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Sballottaggi

La sconfitta è netta, per più di un motivo. Non c’è solo quel sonoro 6 a 1 che dice chiaramente le proporzioni: l’unica vittoria del Pd (Vicenza) è quella di un sindaco che con la “svolta” di Elly Schlein c’entra molto poco. Giacomo Possamai è una trentatreenne fieramente moderato e vicinissimo a Enrico Letta che non ha voluto i “big” del partito (vecchi e nuovi) per la sua campagna elettorale. C’è un altro dato: il Partito democratico e il centrosinistra hanno perso il tocco magico nei ballottaggi in cui spesso la spuntava. Tanto da indurre la destra a ipotizzare di eliminarli dal meccanismo elettorale.

L’onda della destra è forte e chiara. Inutile nasconderlo. È un vento che spira in tutta Europa e che potrebbe cambiare gli equilibri alle prossime europee se Ppe e Conservatori troveranno l’accordo. Elly Schlein ci mette la faccia: «è una sconfitta netta», dice, «ci vuole tempo per costruire una sinistra vincente e il fatto che il Pd sia il primo partito nel voto di lista non può essere una consolazione». Inevitabilmente ora le salteranno al collo. Lo farà la destra (sta nelle regole d’ingaggio della tenzone politica) e lo stanno facendo stamattina i giornali vicini al cosiddetto Terzo polo e al Movimento 5 Stelle. Qui sta la debolezza dell’aspirante centrosinistra: non esiste. Quando Schlein dice che «il Pd da solo non ce la fa» non si riferisce solo a una questione meramente matematica: il “campo largo” che sognava Letta si è infeltrito ed è diventato un arcipelago di isole che non vogliono ponti.

Il cosiddetto Terzo polo e il Movimento 5 Stelle hanno collezionato risultati pessimi, in alcune città quasi inquietanti, ma sono riusciti a ritagliarsi una posizione comoda: colpa di Elly. Nei tempi brevi non c’è nessuna voglia di organizzare un’opposizione degna di questo nome in Parlamento e qui fuori. La paura di farsi logorare da qualche alleato è più forte di qualsiasi senso di responsabilità. E la destra, com’è normale che sia, vince. Ma se è vero che nella strategia del cosiddetto Terzo polo la segretaria del Partito democratico è un elemento disturbante non si capisce cosa ci guadagnino Giuseppe Conte e Schlein nel guardarsi in cagnesco. Anzi, ci guadagnano la speranza di limare qualche voto che non serve a niente e a nessuno.

Due mesi sono troppo poco per aspettarsi un cambiamento di rotta dalla nuova segreteria ma Elly Schlein una rotta la deve indicare il prima possibile. L'”effetto Schlein” non durerà per sempre, sicuramente non fino alle prossime elezioni europee. È vero che il partito è salito nei sondaggi ma manca la risposta alla domanda chiave: “come faremo a vincere?”, chiedono gli iscritti e gli elettori. Ci sono due possibilità: aspettare che passi l’onda della destra (è la soluzione più facile) oppure fare e organizzare l’opposizione.

Buon martedì.

Nella foto: Elly Schlein, frame del video sul commento sui risultati alle amministrative

«Siamo ancora qui a chiedere giustizia per nostro padre, l’anarchico Pinelli»

Con Claudia e Silvia Pinelli ci incontriamo a Milano. Volevo che mi aiutassero a raccontare il quartiere in cui ho sempre vissuto e in cui loro hanno trascorso gli anni dell’infanzia. Il quartiere è quello di Piazzale Selinunte e delle vie adiacenti. È il quartiere di Milano con la maggior densità di edilizia popolare. È un quartiere che negli ultimi anni è stato raccontato molto, nel suo aspetto folkloristico ma non nel suo cuore intimo.
A Piazzale Segesta vicino alla scuola francese c’è un pezzo di prato. Lì il comune di Milano ha dedicato un albero a Pino Pinelli. Per uno degli strani scherzi del destino, quell’albero e quella targa sono a poca distanza dall’abitazione della moglie del commissario Luigi Calabresi.

Sulla targa è inciso “Albero dedicato a Giuseppe Pinelli, ferroviere, anarchico, partigiano”. Più in basso “18esima vittima innocente in seguito alla Strage di Piazza Fontana”. Ancora più sotto “A 50 anni dalla tragica morte in suo ricordo nel quartiere in cui abitò”. In alto a sinistra c’è lo stemma del Comune di Milano, a destra un logo e la scritta “Milano è memoria”.


Chiedo la storia di questa targa mentre Pietro Masturzo che nel 2010 ha vinto il World Press Photo è con me. È intento alle riprese per un documentario a venire sul quartiere. Pietro di tutto questo racconto sarà l’uomo ombra, presente ma silenzioso.
È Silvia a rispondermi.

Mi raccontate la storia di questa di questa targa? Perché è stata messa qua e quando?
Il comune di Milano ha voluto questa targa ed è molto importante, perché ci sono voluti ben cinquanta anni affinché il Comune si ricordasse di Giuseppe Pinelli. C’è un cippo come si può vedere e c’è una quercia. La quercia rossa è stata una richiesta nostra, perché ha radici molto profonde, un tronco largo e rami che si espandono verso il cielo.

Quand’ero ragazzino andavo alla scuola media di via Fogazzaro. Adesso è stata abbattuta, il terreno è totalmente occupato dalla scuola francese. Voi dove andavate a scuola?
Claudia: Noi andavamo alla scuola elementare di via Paravia, dopo la morte di nostro padre abbiamo cambiato scuola e abbiamo frequentato elementari e medie dall’altra parte della città, al Trotter, in viale Monza. La proposta dell’albero per Pino è arrivata da noi dopo un incontro con il Comune in preparazione al cinquantesimo anniversario. Io ero appena andata in Armenia. Per ricordare un giornalista di origine armena ucciso ad Istanbul hanno piantato mille alberi per ogni anno di vita. Oggi c’è una foresta di 53mila piante. Da qui la proposta di dedicare un albero a Giuseppe Pinelli. È un atto molto importante perché oltre a essere il primo gesto del Comune di Milano a ricordo di Pino è una restituzione di vita nel quartiere in cui ha vissuto. Noi abitavamo in via Preneste successivamente in via Morgantini.

Il quadrilatero che ha come cuore piazza Selinunte è stato il vostro quartiere. Alle elementari andavate come me alla scuola di via Paravia?
Silvia: Eh beh, sì.

Avremmo potuto vederci e conoscerci.
Claudia: All’epoca se non ricordo male c’erano classi femminili e classi maschili.

Voi venivate qui a giocare qualche volta.
Claudia: No assolutamente.
Silvia: Giocavamo nei cortili.
Claudia: Avevamo il cortile, anche perché nostra madre Licia lavorava da casa. Trascriveva a macchina le tesi di laurea e i lavori dei professori universitari. Aveva l’esigenza di tenerci sotto controllo. La domenica qualche volta si andava all’oratorio insieme alle amichette del cortile.

Adesso non si vedono molti bambini in giro.
Silvia: Questo è un quartiere molto popolare. È cambiato il tipo di abitanti, una volta erano operai. Era il quartiere del sottoproletariato. Mi ricordo che andavamo sempre a casa di questo signore che faceva i materassi. Una volta facevano i materassi di lana, li cardavano.

Erano i mestieri di un mondo antico.
Silvia: La vita era nei cortili durante il periodo estivo, se no eravamo sempre a casa di uno o dell’altro a giocare.

Il gioco nei cortili lo ricordo bene. Si creavano le bande che poi si scontravano.
Claudia: C’era una rivalità tra cortile, con la portinaia che ti sgridava se andavi nel cortile dove avevi abitato fino a poco tempo prima per giocare con i tuoi amici. Le portinaie erano delle figure importanti, dettavano legge, ordine e disciplina all’interno del cortile. Scaduto l’orario tutti a casa.

Andrei in via Micene. Sotto la targa ufficiale che indica la via c’è un’altra targa che ricorda il vostro papà.
Claudia. Sì messa recentemente.


Quando l’ho vista mi sono commosso.
Vostra mamma Licia battendo le tesi vedeva passare testi di diverso genere. Era una donna di cultura?
Claudia: Diciamo che entrambi erano persone di grande cultura, senza aver potuto continuare degli studi regolari. Perché dovevano aiutare economicamente la famiglia. Il fatto che non abbiano mai rinunciato però alla loro formazione, e abbiano continuato a leggere e studiare fa la differenza. Persone che si sono fatte trascrivere da nostra madre le tesi di laurea mi hanno detto che era bellissimo il rapporto di scambio che si creava. Perché si discuteva di quello che avevano scritto. Non trascriveva e basta, c’era poi tutta un’elaborazione. Il lavoro era lungo perché dovevano essere “battuti a macchina” dei manoscritti di cui venivano fatte cinque copie, con la carta carbone. C’era la discussione sul contenuto, sulla forma e sulla lingua. Quando Licia è rimasta incinta di mia sorella Silvia, che ha solo un anno più di me, la ditta per cui lavorava l’ha licenziata. È stato un momento di difficoltà ma i nostri genitori non si sono persi d’animo. Pino aveva vinto il concorso e lavorava in ferrovia, e lei ha continuato a lavorare come dattilografa da casa. Una copisteria ha cominciato a passarle del lavoro e poi ha funzionato il passaparola. Non erano ricchi, ma potevano vivere dignitosamente. Vivevano del loro lavoro.

Appartenevano alla generazione dei miei genitori, che si sono rimboccati le maniche e sono riusciti a educare i figli, a dargli una casa.
Claudia: È stato anche Il lavoro di Licia che ha permesso loro di ampliare i propri orizzonti e avere una casa aperta al mondo. Non è stato solo Pino, che era una persona estremamente dinamica e estroversa impegnata a livello politico e sociale anche come sindacalista, oltre che come militante anarchico, che portava il mondo a casa. Entravano anche tutti questi studenti e assistenti universitari con cui si discuteva del mondo, di quello che avveniva, di come si poteva agire in quegli anni di speranza, di profondi cambiamenti sociali.

Voi in quegli anni in qualche modo avete assorbito questa atmosfera di incontri, di socializzazione.
Claudia: Assolutamente sì.
Silvia: Avevamo una casa talmente piccola che era tutto concentrato lì, ed era il nostro mondo, una casa sempre molto viva. Il fatto che mia mamma copiava a macchina le tesi le ha permesso di farsi una cultura generale su tante cose. Me ne accorgo anche quando parlo con lei.

La vostra mamma c’è ancora?
Silvia: Ha novantacinque anni.
Claudia: Sì c’è ancora. Tocca tutti i legni che trovi per scaramanzia, perché per il momento sta bene ed è lucida.

Avrebbe voglia di parlare con noi?
Claudia. No, assolutamente, ma proprio nella maniera più assoluta. Non ti lascio neanche uno spiraglio.
Silvia: Non con voi, in generale.

Lei ha deciso che non avrebbe parlato?
Claudia: Lei ha fatto tutto. Dopodiché a novantacinque anni ha anche il diritto di fermarsi.
C’è anche un discorso caratteriale. Licia ha sempre vissuto con estrema fatica il dover diventare un personaggio pubblico, partecipare e rilasciare interviste. Nel momento in cui ha scritto con Piero Scaramucci il libro Una storia quasi soltanto mia ha detto “Questa è la mia testimonianza. È quello che rimarrà”. Qualche altro intervento l’ha fatto. Però adesso veramente, va troppo in ansia. C’è l’ultima intervista rilasciata nel 2019 e c’è stata male. Allora perché?

Invece dell’intervista datele un bacio da parte mia.
Claudia. Assolutamente.

Il resto della passeggiata sarà solo con Claudia e con Pietro. Silvia deve lasciarci per un impegno. Claudia continua il suo racconto.

Per moltissimi anni non sono venuta in questo quartiere. La nostra vita è andata altrove. Quando avevo circa quindici anni ci siamo trasferite sempre in una casa popolare, ma in Porta Romana. Quindi questo quartiere è diventato lontano, lontano dalla nostra vita, dai nostri interessi, lontano dalla scuola. Comunque dopo la morte di Pino il quartiere lo frequentavamo già poco. Perché cambiando scuola e andando dall’altra parte della città, in viale Monza alla Casa del Sole, che era a tempo pieno, quando tornavamo a casa erano almeno le cinque e mezza del pomeriggio e d’inverno era buio e ti chiudevi in casa, non c’era più tempo per giocare in cortile. La nostra vita è cambiata. Non c’era più quella porta di casa spalancata ad accogliere chiunque come prima.

Di quel periodo ho delle immagini. Mio padre lavorava all’ufficio contravvenzioni, in piazza Beccaria, a pochi passi da piazza Fontana. Quello che ricordo dell’esplosione alla Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana, è mio padre che torna pieno di angoscia dicendo: «Ho visto vetri, ho visto sangue».
Ricordo lui che mangia davanti al televisore ed ascolta il telegiornale impietrito.

Claudia ascolta con interesse questi frammenti di memoria.

Una volta ho letto che tuo padre aveva avuto un malore attivo e per questo era precipitato dalla questura.
È la sentenza del giudice Gerardo D’Ambrosio.

La formula malore attivo mi sembra un’idiozia assoluta, che va al di là di qualsiasi possibile buonsenso.
Diciamo che quella è stata una interpretazione di altri dopo la lettura della sentenza. Il giudice D’Ambrosio non usa questo termine. Nella sentenza esclude il suicidio, esclude però anche l’omicidio e attribuisce la morte di Pino a un possibile malore, causato da tre giorni di fermo illegale, dalle privazioni di cibo, di sonno, e altro ancora. Presumibilmente si è sentito male secondo il giudice, quindi avrebbe dovuto accasciarsi e invece, mentre era in corso l’ennesimo interrogatorio con almeno cinque funzionari di polizia presenti in quella piccola stanza al quarto piano, è precipitato dalla finestra schiantandosi nel cortile della questura. Per il giudice D’Ambrosio il malore ha comportato un’alterazione del centro di equilibrio che ha comportato uno spostamento del baricentro che ha provocato il volo dalla finestra. L’unico caso di “malore attivo” della storia della medicina legale.

Claudia senza completare la frase aggiunge qualcosa che esprime bene il suo pensiero.

L’unico che invece di accasciarsi avendo un malore…

Tu cosa ne pensi di questo?
Che il giudice D’Ambrosio doveva chiudere, archiviare, perché altrimenti avrebbe messo a rischio la sua carriera.

Quindi quella del giudice D’Ambrosio è stata una conclusione di comodo?
Diciamo che l’unica volta che ho incontrato il giudice D’Ambrosio mi ha detto “Mi devo giustificare con lei”. Erano passati quaranta anni. Avrebbe dovuto farlo con mia madre guardandola negli occhi. “Ho fatto quello che ho potuto” mi ha detto. “Non ho potuto usare né polizia né carabinieri. Sono stato l’unico magistrato a uscire sul luogo dove è morto suo padre”. Quando muore qualcuno il magistrato di turno deve uscire immediatamente. Non è uscito nessuno.

Era lui il magistrato di turno in quell momento?
No, lui riceve l’incarico dal procuratore generale Luigi Bianchi d’Espinosa, che accoglie la denuncia presentata dalla nostra famiglia tramite l’avvocato Carlo Smuraglia. Il giudice D’Ambrosio fa i rilevamenti nel cortile della questura, e delle prove di caduta con un manichino che fa costruire da Carlo Rambaldi, quello che ha costruito ET. Che riproduce la corporatura, la statura di mio padre, e sembra che non riescano ad arrivare a delle conclusioni certe con questo. Nel frattempo gli viene sottratta l’inchiesta su piazza Fontana che è molto più consistente, e che gli interessava sicuramente di più, e chiude l’inchiesta sulla morte di Pino dopo tre anni, con quella sentenza che archivia il caso. Non è suicidio non è omicidio, sarà stato un malore. Il che comporterebbe che tutti i presenti nella stanza e in questura quella notte hanno mentito. Hanno mentito quelli che hanno parlato di raptus, di “suicidio” al grido “È la fine dell’anarchia”. Ha mentito l’agente che dice che gli è rimasta una scarpa in mano nel tentative di fermarlo, ma le aveva entrambi ai piedi quando è precipitato. Hanno mentito tutti. E quindi? Non succede nulla, non succede assolutamente nulla.

Tu fai una scelta diversa da quella di tua madre. Continui ad affrontare la fatica della testimonianza.
Beh, diciamo la necessità della testimonianza. Perché nella nostra storia in troppi mettono le mani cercando di trasformarla in altro, di addomesticarla. Ci sono stati dei passaggi in questi anni che sono stati assolutamente importanti, come l’incontro istituzionale il 9 maggio 2009 con l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Cosa succede?
In occasione della Giornata della Memoria per le vittime del terrorismo e delle stragi, riceviamo un invito da parte del Quirinale e veniamo informate che il presidente della Repubblica in quell’occasione avrebbe riconosciuto Giuseppe Pinelli come diciottesima vittima innocente della strage di Piazza Fontana. Mia madre sorprendentemente vuole esserci. Quindi partiamo per Roma sostenendo le spese del viaggio aereo. Perché non riceviamo neanche un rimborso spese. È stato un momento comunque estremamente importante per tutte noi e soprattutto per Licia. Nel 2009 aveva ottantun anni, ne aveva quarantuno quando Pino morì, sono dovuti passare quaranta anni per poter ascoltare parole di giustizia pronunciate dalla più alta carica dello Stato. “Rispetto e omaggio per la figura di un innocente Giuseppe Pinelli, vittima due volte di infondati sospetti e di un’assurda fine”. È stata una giornata importante ed emozionante anche perché per la prima volta incontriamo i familiari delle vittime di piazza Fontana che non avevamo mai incontrato prima. Come si può trasformare un atto così significativo?
Si potrebbe trasformare in qualcosa che porta a un riconoscimento di verità oppure arenarsi all’istante in cui le vedove del ferroviere e del commissario si sono strette le mani, vivendolo come il momento in cui il passato si cancella e si passa oltre. Si è parlato in quell’occasione di memoria condivisa, di pacificazione, ecco, non per noi, noi aspettiamo ancora la verità.

Una volta da ragazzino bevvi un bicchiere di vino nel bar che Pietro Valpreda aveva aperto in corso Garibaldi a Milano. Lo versò lui. Il suo viso era fermo, si leggeva dolore. Non parlammo. Credo che quell’uomo abbia veramente sofferto tantissimo. Ci sono state delle vite spezzate dalla morte o dall’impossibilità di continuare nel proprio percorso.
Noi uscivamo da questo cancello. Te lo ricordi?

Siamo davanti all’ingresso principale della scuola elementare di via Paravia.

No, sinceramente no. Non lo ricordavo.

Uscivamo da questo cancello, da quei gradoni.
Devo dire che i miei ricordi sono diventati un po’ selettivi.

Che cosa ricordi di quegli anni?
Sai cosa mi è tornato in mente rivedendo la scuola? Adesso mi viene da ridere. Che Pino venendoci a prendere un giorno disegnò una “A” cerchiata con un gessetto viola su questo muretto. Il giorno dopo è venuta a prenderci Licia. E mentre era con le altre mamme io indico alle mie compagne il segno sul muretto dicendo “Questo l’ha fatto mio papà”. E mia madre mi strattona e ci dice “Via, andate a giocare”.
Comunque bellissimo. Sì mi hai fatto ricordare questa “A” cerchiata fatta da Pino con il gessetto. Dai sono contenta. Rivedo ancora l’imbarazzo di Licia.

Le mamme hanno sempre hanno un altro approccio.
Loro avevano sicuramente dei valori comuni. Però quanto è sempre stata riservata Licia così è sempre stato estroverso Pino, anche giocherellone. Pino era estremamente comunicativo e vedeva il buono in tutti. A Licia invece non è che piacessero proprio tutti quelli che passavano da casa.

In via Paravia c’è sempre stato il mercato rionale. In via Zamagna invece c’è il mercato delle povere cose.
Sai che cosa mi ricordo?! Che io e mia sorella andavamo a scuola con un’amichetta. Ogni tanto c’era un nebbione tale che se eravamo sui lati opposti del marciapiede non riuscivamo a vederci e dovevamo chiamarci.

La nebbia adesso non c’è più. Ma continuiamo a passeggiare. Non rimaniamo sul marciapiede. Con la carrozzina a volte riesci a salire ma quando devi scendere non puoi perché non ci sono scivoli.
Ricordo che con il mio papà, che non è mai stato un bravo guidatore, andavamo a trovare a Baggio dei parenti e spesso ci perdevamo al Quartiere degli Olmi. Perché c’era una nebbia che non vedevi a un metro da te.
Era da tempo che non pensavo alla nebbia e al fatto che andavamo a scuola da sole.

Io andavo da scuola da solo o accompagnato da mio fratello. È più grande e mi proteggeva. Inizialmente pensavo di non chiedertelo, ma poi ho visto che tu ne hai discusso sulla tua pagina Facebook. Cosa ne pensi della vicenda Cospito?
Io penso che stia subendo una pena sproporzionata e penso che qualsiasi sia il reato commesso non debba essere lasciato morire, e che non può che mettere in gioco il suo corpo, sé stesso per denunciare la tortura a cui è sottoposto. Uno che decide di portare avanti uno sciopero della fame in questo modo è perché comunque in quelle condizioni non c’è una vita (Cospito ha sospeso lo sciopero della fame il 19 aprile Ndr).

Scenderei da qui perché non vedo scivoli.
Ma ce la fai?

Sì un saltino così è fattibile.
Davvero? Sei bravissimo.
Là dove abitavamo hanno messo una targa (ma) da diversi anni, almeno una ventina. Magari andiamo là prima.

Adesso prendo la rincorsa e faccio un salto.
Sono ammirata.

È una questione di sopravvivenza. Non c’è nessuna, nessuna abilità.
Sono d’accordo con le tue parole. Pena esagerata per Cospito. Ancora prima della messa in discussione del 41 bis c’è una pena esagerata che sa molto di vendetta.
Che sa di vendetta. Esatto.

Nordio ha firmato la conferma del 41 bis. Ma a volte lo Stato se vuole essere veramente laico dovrebbe anteporre criteri di umanità.
C’è chi difende questa pena che io ritengo iniqua sbandierando che il 41 bis l’ha voluto il giudice Falcone per cui non si tocca, ma dovrebbe ricordare che il 41 bis era un istituto assolutamente provvisorio ed eccezionale destinato ai mafiosi, ed è diventato permanente e comminato a chiunque. Sono passati trent’anni e ancora manteniamo leggi eccezionali che contrastano I dettami della Costituzione. Il che equipara il nostro Paese a un Paese dittatoriale.

Per la libertà di stampa l’Italia è al centocinquantesimo posto.

Davanti a via Preneste Claudia ci mostra dove abitava.

Quindi questo era il tuo cortile?
Sì, diciamo che questi erano i nostri cortili. Prima abitavamo al quattro, però erano solo due locali con quattro piani da fare a piedi perché era l’ultimo piano. Mi ricordo quasi meglio questa casa dell’altra. E poi siamo passati al due. Non riesco a ricordare quale fosse la scala.

Sei mai tornata nel tuo appartamento a vederlo?
Non abbiamo mai avuto questa esigenza. Ho delle immagini del funerale di Pino ricostruite con foto e racconti perché io non c’ero. Qui davanti sono arrivate circa tremila persone, la gente era affacciata alle finestre delle palazzine, ma c’erano i vicini, I parenti, i compagni, gli amici, anche poeti come Fortini e Raboni, in un quartiere assediato dalla polizia. in quel momento di paura, di angoscia, quando le versioni che passavano erano solo quelle ufficiali, essere presenti al funerale di Pino è stato un atto di coraggio con la polizia che ha schedato praticamente tutti quelli che hanno partecipato al funerale. Si dovevano mostrare i documenti per riuscire ad arrivare qui, e comunque la polizia fece in modo con blocchi stradali e delle cariche che non si arrivasse al cimitero. Ci arrivano in pochissimi.

Per quale necessità le cariche di alleggerimento?
Torna a quel momento. È scoppiata la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura che ha provocato morti e feriti in piazza Fontana. Si ha paura, siamo nel pieno della strategia della tensione. Si teme il colpo di Stato. I sindacati si riuniscono per tre giorni e per tre notti. Decidono lo sciopero generale per il giorno dei funerali delle vittime della strage. Questo permette a migliaia di persone di partecipare ai funerali delle vittime della strage dando un segnale molto forte di presenza attiva, tanto che non venne decretato lo stato di emergenza. Ma per la questura i colpevoli sono gli anarchici. Viene arrestato Pietro Valpreda il 15 dicembre. Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre mio padre, fermato con tanti altri solo per la sua appartenenza politica, trattenuto illegalmente per oltre 72 ore, muore precipitando da una finestra della questura. Si schianta nel corso di un interrogatorio. “Suicidio a dimostrazione della colpevolezza” è la prima e menzognera versione del questore di Milano Marcello Guida che viene ripresa da tutti gli organi di informazione. Si ha paura. C’è un sacco di gente che dorme fuori di casa. Si ha paura.

Questo depone ancora di più sul coraggio di quelle tremila persone che erano presenti. Stanno ritirando fuori la paura degli anarchici?
Diciamo che non penso che la storia si ripeta uguale a sé stessa ma determinati meccanismi sì. Quelli di colpevolizzazione del dissenso, quello del capro espiatorio, quello di distrazione con colpevoli precostituiti. Quindi bisogna imparare dalla storia a riconoscere questi meccanismi. Per questo è importante conservare la memoria.

Mi sembri una donna molto lucida.
Beh speriamo ancora per qualche anno, grazie.

Scoppia in una risata cristallina.

Quanto ti è costata questa presa di coscienza?
Beh, tanto, tantissimo. Ma anche perché non è arrivata subito.
Subito sei travolta. Tutta la tua vita si schianta in quel cortile. Perdi il padre, ma perdi anche la madre che deve affrontare una lotta impari per avere verità e giustizia. Nulla è più come prima, e tu a otto anni non ti puoi più permettere di essere una bambina, perdi l’infanzia. Licia trova una forza che non pensava di avere e per fortuna si mette in moto anche una solidarietà che le permette di ritrovare un lavoro in un ufficio. Accetta la proposta di lavorare all’università all’istituto di Biometria e Statistica Medica con il professor Giulio Maccacaro che partecipando ai funerali soccorre il nonno, il padre di Pino, che si sente male. Qualche giorno dopo si ripresenta sia per chiedere notizie del nonno ma soprattutto per offrire a Licia quel posto di lavoro.

Che cosa fa?
Fa la segretaria in università. Poi una sua collega che doveva passare di ruolo le cede il posto così il suo incarico diventa fisso. La solidarietà. Dalle ferrovie arriverà dopo alcuni anni una pensione di reversibilità di 15mila lire per i quindici anni di lavoro di Pino.
Non c’è mai stato nessun indennizzo per noi. Siamo andate avanti con il lavoro di Licia e una solidarietà non scontata da parte di persone che non conoscevamo. Lentamente, le versioni ufficiali si sono incrinate grazie ai dubbi e alla ricerca della verità di moltissime persone. Licia, noi, abbiamo sentito di non essere sole. Camilla Cederna era tra quei giornalisti che vennero a suonare alla nostra porta quella notte, quel primo incontro le cambia la vita.

Quella è la notte della morte di tuo papà?
Quando lei arriva mio padre non è ancora morto. Comunque sì, è quella la notte.
Lei scriverà un libro importante Pinelli una finestra sulla strage. Camilla Cederna, giornalista dell’Espresso, fino a quel momento si occupa di moda e costume. Ha una rubrica che si intitola “Il lato debole” in cui prende bonariamente in giro la sua classe sociale che è l’alta borghesia milanese. Entra nella banca dopo la strage il 12 dicembre. Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre viene svegliata dai colleghi e arrivano qua, preceduti da dei giornalisti del Corriere della Sera. Rimane colpita dalla dignità di Licia che non piange e non li fa entrare. E altrettanto rimane colpita dal clima quasi euforico quando in questura partecipa alla conferenza stampa. “Si è suicidato al grido ‘È la fine dell’anarchia’”. “Se fossi stato un anarchico avrei fatto lo stesso”, disse il questore di Milano Marcello Guida, già direttore del confino fascista di Ventotene in cui era stato rinchiuso anche Sandro Pertini. E siamo a ventiquattro anni dalla fine della guerra. I funzionari formati durante il fascismo hanno continuato la loro carriera nell’Italia democratica.

Nell’Italia democristiana, di cui qualcuno ha detto che era una forma diversa di fascismo.
Il discorso si fa complesso. È chiaro che comunque l’Italia è il Paese che esce sconfitto dalla guerra. Pensa a quante basi militari della Nato ci sono ancora adesso sul nostro territorio. Tutto ciò che avveniva in Italia non era una decisione autonoma del governo italiano. Gladio era stato pensato e realizzato ben prima della fine della seconda guerra mondiale, per contrastare un’eventuale invasione comunista. Viene usata per fini interni in questa guerra a bassa intensità, che avrebbe fatto un numero limitato di morti e che è stata portata avanti almeno fino al 1980.

È interessante la tua capacità di avere questa visione d’insieme.
Ma il sole è dall’altra parte della strada dove io agognerei andare. Sto morendo di freddo.

Entriamo nel cortile.
Parliamo un po’ di teatro. Lo amiamo entrambi. Lei collabora scrivendo di teatro con alcune testate on line.

È un cortile molto ordinato, tenuto molto bene.
Esatto. L’ultima volta che sono entrata qua era il 2019, e mi aveva colpito rispetto ad altro in quartiere, come sia un ambiente curato, con un giardinetto, con degli alberi.

Che cosa facevi nella vita?
Boh ho fatto tante cosine e poco di pratico. Ho anche insegnato. Ho studiato filosofia.

Ricordo le serate infinite in primavera estate passate a giocare fino al calar del sole.
Sì, assolutamente. Poi di bambini ce n’erano tanti. Si chiamavano gli amici. “Scendiamo? Adesso? No dopo”. Licia si affacciava e sapeva che eravamo lì e in qualche modo ci controllava.

Anche mia madre controllava dalla finestra se c’eravamo ancora tutti e se eravamo ancora interi.
Che poi era anche una cosa di comunità. Perché eravamo sotto l’occhio vigile di tutte le mamme.

Per i bambini era un mondo diverso.
Per i bambini era sicuramente un mondo diverso. Considerando che tutti avevano delle case estremamente piccole qui c’era questa possibilità meravigliosa di avere un cortile in cui giocare. Ricordo delle famiglie particolarmente numerose con tantissimi figli. Ricordo che la mia migliore amica un giorno che sono andata a casa sua stava cercando di insegnare a leggere allo zio, il fratello della mamma, una persona adulta analfabeta. Avevo meno di otto anni. Così ho scoperto che c’erano persone che non avevano potuto studiare e che addirittura non sapevano leggere né scrivere. Mi ricordo con che entusiasmo mi sono detta. “Sì anch’io insegno a leggere”. Dopo un po’ eravamo stanchissime perché c’era proprio la fatica dell’adulto di acquisire determinati meccanismi.

Ti va qualcosa di caldo?
Sì, certo. Grazie. Qua c’è ancora il murales?

Andiamo a vederlo e ci fermiamo davanti. Claudia ritrova nella memoria i luoghi del passato.

Dove c’è il supermercato in Via Morgantini c’era lì davanti una fiorista con il suo chiosco. Mia madre, quel dicembre del ’69, aveva prenotato l’albero di Natale. Quando è andata per ritirarlo era ormai gennaio. L’alberello non c’era più: “E no signora con quello che le è successo pensavo di non vederla mai più”. La fiorista l’aveva venduto.

A volte sono le cose più semplici a ferirci.
“Pensavo di non vederla mai più”. Cioè sei tu che devi sparire, vergognarti, che devi nasconderti? Licia è sempre andata in giro a testa alta perché lei non aveva nulla di cui vergognarsi. Ce l’ha insegnato. Erano altri che avrebbero dovuto vergognarsi.
In casa tutti cercavano di tenersi insieme. Non era facile per nessuno. Fuori avevi i fotografi che ti seguivano, ti entravano a scuola per fotografarti e poi vendevano le foto a Gente.
Quella notte quando arrivano i giornalisti del Corriere della Sera, mia madre apre uno spiraglio di porta e viene abbagliata dai flash delle macchine fotografiche. Figurati se rispettavano quello che era la vita di noi bambine. L’importante era vendere ai rotocalchi. Immaginati quello che ha subito Licia durante tutto il suo percorso, o anche quello che abbiamo subito noi. Il dolore di una bambina non veniva assolutamente preso in considerazione e rispettato. Non si teneva conto che Pino aveva anche una famiglia. Anche ieri mi sono sentita dire “Pinelli è un simbolo”. Ma era soprattutto una persona, un uomo, aveva degli affetti, aveva una vita. È arrivata la violenza di una morte imposta. Non è stato per nulla semplice non farsi sopraffare. È già tanto avere fatto sì che non fosse la rabbia a prendere il sopravvento.

Però sei passata attraverso la rabbia, immagino.
Secondo me ci passiamo tutti. La rabbia per quello che hanno fatto a Pino, per quello che siamo state costrette a subire. In qualche modo, in qualche momento della tua vita, devi anche passare da quello e trasformarlo. Per far sì che non ti mangi, che non ti divori.

Per me la rabbia è stata un motore. Quando la malattia mi ha portato in carrozzina ho deciso di non farmela rubare. Rivendicavo il diritto alla rabbia.
Dipende. L’importante è che non sia distruttiva. Non nei confronti di terzi, verso sé stessi. Non può essere mero livore, non ti deve consumare, deve trasformarsi in qualcosa di positivo e propositivo. Altrimenti avrebbero vinto quelli che avrebbero voluto condizionartela la vita. Per capirlo ci ho messo anni. Altri vorrebbero decidere quale dovrebbe essere la tua vita. La vita di un anarchico è sbagliata perché mette in discussione la concezione comune? Perché i valori di solidarietà e amore universali non sono conformi a quello che tu vuoi imporre a tutti? Ecco, io ho dovuto elaborare, e anche realizzare che non devo dimostrare niente a nessuno. Cioè, io in questo momento sono Claudia. Sono anche la figlia orgogliosa di Pino e Licia. Ma io non parlo per Pino. Io sono io. Alcuni mi dicono “Ah, tuo padre non avrebbe mai detto, non avrebbe mai fatto. Non sei anarchica come lui, mi sono anche sentita dire “sei una democratica”. A prescindere dal fatto che voglio capire da quale piedistallo qualcuno si permette di dare etichette. Ma soprattutto rivendico l’essere me stessa. E questa cosa non è stata semplice. Sono orgogliosa, lo sono sempre stata, di essere la figlia di Pinelli, non sono solo questo e, soprattutto non mi sostituisco a lui.
Io ho cominciato il liceo e un’insegnante della classe mi ha detto “Tu sei in questa classe perché tu sei la figlia di Pinelli e io ti volevo avere tra le mie alunne”. Penso di non aver odiato mai nessuno come ho odiato quell’insegnante in quel momento. Lì me la ricordo la rabbia. Solo che diventa una cosa distruttiva. Mi dissi “Io la tua materia non la studierò mai. Ti pentirai amaramente”. Poi ero io che mi stavo pentendo amaramente. E quindi ho dovuto fare un ulteriore processo di crescita.

So che hai avuto anche delle polemiche con gli anarchici del Circolo della Ghisolfa.
Succede, diciamo che ci sono sempre quelli che pensano di avere lezioni da insegnare, di essere i più duri e i più puri. Però le nostre scelte non possono essere condizionate soprattutto da chi non cerca il confronto, e riduce tutto a un attacco personale. Io rispetto chi ha fatto tanto, ma il rispetto deve essere reciproco. Insomma.

Sono per quell’insomma.
Si corre sempre il rischio di venire strumentalizzate o di essere accettate solo se non fai ombra ad altri che hanno anche meriti, ma non sempre comportamenti corretti. Diciamo che impari a difenderti dai nemici ma anche dagli amici. C’è chi pensa che come donna sei facilmente strumentalizzabile, c’è chi tenta di tirarti da una parte e chi dall’altra.

Non deve essere stato facile.
Nulla è stato facile. Però non mi piace neanche il vittimismo. È come se battessi sulla tua spalla, e dicessi “Oh poverino. Hai sofferto tanto?”. Ecco, io penso che potremmo usare un bazooka.

Ridiamo.

Nel senso che non facciamo una carriera sul vittimismo. Porti una testimonianza. Perché una testimonianza è un impegno civile importante. Mentre fare la vittima è uno speculare. Eh no. Non è rispettoso nei confronti della storia.

Enrico Baj, “Il funerale dell’anarchico Pinelli”, 1972

Forse è anche per questo che abbiamo scelto questa linea narrativa. Partendo dalla voglia di entrambi di raccontare questo angolo di mondo in cui poi c’è tutto il mondo.
La targa in marmo in via Preneste, dove abitavamo prima era diversa. Riproduceva il quadro di Enrico Baj “Il funerale dell’anarchico Pinelli”.

Tu sei credente?
Non sono credente.

Il personaggio di un mio libro 21 volte Carmela dice “Io non credo in Dio. Credo negli amplessi, credo nel buon vino. E credo che adesso andrò a farmi una doccia”.

Ride.

Hai figli?
Ho due figlie. Martina che ha trentun anni e che è insegnante nelle scuole superiori e Arianna che ha venticinque anni e studia chimica.

Come vivono la loro eredità?
La vivono con consapevolezza. Poi chiaramente sono due persone estremamente diverse. Martina ha sempre fatto moltissime domande fin da quando era piccola. Arianna ne ha sempre fatte pochissime. Entrambe hanno un ottimo rapporto con la nonna. Martina, entrando a casa della nonna quando aveva quattro anni, nota per la prima volta la litografia del quadro di Enrico Baj I funerali dell’anarchico Pinelli. E la domanda è stata “Nonna ma perché quell’uomo cade? Ma chi è? Perché quelle mani non lo trattengono?”. E mia mamma ha detto “Chiedilo alla tua mamma?”.

Tosta la bambina.
Quindi con lei poi c’è stato man mano un cercare di spiegarle le cose anche con un linguaggio adeguato. Con mia figlia più piccola, Arianna, mi sembrava di aver già dato. Mi sono resa conto che Arianna non facendo domande alcune cose non le sapeva proprio. Entrambe hanno portato la storia del nonno agli esami di maturità, elaborandola in maniera diversa. A ogni anniversario loro ci sono, mi stanno accanto. Martina ha fatto anche un percorso di conoscenza e approfondimento su quel periodo con dei ragazzi e ragazze di terza media. Però non voglio parlare di eredità, che sa di imposizione, nel caso vorrei che fosse una scelta libera e consapevole come lo è stata per me

Entriamo al bar La Genzianella.
Parliamo di teatro di disabilità, dei giovani, della necessità di presidiare i territori. Si sommano e accavallano aneddoti e volti del teatro, Serena Sinigaglia, Peter Stein, Maddalena Crippa. Mi racconta del Parenti, della presentazione del libro di Guido Viale “Lotta Continua. Niente da dimenticare”.

Guido Viale, che stimo moltissimo, rivendica la storia di un movimento politico che si è impegnato su tanti temi e che è stato innovativo a livello culturale e sociale. Ammettendo anche dove è naufragato, quali sono state le questioni non affrontate in maniera adeguata.
Questo libro è molto interessante perché ripercorre molto chiaramente il periodo fino al 1976 quando il movimento si sciolse e anche il periodo successivo, le scelte, le derive violente, la vendetta dello Stato nei confronti di chi mise in discussione la tesi ufficiale sulla morte di mio padre con attacchi terribili nei confronti del commissario Calabresi, mirati a farsi denunciare per riuscire a parlare in tribunale della morte, fino a quel momento sempre archiviata, di Giuseppe Pinelli.

Da lì passiamo a discutere dell’omicidio Carlo Giuliani, di Genova dove è stato seppellito il movimento No Global, del potere che giustifica l’uso legittimo delle armi.
Torniamo a parlare di quella notte.

Torniamo sempre lì a quel momento, in cui una donna rimane da sola con due bambine piccole da cercare di preservare, senza il tempo di poter ascoltare il proprio dolore, di piangere perché non bisognava arrendersi. Pochi amici le rimangono accanto, la sostengono, la consigliano. La fatica di trovare degli avvocati, il non capire in un primo momento perchè devi trovarli. “Uccidono mio marito e io mi devo cercare un avvocato? Pensavo di vivere in uno Stato di diritto”. Lei credeva che il fascismo fosse finito. Credeva di vivere in una democrazia. Il libro che scrive insieme a Piero Scaramucci Una storia quasi soltanto mia ha il merito di averle fatto ritrovare la voce. Ci hanno messo due anni a scrivere quel libro. Piero è stato paziente e attento, per Licia è stato faticosissimo, per troppo tempo aveva dovuto controllare ogni sua emozione, ha dovuto reimparare a fidarsi, è stato un percorso lungo e difficile ma rimane anche a tanti anni anni di distanza una pietra miliare, per non dimenticare.

L’autore: Gianfranco Falcone è psicologo e blogger (Viaggi in carrozzina,  DisAccordi) e collabora con la rivista on line Mentinfuga, dove scrive di temi culturali, di teatro e diritti. Da alcuni anni è costretto a vivere su una sedia a rotelle. Ha da poco pubblicato il romanzo 21 volte Carmela (Morellini editore)

Le foto sono di Gianfranco Falcone

Cambiate automobile e vivrete meglio. Parola del sindaco Gualtieri

Il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, ha deciso in piena solitudine di allargare la fascia centrale della città in cui non possono entrare i veicoli più inquinanti. E’ un suo diritto come primo cittadino e la decisione ha anche un fondamento reale: diminuire i livelli di inquinanti che attentano alla salute dei cittadini, specie le fasce deboli, bambini e anziani.
Ma è una decisione sbagliata. Iniziamo dalla solitudine. Poteva almeno discuterne di questa sua idea. Aprire una interlocuzione con le la società romana, con i tanti presidi di inclusione che rendono viva la città e attenuano la cancellazione del welfare urbano in atto da trenta anni. Invece ha tirato dritto trincerandosi dietro allo slogan in cui non crede più nessuno: “ce lo chiede l’Europa”.
Così arriviamo alla questione vera. L’Europa chiede di ridurre gli inquinanti lasciando alle singole amministrazioni la scelta di come arrivarci. Stanno qui i motivi della scelta sconsiderata che Gualtieri ha preso. Vediamo perché.
Il sindaco di Roma ha deciso che nel giro di pochi mesi i veicoli inquinanti non possono entrare nella fascia verde. Due sono le scelte che restano ai residenti. Cambiare automobile sostituendola con un modello più evoluto e costoso o cambiare casa trasferendosi nelle immense periferie che circondano la città. Entrambe le scelte sono odiose sotto il profilo sociale perché discriminano in funzione della capacità di spesa: chi potrà cambierà auto. Chi ha redditi troppo bassi andrà altrove.
La scelta è stata così sbagliata che la stessa giunta comunale sta correndo ai ripari con ideucce che tentano malamente di mettere una toppa su una scelta iniqua. Ma avendo scelto la strada sbagliata continuerà a seminare malumori.
Il sindaco Gualtieri si è messo nei guai da solo perché appartiene a quella cultura che ha applicato con rigore –parola chiave!- le politiche neoliberiste e che non si è ancora accorta che la coperta è diventata troppo corta perché quelle politiche hanno provocato il disastro.
Per salvare la città avrebbe dovuto scegliere al strada maestra che la sinistra (ha ancora senso per lui questa parola?) ha perseguito da decenni e decenni, quella di potenziare il trasporto pubblico su rotaia, il solo modo socialmente equo per coniugare il diritto all’aria pulita con il diritto a spostarsi. Poteva insomma presentare un piano per costruire un sistema di tramvie che nel breve periodo (5 – 10 anni) avrebbe cambiato al città salvaguardando le fasce sociali più povere. “L’Europa” avrebbe accettato questo percorso. Non lo ha fatto, questo è il fatto più grave.
Sono le due strade che ci troviamo e che ci troveremo davanti ogni volta: l’economia dominante pensa ancora che l’unica strada sia quella di aumentare il livello tecnologico individuale o delle famiglie. Fino a dove non si sa e a quali prezzi sociali neppure. L’altra strada è quella di cambiare i modelli di consumo spostandoli sul sistema pubblico.
E qui arriviamo al punto. “Pubblico” fa ancora orrore alla sempre più sparuta pattuglia dei neoliberisti e Gualtieri ha obbedito: cambiate automobile e vivrete meglio. Sta alla sinistra indicare che esiste l’altra strada, quella che riconosce i diritti di tutti e che ricostruisce pezzo dopo pezzo –ad iniziare dal trasporto pubblico- il benessere pubblico.
Non sarà facile farlo comprendere al sindaco di Roma. Sono ormai troppi gli errori che ha inanellato in un anno: sempre in rigorosa solitudine ha scelto infatti di costruire un gigantesco inceneritore (600 mila tonnellate) invece di tentare di intervenire sulla filiera dei rifiuti. Ha poi scelto di riempire 20 ettari di asfalto per fari i parcheggi dello stadio della Roma a Pietalata sulle aree che erano destinate a parco per i cittadini.
Anche il parco di Pietralata avrebbe diminuito gli inquinanti, gli alberi servono per questo. Ma i parcheggi per la Roma calcio sono utili a far aumentare la macchina economica che sta dietro al baraccone del calcio. Gualtieri ha dimostrato di essere prigioniero di una cultura che ha fallito.
Spetta alla sinistra saper mantenere viva e credibile l’unica strada veramente efficace: costruire tramvie e ricostruire il welfare urbano cancellato.

Dove sono quei 500? Riportati all’inferno (e sono 600)

Le centinaia di disperati che farcivano un’imbarcazione alla deriva nel Mediterraneo di cui dal 24 maggio non si è occupato nessuno sono tornati nell’inferno libico, probabilmente respinti illegalmente per l’ennesima volta dal governo di Malta. A farcelo sapere sono i libici, feroci, fieri, con un video pubblicato dalla cosiddetta Guardia costiera libica. Nel filmato un cittadino egiziano racconta che il peschereccio è stato intercettato sulle coste di Malta e riportati in Libia dalle forze militari.

Per l’ennesima volta Malta se ne fotte dei trattati internazionali, dei diritti umani e del diritto all’asilo. La nave era stata intercettata il 24 maggio dalla Ong Alarm Phone che aveva inutilmente allertato l’Italia e Malta. Il Life Support di Emergency, la ong Sea Watch e  Ocean Viking hanno inutilmente pattugliato la zona cercando l’imbarcazione ma avevano dovuto fermare le ricerca per il peggioramento del tempo.

Le persone detenute (tra cui un neonato, 45 donne, alcune in gravidanza, e 56 bambini sono ora in un centro di detenzione libico dove mancano i servizi più elementari e dove verranno sistematicamente sottoposti a violenze, sevizie, stupri e torture. I centri di detenzione libici – che rientrano nell’accordo Italia-Libia – sono o sacchetti dell’umido dei nostri errori e dei nostri orrori.

Comunque vada a finire per loro, se ci capiterà di incrociarli da vivi o da morti, tra le molte cicatrici sulla loro pelle ci sarà questa il segno di quest’Europa che li ha deliberatamente riportati nei lager perché hanno commesso l’imperdonabile orrore di volersi salvare.

Buon lunedì.

Le stragi del terrorismo nero. Un’antologia per ridare voce alle vittime di piazza della Loggia

foto di piazza della Loggia, a Brescia dopo l'esplosione, tratta da wikipedia

Per non dimenticare cosa è stato il terrorismo nero in Italia e le stragi di cui si è reso responsabile. Il romanziere Marco Archetti, autore di “Una specie di vento”, pubblicato dalla casa editrice Chiarelettere, ridà vita alle otto vittime della strage che si abbatté su Brescia il 28 maggio del 1974 quando nella piazza in cui si teneva una manifestazione del “Comitato unitario permanente antifascista” esplose una bomba nascosta in un cestino dei rifiuti. Archetti si concentra sulle vicende umane di chi, quel giorno, fu colpito a morte dalla violenza del terrorismo nero. Ad introdurle, Redento Peroni, sopravvissuto grazie al piccolo gesto di uno sconosciuto. Vi proponiamo qui un estratto (Reprint dalla prima uscita nel 2018)

[divider]Una specie di vento[/divider]

Il fantasma sono io

Quanti anni ho passato a contare? Dieci? Venti? Trenta? Conti e riconti e in un momento arrivi a quaranta. Quarantaquattro, a esser precisi. Ma nonostante tutto, cari nipoti, vostro nonno è ancora qui: Redento Peroni, salvo per un pelo e per niente matto. Semmai, miracolosamente in equilibrio. Su un filo, magari, ma pur sempre in equilibrio. In certi momenti non so proprio come ho fatto, non è stato facile restare lucido. Sapete cosa dicevo, i primi tempi, a vostra nonna? Le dicevo: «Marisa, non escludo di andar fuori di testa, se va avanti così».

Be’, i giorni passavano e tutto andava avanti così. Allora io tornavo indietro. Non che lo volessi. Non che mi piacesse. Diciamo che sarebbe stato impossibile evitarlo. Il risultato? Questi quarant’anni, passati con la sensazione di vivere in retromarcia, con la sensazione di fissare un punto per tutta la vita. Fissavo, fissavo, fissavo. Ma a furia di fissare, esistevo ancora? Piano piano mi stavo trasformando in un fantasma, in un’ombra ingoiata dai fatti.

Quanti anni ho passato a contare da uno a otto? E poi da otto a uno? E poi da capo e ancora, alla rovescia, ripetendomi sempre le stesse cose, perché a un certo punto sembrava chiaro, solare, palese che non sarebbe cambiato nulla. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto: otto le sentenze definitive pronunciate in un istante quella mattina del 28 maggio, e quarant’anni di carte e deposizioni non riuscivano a stabilire nient’altro? I dibattimenti si susseguivano come una novena insopportabile, vagoni blindati carichi della stessa, unica, orribile verità, e cioè che non c’era alcuna verità. Insomma: quella mattina in piazza Loggia non era accaduto nulla. Ci eravamo inventati tutto. Si era trattato di un’allucinazione collettiva.

Ma a me lo spostamento d’aria aveva scombussolato il cervello, altro che allucinazione! Dopo lo scoppio della bomba, ricordo il sangue e le viscere di qualcuno, grondanti, sulla faccia. Ricordo l’odore di ustione, di macerie, di massacro. Ricordo pezzi di corpi umani per terra mentre una cortina di fumo ondeggiava sui frantumi.

L’avevo sognato, quel disastro? Io, dopo lo scoppio, mi sono lanciato in corsa come un diavolo, a casaccio, gambe in delirio e pensieri a brandelli. Cadevo e mi rialzavo, mi rialzavo e cadevo, solo l’urlo in gola, senza respirare, cervello scoperchiato e nervi br

uciati, trapunto di fuoco dalla testa ai piedi. Era successo qualcosa, eccome se era successo. In fondo lo sapevamo, o per lo meno io quella mattina credevo di saperlo…

Ma no, fermi, cosa dico? Non è vero, non è così. Non posso mentire proprio a voi che mi avete chiesto mille volte di raccontarvi tutto… In realtà nemmeno io ci avevo capito qualcosa. Dopotutto, come si fa a immaginarsi davvero una cosa del genere?

Certo, i segnali c’erano tutti. I tempi erano quelli: tetre comparse della Repubblica di Salò riemergevano dalle tenebre del passato. A capo del Sid, il Servizio informazioni della difesa, c’era un uomo come Vito Miceli, che non si preoccupava di nascondere le sue simpatie fasciste. L’eversione di destra si rigenerava e rinasceva di continuo, gemmando a tutto andare una cupa miriade di sigle, gruppi e nuclei clandestini. Il motto di «Anno zero», periodico che giustificava il ricorso alla violenza e auspicava un assetto basato sul terrore e la gerarchia, era «Distruggere tutto per tutto ricostruire», secondo lo schema: bombe, instabilità, golpe.

I gruppi neofascisti bresciani erano in contatto con La Fenice di Milano e Ordine nuovo di Padova. I tondinari, negli impianti siderurgici, picchiavano, minacciavano e intimidivano i lavoratori e i rappresentanti sindacali. A marzo, nella chiesa delle Grazie, erano stati rinvenuti due ordigni. Un terzo aveva danneggiato la sezione del Psi di largo Torrelunga e otto candelotti di dinamite erano stati offerti in gentile omaggio anche alla sede della Cisl. Pochi giorni prima della strage, Silvio Ferrari, giovane esponente della destra cittadina, era saltato in aria mentre trasportava in Vespa due diversi tipi di esplosivo e un detonatore elettrico collegato a una sveglia.

Ma le forze dell’ordine, rimandando le pulizie, contribuivano a rendere la situazione, di fatto, sempre meno controllabile.

Per voi ragazzi nati nel 2000 sono cose lontane, me ne rendo conto, ma io in questi anni ho continuato a ripetermi…

Dove sono quei 500?

foto di Emergency

Nel Mediterraneo non si trova più un’imbarcazione alla deriva da più di due giorni con circa 500 persone a bordo. Per ore ha lanciato sos ad Alarm Phone mentre si trovava in zona Sar maltese. È accaduto ciò che accade sempre: Malta e Italia non hanno voluto coordinarsi.

Nel comunicato di Emergency si legge che a lanciare l’allarme è stata per prima la ong Alarm Phone, con la quale i naufraghi si sono messi in contatto per chiedere l’intervento delle autorità marittime. Secondo l’organizzazione, a bordo del mezzo c’erano 500 persone, tra cui almeno 45 donne, alcune in stato di gravidanza, e 56 bambini, uno dei quali nato durante la traversata dalle coste nordafricane. Quando è scattato l’allarme, si legge, “Emergency ha chiesto alle autorità competenti a Malta e in Italia di coordinare i soccorsi, ma queste si sono rifiutate di condividere qualsiasi informazione”.

Non arrivando risposte il Life Support di Emergency ha così deciso di dirigersi verso la posizione dell’imbarcazione per portare in salvo i naufraghi e ha effettuato “una ricerca attiva 24 ore su 24, ma dal pomeriggio di ieri, 24 maggio, non vi è stato alcun contatto da parte delle persone a bordo e nessuna traccia della nave”. Anche la ong Sea Watch ha svolto una ricerca durata due giorni consecutivi con il suo velivolo Sea Bird, senza però trovare indizi sulla posizione della nave. “Né Life Support né Ocean Viking, che pattugliavano la zona, hanno trovato segni di naufragio. Pertanto, dato il peggioramento del tempo, saremo costretti a spostarci in un’altra zona se non troveremo la barca nelle prossime ore”, ha aggiunto Emergency.

Albert Mayordomo, capo missione di Life Support, ha spiegato che “attualmente siamo nel Mediterraneo orientale. Continueremo le operazioni di ricerca in quest’area fino a questa sera, con attività di vedetta sul ponte. Poi a causa del peggioramento delle condizioni meteorologiche ci sposteremo in acque internazionali, nell’area libica di ricerca e soccorso. Un’ipotesi potrebbe essere che il motore abbia ripreso a funzionare e la barca stia navigando verso la Sicilia, ma di questo non abbiamo prove”.

Potrebbero essere vivi, potrebbero essere morti, né Malta né l’Italia ne hanno contezza. L’importante è che gli eventuali cadaveri non arrivino sulle nostre spiagge.

Buon venerdì,

A che serve il sindaco d’Italia?

Ma a quale reale necessità risponde l’elezione diretta del presidente della Repubblica, o del presidente del Consiglio, del cosiddetto “sindaco d’Italia”? La risposta è la governabilità, la stabilità e la durata dei governi. Sarebbe questa la via per realizzare le riforme di cui il Paese ha bisogno. Un tale argomentazione è assolutamente priva di prove empiriche e di fondamenti storici. I primi decenni dell’Italia repubblicana dimostrano che non esiste alcun nesso necessario tra stabilità dei governi e processi riformatori. Dal 1946 sino al 1981, quando si sono succeduti decine di governi, tutti a guida democristiana, contrastati da una forte opposizione politica e sindacale, mentre il Paese era percorso da aspri conflitti, si sono realizzate le riforme che hanno reso moderno il Paese, fatto approdare a un gradino più avanzato di dignità civile milioni di italiani.

Nel 1949 viene varato il piano Ina-Casa, che nel corso di 14 anni assicurerà un’abitazione decente a centinaia di migliaia di famiglie operaie. Nel 1950 viene avviata la riforma agraria, che, pur con tutti i suoi limiti, spezza l’assetto secolare del latifondo, un vero pezzo di feudalesimo sopravvissuto all’età contemporanea. Nello stesso anno nasce la cassa per il Mezzogiorno, che avvierà profonde trasformazioni strutturali del territorio e della società meridionale. Nel 1962 viene nazionalizzata l’energia elettrica e realizzata la riforma della Scuola media unica, per elevare l’alfabetizzazione dei cittadini secondo il dettato costituzionale. Ma è con gli anni Settanta, com’è noto, frutto di un biennio di lotte operaie e popolari senza precedenti, che fiorisce una stagione fertilissima di riforme. Nel 1970 viene varato lo Statuto dei lavoratori, la legge sul divorzio, cui segue, nel 1971 , l’istituzione degli asili nidi e la scuola a tempo pieno, mentre nel 1974 vengono varati i Decreti delegati sulla democrazia nelle scuole, che coinvolgono  la rappresentanza delle famiglie. Riforme destinate a modificare gli assetti sociali si alternano al quelle per il riconoscimento dei diritti civili: nel 1975 il nuovo diritto di famiglia elimina la figura millenaria del capofamiglia quale detentore unico della potestà; nel 1978 viene legalizzato l’aborto; nel 1978, viene istituito il sistema sanitario nazionale, una della maggiori conquiste di civiltà della storia d’Italia. Quali riforme può vantare il secondo governo Berlusconi, durato dal 2001 al 2005, o il quarto Berlusconi, dal 2008 al 2011, o quello di Craxi, dal 2083 a 2086? Giusto per richiamare gli esecutivi di maggior longevità. E’ evidente che non è la stabilità e durata dei governi a costituire la condizione di una strategia riformatrice dei gruppi dirigenti, ma qualcos’altro. Non dovrebbe sfuggire a una analisi meno superficiale, una fatto paradossale. Alla instabilità dei governi della cosiddetta seconda repubblica (una invenzione retorica, per farci simili alla Francia e alla sua grandeur), corrisponde nei fatti una coesione strategica dei partiti politici: sostengono tutti un programma neoliberista, tutti, con variazioni tattiche di poco conto, e con qualche eccezione dei Cinque stelle, convergono al “centro”. Dunque, per un sistema politico sostanzialmente così omogeneo, dovrebbe essere più agevole che in passato, intraprendere riforme di ampio respiro. In realtà, se si eccettua la fase d’avvio del Movimento 5 stelle l’Italia è rimasta, per diversi anni, senza una opposizione. Priva di un partito realmente riformatore e di una conflittualità programmatica. Non esistevano grandi ostacoli per chi governava. Oggi l’opposizione l’ha creata il governo Meloni. Un’opposizione, al momento, in gran parte esclusivamente verbale. In realtà l’instabilità che viene lamentata non è dovuta a contrapposizioni strategiche delle forze in campo, a conflitti che coinvolgano gli interessi di vasti strati sociali, come accadeva tra gli anni Cinquanta e Settanta, ma a competizioni di potere, al confliggere di cordate elettorali in competizione, alla ressa confusa di diversi appetiti individuali. I partiti infatti, che non rappresentano più classi sociali, raggruppamenti definiti, sono in gara fra loro unicamente per gestire le risorse pubbliche. Il fine della politica, soprattutto in Italia, si è ridotto alle manovre per accedere a tutti i luoghi di potere pubblico o semipubblico che consentono la fruizione di danaro, l’acquisizione di influenza, visibilità, gestione di clientele necessarie al consenso elettorale e alla riproduzione del ceto politico. I partiti non mirano soltanto alla vasta platea di luoghi di comando e di gestione di risorse rappresentati dal governo, dal sottogoverno, dalle varie autority, ecc, ma anche dalle grandi e ricche corporazioni pubbliche e semipubbliche, come Rai, Eni, Enel, Leonardo, Fincantieri, Trenitalia, ecc. Senza qui considerare le occasioni di lucro offerte dalla gestioni degli appalti e in genere dai rapporti con le imprese a livello locale. La pratica dello spoil system mostra oggi in trasparente filigrana l’ orizzonte strategico entro cui si muovono i partiti. Se riusciamo a liberarci della nebulosa retorica che offusca il cielo del Paese, e le menti dei contemporanei, noi comprendiamo che, di fatto, tranne qualche isolata eccezione, le forze politiche costituiscono una Seconda Pubblica Amministrazione, gestita da soggetti privati. La prima si occupa della macchina statale e dei servizi, la seconda, nella faccia rivolta ai cittadini, gestisce l’acquisizione del loro consenso in perpetua competizione dei suoi attori, per il fine sostanziale della conservazione degli assetti vigenti. La tutela dello statutus quo è infatti per quasi tutti i soggetti il “perimetro costituzionale” da non valicare. Non a caso le leggi elettorali degli ultimi decenni sono state congegnate per impedire l’ingresso di nuove forze nell’agone competitivo, e soprattutto per ostacolare l’irruzione del conflitto di classe nella dinamica spartitoria del spoglie pubbliche perseguite dai raggruppamenti maggiori. Dunque l’assetto è: i partiti, che sono organizzazioni private, operano per gestire le risorse pubbliche, riproducendosi in gran misura con il sostegno delle medesime. E allora, di fronte a tanta stabilità, qual è il fine dei progetti di snaturamento della nostra Costituzione? La prima risposta è che bisogna dare in pasto ai cittadini, considerati solo come elettori, un qualche risultato dell’azione governativa. In cambio di consenso i partiti vendono infatti narrazioni riformatrici. E’ uno scambio di mercato tra voti e pubblicità elettorale. Lo slogan della governabilità fa parte dell’armamentario retorico inaugurato negli anni Ottanta da Bettino Craxi. Ma dietro il vuoto progettuale e operativo dei nostri partiti si cela in realtà una vocazione autoritaria di tutti i poteri politici nelle società avanzate. La ricerca di uno Stato forte è un’aspirazione di vecchia data delle classi dirigenti capitalistiche. Barbara Spinelli ha ricordato che è stata la Trilaterale, nel 1975, a esprimere, in un documento pubblico, l’esigenza di una “democrazia decidente”, quale risposta ai conflitti e alle aspirazioni socialisteggianti della fine degli anni Sessanta ( vedi Il Fatto quotidiano del 12 maggio). Un’aspirazione in apparenza paradossale. Non viviamo nel Regno del pensiero unico neoliberista? E questo non chiede ed impone l’assoluta libertà del mercato, e la più o meno completa marginalità dell’agire statuale? E allora, se lo stato deve limitarsi a stabilire solo le regole, mentre le libere forze dell’impresa si autoregolano, garantendo da sole lo svolgimento di una società libera e dinamica, a chi e a che serve un governo forte? I
padri fondatori del pensiero neoloberista da Friedrich von Hayck, a Milton Friedman hanno fatto del termine libertà una bandiera al vento, a partire dai titoli delle loro opere. E con questo vessillo ideologico hanno conquistato il mondo. Ma non c’è bisogno di scomodare Marx per svelare che la libertà teorizzata dal pensiero economico neoliberista riguarda in realtà la figura degli imprenditori: sono loro che devono essere lasciati liberi dai condizionamenti della lotta sindacale organizzata, dalla pressione fiscale finalizzata al welfare pubblico, dalle regole di protezione degli interessi collettivi e dell’ambiente. Ma c’è un anello che collega tale rivendicazione libertaria all’autoritarismo nascosto in questo pensiero. La libertà incondizionata pretesa è al tempo stesso la libertà di comando dell’imprenditore ( o del manager) in qualità di capo, che nell’agone competitivo deve avere il controllo assoluto su tutti i membri che operano nell’impresa.Un potere di
comando del singolo che richiede ubbidienza del collettivo. Ma l’autoritarismo preteso per la fabbrica viene progressivamente rivendicato per l’intera società. E’ un processso cui assistiamo da anni. L’abbiamo visto in Italia, ad esempio, non solo in tanti ambiti della vita economica privata, ma anche nella sfera pubblica: nella sanità, con la trasformazione delle Usl in Asl , cioè in in aziende, con conseguente disciplinamento interno. Oppure nell’Università, che dopo i trattati di Maastricht, col cosiddetto Processo di Bologna (1999) , ha assunto in Europa la figura del New Pubblic Management, come viene definito il processo di aziendalizzazione del settore pubblico. Ancora più evidente è in Italia il rivolgimento subito dalla scuola, dove il preside è diventato il dirigente, e l’aziendalizzazione è stata accompagnata da un nuovo assetto gerarchico interno.  Dunque l’esigenza per niente sotterranea, lo spirito che domina il tempo, è quella di adattare ogni forma di realtà sociale alla struttura dell’ azienda, sottoporla alle sue gerarchie, ai suoi meccanismi di disciplinamento. Non è un caso che il cosiddetto presidenzialismo venga perorato anche in ambito di centro sinistra: esso costituisce un coerente esito dell’ideologia che esalta la libertà: quella di chi comanda. Ma a questo punto tutto dovrebbe apparire chiaro allo sguardo dell’osservatore non ingannato dalla pubblicità elettorale. I partiti , senza più legami con le grandi masse popolari, privi di prospettive strategiche, ridotti a un confuso coacervo di interessi in conflitto, promettono agli italiani un capo azienda, un manager di Stato che consenta l’efficienza a la prontezza d’azione che essi non riescono a garantire. Vogliono un comandate sopra di loro, perché l’opera di predazione di chi vince la competizione elettorale avvenga in buon ordine e con regole certe.

 

Emiliano Fossi (Pd): Ballottaggio, Toscana al bivio

Toscana con qualche venatura di rosso? È possibile che al ballottaggio del 28 e 29 maggio, il centrosinistra a Pisa, Siena, e Massa riesca a strappare il governo delle città alle destre? Sono giorni frenetici di incontri, con le liste civiche (il caso di Siena) che non danno indicazioni di voto, e con (per ora) il nulla di fatto sugli apparentamenti.
Al ballottaggio deciderà dunque l’astensionismo, l’opportunismo politico con l’occhio a Roma, oppure una decisa reazione alle politiche di destra che hanno dominato sulle città in questi ultimi 5 anni anni?
Dopo il primo turno, in previsione del ballottaggio, abbiamo rivolto alcune domande a Emiliano Fossi, eletto segretario regionale del Pd alle primarie che hanno sancito la vittoria di Elly Schlein. Fossi è deputato ed è stato sindaco di Campi Bisenzio, dove ha appoggiato la battaglia del lavoratori della Gkn contro la delocalizzazione della fabbrica. In un post su facebook subito dopo il turno del 14 e 15 maggio ha scritto: «Una fase in cui il Partito democratico non è più arrogante, si apre alle altre forze di centrosinistra e, soprattutto, al civismo, raggiungendo buoni risultati».

Emiliano Fossi, dal ballottaggio potrebbe uscire una Toscana un po’ più rossa?
Ci sono due dati politici dal primo turno. Il primo, è che il Pd ha rialzato la testa e torna ad essere centrale e credo che questo sia anche il frutto del passaggio congressuale che ha fatto uscire il partito, a livello generale, da una situazione di marginalità politica. L’altro aspetto, è che la marcia, che definivano inarrestabile, della destra in Toscana, con il voto del 14 maggio, mi pare proprio di poter dire che abbia subito una battuta d’arresto. Non c’è l’effetto Meloni perché c’è una destra divisa che si fa la guerra. A questo proposito sono emblematiche le parole della europarlamentare Ceccardi (Lega) che critica in maniera diretta e forte Fratelli d’Italia dicendo che è un partito che pensa solo a contarsi o a contare dentro il governo di coalizione e così manda in frantumi la coalizione di destra. Su tre capoluoghi dove avevano vinto cinque anni fa si va al ballottaggio e in due di questi tre capoluoghi loro non hanno ripresentato il sindaco uscente (a Massa non lo hanno ripresentato uniti). Credo che sia un segnale positivo e che ci siano ampi margini di iniziativa e di azione per il Pd e che ci lascia ben sperare anche per il secondo turno.

Per il ballottaggio quali alleanze? Italia viva e M5s non vogliono stare insieme e poi ci sono i civici che sono un’incognita.
Qui ci sono in gioco due diverse visioni: una Toscana popolana, che ha a cuore la lotta contro le diseguaglianze, che pensa a uno sviluppo che fa rima con la sostenibilità, quindi una Toscana democratica. E dall’altra parte c’è una Toscana che è esclusiva e prova a privilegiare la parte dei cittadini che stanno meglio rispetto a quelli che stanno peggio. Mi pare che la polarizzazione sia nei fatti e quindi l’appello che ho fatto è questo: che le forze che si riconoscono in un’area di centrosinistra e in un’area democratica stiano insieme. Con dentro le forze politiche riferibili al centrosinistra e le liste civiche che rappresentano realtà importanti nei territori e che fanno parte a pieno titolo di questa idea di Toscana. Per me questo è un ragionamento che vale anche per il dopo elezioni perché si apra un cantiere per il centrosinistra che vada dalle forze moderate a quelle più radicali e progressiste fino alle forze civiche, con l’obiettivo di costruire insieme nel merito, a partire dai contenuti, l’idea della Toscana del futuro, senza forzature e definendo insieme le regole d’ingaggio e cercando di capire se c’è un sentiero comune. Io credo che ne valga la pena, perché il Pd ha chiuso la stagione dell’arroganza, dell’autoreferenzialità e dell’autosufficienza quindi è conscio e consapevole che ha bisogno di costruire un campo, un’area di centrosinistra dove c’è il Pd nella posizione centrale ma dove sono necessarie alleanze con le altre forze. Ecco, io credo che le altre forze si rendano conto che se vogliamo costruire un’alternativa alla destra bisogna prendere questo tipo di percorso.

Lei dice che il Pd non è più arrogante. Che significa? È una separazione da una politica di derivazione renziana?
Direi separazione da una storia che concepiva il Pd come un partito che potesse prescindere quasi da un’interlocuzione con altre forze e che fosse autosufficiente, quindi non lo marcherei nel senso esclusivamente renziano. Per un lungo periodo il Pd ha avuto questa idea, anche in buona fede, ma oggi quell’idea non ha più capacità di espansione e di incidere nella realtà politica. Il Pd ha bisogno di allearsi per costruire campi più ampi possibile, a partire dai programmi e dalle proposte. Quindi adesso c’è un elemento di consapevolezza rispetto al passato. Si apre una fase nuova ed è anche la fase che la segretaria nazionale vuole aprire a livello nazionale. C’è bisogno di tempo, di impegno e di pazienza ma credo che ne valga la pena.

Ma già alle origini c’era l’idea veltroniana di partito a vocazione maggioritaria. Adesso si rimette in gioco l’identità stessa del Pd?
Il congresso del Pd è stato un congresso dove per la prima volta si sono confrontati non soltanto dei candidati o delle candidate che volevano diventare leader ma per la prima volta dopo tanto tempo si sono confrontate piattaforme politiche che, pur riconoscendosi in valori comuni e anche in una visione unitaria, però avevano elementi di diversità. Quindi un congresso con mille difetti ma alla fine c’è stata una discussione matura che ha prodotto un esito che dovrà portare a delle sintesi, perché in questo si riconosce il partito complessivamente. Ma comunque è stato chiaro che c’è anche una caratterizzazione identitaria o se vogliamo dire, un profilo che il Pd sta assumendo e che assumerà sempre di più, più marcato su molti temi, a partire dal lavoro, ambiente, come concepiamo le politiche migratorie. Insomma gli elementi su cui il partito di Elly Schlein ha provato a caratterizzarsi in queste prime settimane di esperienza.

Lei come sindaco di Campi Bisenzio aveva sostenuto la lotta dei lavoratori della Gkn contro la delocalizzazione…
Io ho l’idea di un partito che non è più “né carne né pesce”, indefinito, pigliatutto, ma di un partito invece che ha cuore la coesione sociale, che al tempo stesso non si caratterizza come un partito classista ma che ha ben chiaro da che parte stare. Come io in quell’esperienza non ebbi un attimo di esitazione, in quei momenti drammatici, nel decidere da che parte stare, dalla parte dei lavoratori, così è il Pd che vogliamo costruire e ricostruire. Un partito che ha ben chiaro le scelte da fare sul tema del lavoro: combattere i contratti pirata, salari, legge della rappresentanza.

A Siena i civici hanno basato la loro campagna elettorale criticando i partiti, il Pd in particolare, per la passata gestione della città, come si fa a riconquistare terreno, recuperare la fiducia?
Il secondo turno è diverso dal primo, c’è un elemento di differenziazione maggiore, al ballottaggio la partita si polarizza di più e si confrontano due idee sostanzialmente alternative. In questo senso credo che non sfuggirà a nessuno il fatto che l’idea di città che propone il centrosinistra è alternativo e completamente diverso da quella della destra. Ciò significa far tornare Siena una città aperta al resto della Toscana, non una città chiusa come è accaduto in questi ultimi cinque anni, cosa che riguarda di fatto tutte le città governate dalla destra. Poi credo che le forze di centrosinistra che non si sono unite nel primo passaggio possano ritrovare un elemento comune nel secondo turno. E poi penso che si debba parlare molto ai cittadini oltre che alle forze politiche civiche. Penso che i senesi abbiano chiaro tra chi ha cuore il bene della città, chi fa calcoli di parte o chi è piegato davvero a parti di potere.

A Pisa Città in comune con Ciccio Auletta ha ottenuto un buon risultato al primo turno. Potrebbe essere importante, per battere il sindaco uscente di destra, il dialogo con la sinistra radicale?
Questo dialogo sarà portato avanti dai dirigenti locali. Io dico soltanto che il candidato del centrosinistra Paolo Martinelli per il profilo che ha, è una persona naturalmente portata al dialogo e alla condivisione anche di battaglie e comunque di valori che sono anche sostenuti da una parte della sinistra che potremmo definire sinistra più radicale.

Nella foto (da facebook di Emiliano Fossi): manifestazione elettorale a Pisa con Elly Schlein, il candidato sindaco Paolo Martinelli e il segretario regionale Pd Emiliano Fossi

Il ritorno dei manganelli

Il popolo dell’antimafia di Palermo è stato manganellato perché avrebbe voluto ricordare (a loro e a noi) che in Sicilia c’è un sindaco a Palermo e un presidente della Regione che non rifiutano l’appoggio politico di due condannati per mafia come Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri.

Manganelli anche a Milano. In via Sarfatti una donna trans brasiliana di 41 anni appare in un video mentre viene manganellata inerme, poi presa a calci, poi attaccata con spray al peperoncino. Come accade in questi casi dell’episodio ne siamo venuti a conoscenza solo grazie al video amatoriale girato da un cittadino. Sarebbe stato probabilmente uno dei tanti pestaggi che non si ritrovano nei verbali, finché non ci scappa il morto. Il sindaco di Milano Beppe Sala ammette che «non è certo una bella immagine, anzi mi sembra un fatto veramente grave». La segretaria metropolitana del Pd e deputata Silvia Roggiani parla di scena “orribile e intollerabile”  e spiega: «Resta in ogni caso da sottolineare – ha aggiunto – che nulla di ciò che è accaduto prima può giustificare quella violenza, in particolare, su una persona che dalle immagini del video appare inerme». «Le immagini sono disgustose. Qualsiasi sia il contesto e qualunque cosa sia accaduta ‘prima’ di quanto filmato» commenta il capogruppo in Regione Lombardia Pierfrancesco Majorino. La consigliera regionale M5s Lombardia Paola Pizzighini denuncia “la violenza smisurata degli agenti e i colpi reiterati ingiustificabili». «Una violenza di questo tipo non è mai accettabile. Mai» conclude. Critica anche Sinistra Italiana con il consigliere regionale Onorio Rosati che parla di “immagini inquietanti“: «Qualsiasi eventuale reato abbia commesso quella donna non giustifica questa violenza».

A destra il deputato e coordinatore milanese di Fratelli d’Italia Stefano Maullu è di diverso avviso: «Hanno fatto il loro dovere – dice – evitando che quella persona potesse dar seguito alle minacce ai bambini di una scuola milanese» visto che «un trans brasiliano, evidentemente fuori di sé, si è denudato davanti la scuola di via Giacosa, nei minuti in cui i bambini stavano entrando per l’inizio delle lezioni». «Quotidianamente – aggiunge la Lega per bocca della commissaria cittadina Silvia Sardone e il capogruppo in Comune Alessandro Verri – vediamo aggressioni nei confronti delle forze dell’ordine sulle quali la sinistra mai si espone, non mostrando mai solidarietà a uomini e donne in divisa. In questa occasione invece sono uscite immediate dichiarazioni con la sentenza in tasca». Sardone e Verri ricordano che l’intervento dei vigili è arrivato dopo le escandescenze della 41enne: «Prima di attaccare sia fatta una relazione approfondita sui fatti»

Fabrizio Marrazzo, portavoce partito Gay LGBT+, sottolinea il fatto che si tratti di una donna trans: «Nulla potrebbe mai fornire una copertura a quanto si vede in quel filmato, chiediamo al sindaco Sala una immediata verifica dei fatti e la sospensione immediata degli agenti che hanno aggredito. Evidenziamo al ministro Piantedosi, che quanto accaduto ad una settimana dalla giornata mondiale contro l’omobistransfobia, mostra l’urgenza di una legge che ci tuteli e punisca con aggravante anche le forze dell’ordine che si macchiano di tali reati», spiega.

Ci sarebbe un modo per sapere cosa sia accaduto: dotare gli agenti di bodycam, la telecamera addosso agli operatori, e codice identificativo. Non l’ha fatto il centrosinistra quando era al governo e non lo farà certamente questa destra che vorrebbe abolire il reato di tortura. Una cosa è certa. Come scrive il direttore di Oggi Carlo Verdelli «Dal passato che non passa, rispunta prepotente una parola scongelata di fresco: manganello. E fa male, non solo a chi se lo prende in testa».

Buon giovedì.

 

Donne che hanno fatto la storia: Gianna Radiconcini, staffetta partigiana e giornalista

Donne italiane straordinarie, nomi noti e donne comuni, che con il loro coraggio e la loro determinazione, sono riuscite a vivere una ‘prima volta’ in Italia o nel mondo, che è stato un passo avanti per cambiare la nostra società.

Questa storia poco conosciuta viene raccontata da La prima donna che, un format televisivo breve, semplice e incisivo. Ideato da Alessandra di Michele Bragadin, prodotto dalla Direzione Rai intrattenimento day time e fortemente voluto dalla direttrice Simona Sala, ha una durata di poco meno di tre minuti e va in onda su Rai 3 alle 16 e 05 fino al 26 maggio (la serie è iniziata il 23 aprile). Una sorta di «pillola giornaliera contro gli stereotipi di genere», come l’ha definito Karina Laterza che presiede la commissione Pari Opportunità di viale Mazzini, realizzata grazie al patrimonio di immagini delle Teche Rai.

La prima donna che, alla seconda edizione, ci racconta la storia di quelle singole donne, vere e proprie pioniere, che per prime hanno fatto qualcosa che prima di loro era interdetto a tutte le donne. Sono raccontate in prima persona da ragazze che alla fine si palesano in video, creando un efficace effetto staffetta, senza retorica. In alcuni casi sono ragazzi che parlano per bocca di uomini che raccontano le proprie madri, mogli, compagne o idoli.

Aldo Grasso, riferendosi alla prima edizione, ha definito questo abbattimento del muro la primavoltità. Dunque, ecco in video la prima donna camionista, vice-presidente della Camera, minatrice, laureata in ingegneria, inviata di guerra, giornalista, direttrice di un teatro, vincitrice di un oscar, conducente di autobus, e così via.

Alcuni nomi delle protagoniste di questa seconda edizione: Lea Pericoli, record di campionati italiani di tennis, prima donna “in minigonna” e prima testimonial nella lotta contro i tumori, Anna Maria Guidi Cingolani madre costituente prima donna ad avere un incarico ufficiale al Governo (con De Gasperi nel 1951), Valentina Zurru  tra le prime donne minatrici nella miniera di Nuraxi Figus, Laura Bassi, prima donna al mondo ad ottenere una cattedra universitaria vissuta a Bologna nel 1700, Nives Meroi prima scalatrice italiana in vetta agli 8.000 (Nanga Parbat) nel 1988. E ancora: Matilde Serao, Maria Montessori, Cristina Trivulzio di Belgiojoso, Anna Magnani, le sorelle Fontana e molte altre.

Profili importantissimi nella storia del nostro Paese ma non abbastanza ricordati se non del tutto dimenticati. Come quello di Gianna Radiconcini, la prima donna corrispondente Rai all’estero. Che viene ricordata senza dubbio per questa primavoltità ma che ha una vita così intensa da costituire un vero e proprio esempio di emancipazione per le donne in generale e per tutti i giovani.

Gianna Radiconcini, scomparsa nel 2020, era nata nel 1926, in pieno fascismo. Diventa antifascista all’età di nove anni. Quando nel settembre del 1943 arrivano i nazisti a Roma, la ragazza, che ormai ha 17 anni, insieme ad alcune sue compagne di classe, diventa una staffetta partigiana. Porta di tutto, finanche dinamite, acquistata vendendo gioielli di famiglia. Entra a far parte del Partito d’Azione e poi dal 1946 di quello repubblicano. Tra il 1953 e il 1958 diventa responsabile de la Voce della Donna, la pagina del quotidiano del partito da dove denuncia il maschilismo imperante anche dentro la stessa formazione politica in cui milita.

Il maschilismo è dappertutto in quegli anni, pure dentro la Rai dove inizia a lavorare come giornalista. Ed è in Rai che diventa la prima corrispondente donna dall’estero, da Bruxelles.
La vita privata di Gianna Radiconcini è turbolenta. Ma riesce a farla diventare una battaglia pubblica. Il suo primo marito, con il quale ha due figli, lascia il tetto coniugale e va ad abitare con l’amante. Quando si innamora di un altro uomo è costretta a nascondersi, perché secondo la legge, non può tradire un marito che l’ha abbandonata. È il 1970, ancora non c’è il divorzio. Ma lei comunque non accetta una legge profondamente sbagliata. Ha un figlio col nuovo compagno e dà scandalo. Ma quello scandalo orgogliosamente e giustamente rivendicato apre la strada alla grande battaglia per il divorzio e alla più vasta opera culturale per la rivendicazione della parità di genere.

Le altre cinquantaquattro donne raccontate finora non coprono tutte le attività umane, ma iniziano a dare un affresco di un pezzo di storia davvero troppo poco indagato.
In attesa della terza serie, le cinquantacinque prime donne si possono sentire su Radio 1 e si trovano tutte su Rai Play.

Nella foto: Gianna Radiconcini, frame del video dell’intervista di Gad Lerner, La scelta. I partigiani raccontano, Rai 3