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A 50 anni dal golpe di Pinochet, il Cile è ancora molto diviso. Ecco perché

Il mattino dell’11 settembre 1973 la città di Santiago si svegliava al suono di bombe e spari. L’esercito cileno guidato dal generale Augusto Pinochet stava assediando con carri armati e caccia La Moneda, il palazzo presidenziale e sede del governo. Poche ore dopo si suicidava il presidente Salvador Allende, democraticamente eletto nel 1970 e primo presidente socialista del Cile.

Pinochet si insediò alla guida del Paese instaurando una dittatura militare che sarebbe durata diciassette anni, fino al 1990. Il governo militare assunse il controllo di tutti i mezzi di comunicazione, sciolse l’Assemblea Nazionale, mise fuori legge i partiti che avevano fatto parte del governo di Allende, e instaurò un regime di repressione del dissenso: nel giro di qualche mese erano già migliaia gli oppositori politici arrestati, imprigionati, torturati e uccisi.

La violenta repressione del dissenso politico continuò per tutta la durata della dittatura: nei diciassette anni di potere di Pinochet, più di 3mila persone furono uccise o fatte sparire – ufficialmente sono ancora 1.162 i desaparecidos, le vittime ancora disperse, della dittatura – circa 40mila persone furono torturate, e oltre 200mila furono costrette a fuggire dal Paese (circa il 2% della popolazione cilena del 1973).

In questi giorni, il Paese celebra il cinquantenario del golpe con una serie di iniziative, tra cui il primo programma ufficiale per ritrovare i desaparecidos, sotto lo slogan “democrazia è memoria e futuro”. Eppure, l’eredità della dittatura è ancora presente nelle istituzioni cilene e molti nel Paese sono reticenti a condannare apertamente Pinochet. Inoltre, molte questioni relative al golpe, primo fra tutti il ruolo degli Stati Uniti in esso, rimangono non del tutto chiare.

«Il Cile, oggi, è un Paese molto diviso» dice Paulina Pavez-Verdugo, ricercatrice all’Università del Cile che ha approfondito la questione del rapporto dei cileni con il golpe e con la dittatura di Pinochet. «Una parte importante della società cilena ha una visione non solo negazionista, ma apologetica, della dittatura: è preoccupante la percentuale di cileni che non ha una visione negativa del colpo di Stato e delle violazioni dei diritti umani negli anni della dittatura». Secondo un recente sondaggio dell’istituto Cerc-Mori, il 36% dei cittadini cileni ha una visione positiva del golpe e ritiene che Pinochet abbia «liberato il Cile dal marxismo»; è il dato più alto misurato in 28 anni di sondaggi. La stessa percentuale di cittadini ritiene che i militari «avevano ragione» a realizzare il golpe. Inoltre, solo il 64% della popolazione ritiene che Pinochet fosse un dittatore: per il 39% dei cileni Pinochet è l’uomo che ha modernizzato l’economia cilena, mentre per il 20% è uno dei migliori governanti che il Cile abbia avuto nel ventesimo secolo.

Anche molti politici cileni portano avanti una narrativa negazionista rispetto alla dittatura. Recentemente, la deputata di destra Gloria Naveillán ha dichiarato che il fatto che le detenute durante la dittatura subissero violenze sessuali è una «leggenda metropolitana» e che si tratta di «accuse per le quali non ci sono prove», nonostante le numerose condanne e la vasta documentazione a riguardo. Il 22 agosto, inoltre, la sessione del Parlamento cileno è iniziata con la lettura – promossa da una coalizione di destra ed estrema destra – di una dichiarazione del 22 agosto 1973 che denunciava una «grave violazione dell’ordinamento giuridico e costituzionale della Repubblica» da parte del governo di Allende. A inizio settembre, il partito di destra Chile Vamos si è rifiutato di firmare il “Compromesso di Santiago” proposto dal governo, un accordo per la celebrazione congiunta dell’anniversario del golpe e un documento di condanna della dittatura e di impegno per la difesa della democrazia.

L’attuale presidente di sinistra Gabriel Boric, eletto nel 2021 contro il candidato di estrema destra e nostalgico di Pinochet José Antonio Kast, ha cercato in molti modi di cancellare l’eredità di Pinochet: in primo luogo con il tentativo di sostituire la costituzione del 1980 ancora in vigore. Questa costituzione, adottata sotto la dittatura, è forse il lascito più importante del regime di Pinochet; essendo fortemente incentrata su un modello economico neoliberale, è fra l’altro considerata la base delle enormi disuguaglianze della società cilena che hanno portato a proteste di massa tra il 2019 e il 2020. Eppure, una nuova costituzione redatta sotto il governo Boric è stata respinta dai cittadini cileni in un referendum nel 2022.

Dietro al rifiuto della nuova costituzione, secondo Pavez-Verdugo, così come dietro alle posizioni apologetiche verso Pinochet, c’è una narrativa fortemente sospettosa nei confronti della sinistra, assimilabile alla campagna anticomunista della guerra fredda, «il tipico ritornello che Pinochet ci ha salvato dal comunismo e che senza di lui saremmo come Cuba, il Venezuela o l’Unione Sovietica; c’è un elemento emotivo molto grande nel fantasma del comunismo». Questa narrativa è portata avanti dai rappresentanti di un’élite che concentra il potere economico e il controllo dei principali mezzi di comunicazione del Paese; nel caso del referendum costituzionale, secondo la ricercatrice, «la destra ha portato avanti una campagna fortemente ideologica contro la nuova costituzione sui principali mezzi di comunicazione quando il testo non era stato ancora scritto».

Pavez-Verdugo ritiene inoltre che il sistema educativo abbia un ruolo nella scarsa consapevolezza storica verso gli anni della dittatura. In Cile, il golpe militare del 1973 è diventato parte ufficiale del curriculum scolastico solamente nel 2009: anche adesso, secondo la ricercatrice, «la questione della memoria storica e delle violenze della dittatura non viene discussa in modo serio e approfondito».

Inoltre, secondo la ricercatrice, la poca consapevolezza è legata al fatto che in Cile non ci sia stato uno stacco dopo la dittatura militare: «C’è una continuità tra la dittatura e la democrazia, dal momento che abbiamo ancora la stessa costituzione e che figure di rilievo della dittatura sono rimaste al governo nel periodo democratico; al termine della dittatura militare non c’è stato nessun processo contro i criminali, non c’è stato un taglio netto, e Pinochet è morto senza mettere piede in tribunale: uno dei dittatori più violenti e autoritari al mondo è morto senza essere processato». Pinochet, dopo essersi dimesso dalla carica di presidente, ha infatti continuato a servire come capo dell’esercito per anni, ed è rimasto senatore fino al 2002, prima di morire di infarto a 91 anni, in Cile. «Il risultato è una classe politica che non è mai riuscita a staccarsi con decisione dalla dittatura, così come le istituzioni, a partire dalla costituzione, dal Parlamento, dalla magistratura, e dalle forze dell’ordine».

Una legge d’amnistia approvata durante la dittatura ha inoltre bloccato per decenni le indagini e i processi: le accuse di omicidi, torture, stupri e rapimenti contro militari e forze dell’ordine cilene iniziarono ad essere indagate solo nel 2000. Ad oggi, circa 250 persone sono in carcere per le violenze commesse durante la dittatura; molte delle sentenze per i più importanti casi di abusi e violazioni di diritti umani sono però state emesse solamente quest’anno.

Ma non solo le violazioni dei diritti umani e i crimini commessi durante la dittatura restano senza giustizia e verità: anche alcune questioni legate al golpe non sono ancora del tutto chiare. In particolare, il ruolo che gli Stati Uniti e la Cia hanno avuto in esso. Alla fine di agosto, la Cia ha declassificato alcuni documenti ufficiali dell’8 settembre 1973, che confermano che l’allora presidente Nixon era stato informato della possibilità di un colpo di stato. Altri documenti resi pubblici durante l’amministrazione Clinton hanno rivelato che gli Stati Uniti hanno attivamente tentato di rovesciare Allende già nel 1970, e hanno sostenuto economicamente e militarmente Pinochet durante la dittatura.

Il coinvolgimento diretto di Cia e Stati Uniti nel golpe del 1973 non è però mai stato dimostrato, e in molti chiedono la declassificazione di altri documenti potenzialmente rilevanti, ancora segreti, che potrebbero far luce sulle circostanze del colpo di Stato e sul ruolo giocato dagli Stati Uniti. Anche la deputata statunitense Alexandria Ocasio-Cortez ha sollecitato la declassificazione dei documenti relativi al golpe cileno, sostenendo che aiuterebbe l’avvicinamento tra i due Paesi così come la creazione di una consapevolezza e memoria storica più forte in Cile, contrastando il revisionismo e il negazionismo.

D’altra parte, anche il coinvolgimento degli Stati Uniti nel golpe è oggetto di negazionismo da parte di molti cileni, spiega Pavez-Verdugo: «Anche per quanto riguarda le cose che già si sanno, che la Cia ha reso pubbliche, tanti cileni negano i fatti e sostengono che siano bugie della sinistra, che le fonti di queste informazioni non sono affidabili e che il coinvolgimento degli Stati Uniti è una bugia».

In questo contesto, la celebrazione del 50esimo anniversario del golpe rischia di essere un evento che polarizza ulteriormente la società cilena piuttosto che un’occasione per unificare il Paese. «Siamo nel mezzo di una battaglia di memoria, una battaglia di rappresentazione e di significato, e soprattutto una battaglia politica per riconoscere la nostra storia», conclude Pavez-Verdugo.

Nella foto, il bombardamento della Moneda e una immagine di Salvador Allende (wikipedia)

Leggi anche: Andrea Mulas, L’utopia concreta di Salvator Allende, Left, settembre 2023

Sulla rotta Ita-Lufthansa dilettanti allo sbaraglio

Giorgia Meloni in conferenza stampa dopo il vertice G20 ha voluto lanciare una stoccata al commissario europeo Paolo Gentiloni per non perdere terreno con i suoi alleati sull’antieuropeismo e per ridestare i suoi elettori stanchi dalla sua improvvisa moderazione. E ha sbagliato. “Sta accadendo una cosa obiettivamente curiosa, ha osservato Meloni, la stessa Commissione europea che per anni ci ha chiesto di trovare una soluzione al problema Ita, quando troviamo una soluzione al problema Ita la blocca. Quindi non stiamo più capendo e vorremmo una risposta. Su questo è stato interessato anche il commissario Gentiloni”, ha detto la presidente del Consiglio.

A stretto giro di posta un portavoce dell’esecutivo comunitario ha chiarito che “la Commissione europea “non ha ancora ricevuto alcuna notifica” sull’accordo tra Ita e Lufthansa”. La situazione è degna di un filmato comico di terza categoria: Giorgia Meloni si lamenta per la mancata risposta a una lettera mai spedita. Così poche ore dopo deve intervenire il Ministero delle finanze italiano per chiarire che tutto va ben e che il dialogo con i commissari europei procede a gonfie vele, “a stretto contatto”. 

La stoccata pubblicitaria contiene anche un altro marchiano errore: a seguito del congedo della vicepresidente Ue, Margrethe Vestager, responsabile della concorrenza, stando a quanto viene ricordato a Bruxelles in ambienti vicini al dossier, il commissario Didier Reynders è ora il responsabile del portafoglio, mentre Paolo Gentiloni è competente per le questioni relative all’economia e non alla concorrenza. Non male, eh?

Buon lunedì.

Il Sud e la Resistenza dimenticata. Quei soldati che l’8 settembre 1943 divennero partigiani

La data dell’8 settembre 1943 resta incisa nella memoria degli italiani come sinonimo di incertezza, confusione, caos. L’annuncio dell’armistizio con gli Alleati, siglato qualche giorno prima a Cassibile, in provincia di Siracusa, giunse al termine di eventi che nell’estate avevano già profondamente turbato l’opinione pubblica nazionale: il 10 luglio lo sbarco degli anglo-americani in Sicilia, il 25 la caduta del fascismo e l’arresto di Mussolini. In poche settimane l’esercito tedesco si ritirava dal Mezzogiorno per attestarsi lungo la linea difensiva Gustav, non prima di aver consumato alcune stragi come quella del 12 agosto a Castiglione di Sicilia con 16 morti e quella del 6 settembre a Rizziconi, in provincia di Reggio Calabria, dove i morti furono 17, e non prima di aver anche saggiato la rivolta delle popolazioni meridionali, come a Matera il 21 settembre e una settimana dopo durante le famose Quattro Giornate di Napoli.

Nelle stesse ore in cui, alle prime luci del 9 settembre, il re e il maresciallo Pietro Badoglio con un seguito di alti ufficiali e dignitari lasciavano ignominiosamente Roma alla volta di Pescara, gettando nello scompiglio e senza più ordini l’esercito, altrove si preparava il terreno per sconfiggere il nazifascismo e riscattare l’onore nazionale. Sulle montagne del Centro e del Nord Italia si andavano organizzando i primi gruppi di resistenti ai quali, secondo una troppo semplificata storiografia, si aggiungevano i militari meridionali sbandati che si trovavano nell’impossibilità di restituirsi alle proprie famiglie. In verità la prima formazione garibaldina in Piemonte nasce la sera stessa del 9 settembre a Barge, in provincia di Cuneo, per opera di un siciliano, Pompeo Colajanni di Caltanissetta, che è entrato in contatto con il torinese Ludovico Geymonat, un professore di filosofia interdetto dall’insegnamento per aver rifiutato l’adesione al fascismo. Il gruppo è composto da circa ottanta militari, quasi tutti meridionali; Colajanni prende nome di battaglia Barbato in memoria di Nicola Barbato, medico, socialista e organizzatore delle lotte contadine di fine ‘800 in provincia di Palermo, e costituisce il Battaglione “Carlo Pisacane”, marcando l’inequivocabile nesso tra la guerra partigiana e il Risorgimento meridionale.

Con Barbato sono, tra gli altri, il pugliese Giovanni Latilla che diverrà comandante della VI Divisione Garibaldi “Langhe” e Vincenzo Modica di Mazara del Vallo che, con il nome di battaglia Petralia, sarà comandante della I Divisione Garibaldi “Piemonte” e avrà l’onore di portare la bandiera nella manifestazione conclusiva dell’esperienza partigiana il 6 maggio del 1945 in piazza Vittorio Veneto a Torino. Senza le capacità e i mezzi di cui disponevano i militari “sbandati” la Resistenza non sarebbe stata quella che conosciamo. La massima concentrazione partigiana in Piemonte è una conseguenza della dissoluzione della IV Armata rientrata dalla Francia dopo l’invasione del giugno 1940, al comando del generale Raffaello Operti. In Piemonte il Cln dispone dei fondi necessari per finanziare la guerriglia proprio grazie alle casse che il generale ha messo a disposizione convocando una riunione, presieduta dal suo aiutante, colonnello Reisoli, all’Albergo Venezia di Lanzo. Vi partecipano, oltre ad alcuni esponenti politici locali, i capi militari che già il 9 settembre si sono portati a Piano Audi, una località di montagna nel comune di Corio Canavese. Tra di loro Girolamo Rallo di Catania, che guida il gruppo Etna, e il comandante Aldo Barbaro di Catanzaro che verrà massacrato dai fascisti nel successivo aprile insieme a undici dei suoi uomini. Rallo e Barbaro hanno entrambi scelto di formare delle bande partigiane autonome dai partiti; non così un altro calabrese, Giuseppe Rije di Celico appartenente a una famiglia di antiche tradizioni democratiche che, con una trentina di uomini, è entrato in contatto con il gruppo del comunista Nicola Grosa, uno dei più attivi e generosi partigiani piemontesi. Cadrà in un agguato tesogli nel febbraio del ’44.

Ancora tra gli uomini che subito dopo l’8 settembre si sono portati a Piano Audi è Saverio Papandrea di Monteleone, l’odierna Vibo Valentia; sacrificherà la propria vita l’8 dicembre a Forno Canavese per coprire la ritirata dei suoi compagni nella prima battaglia in linea della storia della Resistenza, la battaglia di Monte Soglio. In Valsusa è il maggiore Luigi Milano di Lanciano a dare il via alla Resistenza subito dopo l’annuncio dell’armistizio; morirà qualche anno dopo a causa delle sevizie subite dopo la cattura, mentre cadrà in combattimento un altro comandante abruzzese, Sergio De Vitis di Lettopalena. Anche al di fuori del Piemonte i meridionali marcano la loro presenza subito dopo l’8 settembre. In Emilia è il calabrese Dante Castellucci a guidare, insieme ad Aldo Cervi, la prima spedizione partigiana sull’Appennino reggiano; e in Liguria Piero Borrotzu, sardo di Orani, insieme al corregionale di Cagliari Franco Coni, costituisce la Brigata d’assalto “Lunigiana”. Borrotzu verrà fucilato dai nazifascisti nell’aprile del ’44 nello Spezzino, a Chiusola di Sesta Godano, consegnandosi spontaneamente ai suoi carnefici per evitare il massacro di persone innocenti; Coni, nel dopoguerra, parteciperà alla fondazione del PSIUP.

Molte di queste storie sono poco conosciute perché ebbero per teatro le regioni del Centro-Nord e gli uomini che vi presero parte, quando non persero la vita, tornarono nel dopoguerra alle loro città di origine dove quella grandiosa epopea, con il corollario di indicibili sofferenze subite dalla popolazione civile, non era stata vissuta e ancor oggi, ottanta anni dopo, non è ben compresa e accolta come autenticamente propria.

L’autore: Pino Ippolito Armino ingegnere e giornalista, dirige la rivista “Sud Contemporaneo” e fa parte del comitato direttivo dell’Istituto “Ugo Arcuri” per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea. Tra i suoi libri, “Il fantastico regno delle due Sicilie” (Laterza 2021)

Giambruno, Meloni e la “libertà di stampa”

Così alla fine la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nonché compagna del giornalista Andrea Giambruno, ieri in conferenza stampa ci ha spiegato cosa sia la libertà stampa. Peccato che non c’entri nulla con il succo del discorso. Sviare, dunque, sviare sempre.

Riprendiamo la storia dall’inizio. Il giornalista Andrea Giambruno, compagno di Giorgia Meloni, dice testualmente: «Se eviti di ubriacarti e di perdere i sensi, magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche perché poi il lupo lo trovi». Ovviamente viene deriso e ricoperto di indignazione: la vittimizzazione secondaria è roba da lupi, appunto. Non contento Giambruno si ripresenta in televisione e non si scusa, anzi accusa i suoi accusatori di attaccare lui per attaccare il governo.

Normale quindi che si chieda conto al governo, interpellato dallo stesso Giambruno. Giorgia Meloni dice che pensa che il compagno «abbia detto in modo frettoloso e assertivo una cosa diversa da quella che è stata interpretata dai più». Cioè? È stato frainteso? Quindi avrebbe potuto spiegarsi meglio nella puntata successiva, no?

Ma il capolavoro è Giorgia Meloni che chiede ai giornalisti di smettere di chiederle del suo compagno che nel frattempo lamenta di essere attaccato per colpire la sua compagna che incidentalmente è presidente del Consiglio. E come chiama il suo desiderio di non voler rispondere alle cretinate pronunciate e mai smentite dal suo compagno in televisione? Libertà di stampa: “Vi prego, per il futuro, di non chiedermi conto di quello che un giornalista nella libera espressione del suo operato dichiara in televisione”, ha detto Giorgia Meloni sottolineando di non essere lei “a dirgli che cosa deve dire: non ritengo di poterlo fare perché io credo nella libertà di stampa davvero”.

“Libertà di stampa, davvero”. Che spettacolo osceno. 

Buon venerdì.

Nel sogno di Gilgamesh

Dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, quando le prime notizie sull’epopea di Gilgameš uscirono in Italia dalla cerchia degli specialisti, anche il grande pubblico iniziò a scoprire che l’Iliade e l’Odissea, i poemi che tutti conoscevamo, scritti nell’VIII secolo a. C. da un cantore dell’Asia Minore detto Omero, avevano nella letteratura sumerico-accadica un antecedente di 1500 anni. Eppure già da un secolo tavolette di argilla incise in caratteri cuneiformi, emerse dagli scavi archeologici, tra mito e storia testimoniavano agli studiosi europei le gesta del re di Uruk, fondatore della città sull’Eufrate: Gilgameš, l’eroe sumerico che molto prima della Bibbia aveva raccontato la storia del cosiddetto Diluvio universale. Ma le ragioni di un tale ritardo nella divulgazione delle scoperte tardarono a lungo ad emergere. Nel 1993 La saga di Gilgamesh fu finalmente pubblicata nella bella traduzione italiana del famoso assirologo Giovanni Pettinato, già traduttore del ricchissimo archivio di Ebla, emerso dagli scavi di Paolo Matthiae nella città siriana fiorita tra il 2500 e il 1600 a.C.

Le trame di Filomeno

La mostra di Angelo Filomeno al Must di Lecce, foto di Rosanna Carrieri

A cosa e a chi servono le mostre d’arte contemporanea? Sono convinta che servano alla collettività (o almeno così dovrebbe essere), non solo con un fine divulgativo, ma anche di tutela della memoria comune, del pensiero critico e degli spunti che da esse scaturiscono. E una mostra aperta fino al 22 ottobre a Lecce nel museo civico (Must) è in tal senso occasione di diverse riflessioni. In primo luogo, nel suo merito estetico e scientifico, che nel caso di Angelo Filomeno. Works. New Millennium, ideata da Claudia Branca e curata da Massimo Guastella, è indubbio, sia per la perizia tecnica che le circa sessanta opere dimostrano e per le scelte allestitive, sia per il rigore critico e filologico (ormai in disuso nell’iperconsumo delle mostre) e l’attenta ricostruzione condotta dal curatore in catalogo, del percorso artistico di Filomeno, newyorkese d’adozione da oltre trent’anni ma originario di San Michele Salentino, paese della provincia brindisina.

Un ministero alla deriva

Il ministro della cultura Sangiuliano

Facili profeti, anzi Cassandre, eravamo stati a febbraio nell’evento organizzato a complemento del numero di Left (2/2023), quando, a commento dell’atto di indirizzo del ministro Sangiuliano che fissava le priorità politiche del triennio 2023-2025, avevamo sintetizzato gli obiettivi del governo quanto a politiche culturali, come ispirati di fatto alla velleitaria esaltazione di primati culturali, funzionale da un lato all’appiattimento definitivo del patrimonio culturale a merce finalizzata alla rendita turistica, e dall’altro ad una quasi ossessiva rivendicazione identitaria, in termini conservatori. Ammettiamolo, però: nonostante le avvisaglie, e benché preparati al peggio, pochi di noi si aspettavano il livello di rozzezza, trash, incompetenza, asservimento, in una parola, cialtroneria che ha accompagnato la puntuale applicazione di quegli indirizzi politici.

Maurizio Ferraris: Tutta colpa della tecnologia?

L’ingresso dell’intelligenza artificiale (AI) nella vita di tutti i giorni ha aperto molti interrogativi e dibattiti. Alcuni giustamente anche sulla sua efficacia, dal momento che molte sue applicazioni si sono rivelate fin qui alquanto scarse e fallaci. Ma c’è anche chi si interroga sulla sua pericolosità, paventando persino che possa diventare «un’arma di sterminio dell’umanità». L’allarme è partito proprio da alcuni scienziati che hanno lavorato alla sua progettazione e che, nonostante ciò, hanno lanciato appelli e moniti (a cominciare da Sam Altman, Ceo di OpenAI e progettatore di ChatGpt): messaggi che hanno creato non poco sconcerto e che hanno dato indirettamente la stura a millenaristi che parlano dell’intelligenza artificiale come di una minaccia per l’uomo, preconizzando che l’AI possa diventare (non si sa come) consapevole di sé, prendendo il sopravvento su di noi umani, portandoci all’estinzione.
Come leggere queste fantasticherie? Cosa c’è dietro questa tecnofobia generalizzata? Quali sono i reali interessi in gioco? E dall’altro lato quali sono i vantaggi delle nuove tecnologie per la nostra vita? Come esercitare un controllo etico e sociale sullo sviluppo della tecnica più avanzata? Come indirizzarne la crescita in modo che la tecnologia sia sempre più un supporto e un potenziamento dell’umano? A questa fitta selva di domande prova a rispondere il libro Tecnosofia, tecnologia e umanesimo per una scienza nuova (Laterza), nato dal dialogo fra il rettore del Politecnico di Torino Guido Saracco e l’ordinario di filosofia teoretica dell’Università di Torino Maurizio Ferraris, che su queste tematiche è intervenuto il 9 settembre al festival Con-vivere a Carrara e il 15 settembre al festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo.

Svevo e Joyce, una, nessuna, centomila vite

«Trieste è un posto di transizione geografica, storica, di cultura, di commercio, cioè di lotta», scriveva nel maggio del 1912 su La Voce il letterato triestino Scipio Slataper. «Ogni cosa è duplice o triplice a Trieste, cominciando dalla flora e finendo con l’etnicità». La descrizione che fa Slataper della sua città è emblematica e mette a fuoco le caratteristiche di un luogo chiave della Mitteleuropa, allora porto strategico dell’Impero austro-ungarico, e crocevia dei destini di tanta storia del Novecento. Destini collettivi e individuali, come quelli di molti grandi scrittori: oltre allo stesso Slataper, tra gli altri spiccano i nomi di Umberto Saba, Biagio Marin, Carlo Michelstaedter, Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz) e quello di un illustre triestino d’adozione, il più illustre di tutti: James Joyce. Egli arrivò nella città friulana a ventidue anni il 20 ottobre del 1904, con la compagna Nora Barnacle. Il loro primo figlio nascerà proprio a Trieste l’anno seguente e avrà nome italiano, Giorgio, così come la seconda figlia Lucia.

L’utopia concreta di Salvador Allende

«Lavoratori della mia patria, ho fiducia nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento oscuro e amaro, in cui il tradimento pretende di imporsi. Voi continuate a sapere che, prima o poi, si riapriranno i grandi viali dove passa l’uomo libero per costruire una società migliore.¡Viva Chile! ¡Viva el pueblo! ¡Vivan los trabajadores! Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il mio sacrificio non sarà vano, sono certo che sarà almeno una lezione morale che condannerà l’inganno, la viltà e il tradimento». L’11 settembre 1973 un golpe militare capeggiato dal comandante in capo dell’Esercito, il generale Augusto Pinochet, rovescia violentemente il governo costituzionale di Unidad popular guidato dal socialista Salvador Allende dal settembre 1970. «Con un gesto di imperdonabile condotta, il popolo cileno elegge presidente Salvador Allende», scriverà ironicamente lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano. Si tratta di una vittoria storica per le sinistre cilene e per Allende che dopo ben tre tentativi (1952, 1958, 1964) viene eletto presidente della Repubblica del Cile con un programma che aspira alla costruzione di una società socialista nel pieno rispetto delle istituzioni democratiche.