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Addio a Françoise Gilot, la pittrice che mandò a quel Paese Pablo Picasso

Pittrice e donna di grande fascino Françoise Gilot si è spenta oggi all’età di 101 anni. Resterà alla storia anche per essere stata l’unica a mandare a quel Paese Pablo Picasso, senza restarci sotto, realizzandosi come pittrice e donna.

Se ne va in questo 2023 in cui in tutto il mondo si celebrano i 50 anni della scomparsa del genio spagnolo, con centinaia di mostre e omaggi. Prima di lei Picasso aveva conosciuto e ritratto Olga Chochlova, ballerina dei Russet Ballet, che nel 1917 danzò nello spettacolo Parade di Sergej Djagilev, Erik Satie e Jean Cocteau, del quale Pablo Picasso aveva disegnato i costumi e lo scenario. Lasciata da Picasso, dopo aver avuto il figlio Paulo (che a sua volta fece una finaccia), morì in un ricovero.

In fuga da Olga, Picasso si rivolse a Dora Maar, la grande fotografa protagonista di molti ritratti picassiani che si spense poi anche lei in un ricovero dopo che Picasso aveva cercato di sbolognarla a Jaques Lacan.

Marie-Thérèse Walter, la dolce amante di Pablo Picasso, che gli ispirò i suoi quadri migliori, a sua volta si uccise. E anche l’ultima compagna di Picasso Jaqueline Roque si sparò dopo la morte di Picasso. Impossibilità di vivere autonomamente se non all’ombra del genio? Come leggere tutti questi casi su cui i biografi hanno scritto molto? Rimandando la risposta, che non abbiamo, la rivolgiamo agli psichiatri.

Intanto questa sera vorremmo rendere omaggio a Françoise Gilot che riuscì a spezzare questa catena di morte e suicidi che circondano la vita del grande artista. Forse perché più razionale e indifferente rispetto al genio rivoluzionario di Picasso? Forse perché invece capace di esprimere e difendere una propria identità di donna e di artista? Non sapremmo dire.

Nella nostra mente la sua immagine resta legata a quella magnifica foto di lei e Picasso ad Antibes dove Pablo dipinge la Joie de vivre. Si parla di lei come di una giovane donna che “illuminò con la sua libertà e la sua fiorente bellezza il dopoguerra dell’artista”, così raccontava Jean Jacques Aillagon nel catalogo della mostra Picasso la joie de vivre; ma fu realmente così? O era un’immagine che Picasso le regalava, un’idealizzazione? Forse non lo sapremo mai.
Da leggere e da rileggere la sua autobiografia, La mia vita con Picasso pubblicata anche in italiano da Donzelli (in foto la copertina del libro)

La mostra “Out of frame”. Immagini che smascherano la xenofobia

La mostra fotografica Out of frame – Rethinking the visual narratives of migrations in Europe (fino al 26 giugno a Villa Altieri a Roma) è parte di Bridges: Assessing the production and impact of migration narratives, un progetto che studia le cause e le conseguenze delle narrazioni sulla migrazione in un contesto di crescente politicizzazione e polarizzazione ideologica.
Concentrandosi su sei Paesi europei – Francia, Germania, Ungheria, Italia, Spagna e Regno Unito – Bridges adotta un approccio interdisciplinare e co-produttivo, realizzato da un consorzio eterogeneo di dodici partner formato da università, think tank, centri di ricerca, associazioni culturali e organizzazioni della società civile.

Out of frame in quanto progetto visivo, si interroga sulle rappresentazioni dei fenomeni migratori in Europa attraverso sette lavori fotografici e un’installazione murale che presenta la cronologia dei principali fatti della cronaca e una selezione delle pubblicazioni più rappresentative degli eventi relativi alla migrazione che sono avvenuti dal 2015 al 2022 nei sette paesi europei presi in esame.

L’installazione presenta le costruzioni narrative a cui siamo quotidianamente esposti da parte dei media europei sul tema delle migrazioni in e verso l’Europa e mostra il ruolo che in esse assume la fotografia.

Le cronache dominanti raccontano di un’Europa assediata e invasa ai suoi confini da migliaia di migranti, di muri e controllo delle frontiere, di barconi carichi di migranti pronti a partire dalle coste del Nord Africa, dell’apertura di nuove rotte e di nuovi flussi migratori, di richiedenti asilo e di migranti economici, di naufragi e di morte.

Refugees fleeing the fighting in Ukraine to Poland, © ALESSIO MAMO /Redux/Contrasto

Dentro la cornice di questi resoconti giornalistici, le fotografie che illustrano gli articoli hanno spesso la funzione di rafforzare e legittimare il contenuto testuale. Sembra che le immagini debbano assolvere il ruolo di testimone oculare, dimostrando che il testo giornalistico documenta la realtà. Altro intento attribuito alle fotografie, è quello di nutrire il nostro immaginario, ormai alimentato quotidianamente da produzioni simili e incessanti che diventano le descrizioni visive della migrazione. E così, la fotografia di un barcone pieno di migranti rappresenta l’invasione di migliaia di persone del nostro Paese. I muri costruiti ai confini dei nostri Paesi mostrano la necessità di doverci difendere da un nemico esterno ed il bisogno di maggiore sicurezza.

Le storie giornalistiche che si occupano di migrazione hanno la tendenza a spersonalizzare i soggetti migranti. Normalmente non conosciamo le loro storie personali e neppure il contesto migratorio, non sappiamo le speranze che alimentano la partenza ed i sogni per il futuro.

Out of frame si pone l’obiettivo di modificare questo punto di vista, spostando il quadro di riferimento al di fuori della cornice entro cui la nostra percezione della migrazione è abituata a confrontarsi.

La mostra presenta il lavoro di sei autori che hanno indagato i fenomeni migratori contemporanei ma sempre ponendo al centro dei loro progetti fotografici il migrante in quanto soggetto.
Miia Autio, Felipe Romero Beltran, Samuel Gratacap, Alessio Mamo, Alisa Martinova, Aubrey Wade, sono autori riconosciuti e apprezzati per il loro impegno professionale, pubblicano sulle più importanti testate internazionali e, ognuno di loro, ha contraddistinto il proprio lavoro attraverso la scelta del soggetto e di un personale e specifico linguaggio visivo.

Quello che caratterizza e accomuna lo sguardo e le progettualità di questi fotografi è l’urgenza di aumentare la conoscenza e la comprensione della condizione del migrante e di mostrarlo come un soggetto che agisce in un contesto stratificato e spesso avversativo ma che può ribaltarsi per diventare positivo e d’integrazione. Presentando progetti che indagano il tema migratorio con linguaggi e approcci fotografici differenti, la mostra vuole stimolare nell’osservatore una riflessione sul ruolo che la fotografia può assumere quale strumento complesso di comprensione del reale.

Alessio Mamo segue da anni i flussi migratori e ha documentato per The Guardian la rotta balcanica, il confine tra Bielorussia e Polonia, il conflitto in Ucraina e l’esodo dei rifugiati. Il suo racconto si sviluppa utilizzando il linguaggio del fotogiornalismo. Essere in prima linea, viaggiare con i migranti, documentare gli eventi è al centro della sua progettualità.

Le serie fotografiche di Samuel Gratacap sono tratte da Empire e Bilateral, il suo lavoro più recente. Empire è un lavoro fotografico realizzato tra il 2012 e il 2014 nel campo rifugiati di Choucha – nella parte sud della Tunisia, a cinque chilometri di distanza dal confine con la Libia. Durante la sua permanenza nel campo, Gratacap ha organizzato dei corsi introduttivi alla fotografia per i rifugiati: l’ostilità del luogo e la perdita di identità sono alcuni dei temi che sono emersi dal confronto tra il fotografo e i migranti.
Bilateral prosegue e dà continuità al suo lavoro precedente sulle migrazioni e lo connette al tema della solidarietà. Il progetto è il frutto di diversi viaggi che il fotografo ha compiuto tra il 2017 e il 2019 tra la valle del Monginevro in Francia e la Val di Susa in Italia. L’installazione dà una rappresentazione dell’intento del progetto che non è soltanto quello di documentare l’attraversamento del confine ma piuttosto di creare un collegamento tra gli esuli in arrivo e i residenti che offrono loro solidarietà, anch’essi diventati invisibili e perseguibili dalla legge.

Empire © Samuel Gratacap

In I called out for the mountains, I heard them drumming, Miia Autio presenta le storie di cinque rifugiati del Ruanda e indaga il loro rapporto con il Paese natale e con il Paese di accoglienza, riflette sui concetti di patria e di identità. La storia recente del Ruanda, dal genocidio in poi e la recente situazione dei diritti umani, costringono molti ruandesi a lasciare il proprio paese di origine, con conseguenze personali nella vita di ciascuno. L’installazione di Autio racconta di identità tra passato e presente. L’autrice ha chiesto ai rifugiati di identificare un luogo del Ruanda di cui hanno un ricordo importante e ha visitato questi luoghi dove ha realizzato i paesaggi mentre i ritratti dei profughi sono stati realizzati in Europa, nei luoghi dove oggi hanno finalmente trovato il proprio posto.

Alisa Martynova con il progetto Nowhere near, ha raccontato le storie di giovani migranti che vivono in Italia. Partendo dall’incontro con i migranti e dal resoconto delle loro storie, la fotografa ha utilizzato come chiave narrativa, la metafora delle costellazioni, paragonando i migranti a stelle iperveloci che si muovono nello spazio.
Alternando i ritratti di giovani migranti con paesaggi suggestivi e indecifrabili, l’autrice ci invita a immaginare l’esperienza dei migranti di sentirsi sospesi tra il legame con le proprie radici e il desiderio di nuove opportunità.

Felipe Romero Beltran con il progetto Dialect documenta tre anni della vita di nove giovani migranti marocchini in un centro di accoglienza a Siviglia. Il progetto reinterpreta le esperienze di questi giovani migranti, coinvolgendoli come protagonisti, e ricostruisce attraverso i loro ricordi, il viaggio che hanno intrapreso dal Marocco per arrivare sulle coste spagnole. Utilizzando la fotografia e il video, Beltran rappresenta il limbo in cui essi vivono in attesa di ricevere il permesso di soggiorno

Aubrey Wade con il progetto No strange place – sviluppato in collaborazione con Unhcr – ha realizzato una serie di ritratti posati nelle case delle famiglie che accolgono dei richiedenti asilo in Austria, Germania, Francia, Svezia e Gran Bretagna. Il lavoro indaga le relazioni che si costruiscono tra le persone, famiglie che accolgono e rifugiati ospitati, e sui benefici che entrambi possono ottenere dal confronto e dall’integrazione tra culture diverse.

No stranger Place ©Aubrey wade 2

Il progetto partecipativo Now you see me Moria, è un appello a tutti i cittadini europei all’azione in supporto dei migranti che vivono rinchiusi nel campo.
Moria, nell’isola di Lesbo, è il più grande e sovrappopolato campo profughi d’Europa. Noemi, una fotografa e photo editor spagnola ha coinvolto nel progetto Amir, un fotografo e rifugiato afghano che viveva nel campo da un anno, a cui si sono aggiunti altri quattro fotografi Ali, Mustafa, Qutaeba e Reza. Nel gennaio del 2021, il collettivo ha lanciato una campagna di sensibilizzazione invitando da tutto il mondo dei designer che, utilizzando le fotografie dei rifugiati che ci vivono, possano creare dei poster o delle illustrazioni che rappresentino la situazione disumana del campo e per auspicare il cambiamento.

Box l’autrice: Giulia Tornari è direttrice dell’Agenzia Contrasto, presidente dell’associazione Zona e curatrice della mostra Out of frame

In apertura: Nowhere near© Alisa Martynova

L’appuntamento: Mercoledì 7 giugno (ore 10.30) a Villa Altieri (Roma), dove fino al 26 giugno è ospitata la mostra Out of frame, si tiene un importante incontro sul ruolo dell’informazione sul tema delle migrazioni. Viene presentato il V rapporto Illuminare le periferie Osservatorio esteri 2023. Fra i relatori Emilio Ciarlo, responsabile delle Relazioni Istituzionali e della Comunicazione dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo; Vittorio di Trapani, presidente Fnsi; Samuel Gratacap, fotografo; Daniele Macheda, segretario Usigrai; Anna Meli, responsabile Comunicazione Cospe; Giuseppe Milazzo, ricercatore Osservatorio di Pavia; Roberto Natale, direttore Rai per la Sostenibilità; Giulia Tornari, fotografa, direttrice Agenzia Contrasto; Guido D’Ubaldo, presidente dell’Ordine dei giornalisti del Lazio; Paola Barretta, portavoce Carta di Roma.

Il sogno di Fatema: “Fatemi andar via dall’Afghanistan, vorrei poter studiare”

Kabul – Fatema (nome di fantasia per motivi di sicurezza) ha ventiquattro anni, un ciuffo di capelli color notte che le esce dall’hijab di seta e pupille vispe di chi è abituata a cercare risposte oltre la linea dello sguardo.
È nata tra le strade vibranti di vita e commercio di Herat, cittadina dell’Afghanistan occidentale incastonata tra le colline erbose ai lati del fiume Hari a pochi chilometri dal confine iraniano, durante il primo regime talebano.
Si dice che a Herat se inciampi su una pietra per strada rischi di rotolare addosso a un poeta.

È così che Fatema, nonostante una sharia violentemente rigida imposta dal governo di Kabul, cresce cullata dai refoli di una cultura divenuta clandestina agli occhi della legge. La distanza dalla capitale e la sagacia della famiglia di ampie vedute permettono di trovare spiragli alla repressione culturale. Da bambine, Fatema e le sue due sorelle vengono educate a casa dalla madre insegnante di scuola media. I genitori mettono da parte i fondi per la loro educazione, non per la dote.
In questo connubio tra clandestinità e progressismo sente farsi presente la consapevolezza che, nonostante il tempo avverso, esistono sogni che non possono essere relegati al mantra già scritto di un matrimonio precoce e una clausura forzata tra le grate del burqa.

«Sin da adolescente volevo darmi da fare per un mondo più giusto, soprattutto per le donne oppresse. Il mio sogno era lavorare alla Corte Penale Internazionale dell’Aia, lì dove sono perseguiti i crimini più efferati, lì dove si cercano di ricucire gli strappi della violenza più atroce» racconta mentre con lo sguardo sembra cercare un punto invisibile al di là della zanzariera della finestra, nel blu primaverile del cielo di Herat. «È con questo sogno che mi sono iscritta all’università durante il periodo della repubblica».
Nel 2020 si laurea in scienze politiche in una delle principali università di Herat. I tempi sono cambiati dal periodo di repressione talebana e per le studentesse afgane si aprono spiragli insperati.
Riceve varie proposte di borse di studio per continuare il percorso accademico in India e Kazakistan ma il richiamo viscerale verso i luoghi che l’hanno vista crescere e che finalmente sembrano aprirsi ad una possibilità di cambiamento la trattengono in Afghanistan.

In poco tempo la propria parola si fa simbolo del diritto allo studio per le donne del Paese, per troppi anni schiacciato dal peso di una visione misogina e retrograda. Viaggia in giro per l’Afghanistan prendendo parte a convegni e incontri di empowerment, e contribuendo a inspessire l’humus di una nuova consapevolezza di genere in un Paese trafitto da decenni di conflitto.
È proprio quando comincia ad assumere le fattezze di una realtà in divenire che il sogno di giustizia di Fatema si sgretola, d’improvviso, sfumando nelle fattezze aride del deserto tante volte accarezzato con lo sguardo durante i suoi viaggi.

Nel 2021 i talebani tornano al potere e con uno dei primi decreti vietano alle ragazze di frequentare scuole secondarie e università. Fatema non può proseguire i propri studi specialistici e trova un riparo di fortuna nel lavoro con una ong internazionale.
Giusto il tempo di immaginare un nuovo futuro possibile ed ecco che l’ennesimo decreto del governo del Mullah Akhundzada entra in vigore nel dicembre 2022 per vietare a tutte le donne anche il diritto al lavoro, sulla scia di un’applicazione distorta e miope di una legge islamica che nella sua radice prevede tutt’altro.
È la recrudescenza dell’ideologia machista in cui Fatema era nata e che improvvisamente torna a offuscare qualsiasi barlume di dignità.
Divieto di lavoro significa la stabilizzazione di un sistema di segregazione forzata che ha conseguenze dirette spaventose in termini di crescita della violenza di genere e della disuguaglianza economica.

Ad oggi, secondo i dati Onu, l’87% delle donne in Afghanistan subisce violenze fisiche e psicologiche. Di fronte a questa normalizzazione dell’aggressione le risposte in termini di strutture e presidi di assistenza sono pressoché assenti, fatta eccezione per le poche organizzazioni umanitarie internazionali ancora attive nel Paese. Allo stesso tempo il 70% delle donne vive in uno stato d’insicurezza alimentare e circa il 50% è analfabeta (UN Women).
«Ho lottato perché a me e alle mie sorelle venisse riconosciuto il diritto a una vita normale, il diritto a uscire di casa, lavorare, imparare a leggere. Oggi tutto questo è tornato ad essere una lontana utopia» ammette sconfortata. «Non vedo nessuna possibilità di cambiamento adesso, per questo vorrei poter studiare all’estero e, chissà, tornare quando le cose saranno diverse».

Purtroppo anche il nuovo sogno di Fatema si scontra con la triste realtà di una comunità internazionale che dopo aver abbandonato il territorio militarmente in maniera rocambolesca nel 2021 sembra aver relegato in secondo piano anche i diritti della popolazione. I fondi internazionali destinati a supportare le borse di studio delle studentesse afgane, così come quelli in ambito umanitario, sono diminuiti drasticamente negli ultimi due anni e con loro la possibilità di studio fuori dal Paese.
Nonostante Fatema abbia vinto l’accesso al prestigioso Global Campus of Human Rights di Venezia per prendere parte a un master in Diritti umani e democratizzazione, non sono disponibili agevolazioni economiche per sostenere il suo percorso.
Per superare quest’ennesimo ostacolo è stata da poco lanciata una raccolta fondi online su Produzioni dal Basso che mira a raggiungere la cifra necessaria per garantire un anno di studio nella città italiana.

«Grazie a tutti coloro che contribuiranno, o anche solo leggeranno la mia storia e condivideranno questa campagna. Non avete idea di quanto significhi per me».
Fatema è l’immagine di un Paese sconquassato da decenni di conflitto e violenza, bucherellato dai tarli di una politica fatalmente misogina, che nonostante tutto non si arrende al corso di questa storia infinitamente più grande ma ne abbraccia le storture per farne sguardo nuovo verso quello che ancora non è.
Lo studio come strumento di emancipazione, la cultura come passaggio verso un orizzonte di giustizia. In fondo, è come riallacciare il legame di sangue con la sua Herat, città che non ha mai smesso di abbracciare il ritmo della poesia che non sa arrendersi alla barbarie.

Lie Pride

La Regione Lazio ci ripensa e ritira il patrocinio a Roma Pride 2023. Ufficialmente il presidente Rocca (meloniano di ferro a capo di una giunta a trazione Fratelli d’Italia) spiega che il motivo della marcia risiede nella promozione da parte degli organizzatori di “comportamenti illegali, con specifico riferimento alla pratica del cosiddetto utero in affitto”.  La decisione, fa sapere la Regione, “si è resa necessaria e inevitabile a seguito delle affermazioni, dei toni e dei propositi contenuti nel manifesto dell’evento, intitolato “Queeresistenza”, consultabile pubblicamente sul sito della kermesse. Tali affermazioni”, dicono, “violano le condizioni esplicitamente richieste per la concessione del patrocinio precedentemente accordato in buona fede da parte di Regione Lazio”.

Al centro della disputa c’è insomma la richiesta degli organizzatori del Pride di avere una legge che introduca e disciplini la gestazione per altri in Italia, mentre il governo insiste nel volerla dichiarare “reato universale” per vietare agli italiani di accedervi anche all’estero. Gli organizzatori non hanno esitato a rispondere: “Il neo-governatore paga il debito elettorale alle aggressive associazioni cattoliche e ritira il patrocinio concesso, con delle motivazioni pretestuose, dato che la Regione Lazio conosceva le rivendicazioni e i contenuti politici della manifestazione”, dice Mario Colamarino portavoce della kermesse e presidente del Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli. Che aggiunge: “Siamo ormai alla farsa: le associazioni ordinano e la politica esegue. Con l’ironia che ci contraddistingue ringraziamo per averci offerto un servizio di ufficio stampa gratuito. Grazie a loro siamo certi che sabato 10 giugno alla grande parata, che partirà da piazza della Repubblica alle ore 15.00 ci sarà una folla oceanica che crede nei diritti, nell’uguaglianza e nella laicità”.

“La revoca del patrocinio al Roma Pride da parte della Regione Lazio dimostra ancora una volta che con Fratelli d’Italia al governo l’omofobia è istituzionalizzata, è un’omofobia di Stato. Ed è sconvolgente come il presidente Rocca si ponga come cane da guardia delle associazioni che proprio oggi avevano chiesto il ritiro del patrocinio”, attacca il segretario di +Europa Riccardo Magi. Duro anche Alessandro Zan, responsabile Diritti Dem, che scrive di “schizofrenia di odio e discriminazione che la destra vuole diffondere usando le istituzioni. Non permetteremo che continui questa crociata contro la cittadinanza Lgbtqia+. Tutti al Roma Pride!” mentre il sindaco di Roma Gualtieri annuncia che sarà in piazza. Perfino i giovani di Forza Italia parlano di “una grande regalo alla sinistra”.

Come vedete non c’è bisogno del braccio alzato.

Buon martedì.

 

Anita, naturalmente libera

«Tutti dicevano che la politica non era un argomento per le donne, ma zio Antonio mi parlava di rivoluzione con le parole giuste». È la voce di Anita (Flaminia Cuzzoli), giovane donna ostinata, coraggiosa e ribelle: «naturalmente libera», come sottolinea lo scrittore Maurizio Maggiani ne La versione di Anita, produzione italo-brasiliana dal primo giugno nelle sale con Exit Media. La docu-fiction, presentata in première mondiale al Festival Internazionale di Cine di Punta del Este, in Uruguay, dove ha ricevuto una menzione speciale, nasce dalla lettura del libro Einaudi Anita. Storia e mito di Silvia Cavicchioli, co-sceneggiatrice insieme al regista Luca Criscenti e a Daniela Ceselli (mentre la documentarista Emanuela Tomassetti è qui in veste di produttore creativo).

Una riscrittura inedita, appassionata che, perseguendo linee narrative diverse, si nutre della stessa tenacia della protagonista per ricercare la verità storica di una donna rivoluzionaria, affrancandola dal solo ruolo di moglie fedele e devota dell’eroe dei due mondi, Giuseppe Garibaldi, e madre dei loro quattro figli: Ciro Menotti, Rosita, Teresa e Ricciotti. Mediante una minuziosa rivisitazione delle fonti, emerge l’immagine di una combattente, donna autonoma e indipendente capace, allo stesso tempo, di vivere appieno, senza riserve, una storia d’amore anticonformista con Garibaldi (Lorenzo Lavia): «credevamo nelle stesse cose, ma io non ero come mi hanno raccontata».
È appena diciottenne, Anita, quando avviene l’incontro tra i due, in Brasile, durante la rivoluzione Farroupilha. Un incontro folgorante: con l’uomo e con la rivoluzione. Incontro salvifico per la giovane che, due anni dopo la morte del padre (evento che segna nella sua vita una vera e propria cesura), è costretta dalla madre ad un matrimonio triste – come lo definisce Anita – con il calzolaio quarantenne Manuel Duarte (arruolatosi poi con le truppe imperiali), affinché avesse al suo fianco qualcuno al quale obbedire. Era il 30 agosto 1835, giorno del suo quattordicesimo compleanno.
Girato tra l’Italia e il Sudamerica, insieme alla voce della protagonista, che si racconta in prima persona, a parlare sono anche “i luoghi di Anita” – come sottolinea Luca Criscenti – oltre ai materiali d’archivio: pitture, fotografie e alcune pellicole cinematografiche, tra le quali Anita Garibaldi (1910) di Mario Caserini e Camicie rosse (1952) di Goffredo Alessandrini con Anna Magnani e Raf Vallone.
A 200 anni dalla sua nascita, in un’intervista radiofonica a Marino Sinibaldi (interprete di sé stesso), Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva (Anita) espone, con la fierezza nello sguardo, la sua verità storica. Parole che prendono per mano lo spettatore e lo conducono non solo lungo le traiettorie geografiche che hanno segnato i percorsi rivoluzionari, ma anche attraverso i luoghi intimi, ai quali si ha il privilegio di accedere per ri-leggere, con una prospettiva nuova, le vicende storiche e private di cui è stata protagonista Anita capace, con straordinaria forza, di porsi in netta rottura con i paradigmi della società del XIX secolo e di combattere per gli ideali di libertà e di giustizia sociale fino alla sua morte, avvenuta a Mandriole, nella campagna ravennate, poco prima del suo ventottesimo compleanno.


Per tutto il tempo riecheggia l’immagine di una giovanissima Anita, terza figlia di una famiglia numerosa e di umili origini, i suoi lunghi viaggi col padre, piccolo allevatore, sugli altopiani, viaggi che spesso duravano settimane, mesi. L’immagine di un tempo di conquiste e di libertà, dove lo sguardo sapeva dirigersi, intensamente, sempre oltre.
E restano le parole di Adilcio Cadorin, ex sindaco della città brasiliana di Laguna, dove Anita nasce il 30 agosto 1821, che ne rievoca il piglio ribelle, il rifiuto delle regole sociali. E, insieme alle parole, potenti restano le immagini evocate: il bagno nelle acque del mare considerate malsane e dove era proibito fare il bagno, ma nelle quali Anita si immergeva, nuda, spesso portando con sé anche le amiche d’infanzia. Un’infanzia che possiamo immaginare «naturalmente libera».

 

Appuntamenti al cinema:

Il film La versione di Anita di Luca Criscenti è in programmazione fino al 7 giugno al cinema Farnese a Roma. Nel frattempo, il 6 giugno al cinema teatro Amiata di Abbadia San Salvatore, il 7 giugno a Torino al cinema centrale con il regista e Silvia Cavicchioli, autrice di Anita, una storia, un libro (Einaudi) e direttrice scientifica del museo del Risorgimento italiano. E ancora il 7 a Reggio Emilia il 9 a Genova, il 14 giugno a Milano, il 21 giugno a Firenze con lo storico dell’arte Tomaso Montanari e il 22 giugno a Rieti

Il nuovo genere letterario degli evasori eroi

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, dal sito del governo

C’era da aspettarselo. Dopo le tasse raccontate come “pizzo di Stato” dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni che promette di inseguire “i grandi evasori” in tutto l’orbe terraqueo per promettere ai piccoli evasori di dormire sonni tranquilli subito certa stampa s’è messa in fila per scovare queste vittime dello Stato che resistono a imposte, tasse, iva e Guardia di finanza.

Un pezzo che potrebbe essere un caso studio ce lo offre il Corriere della sera che racconta la storia di Emanuele Lavezzo, panettiere di Badia Polesine (Rovigo) che – scrive il Corriere – “dal 2019 al 2021 non ha presentato alcuna dichiarazione fiscale, mai un soldo di Iva”. Nell’articolo ci sono tutti i ganci per empatizzare: le foto di lui e il padre in posa davanti al forno («quando vado a trovarlo al cimitero, gli dico: papà, ho combinato un casino…», dice Lavezzo al giornalista), “gli occhi lucidi”, “le mani sporche di farina”.

Passa quasi in sordine che la Guardia di finanza abbia ipotizzato un’evasione per meno 350mila euro. Sembra poco importante anche che il nostro evasori confermi tutto al giornalista, senza battere ciglio. L’evasore racconta che un lutto l’ha spinto a smettere di pagare le tasse perché era la moglie a tenere la contabilità (in 350mila euro evidentemente non ci stava qualche spiccio per un commercialista), ovviamente dà un po’ di colpa al Covid (che, ricordiamo, è stata una pandemia mondiale, mica solo a Badia Polesine) e infine dice «ci mancava solo il controllo della guardia di finanza». Non è il reato la colpa, il focus è la sfortuna di essere stato controllato.

Ma gli scontrini falsi? Colpa della commessa, ovviamente. «Quando mi sono accorto di quello che combinava col registratore di cassa, mi sono arrabbiato, le ho chiesto se era matta» – racconta l’imprenditore. altra caratteristica dell’imprenditoria che piace a certa politica e certa stampa: quelli per cui è sempre colpa dei lavoratori. Imperdibile il passaggio sul fratello: «Uno di loro ha mollato nel 2011, preferendo un contratto da dipendente: la vita da imprenditore gli dava troppi grattacapi». Come dire: ha scelto la via più comoda. Lui, eroico, ha preferito dedicarsi alla sua attività di evasore.

Il movimento culturale è sempre lo stesso: i dipendenti sono solo succhia soldi ai poveri imprenditori, lo Stato è solo un ostacolo all’imprenditoria, gli imprenditori che falliscono o che rubano sono resistenti schiacciati dalla realtà. Tutto si tiene. Ci sarebbe stato bene anche un attacco ai giovani svogliati e ai poveri perché incapaci.

Buon lunedì.

Un ponte umano e creativo tra Roma e Gerusalemme

Sabrin e Ayman sono una ragazza e un ragazzo palestinesi. Lei di Jenin, ma abita a Ramallah, lui nato a Gerusalemme dove vive. Una comune passione per la cultura e l’arte li ha portati a Roma, nell’ambito di uno scambio di residenze artistiche tra Roma e Gerusalemme. Sono i protagonisti palestinesi di un progetto chiamato The Human Bridge, promosso da varie associazioni, palestinesi e italiane, in collaborazione con il Palestine Museum US fondato e diretto da Feisal Saleh, già incontrato a Venezia, in occasione della Biennale in cui presentava il suo “From Palestine with art”.

In un mondo in cui crescono muri e guerre, il progetto Il ponte umano (The Human Bridge), rappresenta un tentativo controcorrente di costruire ponti umani, mettendo in relazione creativa artisti palestinesi e italiani. I ponti umani sono quelli che, in questo caso attraverso l’arte, vogliono attraversare i confini imposti da scelte politiche e culturali. Lo sfondo immaginato è il Mediterraneo spazio unitario, ma luogo di crimini razzisti, dove realizzare una navigazione sicura, valorizzando le abilità dei popoli che vivono affacciati sulle sue sponde. L’iniziativa ha anche l’ambizione di contribuire alla conoscenza e comprensione della situazione culturale e socio politica in Palestina, combattendo facili e purtroppo diffusi stereotipi, attraverso le creazioni e le voci dei suoi protagonisti, con un esempio concreto di collaborazione tra soggetti che abitano le due sponde del Mediterraneo, offrendo agli artisti l’opportunità di lavorare insieme, nelle città in cui abitano. facendo valere la centralità delle connessioni reali tra le persone e dei rapporti umani, in un tempo dominato dal “virtuale”.

Sabrin Haj Ahmad e Ayman Khalil Alayan, nelle loro residenze di 10 giorni, presso gli studi degli artisti italiani Solveig Cogliani e Alessandro Calizza, hanno creato opere presentate il 28 maggio a conclusione della prima parte del progetto nella bella e accogliente Galleria delle Arti di San Lorenzo, di fronte a un folto pubblico, molto partecipe.

Giovani, belli, emozionati, hanno coinvolto e commosso, raccontando il senso del loro lavoro, ispirato, in modi diversi, dalla situazione che vivono nella terra occupata di Palestina. Se cultura politica e società sono sempre interdipendenti, in Palestina lo sono di più, e drammaticamente. Nei momenti gioiosi della mostra, ho pensato al mio recente viaggio tra Ramallah e Jenin, dove metà del Festival di musica di Al Kamandjati, è stata cancellata, prima per la morte da sciopero della fame di Adnan Khader e poi per l’uccisione da parte dell’esercito israeliano di tre giovani a Nablus.

La libertà di movimento è il tema centrale dei lavori, su carta e tela, di Sabrin, artista visiva, laureata in Belle Arti alla An-Najah National University, attualmente studentessa di un master in Comunicazione e letteratura interculturale presso la Arab American University di Ramallah. Lo illustra con parole semplici e appassionate: “Come donna, in Palestina, terra colonizzata, non ho potuto camminare come una cosa normale. Ho sempre dovuto prendere un cammino nascosto, un percorso più lungo, un percorso colonizzato. Reimparando e praticando l’atto del camminare, miro a decolonizzare il mio corpo e i dintorni naturali, passo per passo, ala per ala, per questo i miei lavori sono multicolori, e rappresentano il volo di uccelli. Il colonialismo fin dall’inizio ha avuto effetti profondi sull’ambiente che ci circonda: ci mancano acqua e spazio, quindi anche gli animali, che non possono vivere in questa terra. I miei lavori vogliono dire che la liberazione delle donne e della natura sono connesse.” Ma – le chiedo – la liberazione delle donne riguarda anche la società palestinese? “Certo, è tutto un sistema dove colonialismo e patriarcato sono legati, per questo la lotta di liberazione delle donne va intrecciata con quella della natura”. Infine, qualcuno dal pubblico le chiede di leggere in arabo la poesia di Mahmoud Darwish, “Come non fa un turista straniero” che ha al centro il tema del camminare nella natura, a cui si ispira uno dei suoi lavori, “the sunbird”, realizzato su tela insieme a Solveig Cogliani, artista italiana.

La foto Sabreen e Solveig è di Ruggero Passeri

Ayman Alayan Khalil, appassionato di arte e pittura sin dall’infanzia, scultore e pittore, affascina con la presentazione delle sue opere, cominciando dal nome: Tatriz, il ricamo tradizionale palestinese. “I fili intrecciati sopra reticolati di fil di ferro, esprimono un dialogo tra materiali diversi e la mia esperienza. Significano due cose per me, entrambe legate all’identità: la connessione con generazioni precedenti, attraverso il ricamo che le donne, anche le mie nonne e bisnonne facevano, a Ramallah come a Hebron. Io ho voluto intrecciare fili con i colori della bandiera palestinese, per sottolineare la mia identità di palestinese. Ma che significa – gli chiedo – il reticolato di ferro?” Anche questo esprime un legame familiare, ma non solo. Il richiamo alla mia esperienza di bambino, quando vedevo mio zio e mio padre usare il filo di ferro per costruire gabbie per uccelli, polli; e il ricordo della gabbia esprime anche il senso di imprigionamento che ogni palestinese vive nella nostra terra occupata.
Il tatriz è al centro anche dell’altro lavoro, un dipinto su legno che invece allude, in un certo senso, all’unità palestinese. Infatti ho unito, mescolandoli, i diversi stili del ricamo di Gaza e Ramallah, ovvero di due città i cui abitanti oggi non possono mai incontrarsi, separati a causa dell’occupazione e dell’assedio israeliani”.

Il progetto nasce dalla collaborazione tra la Fondazione Al Ma’Mal, con sede in una vecchia fabbrica di piastrelle all’nterno della Città Vecchia di Gerusalemme; il Palestine Museum US creato e diretto da Faisal Saleh, il primo museo palestinese nell’ emisfero occidentale; in Italia: San Lorenzo Art district (Sa.L.A.D) diretto da Alessandro Calizza, un’ “insalata mista dell’arte”, dove persone, luoghi e attività diverse si incontrano, si mescolano o semplicemente convivono; Assopace Palestina Odv, Organizzazione di volontariato, presieduta da Luisa Morgantini, che ha tra i suoi fini la promozione di progetti finalizzati al rispetto e alla promozione dei diritti umani e delle libertà dei popoli e delle donne, alla pratica della nonviolenza; “Cultura è Libertà, una campagna per la Palestina Odv” presieduta da Alessandra Mecozzi, impegnata nella promozione della cultura palestinese in Italia, anche per combattere stereotipi negativi correnti e raccogliere fondi a sostegno di progetti culturali di giovani in Palestina; l’associazione Unproduction, Associazione culturale senza scopo di lucro, nata un anno fa nell’atelier di Solveig Cogliani. Intende contribuire allo sviluppo artistico, culturale e civile dei cittadini e alla più ampia diffusione della democrazia e della solidarietà nei rapporti umani.

La violenza è malattia. La rivoluzione culturale necessaria per fermare i femminicidi

Mentre gli omicidi diminuiscono ogni anno anche in Italia, il numero dei femminicidi non cala, anzi. Due donne sono state uccise proprio mentre si festeggiava la festa della Repubblica e il primo voto delle donne in Italia nel 1946. Tanti passi avanti sono stati fatti nella nostra democrazia, ma non su questo punto. Quel che colpisce è che spesso, oggi, ad uccidere sono giovani fra i 19 e il 35 anni, come è accaduto nel caso del trentenne Alessandro Impagnatiello che ha accoltellato la ventinovenne Giulia Tramontano, la sua compagna, incinta al settimo mese. Il ragazzo, che viene descritto come “privo di emozioni”,  ha ammesso di averla uccisa “perché stressato” dalla gestione di una doppia relazione con lei e con una collega di lavoro.

I quotidiani, anche morbosamente, hanno scritto molto su questo caso. A noi, invece, come sempre, interessa andare più a fondo, capire quali sono le radici culturali e patologiche di questa inaccettabile strage di donne. A cui abbiamo dedicato decine e decine di articoli su Left e un libro Contro la violenza sulle donne. Per continuare ad approfondire il discorso (dopo l’intervento di Left su Rai news) vorremmo riproporvi questa intervista di Laura Danese alla psichiatra e psicoterapeuta Elena Pappagallo, densa di contenuti:

Dottoressa Elena Pappagallo, le donne sono oggetto di sottomissione da secoli. Perché?
È un discorso complesso e necessita di una prospettiva storica. Alla base della leadership maschile nelle prime comunità umane c’è chiaramente un discorso legato alla realtà materiale. L’uomo era più forte e veloce, si occupava della caccia e della sussistenza del gruppo. Nel corso dei secoli però questa maggiore forza fisica e la mente pratica è stata codificata nella cultura come superiorità tout court. Il passaggio fondamentale è quello della cultura greca del logos. Quella cultura teorizzava che fosse la razionalità lo specifico umano. È una cultura della veglia che ha solo il rapporto con il mondo materiale. Ignora e annulla gli affetti, ha una visione cieca e materialistica degli esseri umani. La logica conseguenza di questa impostazione fu che donne e bambini vennero codificati come “sub-umani”. Su questa cultura si fondò il patriarcato e il predominio assoluto maschile nella
vita, nella giurisprudenza, nella politica.
Siamo ancora legati a quella cultura quindi?
Da allora molto è successo. Nel mondo occidentale, l’Italia è un caso esemplare, su quella cultura si innesta la tradizione cristiana e cattolica. Nel cristianesimo la donna è costituzionalmente inferiore, è costola di Adamo. Nel corso della sua storia poi il cattolicesimo si sviluppa lungo una direzione profondamente misogina. La donna diventa simbolo del male, del demonio. È colei che turba la pace dell’uomo, lo induce in tentazione. Per le donne il cristianesimo concepisce il solo ruolo di riproduttrici della specie. La sessualità fuori dalla procreazione è peccato. Le donne che escono da questo schema (le medichesse nel Medioevo, per esempio) vengono perseguitate e bruciate. È incredibile ma ancora oggi la contraccezione è presa di mira dalla Chiesa quasi quotidianamente. Anche in Paesi con gravissimi problemi sanitari come l’Africa decimata dall’Aids.
Ragione e religione. Altri nemici?
Negli ultimi secoli lo sviluppo della filosofia occidentale ha tentato in alcuni momenti di emanciparsi da questa tradizione criminale, si pensi all’Illuminismo, ma in realtà non c’è mai riuscita. Non si è mai separato veramente da quella tradizione. Le stesse pratiche di discriminazione di oggi sul posto di lavoro nei confronti delle donne si possono far risalire all’approccio razionalista che tutto mercifica. La lavoratrice “costa” di più perché può avere bisogno di tempo per portare avanti una maternità e crescere i figli.
Questo per quanto riguarda la dimensione culturale. Ma oggi, nelle società secolarizzate e con parità di diritti sancite legalmente perché persiste la violenza degli uomini sulle donne?
Intanto diciamo che la violenza nei rapporti, sia fisica che psichica, è una patologia. Nel confronto tra individui, se questi sono sani, la violenza non si manifesta. C’è il confronto, la dialettica, magari serrata e appassionata, ma non la violenza. Quindi se emerge la violenza, da psichiatra devo dire che ho a che fare con un’identità che si è ammalata.
Dove, nello sviluppo della persona, si possono trovare i semi della violenza?
I danni possono avvenire fin dal primo anno di vita nel rapporto con la madre. Alcune mamme non riconoscono al bambino un’identità, è solo un cucciolo da accudire. Il bambino invece, anche se non parla e non è razionale, è persona. La madre che nutre il bambino di latte solo “materiale” e non di affetto è violenta e lo far star male. Senza arrivare alle psicosi palesi, come quella della Franzoni che era ossessionata dal fatto che il figlio avesse la testa troppo grande, nella normalità purtroppo tante donne arrivano alla maternità con grandi insoddisfazioni, irrealizzate. Per loro i figli sono stampelle, modi di dimostrare che qualcosa si è fatto. Allo svezzamento poi il bambino affronta la seconda separazione fondamentale dalla madre, dopo la nascita. Se la fase dell’allattamento è andata male il bambino non riesce a passare in maniera sana a un rapporto con l’oggetto totale umano, materiale e psichico. Qui si annidano i primi problemi. Anche perché sono le mamme stesse che fanno fatica a “separarsi” dal figlio. Alle donne bisogna dire: attenzione a come stiamo con i nostri bambini.
Poi arriva l’adolescenza.
E con essa la resa dei conti. In questa fase avvengono cambiamenti fisici marcati che definiscono l’identità sessuale. Si pensi alle mestruazioni per le ragazze, al cambiamento della voce, alla peluria nei ragazzi. E avviene l’incontro con il “diverso da sé” che può avere, schematicamente, tre esiti: o suscita interesse e una ricerca che durerà tutta la vita, o quel confronto si affronta con una scissione tra “fisico e psichico”, e si vivrà una sessualità fisica e masturbatoria, oppure il diverso da sé si annulla completamente. Alla visione del diverso da sé dovrebbe scattare il desiderio inteso, anche e soprattutto, come desiderio delle qualità psichiche dell’altro. Solo che il diverso da sé viene a rappresentare l’irrazionale, ovvero quel primo anno di vita di cui abbiamo parlato. E se quello è andato male, il confronto donna-uomo determini grandi crisi e angoscia. Possiamo dire che la violenza nasce dal fallimento del rapporto sano col diverso da sé.
Ma la violenza è davvero un problema maschile?
Quella fisica forse, per ovvi motivi. Ma non quella psichica.
Le dinamiche patologiche riguardano uomini e donne.

 

Left 47 del 21 novembre 2008. Questa intervista è contenuta nel libro edito da Left Contro la violenza sulle donne, che contiene  approfondimenti degli psichiatri Massimo Fagioli, Maria Gabriella Gatti, Andrea Masini, Irene Calesini, Barbara Pelletti, della docente di diritto Eva Cantarella, dei ginecologi Carlo Flamigni, Anna Pompili ed Elisabetta Canitano e della filosofa Elisabetta Amalfitano

È rischio guerra tra Afghanistan e Iran per l’acqua del fiume Helmand

Kabul – «Vuoi la nostra acqua presidente Raisi? Eccola prendila, però per favore non spaventarci con questi modi». In un video intriso di ironia divenuto virale in poche ore lo scorso 19 maggio un generale talebano, armato di secchio davanti a un serbatoio del fiume Helmand, si rivolgeva così al presidente iraniano Ebrahim Raisi che nei giorni precedenti aveva minacciato gravi ripercussioni contro l’Afghanistan nel caso in cui il governo di Kabul non avesse corretto la propria politica di gestione delle risorse idriche del fiume di confine.

Quella che sembrava l’ennesima scaramuccia diplomatica tra Paesi confinanti, è degenerata nell’ultimo weekend in uno scontro a fuoco dove hanno perso la vita almeno due appartenenti alle forze armate iraniane e un soldato talebano. Fonti locali riportano anche la notizia del ferimento di almeno sei militari iraniani e sette afgani, oltre a due civili tra cui un bambino colpito dalle schegge dell’artiglieria pesante.
Lo scontro ha avuto inizio nella mattinata del 27 maggio, quando la guardia nazionale iraniana ha aperto il fuoco contro un convoglio di civili afgani che, secondo fonti vicine a Teheran, stava tentando di trafficare illegalmente narcotici alla frontiera nel distretto di Kang. Agli spari hanno risposto le forze talebane, con colpi di armi leggere e artiglieria.
Secondo Abdulhamid Khorasani, portavoce dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, nel giro di un pomeriggio le milizie talebane hanno sfondato il confine iraniano arrivando ad assediare una delle basi principali della provincia del Sistan. Il negoziato tra i rappresentanti dei due governi ha portato a un cessate il fuoco momentaneo mentre entrambi gli eserciti hanno rinforzato le rispettive presenze al confine. Dopo 24 ore di chiusura completa, la frontiera di Kang è tornata accessibile a pedoni e merci solo nella giornata del 28 maggio.

Nonostante l’attenzione dirottata sulla lotta al narcotraffico, soprattutto di oppio ed efedra, la reale motivazione della contesa che rischia di destabilizzare l’intera regione è senza dubbio la gestione dell’acqua del fiume Helmand, le cui sorgenti si trovano sulle montagne dell’Hindu Kush tra le pendici di Kabul e che scivola fino al territorio iraniano, rappresentando la prima fonte di approvvigionamento idrico di province enormi come il Sistan o Nimroz. Un trattato del 1973 tra i due Paesi sancisce il diritto dell’Iran di ricevere almeno 22 metri cubi di acqua al secondo dal governo afgano ma negli due anni l’accordo sembra non essere stato rispettato dalle autorità talebane, le quali si giustificano sulla base dell’ennesimo anno di siccità (il terzo di fila) e un cambiamento climatico che sembra condannare l’intera regione.

A complicare la situazione è la diga di Kamal Khan nella provincia di Nimroz, una struttura mastodontica inaugurata nel 2021 che mira a garantire l’autosufficienza idrica in suolo afgano e contribuisce all’emancipazione energetica delle principali città del Paese, tutt’ora dipendenti da un punto di vista energetico dallo stesso Iran, oltre che dal Tagikistan e Pakistan.
«Vogliamo che si esegua un’analisi della portata idrica del fiume, questo è un tema tecnico e non può essere definito politicamente dai talebani» tuona il ministro degli Esteri iraniano Hoseein Amir Abdollahian. Il leader afgano Akunzada sembra tutt’altro che persuaso da questa possibilità e la situazione potrebbe aprirsi ad una nuova escalation di violenza nelle ore a venire.

L’instabilità militare dell’area si somma a una situazione particolarmente critica da un punto di vista umanitario. Secondo i dati Onu, al momento in Afghanistan circa 9 milioni di persone sono a rischio di malnutrizione e con il terzo anno di siccità alle porte il Paese potrebbe sprofondare in una crisi alimentare senza precedenti. L’eventualità di un nuovo conflitto armato sembra rappresentare la condanna definitiva per un Paese già profondamente sofferente, stretto sotto il peso di un embargo di fatto imposto dagli Stati Uniti.

Al di là delle strategie diplomatiche, la situazione mostra con lampante evidenza come i cambiamenti climatici a livello globale stiano causando immediate crisi politiche e militari nelle regioni economicamente più fragili, esponendo a un rischio ancora più profondo le terre che hanno vissuto uno stato di conflitto armato dal dopoguerra sino ad oggi. È appena il caso di ricordare che nonostante la mancanza di risorse finanziare, l’esercito talebano ha da poco dichiarato la restaurazione di un intero comparto bellico lasciato dalle forze statunitensi nel 2021.

Nei prossimi giorni si capirà la portata dello scontro e l’interesse dei Paesi occidentali, Stati Uniti in primis, di scendere in campo per una pacificazione dell’area dopo che l’Onu a Doha nelle scorse settimane ha sottolineato l’esigenza di partecipare attivamente alla ricostruzione dell’Afghanistan «nonostante le violazioni dei diritti umani in corso».
I segnali che arrivano da Kabul e Teheran lasciano presagire che lo scontro dello scorso weekend potrebbe non essere l’ultimo.

Diario dal fango. Pensando a come costruire un futuro diverso

Nelle ultime settimane la Romagna è stata colpita da quella che è stata registrata come l’alluvione più estesa d’Europa, ed ora a distanza di due settimane, le immagini dei primi giorni sono ancora fresche e vive e chiedono di essere raccontate.
Gli eventi di queste settimane sono stati estremi ed eccezionali, ma non improvvisi o inaspettati, e forse, oltre a spalare e ricostruire è necessario anche fermarsi a riflettere sul rapporto tra territorio, società, comunità, cultura, sulla cultura del territorio. Sono architetta e vivo in Romagna e da settimane si è avviata una riflessione per cercare di capire come siamo arrivati fino a qui e cosa possiamo imparare, non solo come romagnoli, da quello che è successo.

Castrocaro, foto di Caterina Spadoni

Ho passato tutta la giornata di martedì 16 maggio in casa, nelle campagne tra Forlì e Faenza, verso le prime colline, che definiscono il salto di quota dell’antica costa adriatica. Piove dalla notte precedente e sappiamo che pioverà per due giorni incessantemente, i fiumi sono pieni dalle piogge della settimana prima, il Lamone, il fiume che costeggia a sud Faenza aveva già rotto un argine ed alcune case erano già state alluvionate. Seguo senza sosta le notizie dell’allerta meteo sul telefono, sembrano i primi giorni di lockdown durante la pandemia. Alle due di pomeriggio nel gruppo whatsapp degli amici di Forlì, Clara manda un video di casa sua, nelle campagne di Forlimpopoli, in cui l’acqua riempie il giardino e comincia ad entrare in casa: un piccolo lago è esondato e ha allagato i terreni e le case attorno.
Sono uscita fuori per fare una passeggiatina, tutto mi soffoca la pioggia incessante, la casa, le immagini, mi sfreccia di fianco un camion della protezione civile di Trento. Allora dev’essere grave, penso.
La notte si prospetta insonne, con la pioggia che scroscia assordante nel buio fuori dalla finestra: le ultime notizie sono che tutti i fiumi delle mie città sono esondati, il Savio a Cesena, il Montone a Forlì, il Lamone a Faenza.
La luce è saltata, non so più niente, so solo che non posso fare nulla e non riesco nemmeno ad immaginare cosa stia succedendo a qualche chilometro.
Il giorno dopo mi sveglio per la luce plumbea che entra dalla finestra, mentre ancora piove. Niente internet, niente luce, nessuna notizia. Prendo la macchina per andare a Castrocaro, il paese più vicino, manca la luce anche lì ed è tutto chiuso. Al primo ponte, vengo colpita dal silenzio delle persone che guardano il fiume: “Arrivava fino l’altra parte della strada” mi ha detto un signore sotto l’ombrello di fianco a me. Dal castello, un po’ più in alto, non si vede più il fiume, ma una distesa d’acqua indeterminata.
Non si riconosce più il paesaggio. Con mio padre, fotografo, iniziamo a esplorare quei luoghi. Ho fotografato una collina che mi sembrava strana, senza alberi, con dei calanchi che non avevo mai visto, sembra un’immagine di un paesaggio estraneo, crudo e colorato, che non ha nulla a che fare con le nostre colline.

Collina franata foto di Caterina Spadoni

Cerco di capire cosa sia successo davvero, quali aree di Forlì sono state colpite, ma la strada è bloccata, il ponte di porta Schiavonia è il fulcro dell’esondazione, l’altro ponte ed unico che mi porterebbe in città ha due ore di fila.
È giovedì 18 maggio quando arrivano le prime foto di giovani che spalano fango a Cesena e Faenza, mi dirigo in bici fino alla zona rossa, questa volta con gli stivali, non so se per aiutare o per capire; l’accesso al ponte che collega al centro storico e la via Emilia è chiuso da un posto di blocco, mentre intorno persone spalano in silenzi; ancora non è facile capire come aiutare.
Il sabato, il Comune, ha assegnato a tutti i volontari un punto di raccolta, nel quale distribuiscono pale, guanti e cibo: c’è tantissima gente, dal parcheggio intasato sembra che vadano tutti al mare; invece, vanno finalmente ad accompagnare l’acqua verso i tombini. Parto da casa con pala da neve e stivali e una gran voglia di far parte di questo aiuto generale che già da giorni sembrava l’unica occupazione dei cittadini non colpiti dall’alluvione. Davanti a me, un paesaggio non immaginato, quartieri un tempo noti invasi da uno strato di acqua marrone, cataste di mobili color fango si estendono per tutti i marciapiedi.
M’infilo nella prima strada che vedo, è in discesa, circa 4 metri sotto il livello del fiume, del ponte, dell’antica via Emilia. C’è una folla incredibile, tutti parlano con tutti, tra uno scusa e un sorriso la gerarchia delle azioni è questa: chi spala l’acqua dai garage o dalle cantine la riversa in strada, chi spala l’acqua ricevuta in strada, la accompagna verso i tombini che dovrebbero filtrarla. Nel mezzo a queste azioni, ci sono persone che accatastano mobili e oggetti lungo la strada, come se fossero barricate.
Ma quest’acqua è una soluzione pesante di terra e detriti, che vorrebbe stare ferma nell’antro che si è trovata, quindi in pochi minuti, i tombini sono pieni, un signore urla “cassette” e parte la ricerca tra le cataste di detriti di cassette della frutta che possano filtrare il fango prima di essere riversato nel tombino.
Si creano paratie improvvisate, con griglie di frigoriferi e damigiane piene d’acqua per tenerle ferme. Una ragazza con solo la testa fuori dall’acqua si auto-proclama “toglitrice di foglie incastrate nelle griglie”, azione salvifica per il giusto flusso delle acque. I volontari devono inventarsi delle soluzioni, ognuno è indispensabile all’altro, senza un coordinamento, ma un solo scopo comune. Sembra un balletto senza che ci siano state le prove generali, non si parla ma c’è una intelligenza comune, un processo “azione-conseguenza” che tiene su il gioco, fino a quando i tombini di tutta la strada si riempiono definitivamente ed è necessario far passare l’autospurgo, mentre alcuni volontari tornano sulla via principale per poi riversarsi in altre traverse allagate.
La via principale, la famosa via Emilia, che in quel tratto si chiama via Bologna, sopraelevata rispetto ai quartieri allagati è ricoperta di fango e polvere bianca ma priva di acqua, viene utilizzata dai mezzi della protezione civile, dai vigili del fuoco e dall’esercito, dai chioschetti di acqua e cibo allestiti dai volontari e da chi si sta spostando per capire dove dirigersi.

Foto di Caterina Spadoni

Siamo tutti pieni di fango, sembriamo attori di un film post apocalittico in una sagra improvvisata, c’è un’energia mai vista nella Forlì di provincia, dove le strade sono piene di ragazzi giovani solo il sabato pomeriggio nel corso principale pieno di negozi, dove il gioco è chi si veste meglio e non di chi veste peggio ed è più sporco, come ora.
Durante queste operazioni, è possibile finalmente iniziare a capire cosa è successo in quel territorio, anzi è necessario trovare un pattern, delle cause oltre alla retorica della catastrofe naturale e dell’imprevedibilità. C’è un quartiere residenziale, ad esempio, che è stato fortemente colpito, si chiama Romiti-La Cava (forse la toponomastica non andava sottovalutata), ed un altro piccolo quartiere a Est della via Emilia, che dalle mappe, si trova nella vecchia ansa del fiume: è un insieme di vie residenziali, file di villette unifamiliari di due piani massimo, costruite negli anni Settanta- Ottanta, un esempio da manuale di sprawling urbano costruito sotto gli argini: in pochi minuti gli abitanti si sono trovati in trappola, con l’acqua che li circondava da tre direzioni. Il sogno americano di vivere nella villetta indipendente, in città ma non proprio, insieme alle poche lire di oneri al comune, hanno spazzato via le secolari regole della costruzione del territorio, le leggi della civiltà contadina che hanno reso abitabile questo territorio alluvionale.
Ma ora, anche per colpa della crisi climatica, i nodi sono venuti al pettine.
La mia giornata si è conclusa camminando altri chilometri per raggiungere l’altro quartiere allagato, basta seguire il flusso di gente con fango e pala, riesco ad attraversare il ponte che porta al centro e vedere un timido Fiume Montone ritiratosi nel suo letto, decisamente fuori scala rispetto alle sue sponde deturpate, che comunque non hanno retto.
Continuando l’indagine sul campo, mentre è incessante il flusso di gli aiuti e di volontari, si può vedere un altro quartiere, che costeggia il centro storico: è stato costruito nella parte più alta rispetto al fiume, come tutta la città, infatti da quel lato dell’argine le case più vecchie sono state invase dall’acqua che però, è passata attraverso gli edifici, senza fermarsi. I danni maggiori si sono riscontrati dove poi l’acqua non è riuscita a defluire, qualche strada più in là, dove si è accumulata di nuovo nei giardini e negli interrati dei quartieri costruiti più recentemente.
Almeno per quanto riguarda le città di Forlì e Cesena a riportare i danni maggiori sono stati i quartieri progettati a partire dal dopoguerra, con danni via via più evidenti nei quartieri realizzati in tempi più recenti, mentre le case più antiche, anche quelle sugli argini, forse anche per un maggior rapporto con la campagna circostante hanno avuto un destino almeno un po’ migliore. L’impressione, un po’ semplificata, è che “si siano allagati gli anni Ottanta”.
Prima della guerra non esistevano le mappe che tracciassero i rischi, e anche il concetto di vincolo e tutela del territorio (o anche solo di paesaggio) era ancora flebile, almeno dal punto di vista normativo, e anche nel periodo della ricostruzione del dopoguerra fino a tempi relativamente recenti, l’attenzione principale dei piani e degli strumenti di amministrazione del territorio era quello di organizzare in modo funzionale e redditizio l’espansione, la conoscenza del territorio passò in secondo piano, e le mappe antiche che indicavano i fattori di rischio vengono scavalcate da strumenti come il Piano regolatore Generale di Forlì del 1965 che prevedeva, per le aree alluvionate la destinazione a “zone di nuova espansione semintensiva”. Solo in tempi più recenti il consumo di suolo è stato pensato in modo più organico, e il territorio come un ecosistema globale, in cui l’uomo si pone alla pari e non al di sopra, e in cui gli insediamenti urbani o rurali devono fare i conti con l’ambiente circostante.
Oggi con più consapevolezza della crisi climatica e con una volontà all’utilizzo di suolo ponderato, si possono aggiungere tasselli che aiutino a contrastare eventi così catastrofici, a partire da una conoscenza approfondita dei territori, dei bacini fluviali e dei fattori di rischio che non possono essere trascurati.

E quindi si fa sempre più chiaro come siamo arrivati fino qua, nel succedersi di scelte basate su altre priorità momentanee che hanno sovrastato un equilibrio da rispettare, che non hanno tenuto conto della storia delle popolazioni che hanno costruito e modellato questi territori, consapevoli che non sarebbero potuti scappare, se non a piedi, durante una piena e la cui sopravvivenza era legata indissolubilmente al territorio, ai campi, ai raccolti, al guardiano dell’argine della bassa.
Risulta evidente che nel passaggio tra la gestione del territorio basato sulla sussistenza e con una demografia molto minore, ad una gestione amministrativa finalizzata alla crescita è andata persa la conoscenza che ha disegnato e reso sicure queste aree, è chiaro che sono cambiate molte cose, da una parte la necessità di costruire case per una popolazione che aumentava, dall’altra un modello di abitare e un modello di società estraneo a questi territori, da cui la pur produttiva Romagna (e come questa, ognuna a modo suo, tante regioni italiane e non solo) si è distaccata. E questo distacco ha anche rotto il patto tra generazioni alla base dell’idea di sviluppo sostenibile, che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfarne i propri, i millennial e la generazione Z si trovano quindi ad affrontare delle crisi, locali e globali, sempre più interconnesse, scontrandosi con la staticità delle generazioni precedenti.
Ma allo stesso tempo, per chiudere con una nota di speranza, durante i giorni successivi alle alluvioni, in mezzo alle persone che per solidarietà o per necessità si ritrovavano nelle città allagate, si è visto recuperare il rapporto con il territorio, le strade diventare veramente pubbliche, gli argini e il fiume diventare veramente di interesse collettivo, la solidarietà e la collaborazione diffondersi prive di competizione e al di fuori del binomio azione/profitto economico.
Per la prima volta, il bisogno di essere insieme agli altri, di aiutare ed essere aiutati, di non dare per scontato tutto quello che si ha, la possibilità di prendersi cura delle persone e del territorio, la forza di sentire qualcosa di proprio e di poter dare qualcosa ha travolto tutti, lasciandoci in piedi e con una pala.

Le foto qui pubblicate sono state scattate dall’architetto Caterina Spadoni, autrice di questo reportage dalle aree colpite dalle bombe d’acqua e dall’alluvione in Romagna