondo si deposita nei sedimenti della lingua, seppure scomparso nella realtà, lo si può sempre ritrovare nell’archeologia delle parole. In questo senso vale la pena recuperare il suo romanzo I prodigi della città di N. uscito nel 2021 sempre per Bottega Errante Edizioni. Ambientato in un Paese in transizione economica, più precisamente in una desolata cittadina dove il capitalismo si presenta con il proposito anacronistico di riaprire una fabbrica in disuso e lo fa prendendo in prestito discorsi socialisti. Qui la lingua è un virus: ha il potere di risuscitare mondi, risvegliare assopiti fantasmi di gloria e insinuare una nuova opportunità in vite che si percepiscono finite già da un pezzo.

“«Mi dica, lei potrebbe rinnovare la produzione? Organizzarla?».
«Hmm. Be’, se avessi tutto il necessario…».
Mentre respirava l’aria che gli stava facendo passare la sbornia, nella testa di Sobotka risuonava: le stesse turbine.
“Sono degli sprovveduti. Quella roba è vecchia”. Li farà scappare se glielo dice? Quindi sottolineò con cautela:
«Ma io ho lavorato a quell’epoca, in quel sistema, alla vecchia maniera».
Me ne frego dei vostri sistemi, stava per dire Oleg, invece rispose:
«Per quel che mi riguarda può fare come vuole, alla nuova o alla vecchia maniera, persino l’autogestione se volete».”

L’autrice: Elvira Mujčić è una scrittrice e traduttrice bosniaca naturalizzata italiana

L’appuntamento
Il 16 settembre (ore 15 Auditorium Largo San Giorgio) a Pordenonelegge viene presentato in anteprima Disastri esistenziali e spese folli (Bottega Errante Edizioni, traduzione Elvira Mujčić), il libro di Robert Perišic che dialogherà con Federica Manzon (direttrice editoriale di Guanda)

Caro Salvini, la regia del complotto sui migranti è la tua inetta propaganda

Matteo Salvini ieri in conferenza stampa ci ha spiegato che «questo è un esodo» di migranti «pianificato dalla criminalità organizzata. È un atto di guerra». «Penso – ha detto il ministro – che sia qualcosa di voluto e organizzato anche per mettere in difficoltà un governo scomodo. Sono convinto che ci sia una pianificazione e una regia dietro a questo esodo». 

Niente di nuovo sotto il sole: quando i vittimisti che stanno al governo non hanno soluzioni da proporre non possono fare altro che immaginare nemici inventati e descrivere catastrofi imminenti. Invece ciò che sta accadendo ha un colpevole chiarissimo che risponde proprio alla politica di Matteo Salvini. È lui ad avere sdoganato la narrazione di un’immigrazione che fosse figlia del “buonismo” di qualcuno e non un ampio fenomeno umano. È lui che ha convinto un manipolo di fessi che si potesse chiudere come un rubinetto. È lui che ha iniziato a giocare al ruolo del bullo in Europa sfidando gli altri Stati a una gara di egoismo per poi frignare per l’egoismo degli altri. 

È lui, soprattutto, ad avere confuso una questione umanitaria con la politica, dimenticando che l’umanità è pre-politica in qualsiasi Paese che non sia governato da bestie o da fascisti. 

Ora che il giocattolo si è rotto e smutanda Matteo Salvini e tutti i suoi nipoti venuti dopo di lui (Giorgia Meloni è stata semplicemente l’allieva più sveglia che ha superato il maestro) inventarsi una guerra è l’atto finale della farsa. “L’intelligence” può risparmiare tempo, le basta bussare all’ufficio del ministro Salvini. 

Buon giovedì.

Nella foto: frame di un video sugli sbarchi a Lampedusa (LocalTeam), 13 settembre 2023

Via Almirante, Grosseto, 2023

A Grosseto il sindaco Antonfrancesco Vivarelli Colonna è riuscito a realizzare il sogno del leader locale di Fratelli d’Italia Fabrizio Rossi, ora deputato: diventare il primo capoluogo in Italia con una via intitolata al fascista Giorgio Almirante, colui che n prima persona nella promozione o nel sostegno alla violenza squadrista. Prima della Liberazione, sostenne apertamente tesi razziste e antisemite sul periodico “La difesa della razza”. Firmò inoltre personalmente, nel 1944 quale dirigente della Repubblica Sociale, regime fantoccio al servizio degli occupanti tedeschi, un duro provvedimento collaborazionista con i nazisti, attraverso il quale gli “sbandati” venivano espressamente minacciati e perseguiti con la morte. Un uomo che dopo la Liberazione non condannò mai il fascismo, facendo persino pervenire aiuti all’estero al terrorista Carlo Cicuttini, autore della strage di Peteano, nella quale tre carabinieri rimasero uccisi.

Per farlo il sindaco ha lasciato per mesi alcuni suoi concittadini in una strada senza nome (mentre infiammava lo scontro politico): quelli non potevano ricevere la posta e scaricare rifiuti e in più hanno ricevuto l’avviso di pagamento dell’Imu non potendo avere residenza in abitazioni che risultavano quindi seconde case. 

La nuova circolare interpretativa del Ministero arrivata a giugno (che sembra tagliata su misura per Grosseto) ha dato il via libera. La firma è arrivata qualche giorno fa dalla prefetta Paola Berardino, incidentalmente moglie del ministro all’Interno Matteo Piantedosi. 

Buon mercoledì.

Così Ponticelli rialza la testa con un progetto d’arte collettiva

Il 14 e 15 settembre andrà in scena ai Bipiani di Ponticelli nella periferia est di Napoli, lo spettacolo Exaudi, con artisti professionisti e abitanti del quartiere – che si chiama così per via delle strutture abitative “temporanee” costruite in seguito al terremoto del 1980. Exaudi è l’ultima tappa del progetto #foodistribution, che mette in relazione l’analisi del processo abitativo con il teatro, la fotografia e l’illuminazione. Giunto alla sesta edizione, il progetto ideato e prodotto da Manovalanza, associazione napoletana di promozione sociale, fondata da Adriana Follieri e Davide Scognamiglio, punta a stabilire una relazione diretta e continuativa tra le collettività di aree urbane e le arti della scena. Lo spettacolo è stato preceduto da una masterclass di alta formazione, multidisciplinare. Ecco per Left il racconto della regista.

Exaudi – Manovalanza, foto di T. Vitiello

Lo spazio scenico è uno spazio urbano: siamo nel campo detto Bipiani, a Ponticelli, nella periferia est di Napoli. Precisamente lo spettacolo si sviluppa nell’interstizio tra due blocchi di containers di colore blu avio, tonalità compresa tra terra e cielo, sul retro delle abitazioni provvisorie in cui vivono in rapporto di vicinato famiglie di albanesi, senegalesi, napoletani; le loro finestre con le veneziane mosse dal vento affacciano sul nostro palcoscenico, che si estende in lunghezza per oltre trenta metri, con le due uniche quinte naturali, varchi per entrate e uscite di scena, poste in fondo, e protette da un basso muretto con un varco centrale. Il fondale naturale, costituito e incorniciato anch’esso dalle case, ha porte e finestre delicatamente protette da tende bianche. Il pavimento è irregolare e lascia intravedere fessure, tracce, buche, al cui interno le piante prendono spazio. Un tubo dell’acqua rotto le irriga. In lontananza altre case, altri tetti, vetrate, luci che si accendono a sera, un ventilatore che gira. In alto il cielo.

Questa è la prima didascalia ed è così, per chi legge come per chi assiste, che si apre allo sguardo l’allestimento site-specific dello spettacolo Exaudi.
La dignità di questa brutta periferia di noi stessi è disarmante. È una dignità silenziosa e discreta, che sembra dire: non accetto compromessi, non accetto soluzioni finte o troppo semplici. E al tempo stesso: sto in un limbo, senza tempo e senza volontà. Non abito qui. Non sono qui.

Mentre il teatro già si allarga a prendere il suo spazio ideale, la superficie reale è metronomo e regola. I tramonti spesso ci sorprendono, qualcuno con naturalezza interrompe il flusso di lavoro per dire: guarda! ed è un tuffo di bellezza che rimette tutto a posto per qualche secondo.

Il bene in mezzo al male, tutto sta incastrato come elementi di un’architettura.
Abitanti dello scivoloso dover vivere senza pensare. Artisti esposti a violente intemperie emotive. Tutti ballerini su un pavimento crepato.
Trafitti da parte a parte, puntelliamo il mondo.

Il lavoro è complesso, difficile da raccontare mentre si va costruendo, ché anche questa volta (la sesta del progetto #foodistribution a cura di Manovalanza che mette insieme la riflessione attiva e la contaminazione tra geopolitica, teatro, installazione e disegno luci urbano), ogni elemento formale e sostanziale, seppur frutto di lunga ed elaborata riflessione, si compone nel mese che precede il debutto, giorno per giorno insieme agli abitanti-attori, in forma di scrittura scenica condivisa, e grazie all’esercizio di partecipazione e co-creazione di una numerosa ed eterogenea compagine di artisti, con e senza esperienza professionale.

“Nella luce dorata del crepuscolo, da un apparente disordine, in uno spazio acquisito come teatro, prende vita il gioco delle parti a cui una comunità variopinta e straordinariamente assortita di ogni possibile declinazione umana è ansiosa di partecipare. Li accomuna un sorriso, che non ha nulla di leggero o divertito, tanto meno beato, è il sorriso di chi si accorge della propria dignità e insostituibile unicità”.
Così ci scrive Federica Castaldo dopo essere stata alle prove. La sua visione è una restituzione di senso al nostro lavoro. La sua presenza e di tutta la Fondazione Pietà dei Turchini, – che ci accompagna da alcuni mesi nella ricerca del pensiero adatto a comporre la drammaturgia sonora del lavoro, invitando anche Guido Barbieri ad offrire la sua illuminante consulenza musicale, – appaga a pieno il bisogno di avere sapienti compagni di viaggio, e copre con estrema generosità il ruolo di coproduttori musicali, anch’essi autori del disegno artistico generale, oltre che sostenitori.

Ci sono moltissime persone coinvolte direttamente e attivamente nel progetto, alcune con ruoli istituzionali o ufficiali, altre la cui presenza è connotata da un desiderio trasparente di partecipazione; il modello che si realizza sembra distante anni luce dal concetto di marginalità cui verrebbe spontaneo far riferimento attraversando il luogo, studiando la sua storia e approfondendone le vicende politiche e sociali. Questa straordinaria democrazia spontanea dice molto sui bisogni delle piccole comunità, sulla capacità di suggerire e anticipare anche la resilienza pianificata e qui non ancora attuata. Qui dove sui muretti, in mezzo all’amianto delle case-containers, gli abitanti coltivano piantine di pomodori e a sera illuminano l’altarino che hanno edificato per la Madonna della neve. Qui dove in quarant’anni di vuoto istituzionale sono nate e cresciute persone che ora, nei pomeriggi e nelle sere ventose dedicate al lavoro di ricerca e creazione teatrale, compongono e giocano i pezzi di un puzzle che presto sarà completato, nel palcoscenico-casa allestito e illuminato per il pubblico a sedere.

Conosco da molti anni questo luogo e i suoi abitanti, Davide ha realizzato qui uno dei suoi primi reportage fotografici mentre io stavo, ascoltavo, osservavo e cominciavo a lasciarmi guardare. Da due anni sono qui con un ruolo ben definito e ben accolto, da regista scruto tutto teatralmente e con rispetto, luogo e persone; per loro e con loro compongo, li osservo crescere e stancarsi, ammalarsi e morire, innamorarsi, emanciparsi, eccellere, vivere aspettando le nuove case con frenesia o con mollezza, sempre con pudore, dignità, schiena salda. Li osservo quindi trasfigurarsi, muoversi con mistica cura nello spazio scenico, sostenendo anche lì lunghe attese; leggo la responsabilità della loro presenza, corpi attenti e al tempo stesso gioiosi: è per me unico al mondo questo ritmo interpretativo così semplicemente intenso, naturale senza spontaneismo, pieno di fede in ciò che sarà. Mi sento invasa della loro fiducia.

Ci è piaciuto immaginare che Exaudi fosse un titolo giusto e beneaugurante per aprire il lavoro e la riflessione poetica partendo dal desiderio di avere una casa in muratura, una casa vera le cui particelle aeree e sonore potessero finalmente smetterla di penetrare fin dentro i polmoni, fin dentro l’anima. Questo desiderio che chiede come una preghiera di essere esaudito è l’inizio della nostra drammaturgia. Alle spalle del pubblico, di fronte alle attrici e agli attori, si estende l’area che ospiterà le nuove case; con semplicità andiamo in quella direzione.

Il luogo parla, non c’è che da scrivere sotto dettatura per poi rileggere a voce alta, per ascoltare di nuovo, quindi finalmente cancellare le parole e lasciare i pochi segni indelebili, tracce profonde. E ancora, cercare la forma di un racconto che esaudisca, traducendo senza tradire, il desiderio sotteso in quel luogo. Mettersi in bocca una nuova lingua stratificata per dire. Cominciare da qui. Dal reale edificare il surreale: una letteratura scenica fantastica e poetica che nulla abbia a che vedere con la biografia, che sia trampolino per sperimentare altre altezze e altre profondità.

Lo spettacolo si divide in tre capitoli concepiti come stanze o quadri compiuti e indipendenti, che sviluppano scenicamente i temi e le domande principali della nostra ricerca artistica condivisa; la fruizione consecutiva dei tre capitoli lascia al pubblico lo spazio di collegamento e sintesi.

Mentre scrivo, dal pieno del lavoro di composizione, ne metto in discussione la successione, consapevole di quanta rivoluzione potrebbe apportare allo spettacolo e alla narrazione lo spostamento della sequenza dei capitoli e la conseguente sintesi emotiva e razionale.
Questo gioco fondato sulla combinatoria degli elementi mi lascia intravedere quanta vita possibile ci sia nell’opera che stiamo costruendo.

Ecco come abbiamo titolato finora le domande fondamentali che danno vita rispettivamente ai tre capitoli dello spettacolo, in questo provvisorio ordine narrativo:

QUANTI ANTENATI HANNO LE NUOVE CASE?

Le case, temporanee come noi che le abitiamo, ci hanno assorbiti. Ora ne siamo
parte. Non riconosciamo più la nostra faccia dalle pareti: le rughe sono come carta da parati, segni di casa appiccicati addosso. Il luogo come lo vediamo adesso è il risultato
di questa stratificazione. Quello che non poteva essere smaltito è rimasto a fare da
base a ciò che è arrivato dopo. Gli antenati sono ovunque. Qui è pieno di
genius loci. Ma cinque pareti su sei sono di Eternit. Una sola è salva. Vi poggio i piedi
e guardo il cielo. Questo imponente mausoleo per i morti, dedicato ai vivi, è il nostro teatro. Un pavimento che è abisso di stelle.

DIASPORA

Probabilmente l’andare non sarà per tutti. Forse l’attesa porterà a una separazione. Uomini, donne, bambini abitano facendo e disfacendo la vita. Ogni gesto è reiterato all’infinito. Ogni azione si arrovella su sé stessa senza mai sbocciare. Gli oggetti sono eloquenti, e dimostrano l’umano attaccamento alle cose. Le cose e le persone si confondono: la funzione reifica i corpi che sembrano scomparire attraverso l’azione stessa; corpi usati dall’oggetto che usano, inglobati da quella funzione fino a diventare essi stessi oggetto, non fosse per la vettoriale tensione che, una volta provocato il disequilibrio nello scollamento dall’oggetto-protesi, spinge a cercare nuovamente contatto e relazione umana. C’è un segreto sotto il pavimento e le persone hanno perso il centro, smarrita la mappa;
il loro incedere cerca appoggi. Talvolta in un punto d’appoggio si trova un altro
sbilanciamento, ed ecco che nasce la danza, ecco l’abbraccio per non precipitare.

Mi guardo intorno. Qui c’è già tutto, anche quello che non dovrebbe. Tutto ciò che si aggiunge non serve che a noi, costruttori di mondi sul vertiginoso vuoto, insozzatori di silenzio.

Sta sulla scena
senza alcuno strumento.
Appoggia le mani sul petto,
là dove nasce il respiro
e dove si spegne.
Non sono le mani a cantare
E nemmeno il petto.
Canta ciò che tace.
Adam Zagajewski

ESODO

Siamo come l’umanità dipinta da Guttuso ne L’occupazione delle terre incolte di Sicilia: andiamo verso ciò che sta per principiare.
Il cambiamento è figlio di lunghissima attesa. Il cambiamento porta strascichi e accumula macerie. Ma è dietro l’angolo, posso raggiungerlo a piedi.
La distanza tra la speranza e la grazia è uguale a zero.
Gli scafi che ci hanno portati qui, le navi che hanno portato via i volti amati, le navi che ce li riporteranno indietro, sono tutt’intorno come una giungla. L’acqua si sente scorrere nelle vene e nelle tubature, le piante non smettono di nascere e di crescere.
La dignità non cede, a costo della morte come esercizio e pratica d’amore.
Un bel dì vedremo…
È perpetuo e non definitivo questo andare dall’altra parte, che ci sia o meno la fine del mondo, tanto il mondo si rifà, a due a due. Andare è nascere, così imparo direzione e spinta.
Poserò la testa sulla tua spalla e farò un sogno di mare e domani un fuoco di legna
Perché l’aria azzurra diventi casa chi sarà a raccontare chi sarà
Sarà chi rimane io seguirò questo migrare seguirò questa corrente di ali.
Khorakhané (a forza di essere vento)

La drammaturgia originale si articola principalmente attraverso il lavoro di scrittura scenica e ciascun attore-abitante è anche dramaturg. Le letture vengono suddivise, scambiate e spesso condivise a voce alta, così come le intuizioni. Sono molte le mani che firmano questo lavoro.
Fonti per la drammaturgia originale:
Medea di Christa Wolf
Madama Butterfly di Puccini, Giacosa e Illica
Casa Occupata di Julio Cortàzar
Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes
L’ombra e la grazia di Simone Weil
Dialoghi di profughi di Bertolt Brecht
Scritti di Antonio Neiwiller
La speranza è nell’invisibile di Raimon Panikkar
Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino
KaraOde I poeti del ‘900 messi in musica da Mauro Calise e Giovanni Block

Le visioni sceniche, e gli elementi conseguenti che sono a cura di Emanuele Perelli, attraversano, nutrendosene, l’immaginario di Hopper, per approdare a Picasso nel suo periodo blu, quindi a Guttuso. Le linee tese e lievi delle stampe giapponesi fanno da guida ai corpi.
Ciascuno di questi artisti compone idealmente un tassello luminoso, il luogo fa il resto.
Collegare i punti tra loro è ricreare costellazioni, stelle-guida da seguire per spostare finalmente i Bipiani dalla terra al cielo.

In apertura Exaudi – Manovalanza, foto di T. Vitiello

Fratelli d’Italia. E cugini

C’è la sorella di Giorgia Meloni, Arianna, diventata donna di peso nel partito e pronta in rampa di lancio per le prossime elezioni europee. C’è il marito di Arianna, Francesco Lollobrigida, ministro all’Agricoltura e alla Sovranità alimentare, cognato di Giorgia Meloni. Ora c’è Rocco Bellantone, cugino da parte di madre (lo scrive Il Foglio) di Giovanbattista Fazzolari, politico di Fratelli d’Italia, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, ovvero Giorgia Meloni.

Rocco Bellantone avrebbe potuto diventare ministro alla sanità ma a quel tempo qualcuno deve avere pensato che non fosse elegante inserire un ulteriore parente. Passati i mesi e rarefatto l’imbarazzo ora Bellantone è stato nominato commissario straordinario dell’Istituto superiore della sanità con un decreto del ministro Orazio Schillaci, quello che occupa la poltrona che avrebbe potuto occupare Bellantone. 

Rocco Bellantone è un medico chirurgo endocrino e metabolico. Nato a Villa San Giovanni, Reggio Calabria, il 2 agosto 1953, si è laureato in Medicina e Chirurgia all’Università Cattolica Sacro Cuore di Roma nel 1977. Ha una specializzazione in urologia. Il suo curriculum è stato scelto “tra personalità appartenenti alla comunità scientifica, dotato di alta e riconosciuta professionalità”, come si legge nel documento della sua nomina.

Delle due l’una: o le famiglie dei dirigenti del partito di Giorgia Meloni sono un concentrato di talenti e di professionalità di cui per anni non ci eravamo accorti oppure il tanto decantato sovranismo è solo una declinazione del familismo.

Buon martedì. 

Nella foto: il professor Rocco Bellantone, frame di un video del Policlinico Gemelli