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La morte di Barbara e la tragedia della psichiatria italiana

La Fondazione Massimo Fagioli non può tacere di fronte ad un fatto così terribile: l’omicidio della psichiatra Barbara Capovani. È una tragedia per tante ragioni, ma è anche, bisogna dirlo forte, la tragedia della psichiatria italiana. È innanzitutto la morte di una donna sul lavoro, un medico, una psichiatra, un dirigente del Servizio sanitario nazionale che da anni affrontava la malattia mentale grave. È morta alla fine del suo turno di lavoro, all’ospedale di Pisa, mentre slegava la sua bicicletta per tornare a casa. È stata uccisa da un uomo a bastonate. Barbara era per l’uomo che l’ha uccisa colpevole di essere a capo di un «complotto di psichiatri» che da anni lo perseguitava, questo ci hanno raccontato i mezzi d’informazione in questi giorni.

Nella realtà quest’uomo era stato ricoverato nel reparto di diagnosi e cura di cui era responsabile la psichiatra. L’ultima volta nel 2019. Quattro anni fa, da allora non l’aveva mai più vista. Questi i fatti in una sintesi estrema, ma ora proviamo a capire il perché di quanto è successo, con calma, a distanza di più di una settimana, dopo tanti articoli di giornale dopo i servizi della televisione, dopo le testimonianze sui social e mentre l’Italia ha organizzato per il 3 maggio tante fiaccolate per le strade di Pisa e di tante altre città, per ricordare il suo nome. Ora dobbiamo provare a dare anche delle risposte. L’ambiente della sanità pubblica fa da sfondo alla tragedia, migliaia di aggressioni ai danni degli operatori sanitari, medici e infermieri, ogni anno, in continuo aumento, nel pronto soccorso, nei reparti, negli ambulatori, dal medico di famiglia, per ragioni spesso assurde e con l’unica pallida giustificazione che il servizio sanitario, un tempo definito il più bello del mondo, sta crollando. La gente non lo sopporta, si sente ingannata dopo 40 anni di prestazioni gratuite per tutti.

Questo è solo lo sfondo del dramma. Di fronte all’incapacità dei tanti governi che si sono succeduti nel trovare soluzioni, solo il personale sanitario combatte tutti i giorni per continuare a essere almeno dignitoso nelle risposte da dare ai cittadini. Questo faceva Barbara, questo fanno tanti colleghi nei centri di salute mentale anche della nostra Fondazione, tutti i giorni, in condizioni che peggiorano di giorno in giorno. Al centro della scena c’è, poi, il dramma nel dramma, quello della psichiatria italiana: non si può fare solo una psichiatria territoriale. Non sono bastati 40 anni per capirlo, ci è voluta la morte di Barbara per farcelo vedere. Servono strutture di ricovero, non certo i vecchi manicomi, ma strutture diverse per le singole patologie, per chi non ce la fa più a stare in famiglia servono le comunità, per chi è pericoloso come quest’uomo serve ben altro. Forse neppure le Rems, residenze per le misure di sicurezza, sono sufficienti in alcuni casi.

La legislazione attuale in materia va, lo sanno tutti, modificata ma nessuno lo ha voluto dire. Ancora prima serve che la psichiatria spieghi alla magistratura e alla gente come stanno le cose. È questo per noi il punto più dolente e terribile: la confusione della psichiatria nel capire e nel dare delle risposte chiare a quello che succede ogni giorno e questo purtroppo in tutto il mondo e non solo in Italia. In questi giorni abbiamo sentito tanti discorsi giusti, ma anche tanti discorsi confusi di giornalisti ma anche di colleghi illustri: Quest’uomo era o non era un malato di mente?

Aveva sicuramente un disturbo di personalità multiplo, narcisista e antisociale che lo aveva portato ad aggredire già in precedenza un altro psichiatra sfregiandolo in volto, aveva collezionato reati importanti tra cui un’aggressione sessuale; tutto questo avrebbe già dovuto spingere la giustizia a fermarlo, ma no, il fatto che fosse un paziente psichiatrico ha reso la giustizia indecisa e tentennante e questo gli ha sicuramente permesso di compiere l’omicidio di Barbara. Tutto questo non può che confermare che è un malato di mente e forse potrebbe essere anche da considerare imputabile perché perfettamente consapevole delle sue azioni.

E qui il nostro Codice penale andrebbe grandemente riformato e soprattutto non si può chiedere alla psichiatria territoriale di occuparsi senza strumenti di malati cosi pericolosi. Dire che non è un malato di mente chi come lui uccide con tanta efferatezza una donna, un medico, una psichiatra che nella realtà aveva solo cercato di aiutarlo e di curarlo tanto tempo prima e che invece nel suo delirio era a capo di un complotto che non era mai cessato, non ha senso. Tutto questo, la lucida follia di conservare un pensiero malato per così tanto tempo per poi compiere un delitto cosi assurdo e inutile, parlano a noi psichiatri, inequivocabilmente, di quanto può essere in alcuni, per fortuna rari casi, distruttiva la malattia mentale.

La follia può uccidere sé stessi e gli altri. Questa verità inconfutabile è continuamente negata, discussa, confusa, invece deve essere chiaro, può essere pericolosa in alcuni casi, per sé e per gli altri, ma qualcuno continua a farlo, in modo sempre più grave, a nostro avviso, come chi aveva condiviso le posizioni dell’uomo che ha ucciso Barbara. Lo fanno per un’ideologia che a tanti sembrò molti anni fa una ipotesi di liberazione del malato di mente ma che oggi rivela tutti i suoi errori. La malattia mentale può avere in sé una profonda distruttività che si esplica soprattutto nella stragrande maggioranza di casi nel rapporto interumano, nelle relazioni familiari, nelle relazioni private e affettive provocando dolore e sofferenza a se stessi e a gli altri senza causare la morte di nessuno. Solo in alcuni e rari casi la può determinare.

Chi è entrato anche una sola volta in un reparto psichiatrico di diagnosi e cura come quello dove lavorava Barbara tutti i giorni, l’ha sentita questa tensione, questa sensazione di paura che la malattia mentale grave provoca e che gli psichiatri imparano ad affrontare con la sola forza del loro pensiero e della loro umanità più che con le fragili certezze della scienza. Sentire oggi finalmente la critica di questa ideologia ci lascia sperare che la morte di Barbara non sia avvenuta invano.

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L’autore: Andrea Masini, direttore della rivista Il Sogno della farfalla, è dirigente psichiatra del Ssn, membro del Consiglio scientifico di indirizzo della Fondazione Massimo Fagioli ETS

Dove andranno i folli rei?

Psichiatria, giustizia e politica sono chiamate ad affrontare un problema antico, ma adesso sempre più urgente, nel clima creatosi dopo l’efferato omicidio della psichiatra Barbara Capovani ad opera di un suo ex paziente. Come curare e dove accogliere gli autori di reato i quali si trovino in uno stato tale di mente da escludere, per infermità, secondo gli articoli 88 e 89 del Codice penale, la capacità di intendere e volere? Nonostante la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari nel 2015 e l’apertura delle Rems (Residenze per le misure di sicurezza) il problema è ancora aperto e tutto il sistema rivela delle crepe, come dimostrano i dati sulle liste di attesa per le Rems e quelli sempre più preoccupanti dei detenuti che sviluppano una patologia psichiatrica nelle carceri. Per non parlare poi della mancanza di risorse e di personale dei Dipartimenti di salute mentale che dovrebbero garantire assistenza territoriale per coloro che sono in libertà vigilata.

In questo scenario arrivano le due proposte di legge presentate di recente alla Camera. Una, di cui è firmatario il deputato Alfredo Antoniozzi di Fratelli d’Italia, lascia intatti i due articoli del Codice penale sul vizio totale e parziale di mente ma restringe la non imputabilità solo per gli autori di reato affetti da psicosi, considerando imputabili invece tutti quelli con disturbo di personalità. L’altra, decisamente più drastica, presentata da Riccardo Magi (+Europa) abroga i due articoli del Codice e considera tutti gli autori di reato con patologie psichiatriche imputabili e quindi tali da essere sottoposti a giudizio e ricevere una pena. È chiaro quindi che se da queste proposte di legge uscisse un testo poi approvato dal Parlamento, cambierebbe tutto il sistema delle misure di sicurezza così come è impostato adesso. Ed è facile ipotizzare che si aprirebbero ancora di più le porte delle carceri a persone malate di mente.

Ma andiamo per ordine, cercando di ricostruire la storia di questo travagliato rapporto tra giustizia, psichiatria e politica. La legge 180/78, determinando la chiusura dei manicomi, non aveva toccato la questione dei cosiddetti “folli rei”, che rimanevano confinati negli ospedali psichiatrici giudiziari. Bisogna attendere la legge 81/2014 per assistere alla chiusura progressiva degli Opg luoghi che in alcuni casi erano dei lager dove le persone ristrette a volte passavano tutta la loro vita (gli “ergastoli bianchi”).
Nel 2015 sono state aperte le Rems, strutture che accolgono sia i non imputabili, i “prosciolti”, sia coloro che sono in attesa di giudizio, i “provvisori”. È il sistema del “doppio binario”: una persona giudicata non imputabile viene sottoposta a misure di sicurezza perché giudicata pericolosa socialmente. Rimane poi la vasta platea dei detenuti che sviluppano patologie mentali in carcere (i “rei folli”) e che, secondo l’art. 148 del Codice penale una volta dovevano essere inviati negli Opg per osservazione e che adesso rimangono nei penitenziari. Le attuali 31 Rems, la cui gestione interna è esclusivamente di competenza sanitaria, sono in affanno, ospitano circa 600 persone e per via del numero chiuso molti rimangono fuori. Secondo i dati dell’ultimo rapporto di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, a dicembre 2022 erano 404 persone in lista d’attesa. La Società italiana di psichiatria nel congresso di fine maggio a Cagliari ha parlato di 700 persone “ad alta pericolosità sociale” a piede libero.

Su questi temi negli ultimi anni la Corte costituzionale si è pronunciata con due sentenze importanti. Con la sentenza 99 del 2019 la Consulta ha sancito un principio fondamentale: la salute psichica in carcere è equiparata alla salute fisica, per cui se la detenzione risulta incompatibile con le condizioni di salute della persona ristretta allora è possibile la cosiddetta detenzione domiciliare “in deroga” o “umanitaria”. La seconda sentenza, la 22 del 2022, ha richiamato la necessità di una riforma per risolvere l’inadeguatezza della disciplina sulle Rems.

Arriviamo quindi alle due proposte di legge depositate negli ultimi mesi alla Camera. Il testo di quella di Fratelli d’Italia è il frutto di una collaborazione con lo psichiatra Giuseppe Nicolò, che ha coordinato nell’interlocuzione con Antoniozzi vari dipartimenti di salute mentale. Lo stesso Nicolò è direttore del dipartimento della Asl 5 di Roma, è il curatore dell’ultima edizione del manuale diagnostico Dsm e all’inizio di maggio è stato nominato coordinatore vicario del tavolo tecnico della salute mentale istituito dal ministro Schillaci. La proposta di legge definisce la non imputabilità solo «per chi nel momento in cui ha commesso il fatto, era in evidente condizione di grave alterazione delle condizioni psichiche, di tipo psicotico, e del comportamento tale da escludere completamente la capacità di intendere e di volere». Nel mirino dell’estensore della proposta di legge, come si legge nella relazione introduttiva, ci sono i disturbi antisociali di personalità che non sono «espressione sic et simpliciter di un disturbo mentale». Andrebbe così superata, secondo Antoniozzi, la storica sentenza della Corte di Cassazione del 2005 che invece aveva ammesso la non imputabilità, in quel caso, per un grave disturbo di personalità. Nella premessa al testo di legge si sostiene che gli psichiatri in Italia nella formulazione dei loro giudizi non possono «far riferimento a principi condivisi e chiari, come in tutti i Paesi civili» ed emerge un retroterra culturale sulla natura umana con riferimenti al pensiero cristiano giudaico (l’uccisione di Abele). Per gli autori dei reati con disturbi psichici imputabili rimane solo una possibilità: «l’espiazione in carcere». Certo, nei luoghi di detenzione si prevede un potenziamento «dell’offerta psicoterapica e farmacologica» e si sancisce il diritto costituzionale alla cura ma tra le righe si intravede il senso fortemente punitivo del provvedimento, tanto che Il secolo d’Italia annuncia la proposta di legge con il titolo: “Una riforma per garantire giustizia alle vittime”.

Il retroterra culturale della proposta di legge Magi appare diametralmente opposto, anche se va ben oltre, quanto a interventi su tutto il sistema. Il testo, si legge, nasce da una elaborazione collettiva a cui hanno partecipato vari soggetti, tra cui la Società della ragione, l’Osservatorio sul superamento degli Opg, il coordinamento delle Rems e dei Dsm, Magistratura democratica. La proposta di legge prevede che tutti gli autori di reato con vizio totale e parziale di mente siano imputabili – abrogazione quindi degli articoli 88 e 89 -, la dizione “persona inferma di mente” viene sostituita con “persona con disabilità psicosociale” e si propone la riconversione delle Rems come articolazioni dei dipartimenti di salute mentale delle Asl. Sono previste anche norme per definire «misure per evitare la carcerazione per il detenuto con disabilità psicosociale» sulla base della sentenza della Consulta del 2019 e anche norme perché il detenuto riceva in carcere cure adeguate. Franco Corleone, tra i promotori del testo, ex commissario per il superamento degli Opg e adesso garante dei detenuti a Udine, spiega il cuore della riforma: «Chiunque commetta un delitto, questo non può essere attribuito alla malattia. È lui che lo compie. Poiché ci sono molti malati che non compiono reati o crimini, il giustificazionismo rispetto all’origine del delitto in realtà non aiuta la consapevolezza e neppure quindi una risoluzione terapeutica della malattia, che indubbiamente esiste». Lo slogan ai tempi della legge 180 era “La libertà è terapeutica”, con tutte le conseguenze, visto che, a detta di molti psichiatri, non si sostenne poi la ricerca scientifica sulla psicopatologia. Adesso le parole chiave sono “La responsabilità è terapeutica”. Che cosa accadrà a queste persone? Il “diritto al giudizio”, continua Corleone, prevede «un’attenuante specifica per le condizioni del soggetto, in modo che non ci sia un giudizio persecutorio, ma correlato alla situazione. L’idea poi è di proporre a queste persone immediatamente un percorso di misure alternative. Quindi rimane la condanna ma in strutture adatte individualmente al soggetto perché lo spettro del disturbo mentale è molto vasto».

A proposito di strutture, qual è la situazione delle Rems? Franco Scarpa, ex direttore dell’Opg di Montelupo fiorentino, è responsabile della Rems di Empoli, partita nel 2020: «Le Rems dovranno modificarsi – dice -. Oggi sono tutte uguali, cioè non c’è differenza nei percorsi di accesso. Chi prima finiva nell’Opg oggi finisce nella residenza e invece per il futuro bisognerebbe pensare a Rems differenziate per livelli di gravità di patologia, a seconda della diagnosi, e anche per tipologia di reato che può richiedere in certi momenti un intervento specifico intensivo». Rispetto alle proposte di legge presentate, visto che si occupa anche della salute mentale delle carceri nell’Asl Toscana centro (Sollicciano, Prato), lo psichiatra sottolinea: «Bisogna che cambi molto nell’organizzazione del carcere per poter dare adeguati interventi di cura alle persone. Altrimenti si ricreano gli Opg in carcere».

Le carceri, appunto. Nei principali istituti di pena sono state create le articolazioni per la tutela della salute mentale (Atsm), sezioni a prevalente gestione sanitaria, sono 32 e ospitano attualmente, secondo il rapporto di Antigone, 247 pazienti. Ma il disagio psichico è diffuso in tutta la popolazione carceraria: nel 2022 le diagnosi psichiatriche gravi ogni 100 detenuti erano 9,2 (quasi il 10%), il 20% dei detenuti assumeva stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi e il 40,3% sedativi o ipnotici. Ogni 100 detenuti le ore di servizio degli psichiatri erano in media 8,75, quelle degli psicologi 18,5. Susanna Marietti, coordinatrice di Antigone, dipinge un quadro allarmante: «Le persone non imputabili vanno in Rems, quando trovano posto. Ma dei cosiddetti sopravvenuti, cioè coloro che sviluppano un disagio psichiatrico quando sono detenuti, se ne deve occupare il carcere. E allora occorre mettere risorse e impegno almeno su due temi». Primo: la maggioranza dei detenuti ha un disagio di tipo sociale e quindi c’è più bisogno di educatori che di «dargli delle goccine». Il secondo aspetto riguarda invece coloro che hanno davvero patologie mentali. «La situazione – continua Marietti – va gestita da un punto di vista psichiatrico, con una precisa presa in carico, queste persone non si possono “neutralizzare” dando loro dosi massicce di psicofarmaci o mettendole in isolamento. E poi va valutato, sulla base della sentenza della Corte costituzionale del 2019, se la permanenza in carcere è compatibile con la malattia. Ma purtroppo questo è difficile da attuare. Ci sarebbe bisogno di un servizio territoriale che però manca e la persona rimane in carcere». Nel 2018, a cavallo di due governi (Gentiloni e Conte1) ci fu la possibilità di potenziare l’assistenza psichiatrica negli istituti di pena quando si mise mano alla riforma dell’Ordinamento penitenziario. Ma vennero stralciate proprio le proposte sulla tutela della salute mentale.

Eppure il problema, si torna sempre lì, è quello della cura. Tiziana Amici, psichiatra in una azienda ospedaliera a Roma, ha fatto anche perizie sull’infermità di mente di autori di reato. I parametri sono quelli forniti dal manuale diagnostico del Dsm, quello maggiormente utilizzato dalla psichiatria, importato ormai da decenni dagli Stati Uniti. Nel testo, spiega la psichiatra, sono inclusi i disturbi di personalità, alcuni dei quali possono presentare in alcune occasioni sintomi cosiddetti psicotici per i quali non è facile stabilire sia se fossero presenti al momento del fatto sia in presenza di questi fare una diagnosi differenziale con vero e proprio disturbo psicotico. «Lo psichiatra – afferma Amici – deve stabilire se le alterazioni psicopatologiche del reo abbiano un nesso di causalità con il reato, non è la diagnosi di per sé che fa incapace un reo. E naturalmente conta molto il background, la formazione dello specialista nel comprendere se si tratta di un soggetto manipolativo e scaltro, oppure no. È chiaro che se uno si basa solo sul comportamento questo può risultare difficile». I percorsi di cura dei rei malati di mente, continua la psichiatra, dovrebbero essere differenziati «al fine di intervenire in maniera mirata per non compromettere gli interventi su pazienti che potrebbero essere limitati da coloro che hanno diagnosi meno gravi ma difficilmente trattabili». Bisognerebbe puntare sempre verso la cura, è possibile anche per chi ha il disturbo antisociale di personalità? «La cura sì, magari con un programma serrato, un progetto di vita pensato in un certo modo… Può darsi che chi ha un disturbo antisociale poi non delinqua più. Dove sta scritto che devono delinquere a vita?». Il nucleo del problema, sintetizza Tiziana Amici, è questo: «Se sei malato e hai fatto un reato, ma pure se non l’hai fatto in conseguenza della tua patologia, dovresti essere curato».

La ricerca doverosa sul pensiero che si ammala

Spente le fiaccole che il 3 maggio hanno accompagnato in tantissime città italiane, in silenzio, il dolore e lo sdegno delle persone per la morte della psichiatra Barbara Capovani, il 23 aprile, uccisa barbaramente da un paziente che conosceva ma che non vedeva da quattro anni, in queste settimane si è acceso un grande dibattito sulle modalità operative e legislative riguardo la sicurezza in cui versano gli operatori sanitari e in particolare coloro che operano nell’ambito della psichiatria. Ci sentiamo in dovere soprattutto sotto l’aspetto deontologico di approfondire questo confronto. Una tragedia che poteva essere evitata se gli organi competenti avessero lavorato in sinergia, ma non solo, se avessero avuto un’idea di quanto possa essere distruttiva e pericolosa la malattia mentale. Per questo motivo il nostro dolore come medici, psichiatri, psicologi, infermieri, sta nel constatare l’enorme ritardo scientifico-culturale che sconta la psichiatria italiana, abbandonata a sé stessa a livello territoriale, e un sistema giudiziario lento e macchinoso. Ma è tutto il Servizio sanitario nazionale a collassare, basta vedere cosa succede nei pronto soccorso e il livello di violenza contro gli operatori sanitari ritenuti responsabili di una malasanità generalizzata.

Certo, non possiamo tornare ai vecchi manicomi, togliere i malati mentali dalle catene è stato un atto di giustizia umana, ma a questo aveva già pensato lo psichiatra francese Philippe Pinel duecento anni fa. Chiudere gli Opg, i vecchi manicomi criminali, e questo si è verificato in tempi più recenti (legge 81/2014), è stata un’altrettanta azione felicemente concertata tra psichiatria e diritto. Sembrava quindi che questo «matrimonio sofferto» , (così come l’ha chiamato la psichiatra Maria Rosaria Bianchi su Left) tra magistratura e psichiatria, portasse a una valida collaborazione e intendimenti comuni: la sicurezza dei cittadini da una parte e le possibilità di cura dall’altra. Sono nate così le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, 2015), strutture residenziali per pazienti autori di reato, a livello regionale. E qui nascono di nuovo i problemi tra sicurezza, imputabilità, responsabilità e gestione del conflitto del cosiddetto folle reo.

Un contenzioso che risale perlomeno agli anni Trenta con il Codice Rocco e il sistema del doppio binario, cioè ad un sistema punitivo-retributivo (imputabilità) si affianca un sistema di misure di sicurezza volte a proteggere la società dai soggetti socialmente pericolosi (pericolosità sociale). Qui viene il punto dolente, in quanto la psichiatria è legittimata dal proprio sapere medico a definire il confine che consente di riconoscere in un soggetto la presenza della follia. Noi riteniamo che non può essere solo l’analisi comportamentale a definire questo stato ma alla magistratura interessa solo il fatto compiuto e la possibilità di reiterare il reato. Nel corso degli anni poi si è cercato nelle neuroscienze quel tanto di substrato scientifico (misurabile, documentabile e riproducibile) però con scarsi risultati, e in molti si sono arresi trovando nella scappatoia della follia transitoria (Fornari) vizio parziale, disturbo borderline (come nel delitto di Novi Ligure del 2001 che vide imputati due giovanissimi, Erika e Omar), parlando sempre più di disturbi e abolendo il termine malattia, abbandonando la ricerca della psicopatologia classica. Di fatto la psichiatria si è fatta il funerale da sola, proprio nell’incapacità di fare diagnosi; non esistono più termini, descrizioni, diagnosi differenziali ad esempio tra psicopatia e schizofrenia, anzi raramente vengono nominate.

Forse dovremo ripartire proprio da lì, da quei due filoni di ricerca del pensiero psichiatrico, quello dell’Erklaren (spiegare) e quello molto più proficuo del Verstehen (comprendere). Nella storia psichiatrica purtroppo ha prevalso il primo filone, quello descrittivo e così si è persa quella capacità di comprendere cosa c’è dietro un comportamento o un gesto efferato che sia. Tuttavia le scoperte in psichiatria negli ultimi 50 anni sono state fatte e mentre la ricerca procede, il codice penale è fermo agli anni 30 del secolo scorso, nel quale si ha una visione ancora manicomiale del paziente psichiatrico autore di reato. Come afferma Enrico Zanalda, psichiatra e presidente della Società italiana di psichiatria forense, «…deve esserci un chiaro nesso di causa fra la psicopatologia del paziente e il crimine commesso: questa è la difficoltà». Quindi per il magistrato non conta tanto il disturbo o malattia che sia, conta il nesso con il reato, e il problema drammatico che si pone è che una stessa perizia nel corso del dibattimento processuale può avere esiti diversi a seconda dello specialista che la esamina.

Come sfondo di quanto detto, teniamo conto che l’assassino di Barbara Capovani, Gianluca Paul Seung, partecipava come relatore tranquillamente a forum, congressi di psichiatria e al tempo stesso aveva già colpito in precedenza, sfregiando al volto uno psichiatra e nella lista annoverava anche un’aggressione sessuale, tale da essere stato valutato dal perito come pericoloso socialmente. Nelle Rems dove era stato inviato non c’era posto e dal momento che la sentenza era passata in giudicato nello scorso gennaio, si aspettava una nuova perizia psichiatrica, un ritardo risultato fatale alla dottoressa viareggina. La nostra riflessione verte sul motivo per il quale fosse necessaria una nuova perizia. Anche se per la legge questo è l’iter, rileviamo una contraddizione, come se prima fosse malato e poi no, come a cancellare tutti i precedenti di una certa gravità rilevante. Considerando anche i tempi lunghissimi del nostro sistema giudiziario, pensiamo che certi pazienti così gravi e pericolosi non possono essere lasciati liberi, per questo servono strutture alternative che non siano il carcere da una parte né le Rems dall’altra.

Ecco che qui psichiatria e magistratura drammaticamente si annullano a vicenda a scapito di quegli operatori che lavorano in quel settore. In Italia in materia forense e secondo il criterio d’imputabilità un paziente giudicato colpevole può essere considerato totalmente malato come previsto dall’art. 88 del Codice penale, cioè con vizio totale di mente, che prevede il proscioglimento, oppure parzialmente malato secondo il suddetto Codice con l’art. 89, vizio parziale di mente, e in questo caso si applica uno sconto di pena pari a un terzo della stessa, da scontare in carcere. Inoltre si valuta la pericolosità sociale del soggetto se inviarlo nelle Rems, oppure nei casi meno gravi in strutture territoriali, comunità, case famiglia, insieme cioè a persone che non hanno commesso reati. Un’ulteriore riflessione che ci si pone davanti, come afferma anche Zanalda, è proprio la logica dell’art. 89, cioè il vizio parziale di mente, quella perplessità che dicevamo prima: o si è malati o non lo si è, e questo chi lo stabilisce se non il medico?

Quindi oltre al problema di una riforma richiesta a gran voce del sistema legislativo la psichiatria deve riprendere la ricerca sul quel Verstehen, quel comprendere che ha avuto negli anni 60 il suo massimo splendore: Barison ma ancor più Fagioli andando oltre l’osservazione puramente fenomenologica con le formulazioni sulla percezione delirante, lo strano schizofrenico aprendo territori fino allora inesplorati su quella che era l’intenzionalità inconscia di un soggetto affetto da malattia mentale.
Ma forse per comprendere meglio la psicopatologia, tutti noi operatori Psi siamo chiamati a studiare più a fondo la fisiologia della mente e a capire quando il pensiero di un essere umano si ammala, partendo già dai primissimi anni di vita e poi nello sviluppo perdendo quella realtà affettiva di socialità e sensibilità, caratteristica unica e specifica della specie umana.

Per questo il dolore di cui parlavamo all’inizio colpisce tutti indistintamente, e se Barbara fosse ancora qui, tutte quelle fiaccole le chiederebbero ma perché proprio tu, perché ha scelto te, non ti vedeva da quattro anni, cosa è scattato in lui da provocare questo odio così feroce? Perché eri una donna oltre che psichiatra? O avevi qualcosa in più di tutti gli altri psichiatri conosciuti e inseriti nel suo complotto delirante. Forse una vitalità, un amore, un interesse vero per gli altri che faceva di te una bella identità e immagine. Difficile trovare una risposta. Il compito arduo nel nostro lavoro così complesso e appassionante al tempo stesso, è quello di cercare sempre una reazione dietro ogni forma di violenza, una reazione di chi crede di non poter avere mai questo interesse, questo amore, questa vitalità, questa bellezza.

L’autore: Massimo Ponti è psicologo clinico-psicoterapeuta. È coautore del libro La violenza contro le donne (L’Asino d’oro)

Nella foto: Barbara Capovani, la psichiatra dell’ospedale Santa Chiara di Pisa, uccisa a fine aprile da un suo paziente

Al gran ballo delle riforme

Il 9 maggio scorso Giorgia Meloni ha aperto le danze al ballo mascherato delle riforme, convocando tutte le opposizioni a Palazzo Chigi. Si è trattato soltanto di un primo giro di danza per la scelta dei ballerini disposti a ballare sulle note di Fratelli d’Italia. Dopo questo giro saranno scartati i ballerini più distonici, ma Giorgia Meloni non ha paura di ballare da sola, anche se Renzi si è prontamente offerto di partecipare al gran ballo delle riforme costituzionali.

Meloni non ha tirato fuori un suo progetto, come aveva fatto nella passata legislatura quando aveva presentato un disegno di legge di modifica della Costituzione (A.C. 716) ispirato all’iper presidenzialismo di tipo francese, che fu bocciato per pochi voti. In realtà il presidenzialismo è stato sempre un cavallo di battaglia del Movimento sociale (Msi) di Giorgio Almirante. Quel disegno esprimeva la tradizionale insofferenza dei fascisti per il regime parlamentare, coniugata con una concezione autoritaria dei poteri pubblici. Giorgia Meloni, avendo sempre orgogliosamente rivendicato la sua provenienza da quel fronte e da quella cultura politica, adesso ha la possibilità di mettere mano a quel progetto, incidendo su quegli assetti della democrazia costituzionale che i Costituenti avevano concepito per preservare l’ordinamento dal pericolo di svolte autoritarie. Il paradosso dell’Italia è di avere una Costituzione scritta, partorita nel fuoco della Storia, che da oltre trent’anni è vissuta con insofferenza da molti settori dell’arco politico, a partire dalle famose picconate di Cossiga. Fino al punto che si è sviluppata quella che il giurista Dossetti ebbe a definire una «mitologia sostitutiva».

Vale a dire si imputano alla Costituzione quei problemi che la politica non riesce a risolvere, in questo modo si crea un mito che nasconde l’incapacità delle forze politiche di governo e di opposizione di indicare una prospettiva di sviluppo per la società italiana nel suo complesso scaricando i fallimenti della politica sulle istituzioni. Tutti i tentativi di riforma della Costituzione che si sono sviluppati negli anni, non sono venuti fuori da reali esigenze dei cittadini o da difetti degli ingranaggi costituzionali che abbiano pregiudicato l’attività di governo. La modifica dei meccanismi della democrazia costituzionale è un obiettivo che è sempre stato a cuore di ceti dirigenti, (sia di destra che di centrosinistra), che, accecati da una bulimia di potere, hanno posto mano a progetti di grande riforma della Costituzione rivolti a dare più potere al potere. Prima di Meloni ci aveva provato Berlusconi nel 2005, con una riforma che riscriveva completamente l’ordinamento della Repubblica, puntando ad una sorta di “premierato assoluto”, progetto sconfitto nel referendum del 25/26 giugno del 2006.

Poi ci aveva riprovato Renzi nel 2016, modificando la Costituzione e la legge elettorale. L’Italicum introduceva un sistema elettorale, molto simile alla legge Acerbo del 1923, volto a creare le condizioni per il governo di un unico partito, sennonché il popolo italiano bocciò la riforma con il referendum del 4 dicembre 2016 e subito dopo la Corte Costituzionale dichiarò incostituzionale l’Italicum. La presidente del Consiglio Meloni è cosciente del rischio che le proprie ambizioni costituenti possano essere travolte dal referendum, che opportunamente i Costituenti hanno previsto a garanzia della stabilità della Costituzione. Per questo sta sondando l’opposizione per scegliere fra i vari progetti quello che potrebbe incontrare la minore resistenza in Parlamento in modo da ottenere una maggioranza che le consenta di evitare il referendum.

Comunque sia, una volta iniziate, le danze non si fermeranno perché Giorgia Meloni ci ha detto quali sono i suoi punti fermi: rispetto del voto dei cittadini e rispetto dell’impegno assunto con gli elettori di fare le riforme. Sotto la formula del rispetto del voto espresso dai cittadini si cela l’opzione per una democrazia dell’investitura. La riduzione delle procedure della democrazia all’investitura del capo politico che, essendo eletto direttamente dai cittadini ha il diritto/dovere di governare, senza subire condizionamenti di sorta dal Parlamento o dagli organi di garanzia, costituisce la vera concezione istituzionale di questa destra. Meloni è disposta a trattare sul modello ma non sul principio dell’investitura.

A questo riguardo, le “aperture” di Renzi e di Calenda sul cosiddetto “sindaco d’Italia” le hanno fornito un atout formidabile. L’altro punto fermo è quello di un preteso rispetto degli impegni assunti con gli elettori. Questa giustificazione deve essere respinta al mittente. Fin quando è vigente la Costituzione nessun partito può promettere agli elettori di fare la pelle alla Costituzione italiana perché sarebbe un atto eversivo. La gara elettorale si svolge all’interno di un quadro di regole e valori. Coloro che ottengono la maggioranza in Parlamento hanno il dovere di governare e sviluppare il loro progetti politici all’interno del quadro costituzionale predefinito, ma non possono attribuire al mandato elettorale la spinta a rovesciare il tavolo. Non c’è nessun mandato politico che consenta o autorizzi di mutare il volto della Repubblica, nata dalla Costituzione frutto della Resistenza.

L’autore: Il magistrato Domenico Gallo è stato presidente di sezione della Corte di Cassazione. Già senatore della Repubblica, fa parte del comitato esecutivo del Coordinamento per la democrazia costituzionale

Nella foto: Riforme istituzionali, confronto del presidente Meloni con le opposizioni, Roma, 9 maggio 2023

Se i reazionari gridano “al lupo!

Illustrazione di Valentina Stecchi

Gridano “al lupo, al lupo!” facendo le vittime perché la “razza bianca e cristiana” sarebbe – a loro dire – minacciata. Lanciano proclami paranoici farneticando di complotti e di sostituzione etnica. Rovesciano la realtà parlando di “dittatura delle minoranze”. Benvenuti nel mondo delle cultural wars della destra reazionaria di cui è stato campione Trump e che ha fatto scuola anche in Italia, con la leader di Fratelli d’Italia e presidente del Consiglio Giorgia Meloni cresciuta a pane e Trump, ad acqua e Orbán, che lancia crociate contro «i liberal – progressisti, neomarxisti, intossicati dal sogno della wokeness, quelli a libro paga di Soros e che vogliono abolire lo stile di vita occidentale» (cit. del presidente ungherese).
Ma davvero va fermata l’onda woke che, dopo la barbara uccisione di George Floyd, ci ha aperto gli occhi sul razzismo strutturale delle istituzioni Usa? Esiste una prevalicante “cancel culture” che ci ruba il bacio di Biancaneve? Esiste una dittatura del politicamente corretto imposta dall’egemonia di sinistra? Lo abbiamo chiesto a Davide Piacenza, collaboratore di Esquire e di altre riviste ma soprattutto autore di una newsletter e di un brillante volume su questi temi, La correzione del mondo (Einaudi).
Davide Piacenza, quale pensiero, o per meglio dire quale ideologia, c’è dietro l’ossessione del governo Meloni per la risemantizzazione di parole chiave, per la rinominazione dei ministeri, per l’ostracizzazione dell’inglese (salvo poi incappare in vistosi incidenti come la campagna “Open to meraviglia”)?
Non so se “Open to meraviglia” sia un esempio a esse ascrivibile, ma di certo il governo italiano ha sposato quelle che Oltreoceano vengono definite culture wars, appunto: scontri culturali che sfruttano la mediatizzazione caotica di questi tempi per imporre temi del dibattito divisivi e simbolici. Perché tutte queste uscite sulla carne sintetica, su nuove pene per gli attivisti per l’ambiente che deturpano i monumenti, sui rave e persino sull’uso dei termini anglofoni nella comunicazione pubblica? Perché su questo Giorgia Meloni e sodali sono andati a scuola, e non da oggi: al di là dell’Atlantico Donald Trump e il suo attuale primo sfidante alle primarie repubblicane, il governatore della Florida Ron DeSantis, hanno perfezionato l’arte di sviare l’attenzione pubblica incanalandola in questioni secondarie ma che accendono il loro elettorato. Ultimamente è accaduto persino con le cucine a gas, che la propaganda martellante della destra americana ha indicato come le prossime vittime dell’amministrazione Biden.
Razza, etnia, sostituzione etnica, che dire delle esternazioni del ministro Lollobrigida? La toppa che poi ha cercato di metterci è stata peggiore del buco?
Sì, tenderei a inquadrarla in questi termini. Anche perché, anche in questo caso, l’uscita sulla «sostituzione etnica» non è solo un inciampo, ma un riferimento evidente a una teoria complottista di grande rilievo in seno alla destra internazionale, a cui sia Meloni che Salvini – come spiego nel mio libro – hanno attinto ampiamente negli ultimi anni. Non si può cadere dal pero e dire “non sapevo nulla”: se Lollobrigida non avesse veramente saputo niente in merito al cosiddetto presunto Great Replacement, se non avesse contribuito a diffonderne la velenosa propaganda reazionaria, non si fatica a immaginare che verosimilmente il suo partito non avrebbe vinto le elezioni e lui oggi non sarebbe ministro.
In che modo il conservatorismo ha imboccato la strada delle politiche intimidatorie non solo in Italia, ma prima ancora negli Usa con Trump, in Brasile con Bolsonaro, in Russia con Putin e Dugin?
La destra ha problemi con l’intimidazione da un secolo, per dirla con una battuta. L’amara novità degli ultimi anni, però, è che sembrano completamente scomparsi i liberal-conservatori, o meglio ancora lo stesso concetto di una “destra moderata”: come si fa ad annoverare fra i moderati chi sostiene e ripete su un palco teorie complottiste di stampo razzista? I Paesi che citi hanno storie molto diverse fra loro, ma un fil rouge che li lega è anzitutto la polarizzazione accelerata che piaga la nostra epoca: Trump, Bolsonaro e Putin hanno dalla loro parte non soltanto messaggi semplici e falsi con cui sedurre l’elettore, ma anche imponenti piattaforme comunicative che vanno a nozze col loro penchant per la disinformazione. In questo senso, credo che la radicalizzazione reazionaria sia anche e soprattutto figlia delle camere dell’eco dei social network, oltre che dell’intolleranza tipica delle forze politiche xenofobe.
Ron DeSantis, il governatore repubblicano della Florida che vuole conquistare la Casa bianca, ha varato lo Stop woke act, che dire?
Il suo è un tentativo di ergersi a paladino di una «cara vecchia America» che non esiste più, e in certi termini non è nemmeno mai esistita: DeSantis ha puntato tutte le sue fiches sul modus operandi di cui parlavamo poc’anzi, quello che rende più profittevole dimostrarsi accaniti e spietati di fronte a questioni simboliche e secondarie. Rimanendo allo Stop woke act, nessuno è davvero convinto che la Florida avesse un’emergenza di corsi ottusamente antirazzisti insegnati nelle sue scuole pubbliche, rispetto a dover – faccio un esempio – giustificare in una conferenza stampa trasmessa in diretta i numeri deludenti di un’economia in flessione.
Le destre sostengono che esista una dittatura del politically correct, è davvero così in un’Italia che – come tu ricordi nel libro – ha visto un ministro condannato per aver appellato come «orango» una collega nata in Congo; un’ Italia che ha visto un vice premier ammonire una contestatrice dicendo «stai buona zingaraccia» e parlare impunemente di «Rom e topi»?
No, la «dittatura del politically correct» agitata come un fantoccio dai reazionari a caccia di qualche voto spaventato non esiste. Attenzione però a non incappare nell’errore speculare, quello per cui allora il cosiddetto “politicamente corretto” è un’invenzione di destra non nel suo significante, ma nel suo significato: in risposta agli «al lupo!» reazionari c’è chi a sinistra giura e spergiura che non stiamo vivendo nulla di sostanzialmente nuovo, che le cacce alle streghe sui social tutto sommato non sono un grave problema e che beh, se anche due libri classici vengono riscritti che sarà mai? Parliamo d’altro. Ecco: è una prospettiva sbagliata e controproducente, perché lascia praterie alle destre e perché sottovaluta l’aspetto più importante: il mondo sta cambiando davvero, e noi dobbiamo imparare a convivere nelle nuove società senza renderle far west ostaggio di rese dei conti algoritmiche.
Perché, come tu scrivi, quella dei conservatori sulla Sirenetta nera è stata propaganda reazionaria?
È propaganda perché è l’ennesimo diversivo interessato. Nemmeno Andersen stesso avrebbe perso il sonno di fronte alla possibilità che la Sirenetta potesse essere interpretata da un’attrice afroamericana: sono polemiche inesistenti, animate da piattaforme digitali regolate da algoritmi di cui non sappiamo niente, che generano numeri di pubblico enorme su cui è quasi impossibile indagare e poggiano su viralità di cui molto spesso non conosciamo l’origine. Poi sì, certo: ci sono i razzisti, quelli che vorrebbero vedere meno persone nere in generale: ma non concediamogli il lusso di orientare la nostra attenzione.
C’è anche una sorta di “whitewashing” da rifiutare perché esprime solo un antirazzismo di facciata?
Riguardo al whitewashing, rispondo più a monte: sono persuaso del fatto che una considerazione di casting che diventa una casella da spuntare in un riquadro identitario sia una considerazione di casting anti-artistica, controproducente e persino un po’ triste. La Sirenetta nera è una cosa buona e giusta, così come è cosa buona e giusta un personaggio originariamente nero interpretato da un attore bianco: se gli attori sono bravi e ci fanno emozionare, che ci importa di che colore è la loro pelle?
Riguardo alla diatriba sulla traduzione dei versi della poetessa Amanda Gorman, lo scrittore maliano Soumaila Diawara ha scritto su Left che la traduzione è un fatto di sensibilità non una questione genetica che riguardi il colore della pelle.
Sono del tutto d’accordo con Diawara, e mi sembra che completi ciò che stavo dicendo: se una traduttrice ha studiato, approfondito e amato una tradizione diversa dalla sua – o, appunto, una poetessa di un’altra etnia – per quale motivo non dovrebbe poterla trasmettere? Una visione così piatta e a compartimenti stagni dell’esperienza umana e della cultura produce soltanto mostri: e invece così tanto di ciò che di buono e di buonissimo è venuto dalla storia dell’arte è il risultato di esperienze diverse che si mescolano. Non illudiamoci di fare del bene mettendo dei paletti strettissimi attorno a ciò a cui è lecito sentirci affini.
Anche per questo piuttosto che star chiuso a discutere nella tua bolla sui social hai ideato una newsletter e hai scritto questo libro?
La newsletter Culture Wars è nata da un’urgenza personale, per così dire: ero stufo di discutere di cose come la rappresentazione delle minoranze, l’appropriazione culturale e la fantomatica “cancel culture” nello spazio di un tweet o un post su Facebook, perché ne nascevano solo malintesi a cascata, accuse a priori e assenza di dialogo, sostituito da un incasellamento farraginoso e sempre manicheo. Nei primi mesi ha raccolto prima centinaia e poi più di un migliaio di iscritti: oggi sono circa 2000, e non posso che esserne orgoglioso, perché mi arrivano con frequenza email di persone che dicono – riassumendo – di essermi in un certo senso grate, perché finalmente hanno trovato punti di vista ragionati, informati e sensibili su temi su cui si leggono quasi soltanto urla belluine e certezze granitiche da like. Il libro è arrivato nel modo più inatteso: un editor di Einaudi stile libero era tra i primi iscritti della newsletter, ne ha intuito il potenziale e mi ha chiesto di renderla un approfondimento più ampio.

In apertura una illustrazione di Valentina Stecchi

Il nero è il colore di stagione

L’universo mediatico e post-mediatico è ad un giro di boa cruciale. La destra fa sul serio, animata com’è dal desiderio di assurgere alla serie A dell’informazione e dell’industria culturale, finora vista spesso dal buco della serratura.
Vediamo i dati, per non essere generici, allargando la visuale al racconto della guerra, parte integrante di tale tendenza. Si comprenderà che la precipitazione odierna ha dei prequel significativi. È stato presentato il 23 maggio scorso, presso il Dipartimento di comunicazione e ricerca sociale dell’Università Sapienza di Roma, lo studio promosso dall’Osservatorio Tg Eurispes-CoRis Sapienza (presieduto da Alberto Baldazzi, con Christian Ruggiero direttore scientifico) entrato di recente in partnership con la Fondazione intitolata a Paolo Murialdi. Si tratta di un rapporto sugli ultimi mesi di informazione radiotelevisiva.

L’occhio è attento tanto alla politica italiana quanto alla vicenda della guerra in Ucraina. Lo spettro analitico tocca i tre Tg della Rai, gli omologhi di Mediaset e La7. Emerge, proprio sul conflitto, un quadro evidente: nel marzo del 2022 il 70,4% dei titoli è stato dedicato alla guerra; la percentuale tocca il 72% in aprile e scende al 45,1% già a maggio. Da febbraio del 2022 ad aprile del 2023 si va in termini numerici da 560 a 124. Nel giugno-agosto del 2022 la misura della narrazione bellica è il 29,3%. Da settembre a novembre si va al 19,8%, tra dicembre del 2022 e febbraio del 2023 siamo al 20,2%, da marzo a maggio di quest’anno si calcola il 23,2%. Sono cifre di per sé emblematiche, ad esempio sulle oscillazioni dell’interesse verso una tragedia orrenda. Ben diverso, infatti, è il racconto sulle guerre rimosse o dimenticate: dal Sudan, alla Siria, allo Yemen, alla Palestina. Per non dire dell’immensa Africa. Tuttavia, le crude percentuali non ci spiegano davvero il clima che ha segnato l’avventura mediale in questi mesi.

Il saggio curato dall’appassionato docente Christian Ruggiero spiega, attraverso un approfondimento argomentato e qualitativo, che tempo che fa nei flussi delle notizie. Si coglie come in tutta la prima fase dell’invasione russa e delle lotte sul terreno si aprissero i telegiornali (in particolare Tg1 e Tg4) con lunghe sequenze di immagini di morte senza commento: scarsità di notizie e costruzione di un modello fondato sul dolore e sugli approcci più elementari. Ci mancherebbe. Ma un’informazione adeguata lasciava il passo ad una sorta di educazione sentimentale finalizzata a definire un rudimentale schieramento: buoni e cattivi. Lo studio (che nella parte scritta tratta pure il panorama delle principali testate della carta stampata) ci offre un interessante compendio, con i dati del cosiddetto Media hype (il martellamento sul nostro immaginario). Il raffronto viene svolto tra la copertura sul Covid tra marzo e maggio del 2020, e quella sulla guerra nel medesimo periodo del 2022: 60,8% contro 53,9%.

L’analisi ci regala, poi, tavole riassuntive delle citazioni dei leader di partito. E così entriamo nel vivo delle ultime polemiche. Si evidenzia il grado di occupazione della destra, tale da rendere incomprensibile – se non pensando alla mera gestione del potere – la recentissima invasione della Rai. Giorgia Meloni ha il 55% delle citazioni complessive, Salvini l’8%, Schlein il 15% e Conte il 7%. La presidente del Consiglio tocca l’impressionante vetta del 78% nel Tg1, dell’81% nel Tg2, del 56% nel Tg3, del 32% nel Tg4, del 61% nel Tg5 e su Studio aperto.

L’uscita dalle stanze del servizio pubblico di Fabio Fazio e di Lucia Annunziata è come il commento di una voce fuori campo alla ruvida spartizione targata dalla destra della Rai. Anzi. Le fughe, ampiamente motivate con l’impraticabilità a mantenere integra la propria fisionomia culturale e comunicativa (oltre che politica, nel senso lato e profondo del termine), sottolineano che il quadro è seccamente cambiato. Probabilmente, altre defezioni seguiranno, a dimostrazione che la particolare magia dell’ex monopolio – brutto e cattivo, ma ricco di fascinazione narrativa malgrado tutto – è finita. Ora l’azienda pubblica, occupata dalla ventata governativa anche a causa di una leggina del 2015 intensamente voluta dall’allora premier Renzi, rischia di essere il territorio privilegiato per il tentativo di imporre altri immaginari.

Polonia e Ungheria hanno fatto da battistrada. La destra sente di essere in difetto di presenze intellettualmente egemoni. Alla dialettica preferisce, tuttavia, l’esercizio brutale della forza. Con qualche residuo resistente (attenzione, però, alla logica delle riserve indiane), la geografia in fieri di settori e testate ha una strisciata di un colore nero prevalente. Se, poi, si aggiungono la crisi della carta stampata e l’imperturbabile dittatura degli algoritmi, il regime digitale incombe. A questo punto, senza rinvii o alibi, le forze progressiste hanno l’obbligo morale di alzare la voce e di lavorare – insieme alle tante voci libere nonché al mondo associazionistico attivo – per una straordinaria mobilitazione nazionale. Insomma, non in nostro nome.

L’autore: Vincenzo Vita, giornalista e già senatore Pd, è presidente della Fondazione Archivio audiovisivo del Movimento operaio e democratico

Nella foto: la scultura del cavallo opera di Francesco Messina alla sede Rai di viale Mazzini a Roma

 

La lingua che batte a destra

Il politico va giudicato per quel che fa nell’adempimento delle sue funzioni, ma i suoi discorsi, tuttavia, possono fornire qualche indizio sulle sue reali intenzioni, sulla sua visione del mondo, sui motivi della sua popolarità o impopolarità. L’importanza del discorso politico è amplificata dalla distanza tra il “palazzo” e la “piazza”, che impedisce ai cittadini di sapere che cosa faccia realmente il governo e, soprattutto, perché. Ascoltando e leggendo le dichiarazioni della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e degli esponenti più in vista del suo partito si ha l’impressione che la comunicazione a destra insista soprattutto sulla necessità di proteggere un’identità minacciata, su cui si fonda una comunità, la “nazione”.

Significativo in tal senso anche il recente intervento della premier agli Stati generali della natalità. In questa occasione ha subito ispirato l’idea dell’accerchiamento in un mondo in cui sarebbe diventato difficile perfino parlare di natalità, maternità e famiglia. Da qui l’appello a “battersi”, ad “avere coraggio”, ad “affrontare le grandi crisi”, che, a suo parere, dovrebbero considerarsi un’opportunità per un riscatto. Come in campagna elettorale, Giorgia Meloni ricorre all’immagine del combattente che circoscrive il territorio della comunità da difendere. Nella sua visione non è contemplato che la crisi possa tradursi in un’apertura verso il nuovo. Al contrario, è il passato a dettare gli indirizzi futuri. Il discorso agli Stati generali della natalità si conclude, infatti, con la proposizione della triade famiglia-patria-futuro, la via, secondo la premier, per uscire dalla crisi. Non c’è niente di nuovo nel prospettare la famiglia come la fabbrica degli italiani del futuro a presidio della cittadella patria. Guidata da una concezione economicista anche su tali questioni, in un dibattito pre-elettorale con lo sfidante Enrico Letta (moderatore il direttore del Corriere della Sera), Giorgia Meloni ha dichiarato che la famiglia va sostenuta perché è «il più grande ammortizzatore sociale».

Del resto la stessa scelta del termine “natalità” nell’intitolazione dell’assemblea di cui si parla ridefinisce l’evento della nascita di un essere umano intorno a un mero dato statistico, una questione di numeri. Qualche settimana prima, il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, anche lui di Fratelli d’Italia, in un intervento al congresso della Cisal, ha parlato di pericolo di «sostituzione etnica» a proposito del numero delle nascite nel nostro Paese. Poi, in un’intervista a margine dei lavori degli Stati generali della natalità, ha precisato che «non esiste una razza italiana, ma esiste una cultura, un’etnia italiana, che la Treccani definisce raggruppamento linguistico-culturale».

Certamente esiste un’identità culturale italiana, addirittura precedente la formazione dello Stato italiano, ma non si può dire che sia rimasta statica. Proprio alla vigilia di quel moto risorgimentale tanto celebrato da Fratelli d’Italia i romantici, che auspicavano un’integrazione tra culture diverse più incisiva che nel passato, fornirono un contributo decisivo alla creazione di quell’idea di patria ben presente nella comunicazione politica dell’attuale schieramento di destra. L’unità linguistico-culturale è centrale nel sostrato ideologico di Fratelli d’Italia, costituendo la materia su cui lavorano culto della tradizione e retorica della comunicazione. Così si spiega, ad esempio, l’ampio utilizzo della parola “nazione” che nei discorsi pubblici della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha superato “patria”. Infatti se “nazione” evoca una comunità fondata su tradizioni storiche, linguistiche e culturali condivise, “patria” insiste sul rapporto stretto tra una comunità e il territorio in cui vive. Tuttavia, come osservato da Alessandro Calvi («Con la destra al governo la parola ‘nazione’ è tornata di moda», Internazionale, 6 aprile 2023), resiste nel discorso politico di destra il termine “patriota”, con cui si stabilisce un legame ideale con quanti hanno contribuito a formare l’Italia. Chiosa acutamente Calvi che “nazione” esprime una volontà di potenza proiettata verso il futuro, mentre “patriota” definisce l’unione tra il passato e il presente.

In stretta correlazione con l’estensione dell’uso di “nazione” troviamo l’amplificazione delle prerogative del “popolo”. Nel discorso del 25 ottobre, con cui ha chiesto la fiducia alla Camera, Meloni ha ringraziato gli elettori che, recandosi alle urne, hanno consentito «la piena realizzazione del pensiero democratico, che vuole nel popolo, e solo nel popolo, il titolare della sovranità». Ma l’art. 1 della Costituzione dice che il popolo esercita la sovranità «nelle forme e nei limiti» della Costituzione stessa, ovvero di una democrazia parlamentare. Nello stesso discorso l’attuale premier non ha parlato della Resistenza, da cui sono nate la Repubblica e la carta costituzionale, ma del Risorgimento, il contesto di massima idealizzazione dei concetti di “nazione” e “popolo”. Così si giustifica anche la ripresa del motto mazziniano «Dio, patria e famiglia» (in versione semplificata, senza la parola “umanità”) dal momento che, come ha spiegato la presidente del Consiglio, nei valori cristiani dobbiamo riconoscere la nostra civiltà, nella patria l’identità che ci lega e nella famiglia il luogo in cui si forma l’identità di ciascuno. La storia (parziale, perché svaluta la civiltà classica e fa fuori la sua ripresa nel Rinascimento) viene fusa con la religione a favore di una concezione mitica delle nostre origini, che andrebbero difese in quanto costituiscono la base della nostra identità. Da qui la metafora delle radici, che stabilisce un legame profondo tra natura e identità culturale.

È stato opportunamente segnalato da Luigi Corvaglia («Le tecniche per battere la destra e reinventare la sinistra, a partire dalle parole che usiamo ogni giorno», Micromega, 18 ottobre 2022) che le metafore più frequenti nei discorsi politici a destra sono riconducibili alla figura del «padre autoritario, severo, capace di proteggere la famiglia da un mondo pericoloso e minaccioso, autorità morale pronta a insegnare ai figli i valori della forza e dell’autodeterminazione e a distinguere nettamente bene e male». Un’alternativa credibile non può essere rappresentata attraverso la figura del genitore premuroso a cui sembra ispirarsi la retorica di sinistra. Anche perché quel campo non è stato lasciato incustodito dalla destra. Il discorso con cui Giorgia Meloni ha chiesto la fiducia si è chiuso, infatti, con un ricordo di Giovanni Paolo II: «Mi ha insegnato una cosa fondamentale…“La libertà”, diceva, “non consiste nel fare ciò che ci piace, ma nell’avere il diritto di fare ciò che si deve”. Io sono stata sempre una persona libera, per questo intendo fare ciò che devo». Qui troviamo la mistica del servizio politico come missione a cui si è chiamati per rispondere a un obbligo, a una volontà superiore a cui non ci si può sottrarre. In nome di un interesse superiore, quello dell’unità, la premier, con una lettera al Corriere della Sera in occasione della ricorrenza del 25 aprile, ha rilanciato la proposta berlusconiana di modificare il nome dell’anniversario da “Festa della Liberazione” a “Festa della Libertà”.

Ma è evidente che se si accettasse un cambiamento simile non ci si chiederebbe più: liberazione da chi e da che cosa? In linea con il pallino della difesa etnica gli esponenti di Fratelli d’Italia hanno proposto una legge (presentata il 23 dicembre 2022, primo firmatario l’onorevole Rampelli) per difendere la lingua italiana dall’invasione degli anglicismi. Nel discorso di presentazione l’esponente di Fratelli d’Italia ha dichiarato che «la lingua italiana rappresenta l’identità della nostra Nazione, il nostro elemento unificante e il nostro patrimonio immateriale più antico, che deve essere opportunamente tutelato e valorizzato». C’è un problema della lingua, in particolare della comunicazione pubblica, invasa da tecnicismi e anglicismi che alzano una cortina di fumo tra i cittadini e le decisioni politiche. Ma, come ha puntualmente osservato Claudio Marazzini, c’è già una legge (n.482 del 15 dicembre 1999) che stabilisce che «la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano» e nello stesso senso si è pronunciata in diverse occasioni la Corte costituzionale. Sarebbe auspicabile, invece, che la politica intervenisse per ripristinare nelle scuole e nelle università l’insegnamento in italiano nelle materie in cui l’insegnamento in inglese non è di alcuna utilità. Invece, la proposta di legge in questione appare proiettata verso la lotta contra la diffusione di anglicismi superflui, che è la conseguenza, e non la causa, della scarsa considerazione della nostra lingua nelle classi dirigenti.

L’autore: Giuseppe Benedetti è insegnante di liceo. Si occupa di didattica della lingua. Con Luca Serianni ha pubblicato Scritti sui banchi(Carocci).  Con Donatella Coccoli Gramsci per la scuola (L’Asino d’oro)

Nella foto: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni al IV vertice dei Capi di Stato e di governo del Consiglio d’Europa, 16 maggio 2023 (governo.it)

 

Piccoli grandi Fratelli di Ocealia

L’8 giugno del 1949 uscì il geniale libro testamento di Orwell: 1984. In questo 9 giugno 2023 torniamo a rileggerlo con voi, nella bella traduzione di Enrico Terrinoni, per fare un esperimento. Proviamo per un istante a trasferirci nell’Oceania immaginata dallo scrittore inglese. In quel Paese il Grande fratello (Big Brother) con il ministero dell’Abbondanza e della prosperità lavora, indefessamente – anche il primo maggio – alla riduzione dei diritti sociali e civili, plaudendo agli evasori fiscali.

In Ocealia (l’anti totalitario Orwell ci consenta questa licenza) il capo del Partito, per sé, ha scelto lo studio delle lingue, ma con il ministero della Verità, sorta di redivivo Minculpop, lavora assiduamente alla riscrittura revisionista del passato e alla imposizione di un Newspeak, una Neolingua artificiale che riduce il numero dei lemmi, semplifica i costrutti verbali, svuota di senso parole come umanità, crisi, vitalità, fantasia, trasformazione, evoluzione, sessualità… lasciando solo granitiche e guerresche parole: nazione, dio, patria, famiglia (naturale), mamma (cattolica), razza, etnia, muri, armi, carcere… Come racconta 1984 qui tutto deve essere sotto controllo e ogni questione sociale è affrontata come un problema di ordine pubblico e con il pugno duro: nella nostra Ocealia affacciata sul Mediterraneo la Psicopolizia (mental police) manganella persone inermi, picchia a sangue migranti reclusi in Cpr e imbottiti di psicofarmaci colpevoli del “crimine” di essere emigrati, mentre i piccoli grandi Fratelli al potere promettono di cancellare il reato di tortura. In terra di Ocealia guai a fare musica in raduni gratuiti, in luoghi all’aperto, fuori dal circuito gestito dal mercato perché si finisce in galera; guai a denunciare politiche che favoriscono disastri ambientali e climate change, perché per due schizzi di pomodoro gettati sul vetro di un quadro si finisce in gattabuia. Anche l’azione del parlare deve essere appunto solo un’azione meccanica e ridotta a monosillabi, con il minor uso possibile del cervello. Nella penisola dove solo gli autoctoni hanno diritto di cittadinanza e i ministri paranoicamente lanciano crociate contro fantasticate sostituzioni etniche non è consentito contestare esponenti del governo e neanche discutere alle fiere del libro con la ministra dell’Amore che, pontificando su Buonsex e Crime-sex, vorrebbe proibire la sessualità se non serve alla procreazione, costringere le donne a fare figli per la patria e far sì che i bimbi nati all’estero tramite gestazione per altri non fossero registrati, derubricandoli a “non persone”. Se a contestare sono comuni cittadini, in questo mondo all’arrovescio, l’accusa che viene loro rivolta è di fascismo. Se ad alzare dubbi e interrogativi verso il ministro della Pax (che viene dal mondo delle armi) è un intellettuale e scienziato riconosciuto internazionalmente viene semplicemente rimosso dall’incarico di rappresentare l’Ocealia alla Buchmesse; grazie al pio intervento di “benpensanti”, più realisti del re, poi costretti a far marcia indietro. In Ocealia, insomma, è consentito solo l’Ocopensiero al grido di “Oh che bel governo!”.

Nulla sfugge al ministero della Verità preposto al Newspeak, il “nuovo parlare” che sarà imposto a reti unificate. Per i giovani, che non guardano la tv, c’è invece il neonato liceo del “made in Ocealia”, dove gli studenti, dopo aver fatto il saluto alla bandiera, studiano solo l’economia nazionale, la tradizione e usi e costumi locali. Curiosamente un altro solerte piccolo grande Fratello, contestualmente, ha proposto di vietare l’inglese. Delle due l’una, diremmo, ma Orwell ci ha avvertito che ad Ocealia vige il bispensiero (dual mind): si basa sull’accettare come vera un’ipotesi, oppure il suo contrario, a seconda di quale delle due il Partito consideri necessaria in quel momento.

Per dirla con le parole di Orwell, significa: «Sapere e non sapere, essere consapevoli della totale veridicità, proprio mentre si raccontavano bugie ben costruite, intrattenere simultaneamente due opinioni che si annullano a vicenda, ripudiare nei fatti la moralità avanzando pretese morali, lavorare perché la democrazia sia impossibile e credere che il Partito sia l’unico baluardo democratico. Ecco la sottigliezza definitiva. Indurre consapevolmente l’inconsapevolezza e poi, di nuovo, essere inconsapevoli dell’autoipnosi appena praticata».

Così c’è chi pensa che il Partito sia il nuovo e si dimentica la fiamma che vi aleggia. Così si pensa che il Grande Fratello sia “pronto” e si chiudono gli occhi sull’incapacità della sua classe politica e il suo procedere a zig zag, fra annunci di provvedimenti e marce indietro. Così si pensa che a capo del Partito ci sia una donna moderna e si assorbe il catechismo della papessa e del papa che addita come assassine le donne che decidono di abortire. Sono passerelle, direte voi, ad uso di telecamere, ora mostrandosi mano nella mano con i potenti della terra ora in galosce (vi ricordano qualcuno?) nella Romagna alluvionata.

Indubbiamente potenti armi di distrazione di massa per far “dimenticare” inefficienza e incapacità di governare e di rispondere ai problemi reali del Paese. Che in questo modo rischia di perdere il treno miliardario del Pnrr, non affrontando riforme democratiche non più procrastinabili su giustizia, fisco, transizione ecologica e molto altro. Intanto il Grande fratello avvia il picconamento della Costituzione con controriforme come il presidenzialismo e l’autonomia differenziata: un pericoloso combinato disposto fra torsione autoritaria e attacco all’uguaglianza di diritti dei cittadini nonché all’unità della nazione. Ma non erano quelli del tricolore legato al braccio destro? Come dicevamo, a ben leggere, Orwell ci aveva già avvertiti: in Ocealia regna uno schizofrenogeno double mind. In questa storia di copertina – fuor di metafora – lo indagano intellettuali e colleghi giornalisti in maniera approfondita.

Viva la resistenza dei tanti e delle tante Winston Smith che non rinunciano alla propria umanità, che si ribellano a ogni tipo di sottomissione e lottano per il cambiamento. Viva il libero pensiero. 

Le parole in neretto sono mutuate da 1984, (Newton Compton) romanzo al quale ci siamo liberamente ispirati… non ce ne voglia George Orwell

Ci vuole una bella dose di vigliaccheria, del resto, per essere buoni torturatori

L’inchiesta parte da una telefonata di un poliziotto alla fidanzata. «Ha iniziato a rompere il cazzo… Vi spacco sbirri di merda di qua e di là – dice lui -. Allora ha dato una capocciata al vetro… Il collega apre la porta e “vieni un attimo fuori… adesso ti faccio vedere io quante capocciate alla porta fai”… Boom boom boom boom… E io ridevo come un pazzo».

Poi si vanta: «Amò, lui stava dentro l’acquario (la stanza dei fermati con una parete a vetro, ndr), gli ho lasciato la porta aperta in modo tale che uscisse perché io so che c’è la telecamera dentro… Amò, mi guarda, mi ero messo il guanto, ho caricato una stecca, amò, bam, lui chiude gli occhi, di sasso per terra è andato a finire, è rimasto là… È svenuto… Minchia che pigna che gli ho dato…».

In tutto sono cinque gli episodi in cui la Procura di Verona ipotizza il reato di tortura. Gli accusati sono 5 poliziotti della Questura di Verona di età comprese fra i 24 e i 44 anni, messi sotto inchiesta dai loro stessi colleghi della squadra mobile dopo che nell’ambito di un’altra inchiesta, in alcune intercettazioni si parlava di percosse nei confronti di persone fermate.

Per accertare i fatti i funzionari della stessa Questura, d’accordo con i pubblici ministeri della Procura, hanno messo sotto intercettazione telefonica e ambientale i poliziotti sospettati, e attivato le telecamere in alcuni uffici da loro frequentati, oltre che visionato le immagini registrate dall’impianto di videosorveglianza nella stanza-fermati chiamata «acquario».

“È innegabile – scrive il giudice nell’ordinanza di custodia cautelare – che tutti gli indagati abbiano tradito la propria funzione comprimendo i diritti e le libertà di soggetti sottoposti alla loro autorità, offendendone la stessa dignità di persone, creando essi stessi disordine e compromettendo la pubblica sicurezza, commettendo reati piuttosto che prevenirli, in ciò evidentemente profittando della qualifica ricoperta”.

Un fermato è stato costretto dai poliziotti a urinare nella stanza in cui si trovava e poi è stato usato come straccio per pulire. Scrive il Gip: “I soprusi, le vessazioni e le prevaricazioni poste in essere dagli indagati risultano aver coinvolto in misura pressoché esclusiva (tranne un caso, ndr) soggetti di nazionalità straniera, senza fissa dimora ovvero affetti da gravi dipendenze da alcol o stupefacenti, dunque particolarmente ‘deboli’”. Questo, secondo il giudice per le indagini preliminari, “da un lato ha consentito agli indagati di vincere più facilmente eventuali resistenze delle loro vittime, e dall’altro ha rafforzato la convinzione dei medesimi di rimanere immuni da qualunque conseguenza di segno negativo per le loro condotte, non essendo prevedibile nella loro prospettiva che alcuna delle persone offese si potesse determinare a presentare denuncia o querela pronto”.

L’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni disse che il reato di tortura impedisce ai poliziotti di fare bene il proprio lavoro. Il suo pensiero è identico a quello di molta destra che sta al governo. Ieri non si è sentito un solo soffio su questa orribile vicenda da Palazzo Chigi, da Matteo Salvini e da parlamentari della maggioranza.

Buon mercoledì.

Strage di Viareggio, giustizia lumaca: I familiari delle vittime protestano davanti alla Corte di cassazione

Viareggio 2009 foto di Rabendeviaregia

«Si sono persi cinque mesi». È lapidario Gabriele Dalle Luche avvocato del Mondo che Vorrei, associazione dei familiari delle vittime dell’incidente ferroviario di Viareggio del 29 giugno 2009 dove persero la vita 32 persone, in merito al ritardo per l’invio dei fascicoli dalla Corte di appello di Firenze alla Corte di cassazione a Roma, utile per fissare la data del dibattimento e definitiva sentenza. Un processo iniziato con l’incidente probatorio del 7 marzo 2011 e che ancora non riesce a scrivere la parola fine. Il tutto mentre i treni merci in Italia e in Europa continuano a deragliare.

Un ritardo inspiegabile
Il 30 giugno del 2022 la Corte di appello di Firenze ha emesso la sentenza del processo di appello bis sull’incidente ferroviario: tredici condannati e tre assolti. Nei mesi successivi sono emerse le motivazioni e soprattutto il fascicolo del processo si sarebbe dovuto spostare da Firenze a Roma. Ma il fascicolo, dal capoluogo toscano verso la capitale, è partito solo a fine maggio e dopo pressione degli avvocati dei familiari delle vittime. «I termini per presentare ricorso in Cassazione – spiega l’avvocato Dalle Luche – sono scaduti intorno alla metà di dicembre 2022. Quindi nel giro di un mese i fascicoli sarebbero dovuti partire per Roma. Ai primi di maggio abbiamo saputo che erano ancora a Firenze. Abbiamo parlato con la cancelleria ritenendo inammissibile questo ritardo e ci hanno assicurato che il fascicolo sarebbe partito nel giro di una settimana. E così è stato, il 18 maggio scorso. Visto che poi ci ha messo una settimana, non si capisce perché da fine dicembre si sia arrivati a maggio. La volta precedente partirono subito». Nella sentenza della Corte di appello sono stati condannati praticamente i vertici di tutte le aziende coinvolte. Da Mauro Moretti, amministratore delegato del gruppo Ferrovie dello Stato condannato a 5 anni, a Vincenzo Soprano, ex amministratore delegato di Trenitalia, e Michele Mario Elia, ex ad di Rete Ferroviaria Italiana entrambi a 4 anni, 2 mesi e 20 giorni, poi Mario Paolo Pizzadini, manager di Cima Riparazioni, a 2 anni, 10 mesi e 20 giorni, Daniele Gobbi Frattini, responsabile tecnico Cima Riparazioni, a 2 anni, 10 mesi e 20 giorni e Mario Castaldo, ex direttore divisione di Cargo Chemical, a 4 anni.
In teoria non sono attesi grandi stravolgimenti dalla Cassazione. Se guardiamo ad esempio a due dei principali imputati, nelle motivazioni dei giudici della Corte di appello si legge che «La responsabilità penale di Moretti ed Elia per disastro ferroviario colposo» sarebbe «irrevocabile e coperta dal giudicato progressivo». A prescindere, e parliamo esclusivamente nel caso di conferma delle condanne, ridotte o meno, uno dei “cambiamenti” che si possono ipotizzare se la sentenza scivolasse a fine ottobre, sarebbe la possibilità per l’ex amministratore delle Fs – nominato cavaliere del lavoro 11 mesi dopo la tragedia dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e, durante il processo tra il 2014 e il 2017, diventato ad e direttore generale di Finmeccanica-Leonardo – di poter usufruire direttamente dei benefici della ex Cirielli. La legge che porta il nome del suo primo firmatario, l’attuale viceministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale Edmondo Cirielli e ribattezzata poi “Salva-Previti”, prevede che se si viene condannati superato il 70esimo anno di età, non si vada in carcere ma si possa scontare la pena agli arresti domiciliari. Moretti compierà 70 anni il 29 ottobre. Tralasciando le ipotesi, sia per Moretti che per gli altri imputati ci sarà comunque da attendere la decisione della Cassazione per cui si aspetta di conoscere le date delle udienze. E per conoscerle, la mattina del 7 giugno familiari delle vittime protestano di fronte alla corte di Cassazione. «Ci aspettiamo che le date vengano comunicate a giugno – aggiunge Dalle Luche – e l’udienza sia fissata per settembre. Non oltre».

Sulla sicurezza le risposte tardano ad arrivare.
Dando uno sguardo alla situazione della sicurezza rispetto al 2009, anno in cui avvenne la tragedia, le statistiche la darebbero in miglioramento: stando ai rapporti Ue sulla rete ferroviaria europea si è passati da 2230 incidenti gravi causa di 1245 morti ai 1331 incidenti e 687 morti registrati nel 2020.
«C’è ancora tanta strada da fare» sottolinea Riccardo Antonini, ex ferroviere e uno dei simboli nella lotta per la sicurezza. E soprattutto, tante risposte sarebbero ancora da avere. La Confederazione unitaria di base sezione trasporti ad esempio aspetta ancora una risposta ufficiale per quanto riguarda il problema delle suole dei freni, che sarebbero l’equivalente delle bacchette per quelli delle biciclette. Il 31 gennaio del 2022 la Cub mandò un esposto alla Commissione Europea sulla normativa Ue “Noise Tsi”, riguardante la battaglia anti-rumore dell’Unione Europea iniziata nel 2008 per migliorare la salute di almeno 12 milioni di abitanti dell’Ue tra Germania, Italia e Svizzera. Un esposto dove si lamentava il fatto che le nuove suole in materiale organico o sinterizzato che sostituiscono quelle vecchie in ghisa, causa di rumore e vibrazioni durante la frenatura, fanno sì meno rumore ma hanno alcune problematiche come «surriscaldamento/incendi, una bassa efficacia in fase di frenatura a basse velocità e l’elevato consumo della ruota». Dalla Commissione europea, ci dicono dal sindacato, «nessuna risposta è arrivata». Insomma tutto tace. Anche l’Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria italiana (Ansfisa) aveva segnalato che c’erano alcuni problemi per quanto riguarda le suole. Negli ultimi anni gli investimenti europei e le sovvenzioni per cambiare il tipo di suola sono stati ingenti come numerosi gli incendi e principi di incendio registrati su tutta la rete ferroviaria europea con colpe addossate al nuovo sistema frenante anche da parte di varie agenzie nazionali per la sicurezza come l’olandese Inpsectie Leefomgening en Trasport (ILT, traducibile come Ispettorato ai trasporti olandese). Come quando, nel 2016 in Olanda, un merci trasportante gpl vide i suoi freni prendere fuoco per circa 6 chilometri rischiando la catastrofe. Recentemente in Italia, il 3 febbraio, è accaduta sempre a Viareggio una cosa analoga e sempre con un treno trasportante gpl: l’impianto frenante di due vagoni ha dato vita a un principio di incendio, subito domato, appena arrivato in stazione. E sempre a Viareggio aspettano risposte familiari e sindacalisti per la proposta di rendere obbligatorio il rilevatore di deragliamento sui treni che portano sostanze pericolose e sui merci in generale. La proposta è stata fatta nel giugno 2022 all’Era, l’agenzia ferroviaria europea, in una delle finestre aperte ciclicamente dall’agenzia dove si dà modo di proporre modifiche alle condizioni di lavoro ferroviarie. Comporterebbe l’applicazione di un meccanismo, dal costo inferiore a mille euro e che si può installare senza problemi anche su treni più datati, che impedisce al treno di deragliare bloccando tutti i suoi componenti se rileva movimenti anomali come già si trova sui treni che trasportano cloro in Svizzera. Di deragliamenti, come accaduto anche a Firenze due volte tra aprile e maggio – in questo caso senza gravi conseguenze se non profondi disagi – ne accadono a centinaia ogni anno su tutta la rete ferroviaria europea. Rete ferroviaria europea su cui transitano quotidianamente treni trasportanti sostanze come prodotti chimici, metallici, petroliferi o scorie nucleari e che vedrà il traffico di merci più che raddoppiare da qui al 2030 per favorire la transizione verde, passando dalle attuali 420 miliardi tonnellate per chilometro a mille miliardi. «Ad oggi non abbiamo ancora avuto risposta – spiega Marco Piagentini, presidente del Mondo che Vorrei – in passato ci hanno detto che stanno sviluppando un sistema similare ma ancora più efficiente da un punto di vista elettronico. Però ci vorranno anni. Il problema è: nel frattempo? I treni continueranno a deragliare come successo a Firenze o in altre parti d’Europa. È difficile per noi cittadini intervenire a difesa delle nostra sicurezza quando gli interessi dell’Europa e dell’Italia sono solo di natura economica. Del resto, non gliene frega nulla».

 

*L’autore: Francesco Bertolucci è giornalista e corrispondente dall’Italia per il Boston Globe