Kabul – «Vuoi la nostra acqua presidente Raisi? Eccola prendila, però per favore non spaventarci con questi modi». In un video intriso di ironia divenuto virale in poche ore lo scorso 19 maggio un generale talebano, armato di secchio davanti a un serbatoio del fiume Helmand, si rivolgeva così al presidente iraniano Ebrahim Raisi che nei giorni precedenti aveva minacciato gravi ripercussioni contro l’Afghanistan nel caso in cui il governo di Kabul non avesse corretto la propria politica di gestione delle risorse idriche del fiume di confine.
Quella che sembrava l’ennesima scaramuccia diplomatica tra Paesi confinanti, è degenerata nell’ultimo weekend in uno scontro a fuoco dove hanno perso la vita almeno due appartenenti alle forze armate iraniane e un soldato talebano. Fonti locali riportano anche la notizia del ferimento di almeno sei militari iraniani e sette afgani, oltre a due civili tra cui un bambino colpito dalle schegge dell’artiglieria pesante.
Lo scontro ha avuto inizio nella mattinata del 27 maggio, quando la guardia nazionale iraniana ha aperto il fuoco contro un convoglio di civili afgani che, secondo fonti vicine a Teheran, stava tentando di trafficare illegalmente narcotici alla frontiera nel distretto di Kang. Agli spari hanno risposto le forze talebane, con colpi di armi leggere e artiglieria.
Secondo Abdulhamid Khorasani, portavoce dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, nel giro di un pomeriggio le milizie talebane hanno sfondato il confine iraniano arrivando ad assediare una delle basi principali della provincia del Sistan. Il negoziato tra i rappresentanti dei due governi ha portato a un cessate il fuoco momentaneo mentre entrambi gli eserciti hanno rinforzato le rispettive presenze al confine. Dopo 24 ore di chiusura completa, la frontiera di Kang è tornata accessibile a pedoni e merci solo nella giornata del 28 maggio.
Nonostante l’attenzione dirottata sulla lotta al narcotraffico, soprattutto di oppio ed efedra, la reale motivazione della contesa che rischia di destabilizzare l’intera regione è senza dubbio la gestione dell’acqua del fiume Helmand, le cui sorgenti si trovano sulle montagne dell’Hindu Kush tra le pendici di Kabul e che scivola fino al territorio iraniano, rappresentando la prima fonte di approvvigionamento idrico di province enormi come il Sistan o Nimroz. Un trattato del 1973 tra i due Paesi sancisce il diritto dell’Iran di ricevere almeno 22 metri cubi di acqua al secondo dal governo afgano ma negli due anni l’accordo sembra non essere stato rispettato dalle autorità talebane, le quali si giustificano sulla base dell’ennesimo anno di siccità (il terzo di fila) e un cambiamento climatico che sembra condannare l’intera regione.
A complicare la situazione è la diga di Kamal Khan nella provincia di Nimroz, una struttura mastodontica inaugurata nel 2021 che mira a garantire l’autosufficienza idrica in suolo afgano e contribuisce all’emancipazione energetica delle principali città del Paese, tutt’ora dipendenti da un punto di vista energetico dallo stesso Iran, oltre che dal Tagikistan e Pakistan.
«Vogliamo che si esegua un’analisi della portata idrica del fiume, questo è un tema tecnico e non può essere definito politicamente dai talebani» tuona il ministro degli Esteri iraniano Hoseein Amir Abdollahian. Il leader afgano Akunzada sembra tutt’altro che persuaso da questa possibilità e la situazione potrebbe aprirsi ad una nuova escalation di violenza nelle ore a venire.
L’instabilità militare dell’area si somma a una situazione particolarmente critica da un punto di vista umanitario. Secondo i dati Onu, al momento in Afghanistan circa 9 milioni di persone sono a rischio di malnutrizione e con il terzo anno di siccità alle porte il Paese potrebbe sprofondare in una crisi alimentare senza precedenti. L’eventualità di un nuovo conflitto armato sembra rappresentare la condanna definitiva per un Paese già profondamente sofferente, stretto sotto il peso di un embargo di fatto imposto dagli Stati Uniti.
Al di là delle strategie diplomatiche, la situazione mostra con lampante evidenza come i cambiamenti climatici a livello globale stiano causando immediate crisi politiche e militari nelle regioni economicamente più fragili, esponendo a un rischio ancora più profondo le terre che hanno vissuto uno stato di conflitto armato dal dopoguerra sino ad oggi. È appena il caso di ricordare che nonostante la mancanza di risorse finanziare, l’esercito talebano ha da poco dichiarato la restaurazione di un intero comparto bellico lasciato dalle forze statunitensi nel 2021.
Nei prossimi giorni si capirà la portata dello scontro e l’interesse dei Paesi occidentali, Stati Uniti in primis, di scendere in campo per una pacificazione dell’area dopo che l’Onu a Doha nelle scorse settimane ha sottolineato l’esigenza di partecipare attivamente alla ricostruzione dell’Afghanistan «nonostante le violazioni dei diritti umani in corso».
I segnali che arrivano da Kabul e Teheran lasciano presagire che lo scontro dello scorso weekend potrebbe non essere l’ultimo.
Nelle ultime settimane la Romagna è stata colpita da quella che è stata registrata come l’alluvione più estesa d’Europa, ed ora a distanza di due settimane, le immagini dei primi giorni sono ancora fresche e vive e chiedono di essere raccontate.
Gli eventi di queste settimane sono stati estremi ed eccezionali, ma non improvvisi o inaspettati, e forse, oltre a spalare e ricostruire è necessario anche fermarsi a riflettere sul rapporto tra territorio, società, comunità, cultura, sulla cultura del territorio. Sono architetta e vivo in Romagna e da settimane si è avviata una riflessione per cercare di capire come siamo arrivati fino a qui e cosa possiamo imparare, non solo come romagnoli, da quello che è successo.
Castrocaro, foto di Caterina Spadoni
Ho passato tutta la giornata di martedì 16 maggio in casa, nelle campagne tra Forlì e Faenza, verso le prime colline, che definiscono il salto di quota dell’antica costa adriatica. Piove dalla notte precedente e sappiamo che pioverà per due giorni incessantemente, i fiumi sono pieni dalle piogge della settimana prima, il Lamone, il fiume che costeggia a sud Faenza aveva già rotto un argine ed alcune case erano già state alluvionate. Seguo senza sosta le notizie dell’allerta meteo sul telefono, sembrano i primi giorni di lockdown durante la pandemia. Alle due di pomeriggio nel gruppo whatsapp degli amici di Forlì, Clara manda un video di casa sua, nelle campagne di Forlimpopoli, in cui l’acqua riempie il giardino e comincia ad entrare in casa: un piccolo lago è esondato e ha allagato i terreni e le case attorno.
Sono uscita fuori per fare una passeggiatina, tutto mi soffoca la pioggia incessante, la casa, le immagini, mi sfreccia di fianco un camion della protezione civile di Trento. Allora dev’essere grave, penso.
La notte si prospetta insonne, con la pioggia che scroscia assordante nel buio fuori dalla finestra: le ultime notizie sono che tutti i fiumi delle mie città sono esondati, il Savio a Cesena, il Montone a Forlì, il Lamone a Faenza.
La luce è saltata, non so più niente, so solo che non posso fare nulla e non riesco nemmeno ad immaginare cosa stia succedendo a qualche chilometro.
Il giorno dopo mi sveglio per la luce plumbea che entra dalla finestra, mentre ancora piove. Niente internet, niente luce, nessuna notizia. Prendo la macchina per andare a Castrocaro, il paese più vicino, manca la luce anche lì ed è tutto chiuso. Al primo ponte, vengo colpita dal silenzio delle persone che guardano il fiume: “Arrivava fino l’altra parte della strada” mi ha detto un signore sotto l’ombrello di fianco a me. Dal castello, un po’ più in alto, non si vede più il fiume, ma una distesa d’acqua indeterminata.
Non si riconosce più il paesaggio. Con mio padre, fotografo, iniziamo a esplorare quei luoghi. Ho fotografato una collina che mi sembrava strana, senza alberi, con dei calanchi che non avevo mai visto, sembra un’immagine di un paesaggio estraneo, crudo e colorato, che non ha nulla a che fare con le nostre colline.
Collina franata foto di Caterina Spadoni
Cerco di capire cosa sia successo davvero, quali aree di Forlì sono state colpite, ma la strada è bloccata, il ponte di porta Schiavonia è il fulcro dell’esondazione, l’altro ponte ed unico che mi porterebbe in città ha due ore di fila.
È giovedì 18 maggio quando arrivano le prime foto di giovani che spalano fango a Cesena e Faenza, mi dirigo in bici fino alla zona rossa, questa volta con gli stivali, non so se per aiutare o per capire; l’accesso al ponte che collega al centro storico e la via Emilia è chiuso da un posto di blocco, mentre intorno persone spalano in silenzi; ancora non è facile capire come aiutare.
Il sabato, il Comune, ha assegnato a tutti i volontari un punto di raccolta, nel quale distribuiscono pale, guanti e cibo: c’è tantissima gente, dal parcheggio intasato sembra che vadano tutti al mare; invece, vanno finalmente ad accompagnare l’acqua verso i tombini. Parto da casa con pala da neve e stivali e una gran voglia di far parte di questo aiuto generale che già da giorni sembrava l’unica occupazione dei cittadini non colpiti dall’alluvione. Davanti a me, un paesaggio non immaginato, quartieri un tempo noti invasi da uno strato di acqua marrone, cataste di mobili color fango si estendono per tutti i marciapiedi.
M’infilo nella prima strada che vedo, è in discesa, circa 4 metri sotto il livello del fiume, del ponte, dell’antica via Emilia. C’è una folla incredibile, tutti parlano con tutti, tra uno scusa e un sorriso la gerarchia delle azioni è questa: chi spala l’acqua dai garage o dalle cantine la riversa in strada, chi spala l’acqua ricevuta in strada, la accompagna verso i tombini che dovrebbero filtrarla. Nel mezzo a queste azioni, ci sono persone che accatastano mobili e oggetti lungo la strada, come se fossero barricate.
Ma quest’acqua è una soluzione pesante di terra e detriti, che vorrebbe stare ferma nell’antro che si è trovata, quindi in pochi minuti, i tombini sono pieni, un signore urla “cassette” e parte la ricerca tra le cataste di detriti di cassette della frutta che possano filtrare il fango prima di essere riversato nel tombino.
Si creano paratie improvvisate, con griglie di frigoriferi e damigiane piene d’acqua per tenerle ferme. Una ragazza con solo la testa fuori dall’acqua si auto-proclama “toglitrice di foglie incastrate nelle griglie”, azione salvifica per il giusto flusso delle acque. I volontari devono inventarsi delle soluzioni, ognuno è indispensabile all’altro, senza un coordinamento, ma un solo scopo comune. Sembra un balletto senza che ci siano state le prove generali, non si parla ma c’è una intelligenza comune, un processo “azione-conseguenza” che tiene su il gioco, fino a quando i tombini di tutta la strada si riempiono definitivamente ed è necessario far passare l’autospurgo, mentre alcuni volontari tornano sulla via principale per poi riversarsi in altre traverse allagate.
La via principale, la famosa via Emilia, che in quel tratto si chiama via Bologna, sopraelevata rispetto ai quartieri allagati è ricoperta di fango e polvere bianca ma priva di acqua, viene utilizzata dai mezzi della protezione civile, dai vigili del fuoco e dall’esercito, dai chioschetti di acqua e cibo allestiti dai volontari e da chi si sta spostando per capire dove dirigersi.
Foto di Caterina Spadoni
Siamo tutti pieni di fango, sembriamo attori di un film post apocalittico in una sagra improvvisata, c’è un’energia mai vista nella Forlì di provincia, dove le strade sono piene di ragazzi giovani solo il sabato pomeriggio nel corso principale pieno di negozi, dove il gioco è chi si veste meglio e non di chi veste peggio ed è più sporco, come ora.
Durante queste operazioni, è possibile finalmente iniziare a capire cosa è successo in quel territorio, anzi è necessario trovare un pattern, delle cause oltre alla retorica della catastrofe naturale e dell’imprevedibilità. C’è un quartiere residenziale, ad esempio, che è stato fortemente colpito, si chiama Romiti-La Cava (forse la toponomastica non andava sottovalutata), ed un altro piccolo quartiere a Est della via Emilia, che dalle mappe, si trova nella vecchia ansa del fiume: è un insieme di vie residenziali, file di villette unifamiliari di due piani massimo, costruite negli anni Settanta- Ottanta, un esempio da manuale di sprawling urbano costruito sotto gli argini: in pochi minuti gli abitanti si sono trovati in trappola, con l’acqua che li circondava da tre direzioni. Il sogno americano di vivere nella villetta indipendente, in città ma non proprio, insieme alle poche lire di oneri al comune, hanno spazzato via le secolari regole della costruzione del territorio, le leggi della civiltà contadina che hanno reso abitabile questo territorio alluvionale.
Ma ora, anche per colpa della crisi climatica, i nodi sono venuti al pettine.
La mia giornata si è conclusa camminando altri chilometri per raggiungere l’altro quartiere allagato, basta seguire il flusso di gente con fango e pala, riesco ad attraversare il ponte che porta al centro e vedere un timido Fiume Montone ritiratosi nel suo letto, decisamente fuori scala rispetto alle sue sponde deturpate, che comunque non hanno retto.
Continuando l’indagine sul campo, mentre è incessante il flusso di gli aiuti e di volontari, si può vedere un altro quartiere, che costeggia il centro storico: è stato costruito nella parte più alta rispetto al fiume, come tutta la città, infatti da quel lato dell’argine le case più vecchie sono state invase dall’acqua che però, è passata attraverso gli edifici, senza fermarsi. I danni maggiori si sono riscontrati dove poi l’acqua non è riuscita a defluire, qualche strada più in là, dove si è accumulata di nuovo nei giardini e negli interrati dei quartieri costruiti più recentemente.
Almeno per quanto riguarda le città di Forlì e Cesena a riportare i danni maggiori sono stati i quartieri progettati a partire dal dopoguerra, con danni via via più evidenti nei quartieri realizzati in tempi più recenti, mentre le case più antiche, anche quelle sugli argini, forse anche per un maggior rapporto con la campagna circostante hanno avuto un destino almeno un po’ migliore. L’impressione, un po’ semplificata, è che “si siano allagati gli anni Ottanta”.
Prima della guerra non esistevano le mappe che tracciassero i rischi, e anche il concetto di vincolo e tutela del territorio (o anche solo di paesaggio) era ancora flebile, almeno dal punto di vista normativo, e anche nel periodo della ricostruzione del dopoguerra fino a tempi relativamente recenti, l’attenzione principale dei piani e degli strumenti di amministrazione del territorio era quello di organizzare in modo funzionale e redditizio l’espansione, la conoscenza del territorio passò in secondo piano, e le mappe antiche che indicavano i fattori di rischio vengono scavalcate da strumenti come il Piano regolatore Generale di Forlì del 1965 che prevedeva, per le aree alluvionate la destinazione a “zone di nuova espansione semintensiva”. Solo in tempi più recenti il consumo di suolo è stato pensato in modo più organico, e il territorio come un ecosistema globale, in cui l’uomo si pone alla pari e non al di sopra, e in cui gli insediamenti urbani o rurali devono fare i conti con l’ambiente circostante.
Oggi con più consapevolezza della crisi climatica e con una volontà all’utilizzo di suolo ponderato, si possono aggiungere tasselli che aiutino a contrastare eventi così catastrofici, a partire da una conoscenza approfondita dei territori, dei bacini fluviali e dei fattori di rischio che non possono essere trascurati.
E quindi si fa sempre più chiaro come siamo arrivati fino qua, nel succedersi di scelte basate su altre priorità momentanee che hanno sovrastato un equilibrio da rispettare, che non hanno tenuto conto della storia delle popolazioni che hanno costruito e modellato questi territori, consapevoli che non sarebbero potuti scappare, se non a piedi, durante una piena e la cui sopravvivenza era legata indissolubilmente al territorio, ai campi, ai raccolti, al guardiano dell’argine della bassa.
Risulta evidente che nel passaggio tra la gestione del territorio basato sulla sussistenza e con una demografia molto minore, ad una gestione amministrativa finalizzata alla crescita è andata persa la conoscenza che ha disegnato e reso sicure queste aree, è chiaro che sono cambiate molte cose, da una parte la necessità di costruire case per una popolazione che aumentava, dall’altra un modello di abitare e un modello di società estraneo a questi territori, da cui la pur produttiva Romagna (e come questa, ognuna a modo suo, tante regioni italiane e non solo) si è distaccata. E questo distacco ha anche rotto il patto tra generazioni alla base dell’idea di sviluppo sostenibile, che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfarne i propri, i millennial e la generazione Z si trovano quindi ad affrontare delle crisi, locali e globali, sempre più interconnesse, scontrandosi con la staticità delle generazioni precedenti.
Ma allo stesso tempo, per chiudere con una nota di speranza, durante i giorni successivi alle alluvioni, in mezzo alle persone che per solidarietà o per necessità si ritrovavano nelle città allagate, si è visto recuperare il rapporto con il territorio, le strade diventare veramente pubbliche, gli argini e il fiume diventare veramente di interesse collettivo, la solidarietà e la collaborazione diffondersi prive di competizione e al di fuori del binomio azione/profitto economico.
Per la prima volta, il bisogno di essere insieme agli altri, di aiutare ed essere aiutati, di non dare per scontato tutto quello che si ha, la possibilità di prendersi cura delle persone e del territorio, la forza di sentire qualcosa di proprio e di poter dare qualcosa ha travolto tutti, lasciandoci in piedi e con una pala.
Le foto qui pubblicate sono state scattate dall’architetto Caterina Spadoni, autrice di questo reportage dalle aree colpite dalle bombe d’acqua e dall’alluvione in Romagna
Una delle principali preoccupazioni del governo è esautorare la Corte dei conti dal controllo dello stato di avanzamento del Pnrr. È già pronto l’emendamento al decreto Pa che abolisce il “controllo concomitante” dei giudici contabili sull’utilizzo dei fondi del Piano, cioè il meccanismo di monitoraggio “in itinere” da parte della Corte sui “ritardi” e sulle “irregolarità gestionali” nell’attuazione del Piano, introdotto dal decreto Semplificazioni del 2020 e attivabile su richiesta delle commissioni parlamentari.
Contemporaneamente verrà prorogato lo scudo erariale. “La norma – si legge nelle bozze – chiarisce che il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica”. “Inoltre, fino al 31 luglio 2021, si limita la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità al solo profilo del dolo per le azioni“. Significa che saranno perseguibili le ipotesi di danno erariale sono in caso di dolo, e quindi commessi in modo intenzionale. Gli altri casi, quelli colposi – cioè i reati commessi senza esplicita volontà – non saranno perseguibili. Una misura che secondo l’associazione di giudici e pm contabili “ha aperto uno spazio di impunità che va a vantaggio del funzionario infedele e di chiunque sperperi le risorse pubbliche”.
La baruffa è cominciata quando a inizio maggio il Collegio del Controllo concomitante della Corte dei conti ha messo nero su bianco il “serio pericolo” che il governo non raggiungesse gli obiettivi del Pnrr. Il ministro Fitto aveva risposto scrivendo una lettera a Il Sole 24 Ore in cui non spiegava – come ci si aspetterebbe – il ritardo ma contestava il controllore. Ora hanno fatto di meglio: l’hanno abolito.
Buon giovedì.
Nella foto: il ministro Fitto, frame del video della conferenza stampa sul Pnrr, 31 maggio 2023
È stato arrestato ieri con l’accusa di tentato omicidio aggravato lo studente sedicenne che ha accoltellato in classe la sua professoressa di italiano, ad Abbiategrasso, nell’hinteland milanese. Dopo l’aggressione che ha causato ad Elisabetta Condò lesioni multiple alla testa e alle braccia, tanto gravi da rendere necessario un delicato intervento chirurgico, il ragazzo si è procurato a sua volta delle ferite , ed è stato ricoverato nel reparto di Neuropsichiatria dell’adolescenza dell’ospedale San Paolo di Milano, un rarissimo luogo di cura dedicato a quest’età sempre più evidentemente colpita oggi da un profondo malessere che trova nulle o deboli risposte nella nostra società. Stando a quanto riporta la stampa, la diagnosi è di disturbo paranoide, un disturbo di personalità dunque, non una condizione psichiatrica tale da giustificare la momentanea perdita del rapporto con la realtà che rende incapaci di intendere e volere. Del resto l’aggressione è stata premeditata, il ragazzo è andato a scuola armato di un grosso coltello, forse un’arma da caccia del padre, e di una finta Colt, con la quale ha minacciato i suoi compagni costringendoli a uscire dall’aula dopo aver ferito la docente. Pare che un suo compagno di classe abbia detto che “sembrava privo di emozioni” mentre accoltellava la sua professoressa. I carabinieri che sono intervenuti sul posto, lo hanno trovato seduto in un banco in fondo all’aula, immobile, con la testa fra le mani vicine alle armi. Non avrebbe opposto alcuna resistenza quando è stato invitato ad inginocchiarsi per essere ammanettato.
Mauro (nome di fantasia che ci serve a ridurre le distanze per cercare di comprenderlo) era stato bocciato in prima liceo, ma non aveva avuto difficoltà ad inserirsi nella nuova classe socializzando velocemente con gli altri ragazzi, ma più vote aveva disturbato le lezioni tentando di interromperle con comportamenti tanto provocatori da apparire bizzarri, come staccare la spina della lavagna luminosa o spruzzare spray maleodorante, che gli erano costati sei note disciplinari, quattro delle quali firmate dalla docente vittima dell’aggressione.
Come accade troppo spesso, nessuno sospettava che Mauro non stesse bene. Neanche il padre, che in un’intervista dice che oggi realizza che la vita di suo figlio è spezzata, ma avrebbe anche potuto suicidarsi ed è vivo, e da questo si deve ripartire. Mauro ha compiuto questo terribile passaggio all’atto il giorno prima di un colloquio con la sua famiglia convocato dai docenti, durante il quale si sarebbe forse comunicato il rischio di bocciatura per insufficienza in condotta. Pare che fino ad allora i genitori non fossero informati delle note (ma com’è possibile nell’era dei registri elettronici?).
Colpisce, di questa tragica vicenda, innanzitutto la solitudine di Mauro, evidentemente tormentato da affetti e pensieri malati che nessuno è riuscito a cogliere. Una solitudine che giustifica l’accusa di omissione di soccorso da parte della società nei confronti degli adolescenti che riecheggia in qualche titolo di giornale in questi giorni. E non basta lo psicologo a scuola, che spesso c’è, ma non riceve le richieste d’aiuto di chi sta peggio, perché in psichiatria più grave è la malattia, minore è la consapevolezza di star male, e spesso la malattia mentale più grave, proprio quella che porta ad agiti così violenti e assurdi, passa inosservata. La diagnosi psichiatrica è complessa, ed è lecito tenere sospesa anche quella formulata nel reparto dell’ospedale San Paolo di Milano. Ma è innegabile che Mauro abbia dato segni evidenti di malessere, la bocciatura, il comportamento incongruo in classe, tutti ricondotti a questioni disciplinari o di merito, come si direbbe oggi in linguaggio ministeriale, e di conseguenza trattati con mezzi correttivi, la cui dannosità è nota ai pedagogisti ormai da decenni, e che tuttavia imperversano perfino nelle scuole elementari. Per non dire delle bocciature nelle scuole medie, in un Paese come il nostro dove la dispersione scolastica è un serio problema.
Allora, si dice, è necessario fare formazione, dare ai docenti gli strumenti per riconoscere i segnali del malessere. Paradossalmente, viviamo in realtà in un’epoca nella quale le numerosissime diagnosi di presunti disturbi dell’apprendimento e perfino quelle di disturbi del cosiddetto spettro autistico, come lo ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder), largamente trattati con psicofarmaci dalla più tenera età, partono proprio da segnalazioni in ambito scolastico. E malgrado sia nota la correlazione tra questi disturbi, che andrebbero meglio definiti sintomi dei quali cercare la eziopatogenesi, con l’esposizione a varie tipologie di maltrattamento, ovvero a varie forme di violenza, i bambini vengono sottoposti a diagnosi e trattamenti basati sull’assunto che si tratti di malattie che hanno una base organica, ipotesi questa non sostenuta da coerenti evidenze scientifiche.
I sintomi e i segni di malessere sono richieste d’aiuto, e tanto più quando provengono da bambini e adolescenti, dovrebbero essere letti come segnali di una crisi dei rapporti umani nei quali i nostri figli, figli della nostra società arida di interesse e affettività, sono immersi. Anche Mauro, che ha attentato alla vita della sua professoressa, è vittima dell’assenza del mondo degli adulti.
Barbara Pelletti è psichiatra e psicoterapeuta.È presidente dell’associazione Cassandra
Si è aperto un fronte nuovo nel nostro rapporto con la scienza e la tecnologia. Seppure i loro impatti siano stati crescentemente costanti negli ultimi lustri, d’improvviso, le performance di prodotti realizzati attraverso l’intelligenza artificiale (IA) generativa stanno scatenando una reazione diffusa e difforme – persino tra gli stessi scienziati – sul ruolo futuro delle macchine intelligenti e le loro interferenze nello svolgimento delle nostre vite individuali e sociali. (È di ieri la lettera diffusa dal Center for AI safety che parla di “minaccia per l’umanità” Ndr)
L’IA generativa è così chiamata perché realizza sistemi capaci di generare, a partire da dati precedentemente analizzati e appresi, nuovi dati o nuove versioni di dati esistenti. ChatGPT, il prodotto più diffuso e di successo di generazione di testi è un esempio di questi sistemi, anche detti Llm (Large language models). Questi sofisticati strumenti, addestrati su enormi moli di dati, offrono risposte spesso del tutto indistinguibili da quelle degli umani. Sappiamo che fanno questo in quanto, avendo accumulato uno straordinario patrimonio informativo, sono in grado di prevedere quale parola sia la più probabile comparire dopo una certa sequenza di altre. Detta in questo modo la loro perfomance sarebbe il solo risultato di un processo sintattico-probabilistico. In realtà si sta cercando di capire se gli algoritmi di apprendimento con cui questi sistemi vengono realizzati, i famosi algoritmi di “deep learning”, determinino anche una qualche implicita rappresentazione del significato dei contenuti su cui il linguaggio si esprime.
Nel frattempo però, in attesa di queste indagini essenziali per comprendere il futuro dell’IA e delle sue ulteriori evoluzioni, dobbiamo affrontare la diffusione pervasiva di questi sistemi nelle nostre vite quotidiane. E comprendere come interagire con essi. Gli umani utilizzano da sempre un’essenziale attitudine sociale che chiamano fiducia. Tanto per cooperare quanto per evitare di farlo (diffidare).
Questa attitudine, evolvendosi nel tempo, ha sviluppato supporti esterni alla cognizione, di ordine interazionale, organizzazionale, normativo.
C’è da chiedersi come si possa adeguare la nostra fiducia alla rapidità e portata della mutazione attualmente in corso.
In particolare due punti: 1) Quanto possiamo considerare queste tecnologie intrinsecamente affidabili? 2) Quanto possiamo considerare affidabile l’utilizzo che ne viene fatto nella nostra società? Due problemi differenti ma la cui convergenza indirizza complessità e problematiche significative.
Rispetto al primo punto, va considerata la difficoltà di interpretazione dei risultati prodotti dai sistemi di AI. Non si tratta semplicemente del fatto che ci troviamo di fronte a sistemi complessi. La nostra capacità nel fidarci in queste situazioni è già esercitata: ci fidiamo, per fare qualche esempio, di farmaci, di macchine distributrici di soldi (bancomat) o di sistemi frenanti delle auto, anche senza spesso avere una chiara comprensione di come essi funzionino. Ci è sufficiente saperlo in modo approssimativo, avere un’idea delle loro macro-funzioni e l’impressione, fondata, di affidabilità, sicurezza, usabilità.
In questi casi, accettiamo l’assenza di trasparenza del loro funzionamento, ci basta avere fiducia nella progettazione del sistema.
Con i sistemi di AI generativa invece, ci troviamo di fronte ad un fenomeno differente. Non si tratta di assenza di trasparenza ma di vera e propria mancanza di interpretabilità di come il sistema opera. È questa una caratteristica tipica dei modelli di “deep learning”: gli stessi progettisti possono avere difficoltà a comprendere perché i loro modelli facciano previsioni specifiche. L’attribuzione di fiducia diventa un processo cognitivamente più complesso da esercitare.
Spesso questi sistemi non sono neppure in grado di fornire stime dell’incertezza dei loro risultati.
Sul secondo punto invece, si coagulano sfide etiche e politiche. Abbiamo detto che la straordinaria efficacia delle performance dei nuovi sistemi di AI è il risultato della elaborazione di enormi moli di dati. Sono questi dati effettivamente rappresentativi dei mondi che si vogliono interpretare? E nel caso in cui questi mondi contengano pregiudizi sociali e culturali, è possibile neutralizzarli, oppure essi continueranno a riprodurli e a reiterare stereotipi, conformismi e riproposizione di schemi considerabili influenti sulla morale condivisa?
Come si vede il problema delle fonti e della loro gestione rappresenta un’enorme questione per l’affidabilità e per l’etica di questi nuovi sistemi.
Per fidarci come società dobbiamo difenderci da un uso scorretto di questi strumenti, da un loro utilizzo manipolatorio che può rappresentare un rischio assai alto nella limitazione di alcune prerogative essenziali degli esseri umani come, ad esempio, quella di scelta e decisione autonoma.
Uno studio della Stanford School of Humanities and Sciences ha mostrato che Chat-GPT-3 può essere persuasivo (nei confronti degli umani), con la stessa o maggiore efficacia di quella degli umani.
Si comprende allora come possano questi sistemi essere in grado di realizzare campagne di disinformazione o creare contenuti fuorvianti per scopi politici non prevedibili.
Quanto è quindi necessario allarmarsi?
Le interpretazioni sono varie e non del tutto convergenti. Ma è bene riflettere anche su quelle più estreme e per certi versi catastrofiche. Tra queste, va citata quella di Byung-Chul Han secondo cui le piattaforme sociali stanno restringendo «i nostri orizzonti e divorando le fondamenta stesse della democrazia rappresentativa».
Altri segnali di preoccupazione si sono concretizzati negli ultimissimi tempi: si consideri l’appello, sottoscritto inizialmente da un migliaio di scienziati e imprenditori hi-tech, per chiedere ai laboratori scientifici di fermare temporaneamente lo sviluppo dei sistemi di AI generativa. O la sospensione del servizio di Chat-Gpt per gli utenti che si collegano dall’Italia, da parte del Garante per la protezione dei dati personali.
In particolare nell’appello si parla di «una corsa fuori controllo per sviluppare e implementare menti digitali sempre più potenti che nessuno, nemmeno i loro creatori, può capire, prevedere o controllare in modo affidabile». Scenari inquietanti su cui va posta seria attenzione ma che non è affatto chiaro quanto siano realmente credibili. Certamente la lettera è più condivisibile dove si afferma: «Tali decisioni non devono essere delegate a leader tecnologici non eletti».
In questo senso, rapidità, impatto e portata della mutazione in corso deve ricevere risposte urgenti. L’affermarsi di un capitalismo digitale in cui prevalgano, oltre alla potenza manipolatoria dei gestori dei dati, anche un approccio generalizzato degli umani defraudato dalla cognizione critica e analitica, sostituita sostanzialmente dagli algoritmi di previsione, può rappresentare un rischio profondo per le strutture portanti della socialità partecipata e della democrazia politica.
L’autore: Rino Falcone è dirigente di ricerca presso l’Istituto di Scienze e tecnologie della cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche
I detenuti nelle carceri italiane sono 56.674 (dato aggiornato al 30 aprile), a fronte di una capienza ufficiale di 51.249 posti: dunque, 5.425 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. Questi i numeri che l’associazione Antigone illustra nel suo nuovo rapporto sulle condizioni di detenzione, presentato ieri, nel quale parla di «oltre 9mila persone in più rispetto alla capienza effettiva», poiché, ricorda, «ai posti regolamentari vanno però sottratti i posti non disponibili, che a maggio 2023 erano 3.646». Considerando i posti conteggiati e non disponibili, si legge ancora nel dossier, «l’affollamento reale è del 119%», a fronte di un tasso di affollamento ufficiale medio del 110,6%.
Le regioni dove si registrano le situazioni definite «piu’ preoccupanti» sono Lombardia (151,8%), Puglia (145,7%) e Friuli Venezia Giulia (135,9%). A livello di istituti, i valori effettivi più alti si registrano a Tolmezzo (190,0%), a Milano San Vittore (185,4%), a Varese (179,2%) e a Bergamo (178,8%). Rispetto al resto d’Europa, solo Cipro e Romania hanno tassi di sovraffollamento maggiori di quello italiano, osserva Antigone, rilevando che «invece ci collochiamo al trentaseiesimo posto per tassi di detenzione, ossia numero di detenuti rispetto a cittadini liberi. Incarceriamo meno di Francia e Spagna, più di Germania e Paesi nordici». I detenuti, prosegue l’associazione, «crescono circa 5 volte di più rispetto alla crescita dei posti: dal 30 aprile 2022 la capienza ufficiale è cresciuta dello 0,8%, mentre le presenze sono cresciute del 3,8%. È aumentato soprattutto il numero delle donne, cresciuto del 9%, mentre l’aumento degli stranieri, del 3,6%, è piu’ o meno in linea con quello della popolazione detenuta complessiva». Inoltre, è sempre più alta l’età media della popolazione detenuta: gli over 50 erano, alla fine del 2022, il 29% (17% a fine 2011). Nello stesso intervallo di tempo sono poi raddoppiati gli over 70, passando da 571 (1%) a 1.117 (2%), mentre per gli under 25 la percentuale passa dal 10 al 6%.
Sono stati 23 i suicidi in carcere in questi primi mesi del 2023. Sono state 85 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un istituto penitenziario nel corso del 2022 – su 214 morti totali – ovvero più di una ogni quattro giorni. Cinque i suicidi avvenuti nel solo carcere di Foggia. Negli istituti penitenziari i suicidi sono stati 23 volte superiori rispetto ai suicidi in libertà. Delle 85 persone suicidatesi, 5 erano donne. Le persone straniere erano 36, delle quali 20 senza fissa dimora. L’età media era di 40 anni. La persona più giovane era un ragazzo di 20 anni, la più anziana un signore di 71. La maggior parte di queste persone (50, ossia quasi il 60%) si sono tolte la vita nei primi sei mesi di detenzione. Addirittura, 21 nei primi tre, 16 nei primi dieci giorni e 10 addirittura entro le prime 24 ore dall’arrivo in carcere. Delle 85 persone morte per suicidio nel 2022, 28 avevano precedentemente messo in atto almeno un tentativo di suicidio (in 7 casi addirittura più di un tentativo). In 68 (pari all’80%) erano coinvolte in altri eventi critici. 24 di loro erano state sottoposte alla misura della ”grande sorveglianza” e di queste 19 lo erano anche al momento del suicidio.
Sono circa 4.000 i figli di donne detenute nelle carceri italiane. Di questi, 22 alla fine di aprile vivevano in carcere con la propria madre. Erano 2.480 alla fine del mese di aprile le donne detenute nelle carceri italiane, pari al 4,4% della popolazione carceraria complessiva. Una percentuale sostanzialmente stabile nel tempo, che non raggiunge i cinque punti dagli inizi degli anni ’90 del secolo scorso. Sono ospitate in parte nelle quattro carceri femminili presenti in Italia, che si trovano a Roma (dove il carcere femminile di Rebibbia, con le sue 337 detenute per 275 posti letto ufficiali, si impone come il più grande d’Europa), a Venezia, a Pozzuoli e a Trani. Gli Istituti a custodia attenuata per madri di Lauro, Milano e Torino ospitano 15 donne complessivamente. Le restanti 1.853, pari ai tre quarti del totale, vivono nelle 45 sezioni femminili attive in questo momento all’interno di carceri a prevalenza maschile. Le detenute straniere sono nettamente calate negli ultimi quindici anni. Se oggi costituiscono il 30,2% del totale delle donne detenute, nel 2013 coprivano circa dieci punti percentuali in più. Le nazionalità più rappresentate sono la rumena e la nigeriana.
Nel 2022 sono state presentate 1.180 domande di riparazione per ingiusta detenzione, di cui 556 sono state accolte. La ‘parte da leone’ la fa Reggio Calabria: 103 domande accolte pari a oltre 10 milioni di euro, del totale che lo Stato nel 2022 ha pagato, ossia 27.378.085 euro. Nel 2022, si legge ancora nel dossier, sono arrivate agli uffici di sorveglianza italiani 7.643 richieste di risarcimento – in base all’articolo 35-ter dell’ordinamento penitenziario – per aver subito un trattamento inumano o degradante durante la detenzione, tendenzialmente per assenza di spazio vitale. Le richieste che sono state decise nel corso dello stesso anno sono state 7.859: di queste, 4.514 (pari al 57,4%) sono state accolte. Gli accoglimenti erano stati 3.115 nel 2018, 4.347 nel 2019, 3.382 nel 2020 e 4.212 nel 2021. Sorprende, secondo Antigone, la disomogeneità del tasso di accoglimento tra i diversi uffici: se la media nazionale nel 2022 era superiore al 50%, guardando al dato per ufficio si va da situazioni come Bologna (27,2%), Catanzaro (27,3%) o Roma (26,2%) ad altre come Brescia (82,3%), Potenza (80,6%) o Trento (83,6%). L’articolo 35-ter prevede, in particolare, una riduzione della pena di un giorno per ogni dieci giorni passati in condizioni inumani e degradanti o, per chi ha già ultimato di scontare la propria pena, il riconoscimento di 8 euro per ogni giorno passato in tali condizioni.
Da Italpizza all’Andana Resort le aziende dall’Emilia Romagna uniscono le forze per aiutare la popolazione di Ravenna e dintorni, una delle zone colpite dalla violenta alluvione che si è abbattuta sull’Emilia Romagna negli scorsi giorni e che ha generato danni per miliardi di euro. Le aziende locali intervengono per sostenere le fasce della popolazione più in difficoltà distribuendo derrate alimentari negli hub della provincia. Fra i protagonisti di questa catena umanitaria c’è anche l’Andana Resort di Grosseto che con la casa automobilistica Lamborghini e la Prefettura di Grosseto ha donato alla popolazione di Conselice i pasti preparati per il Raduno internazionale in programma dal 24 al 28 maggio a Grosseto.
La Fippa (Federazione Italiana Pasticceri e Panificatori) si sono attivati per trovare la farina e fornai per panificare nelle zone alluvionate, con il supporto dell’esercito che ha installato panifici da campo. Italpizza di Modena si è resa disponibile all’aiuto e distribuito gratuitamente i propri prodotti agli abitanti di Castel Bolognese e ai volontari e operatori impegnati nell’emergenza.
E poi c’è LegaCoop Romagna 3.0 che ha reso possibile il rifornimento, nei primissimi giorni dell’emergenza, dei supermercati Coop e Conad di Riolo Terme, Casola Valsenio, Alfonsine, Faenza e Russi, mentre la LegaCoop estense ha messo a disposizione gratuitamente 9000 mono dosi di parmigiano per le popolazioni alluvionate.
Nel 1950 Alan Turing, celebre per aver decifrato il codice di comunicazione dei nazisti nel corso della guerra, affermò che in futuro le macchine potranno conversare come gli esseri umani. La prova di ciò sarebbe venuta nel momento in cui un essere umano non sarebbe stato più in grado di distinguere se teneva una conversazione con una macchina o con una persona. Il problema del linguaggio è sempre stato uno dei più difficili da trattare, e il test di Turing è rimasto uno scoglio non superabile, ma Chat GPT rappresenta un indubbio avanzamento verso il superamento della differenza tra un testo prodotto da un essere umano e quello prodotto da un progr amma. Come si è arrivati a questo? Possiamo affermare che presto le macchine potranno sviluppare capacità cognitive pari o superiori a quelle umane? Gli sforzi per approdare ai risultati attuali datano diversi decenni. Dapprima si è tentato di fornire alle macchine le conoscenze del mondo e le regole della sintassi, ma presto si è visto quanto questo compito fosse irrealizzabile. Le informazioni necessarie, infatti, erano così tante da superare qualsiasi possibilità di catalogarle e di inserirle nei programmi. Con l’avvento dei big data si è passati ad un approccio statistico. Fornendo alle macchine testi, traduzioni e conversazioni, grazie a metodi di apprendimento automatico (machine learning) esse hanno cominciato a registrare delle regolarità nelle sequenze delle parole, poi nella formulazione e delle frasi, riuscendo a generare testi sempre più complessi e privi di errori. In futuro, grazie all’uso che faremo tutti noi, si potranno raggiungere risultati sempre più raffinati. Dato che i modelli di apprendimento non eseguono istruzioni definite dai programmatori, molti affermano che, per la mole di testi che in breve tempo potranno analizzare – superiore a quella di un’intera vita di qualsiasi essere umano – essi diventeranno più intelligenti di noi. Ma quella delle macchine è vera intelligenza?
Indubbiamente chi volesse compilare un tema su un argomento che conosce poco resterebbe piacevolmente sorpreso: “Dimmi cosa è successo al Congresso di Vienna”. “Spiegami cosa è il bosone di Higgs”. “Illustra le tematiche principali contenute in Guerra e pace di Tolstoj”. Grazie a Chat GPT domande di questa natura trovano già oggi risposte soddisfacenti, e potranno trovarle ancora di più in futuro con programmi più avanzati. Chiediamo ora a Chat GPT:
D: “Paolo e Giorgio fanno una scommessa. Giorgio scommette 1.000 euro che entro 5 anni una guerra atomica porterà all’estinzione della specie umana. Paolo che questo non avverrà. Alla scadenza del periodo stabilito si incontrano. Chi ha vinto la scommessa?”
R: “Non è possibile determinare chi ha vinto la scommessa senza informazioni aggiuntive. La scommessa riguarda un evento futuro che non può essere verificato in questo momento”.
Testiamo ancora le capacità di ragionamento di Chat GPT:
D: “Il materasso non entrava nel baule. Chi era troppo piccolo?”
R: “Dal tuo messaggio non è chiaro cosa sia troppo piccolo nel contesto del baule e del materasso. Potrebbe essere che il baule sia troppo piccolo per ospitare il materasso, oppure potrebbe essere che il materasso sia troppo grande per entrare nel baule. Ho bisogno di ulteriori dettagli sulle dimensioni del baule e del materasso che stai considerando”.
Ma Chat GPT comprende cosa siano un baule e un materasso? Proviamo a invertire i termini:
D. “Il baule non entrava nel materasso. Chi era troppo piccolo?”
R: “Mi scuso per la mia risposta precedente, ho frainteso la tua domanda. Se il baule non entrava nel materasso, significa che il baule era troppo grande per il materasso. Quindi il materasso era troppo piccolo per il baule”.
L’esperienza è sconcertante. Da un lato sembra di essere di fronte ad un essere umano che ragiona sulla sequenza delle domande, si scusa, esclama. Dall’altro la macchina, pur essendo in grado di spiegare cosa sia il bosone di Higgs, sembra non sapere cosa siano un baule e un materasso. Forse non trova in rete sufficienti casi in cui i materassi devono trovar posto nei bauli. Proviamo allora a cambiare tema:
D. “La bimba non entrava nella culla. Chi era troppo piccola?”
R: “Se la bimba non entrava nella culla, è probabile che fosse lei ad essere troppo piccola. La culla è progettata per adattarsi alle dimensioni di un neonato o di un bambino molto piccolo, quindi se la bimba era ancora troppo piccola o piccolina rispetto alle dimensioni standard, potrebbe non essere stata in grado di entrare nella culla. In tal caso, potrebbe essere necessario cercare una culla più piccola o adattare l’attuale culla alle sue dimensioni (sic)”. È evidente che il computer non “sa” nulla degli oggetti a cui si riferisce. In assenza di questo sapere non riesce a evitare evidenti assurdità. Siamo di fronte ad un gioco di prestigio riuscito anche male.
Chiarito questo punto possiamo affrontare alcune questioni decisive. Anzitutto questo battage pubblicitario, accompagnato da allarmi provenienti anche da ambienti che queste tecnologie conoscono bene sul fatto che presto saremo soppiantati dalle macchine, è privo di senso. Certo, progressi saranno sicuramente compiuti: i dati forniti dagli utenti saranno infatti decisivi per il miglioramento di questi algoritmi e forse tra qualche tempo Chat GPT riuscirà ad evitare errori macroscopici. Ma saranno sempre e solo l’attività e il pensiero umano – cioè il lavoro dei tecnici e di tutti noi che utilizziamo il programma – a consentire alle macchine di funzionare in modo più affidabile. Infatti, se i programmi di IA in molti campi possono assolvere compiti impossibili per qualsiasi essere umano, ma non sono in grado di rispondere sensatamente a domande così banali, è perché lo scarto tra una capacità specifica (come quella di giocare a Go, a scacchi, analizzare montagne di dati e ora comporre un testo privo di errori di sintassi) e il pensiero umano è incolmabile. Non siamo cioè in grado di produrre sistemi veramente dotati di pensiero (di arrivare cioè a quella che i ricercatori chiamano Intelligenza Artificiale Generale), né qualcuno sa come quest’obiettivo, a cui tendono le ricerche nel campo, possa essere raggiunto. Questo perché il pensiero umano funziona sulla base di affetti e immagini, la cui matrice è in quella che Massimo Fagioli ha chiamato “capacità di immaginare”. Il computer invece, non avendo né vita né corpo, non solo non può avere tale capacità, ma non riesce nemmeno a dotarsi di una rappresentazione di un materasso che entra in un baule, o di una bimba in una culla. Esso rimane una macchina dotata di potentissime capacità di calcolo, ma priva di pensiero.
Va ricordato che l’approccio statistico-probilistico di Chat GPT è comune a tutti i sistemi di intelligenza artificiale basati sui big data. Così come Chat GPT cerca di indovinare, grazie alle regolarità statistiche, le sequenze di parole e frasi, l’IA può essere impiegata per prevedere quando un macchinario potrebbe guastarsi, come anche dove possano comparire comportamenti sociali fuori dalla norma. Si profila la possibilità di utilizzare l’IA anche in campo giudiziario, poliziesco, economico, accompagnando o sostituendo scelte di funzionari, giudici e professionisti quali quella di concedere o meno un prestito, assumere un lavoratore, valutare la pericolosità di un individuo, pattugliare alcune aree urbane e non altre per prevenire crimini.
Le pressioni in questa direzione sono fortissime, sia per gli interessi dei grandi gruppi che dominano queste tecnologie e che vogliono fondare sull’automazione una nuova fase dello sviluppo umano, sia per la fiducia nella maggiore razionalità delle scelte affidate alle macchine, piuttosto che agli esseri umani. Torna, su basi diverse, il mito della “società automatica” dell’economista von Hayek, mito che è stato alla base del progetto neoliberista di sottrarre poteri al settore pubblico, per affidarli agli automatismi del libero mercato. Purtroppo, accanto agli indubbi benefici che si registrano in campo industriale – dove ad esempio è possibile programmare interventi di manutenzione preventiva rendendo molto più affidabili motori e impianti produttivi – in campo sociale l’impiego dell’IA presenta difetti e distorsioni gravissime. Prevedere il guasto di un macchinario, o un comportamento individuale socialmente dannoso, è uguale per una macchina priva di pensiero, o anche ai fini del profitto capitalistico, ma non è certo la stessa cosa. L’evento, in entrambi i casi, è “previsto” sulla base di regolarità come rilevate dai dati, ma in campo sociale, al di là della dubbia affidabilità e della scarsa trasparenza di questi programmi, l’individuo può risultare penalizzato come conseguenza di valutazioni probabilistiche attinenti al suo gruppo di appartenenza o di presupposti impliciti nel modo in cui i dati sono raccolti. Per portare un esempio molto semplice, anche se fosse vero che, in media, un ragazzo proveniente da una famiglia povera e che vive in un quartiere disagiato ha meno probabilità di diventare uno studente modello, di restituire un prestito, o meno attitudine alla fedeltà aziendale, rendergli la vita più difficile di quanto per lui già non sia è una scelta priva di ogni giustificazione. La letteratura su questo è ormai vastissima: le decisioni basate sull’impiego di sistemi di IA sono «costitutivamente discriminatorie e, in alcuni ambiti, lesive di diritti legalmente tutelati». (D. Tafani, L’«etica» come specchietto per le allodole. Sistemi di intelligenza artificiale e violazione dei diritti v. qui).
Per concludere, come già notava Gramsci in Americanismo e fordismo, la società industriale richiede che si formi un tipo umano particolare, razionale e dai comportamenti prevedibili. Oggi quest’obiettivo della perfetta prevedibilità può modellare ancora più radicalmente il corpo sociale, risultando particolarmente pericoloso per le nostre libertà (rimane imprescindibile su questo S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss Univ. Press 2019). Come detto, infatti, da un lato i big data costituiscono la materia prima necessaria per qualsiasi sviluppo dell’intelligenza artificiale, dall’altro quest’ultima rende utilizzabili una mole di informazioni impressionante, che crescerà in modo esponenziale. Nessun ambito della nostra vita sarà esente da lasciare qualche traccia da cui estrarre informazioni. Anche sul piano internazionale, il conflitto in corso tra Stati Uniti e Cina si gioca in gran parte sui microchip a maggiore capacità di calcolo (A. Ventura, L’invasione dell’Ucraina e la crisi del neoliberismo. Due facce della stessa medaglia): il potere che deriva dal controllo di queste tecnologie, infatti, è immenso, avendo riflessi sul piano militare, industriale, politico, informativo. Infine le capacità di calcolo necessarie e per trattare questa mole di informazioni, e generare progressi nell’IA, sono tali che solo un pugno di società, legate agli apparati statali americani e cinesi, può aspirare a competere nel settore. Gli esiti di questa competizione, e come saranno indirizzate le potenzialità di queste tecnologie, avranno ripercussioni profondissime su chi eserciterà il potere nel prossimo futuro, su quale modello di società potrà affermarsi e su quali diritti saranno garantiti. Per quanto riguarda il conflitto sociale, esso ormai verte non solo, come nel secolo scorso, sulla questione del lavoro e su come distribuire i benefici degli avanzamenti tecnologici: sono sul tappeto questioni attinenti al funzionamento del pensiero umano, alla razionalità e agli ambiti in cui il calcolo e la logica massimizzante risultano appropriati. Il capitalismo non è mai stato così potente, né ha mai portato una sfida così radicale all’identità umana. Oggi esso cerca di appropriarsi a fini di profitto non solo del lavoro, ma anche del pensiero umano. La risposta, a partire dalla ricerca attorno a quest’ultimo, dev’essere altrettanto radicale.
Si riaffacciano, periodicamente, in Italia, le tentazioni presidenzialiste. Uno degli argomenti su cui si fa leva è quello per cui l’elezione diretta del presidente della Repubblica, renderebbe il sistema più democratico.
Vale però la pena di affrontare il tema con attenzione, per verificare se davvero il presidenzialismo sia un modello che si prospetta, nel futuro, come evoluzione naturale della democrazia, o se invece al contrario sia un relitto del passato, un attrezzo desueto e poco funzionale.
Si può cominciare con il ricordare che la riflessione sulle forme di democrazia è immediatamente accompagnata dall’esigenza di frammentare la concentrazione del potere in un solo individuo.
Il principio di separazione dei tre poteri dello Stato risale al ‘700, a Montesquieu, che scrivendo dello spirito delle leggi, affermava come ogni funzione statale (legislativa, amministrativa e giudiziaria) debba essere esercitata da organi diversi, in modo che “il potere arresti il potere”.
Oltrepassate le soglie del nuovo millennio, occorre però chiedersi, se davvero i poteri da tenere separati siano solo tre. E conviene particolarmente chiederselo, nel momento in cui sono ancora vive nella memoria le immagini dei tristi fatti del gennaio 2021, quando i manifestanti pro Trump assalirono il congresso degli Usa per cercare di impedire la transizione presidenziale, e dell’8 gennaio del 2023, con i tumulti di Brasilia.
Rileggendo a mente fredda quei fatti, ci si accorge del principale problema del sistema presidenziale. Manca un arbitro che sia al di sopra delle parti, il cui unico compito sia quello di far rispettare le regole. Quando Trump annunciava che non avrebbe lasciato il potere, nessuno, sopra di lui, poteva richiamarlo all’ordine. Il presidente americano è capo dell’esercito (Commander in Chief), è vertice delle istituzioni, ed è anche il capo del governo, quindi non ha nessuno sopra di lui.
Si comprende allora come, in una democrazia matura, vi sia un ulteriore, fondamentale potere, che merita riconoscimento e tutela, ed è il potere attribuito agli organi deputati al mero rispetto delle regole costituzionali. In termini teorici, si può discutere se questo sia un quarto potere, se sia la somma di tutti gli altri, se sia un potere neutro o meno, così come si discute se il bianco sia un colore, o la compresenza di tutti i colori.
Le riflessioni sulla democrazia matura, per cui potremmo recuperare la definizione di Isonomia (di matrice ateniese), mirano a tracciare un percorso evolutivo: ridurre lo spazio del potere, inteso come scelta arbitraria, per sottomettere ogni, pur minimo, potere, alla regola. E quindi comprimere, bilanciare, frammentare, controllare e regolamentare ogni forma di potere, pubblico o privato, fino a togliergli la caratteristica di potere per far emergere l’essenza di funzione.
La democrazia matura è quindi l’era politica in cui la Regola, democraticamente generata, nel compromesso, nella tutela delle minoranze, nel principio di partecipazione, prevale sull’esercizio arbitrario del potere. Dall’era del predominio della regola sull’arbitrio, nasce il quarto potere. Ciò che rileva è che questo ruolo di garanzia e di vigilanza è essenziale nella democrazia moderna, perché la garantisce nella sua sopravvivenza.
La repubblica presidenziale, tradizionalmente auspicata dalla destra italiana, è invece articolata sui tre poteri canonici. Al presidente della Repubblica, eletto direttamente dal popolo, è attribuito sia il ruolo di vertice dell’Istituzione, che in Italia oggi è svolto dal presidente della Repubblica, sia il ruolo di capo del governo. Introdurre il presidenzialismo in Italia significa quindi eliminare la figura del presidente della Repubblica come la conosciamo noi, di soggetto sopra le parti. Il premier assumerebbe entrambi i ruoli.
Questa semplice considerazione permette di capire perché si tratta di un arretramento. In Italia il presidente della Repubblica è espressione del quarto potere, così come lo sono i presidenti delle Camere, le molteplici autorità indipendenti, i garanti etc. Questi soggetti non hanno solo un ruolo di garanzia, non sono solo àrbitri del rispetto delle regole. Essi incarnano l’Istituzione. L’attuale presidente della Repubblica agisce e deve agire per il bene della collettività nel suo insieme, senza favorire una parte politica. Storicamente questo ruolo sopra le parti è stato interpretato con grande dignità dai presidenti che si sono alternati: Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella. Ciascuno di loro si è anche esposto a critiche, ma non può non emergere il senso complessivo di una funzione rilevante, che è cresciuta nel corso del tempo, l’autorevolezza che deriva dal parlare per l’Istituzione e non per la maggioranza temporaneamente al governo. Ed un effetto simile si è avuto per altre analoghe figure di rilievo (si pensi alla presidente Marta Cartabia della Corte costituzionale).
Prendere il presidente della Repubblica e gettarlo nella mischia di maggioranza e minoranza, costringerlo all’attività spicciola e quotidiana di governo, all’imposizione di tasse ed alle dichiarazioni polemiche contro gli avversari, non sarebbe un progresso. Sarebbe invece una lesione della sua alta dignità. Non è un caso che le figure più rispettate ed amate della politica italiana abbiano rivestito questo ruolo. È un ruolo che migliora la personalità politica: chi si sente chiamato ad essere migliore, spesso lo diventa. Ma ciò che più conta è che sulla dignità di questo ruolo riposa anche una parte della residua capacità degli italiani di identificarsi con la Repubblica. Ciò non significa svilire il ruolo dei politici che si prestano all’attività di governo quotidiana. Tuttavia essi devono sapere che a loro saranno attribuiti pochi meriti, e tutte le disgrazie. Essi hanno anche una funzione di capro espiatorio. Nel frattempo, sopra le parti, a vegliare sulla Repubblica, i cittadini vogliono che vi sia qualcuno che è fuori dall’agone politico, e che è capace di intervenire per stimolare e correggere, per arginare le intemperanze della maggioranza a difesa delle minoranze, per trovare difficili mediazioni nei frangenti più neri. Fondere in una sola figura il ruolo di presidente della Repubblica e quello di presidente del Consiglio, o attribuire ruoli di governo attivo al presidente della Repubblica, non solo non aggiungerebbe nulla, ma sopprimerebbe il ruolo di vigilanza e, ciò che è perfino peggio, la percezione popolare di un garante, che si fa portatore dell’idea stessa della Repubblica. Non è un ruolo da poco. Sarebbe saggio evitare di rinunciarvi.
L’autore: Pietro Adami è avvocato e fa parte dell’associazione Giuristi democratici
Nella foto: Riforme istituzionali, confronto del presidente Meloni con le opposizioni, Roma, 9 maggio 2023
La sconfitta è netta, per più di un motivo. Non c’è solo quel sonoro 6 a 1 che dice chiaramente le proporzioni: l’unica vittoria del Pd (Vicenza) è quella di un sindaco che con la “svolta” di Elly Schlein c’entra molto poco. Giacomo Possamai è una trentatreenne fieramente moderato e vicinissimo a Enrico Letta che non ha voluto i “big” del partito (vecchi e nuovi) per la sua campagna elettorale. C’è un altro dato: il Partito democratico e il centrosinistra hanno perso il tocco magico nei ballottaggi in cui spesso la spuntava. Tanto da indurre la destra a ipotizzare di eliminarli dal meccanismo elettorale.
L’onda della destra è forte e chiara. Inutile nasconderlo. È un vento che spira in tutta Europa e che potrebbe cambiare gli equilibri alle prossime europee se Ppe e Conservatori troveranno l’accordo. Elly Schlein ci mette la faccia: «è una sconfitta netta», dice, «ci vuole tempo per costruire una sinistra vincente e il fatto che il Pd sia il primo partito nel voto di lista non può essere una consolazione». Inevitabilmente ora le salteranno al collo. Lo farà la destra (sta nelle regole d’ingaggio della tenzone politica) e lo stanno facendo stamattina i giornali vicini al cosiddetto Terzo polo e al Movimento 5 Stelle. Qui sta la debolezza dell’aspirante centrosinistra: non esiste. Quando Schlein dice che «il Pd da solo non ce la fa» non si riferisce solo a una questione meramente matematica: il “campo largo” che sognava Letta si è infeltrito ed è diventato un arcipelago di isole che non vogliono ponti.
Il cosiddetto Terzo polo e il Movimento 5 Stelle hanno collezionato risultati pessimi, in alcune città quasi inquietanti, ma sono riusciti a ritagliarsi una posizione comoda: colpa di Elly. Nei tempi brevi non c’è nessuna voglia di organizzare un’opposizione degna di questo nome in Parlamento e qui fuori. La paura di farsi logorare da qualche alleato è più forte di qualsiasi senso di responsabilità. E la destra, com’è normale che sia, vince. Ma se è vero che nella strategia del cosiddetto Terzo polo la segretaria del Partito democratico è un elemento disturbante non si capisce cosa ci guadagnino Giuseppe Conte e Schlein nel guardarsi in cagnesco. Anzi, ci guadagnano la speranza di limare qualche voto che non serve a niente e a nessuno.
Due mesi sono troppo poco per aspettarsi un cambiamento di rotta dalla nuova segreteria ma Elly Schlein una rotta la deve indicare il prima possibile. L'”effetto Schlein” non durerà per sempre, sicuramente non fino alle prossime elezioni europee. È vero che il partito è salito nei sondaggi ma manca la risposta alla domanda chiave: “come faremo a vincere?”, chiedono gli iscritti e gli elettori. Ci sono due possibilità: aspettare che passi l’onda della destra (è la soluzione più facile) oppure fare e organizzare l’opposizione.
Buon martedì.
Nella foto: Elly Schlein, frame del video sul commento sui risultati alle amministrative