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Ballottaggio in Turchia: il 28 maggio si gioca una partita che va oltre i confini del Paese

Kemal Kılıçdaroğlu

Chi è Kemal Kılıçdaroğlu, lo sfidante dell’autocrate Erdoğan alla presidenza della Turchia, che va la ballottaggio il 28 maggio? Dal 2010 è il leader del Partito popolare Repubblicano (il partito di Atatürk) e candidato presidente sostenuto dallo Yesil Sol Parti, il partito rosso verde a forte presenza curda.

Oggi Kılıçdaroğlu avrebbe potuto essere già al lavoro per una svolta democratica da capo dello Stato e del governo. O comunque avrebbe potuto essere in vantaggio sul suo sfidante. Dico avrebbe potuto, perché il voto del 14 maggio scorso per le presidenziali ha visto di nuovo l‘affermazione della dittatura sostanziale creata da Erdoğan in questi anni. Un sistema di utilizzo del potere, del controllo del territorio e del voto che, di fatto, smentisce la retorica da “Paese normale” usata per l’accreditamento internazionale. Non si possono analizzare le elezioni turche senza inserire tra i parametri di valutazione i brogli eclatanti, le violenze, le intimidazioni avvenute prima e durante il voto (polizia ed esercito, indiscriminatamente, hanno sparato e lanciato lacrimogeni per le vie di Cizre nelle ore di scrutinio). Il contrario di ciò che Erdoğan cerca di narrare a livello internazionale. In alcuni collegi, video alla mano, le schede che davano in vantaggio la Coalizione sostenuta dal presidente Erdoğan sono state conteggiate più volte. In conferenza stampa, le opposizioni hanno dimostrato la differenza tra il risultato dei verbali dello scrutinio ai seggi e quello ufficiale. Nella sezione 1240 di Bismil, più di 200 voti per lo Yesil Sol Parti sono stati registrati in favore dell’MHP, partito alleato di Erdoğan. La prova elettorale non è stata né libera né trasparente. A dirlo è sia la missione dell’Osce (l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), che ha segnalato possibili irregolarità almeno nel 10% dei seggi; sia per la missione indipendente a cui ho partecipato insieme a centinaia di osservatori da tutta Europa.

Ho fatto parte, insieme al deputato di Alleanza Verdi e Sinistra Marco Grimaldi e all’attivista e collaboratore del gruppo alla Camera Luca Faenzi, della delegazione europea di osservatori indipendenti. L’invito è arrivato dal HDP, partito che tiene insieme le anime del movimento curdo con la sinistra socialista, ambientalista e femminista turca. Sul posto abbiamo potuto registrare il clima vissuto in Turchia dalle forze di opposizione, con in testa il partito rosso verde che raccoglie il protagonismo politico della comunità curda e l’eredità di Selahattin Demirtaş, leader dell’HDP e storico militante della sinistra e per i diritti umani, ora nelle carceri turche. Abbiamo potuto verificare sul campo il clima di controllo poliziesco diffuso e di intimidazione.

I ragazzi che abbiamo incontrato la sera del nostro arrivo erano entusiasti. Ci hanno raccontato di una campagna elettorale porta a porta, di una mobilitazione mai vista prima. Di un Erdoğan indebolito dalla gestione catastrofica dell’emergenza terremoto e dall’inflazione. Parole di speranza, ma anche di paura. Incrociano i nostri passi vicino all’albergo dove siamo ospitati e mostrano con orgoglio il simbolo del partito rosso verde. Ricambiamo il loro entusiasmo dicendo che siamo dentro la stessa speranza. E da lì, è un fiume in piena. Memet, uno dei ragazzi, ci dice: «Erdoğan è un dittatore, stavolta ce la facciamo!». Mostra i video delle mobilitazioni di piazza dei giorni precedenti. Donne e uomini di tutte le età, bambini che sventolano le bandiere del partito rosso verde e quelle con i colori del Kurdistan rosso giallo verde. Video con musiche, fuochi d’artificio e slogan. Memet vuole farsi una foto con noi. È un giovane militante ed è fiero di quanto fatto durante la campagna elettorale. Poi però ci ripensa. Ondeggiando tra la baldanza giovanile e il dubbio, la sua espressione cambia. Ci dice che è meglio non farlo. “Se la trovano a voi se la prendono con me. O con i miei genitori”. Ci chiede di non pubblicare nulla.

Sarà così nei giorni successivi. Sarà così anche nei pressi di alcuni seggi. Accanto alla normalità formale del voto, cresce la paura di molti che chiedono di non essere nominati o fotografati «per il timore di ritorsioni». Proprio in queste ore arriva la dichiarazione della deputata curda Ceylan Akça eletta in Parlamento: «le elezioni non sono state né giuste, né libere. Le persone hanno avuto paura a svolgere il ruolo di scrutatore, per la preoccupazione di perdere lavoro e opportunità». Dice che Kılıçdaroğlu avrà la possibilità di vincere se ci sarà la mobilitazione della società democratica turca. Ma anche di quella internazionale, Europa in testa. Sostiene che non ci sono solo i brogli, che la campagna elettorale si trucca anche con le intimidazioni prima del voto.

Da queste elezioni emerge il tentativo di Erdoğan di accreditarsi ancora di più come figura di riferimento tra due mondi, quello occidentale e quello asiatico-orientale. La sua ambizione vola verso un ruolo che vada oltre il tradizionale nazionalismo kemalista, per accedere a quello di superpotenza non solo locale (basti vedere il ruolo giocato nel conflitto Russia-Occidente o quello sul versante libico e nel Mediterraneo). Per arrivare a questo risultato deve annientare l’opposizione curda e democratica, deve farlo cercando, allo stesso tempo, di accreditarsi con un volto presentabile sul piano internazionale. Da qui il doppio livello: dittatura sostanziale, democrazia di facciata. Questo è quello che è successo prima e durante il voto. In questi giorni è uscita allo scoperto la doppiezza politica di chi, da una parte, prova ad annientare a colpi di carcere e di guerra permanente il popolo curdo e le opposizioni interne; ma dall’altra si presenta agli occhi internazionali come figura «disposta ad accettare l’esito del voto». In vista del ballottaggio bisognerà potenziare tutte le iniziative di verifica e pressione internazionale e chiamare gli organismi internazionali a presidiare con maggiore determinazione l’appuntamento del 28 maggio. Come ci dicono i nostri amici curdi e i rappresentanti dello Yasil Sol Parti: «combattere fino alla fine!». Perché è chiaro che nonostante i brogli e le violenze, il Sultano ha subìto una battuta d’arresto, senza riuscire a dare la spallata che si aspettava. Il 28 maggio si giocherà una partita che va oltre la Turchia, che riguarda il ruolo che un Paese cruciale per gli equilibri dell’area avrà sul versante europeo e sul Mediterraneo. Si gioca una partita che interessa i diritti civili e umani e il rapporto con la maggiore fonte di propulsione democratica dell’area: le forze politiche espressione del popolo curdo.

Aggiornamento:  Il nazionalista Ogan sosterrà l’autocrate Erdogan

Il silenzio che uccide

Letteralmente è il silenzio che ha ucciso le 43 persone a Genova sul ponte Morandi. Se dice il vero il più potente manager della famiglia Benetton, Gianni Mion, è accaduto che durante una riunione nel 2010 qualcuno abbia deliberatamente deciso di tacere: “Ci fu un incontro sul Ponte Morandi che io ricordo come memorabile. – dice Mion di fronte al pm Massimo Terrile – Una riunione di alto livello in cui si parlò di quel difetto originario di progettazione. I tecnici ci dissero che quel problema creava perplessità sul fatto che il ponte potesse ‘stare su’. Chiesi se qualche ente esterno ne avesse attestato la sicurezza, e il direttore generale Riccardo Mollo mi rispose che la sicurezza del ponte ‘ce la autocertificavamo’. Questa risposta sembrava assurda solo a me, perché constatavo invece che, a tutti gli altri partecipanti, compreso Castellucci, pareva tutto normale, sembrava che nessuno si preoccupasse o avesse dubbi di alcun genere. La cosa mi lasciò allibito e sconvolto, anzi più esattamente terrorizzato. Mi sentivo tutt’altro che tranquillo, non mi fidavo, non condividevo il metodo, pensavo bisognasse coinvolgere il ministero, e anche per questo nel 2013 decisi di lasciare l’incarico nel Cda di Atlantia”.

Una colpa che si trascina anche dopo il crollo: “Ricordo che telefonai a Castellucci, tre giorni dopo il crollo – spiega Mion al magistrato – chiedendogli esplicitamente di chiedere scusa, di stanziare una grossa cifra per i primi risarcimenti e dimettersi. Lui non fece niente del genere e, su questo, trovò l’appoggio iniziale della proprietà che, per me, non si era resa conto dell’entità della tragedia e degli effetti devastanti che produceva sull’immagine loro e delle loro imprese: la reputazione dei Benetton, mi confermò la sondaggista Ghisleri, era morta e sepolta”.

Le parole di Mion smontano in toto la tesi difensiva su cui puntano Autostrade per l’Italia e gli imputati per i 43 morti di Genova, a cominciare dall’ex amministratore delegato, Giovanni Castellucci. Autostrade ripete che il crollo del ponte sia dovuto a un vizio che definiscono “occulto”. Ora non resta che vedere cosa accadrà nel processo. A proposito del processo: secondo il pm, proseguendo con questo ritmo si dovrebbe finire a dicembre del 2025. A febbraio 2026 arriverebbero le prime prescrizioni.

Buon martedì.

Nella foto: frame di un video che riprende il crollo del ponte Morandi (LiguriaOggi redazione)

Quel libertino di Manzoni

Manzoni, timido giovane balbuziente, che intravede una via di riscatto personale e collettivo grazie al rapporto con compagni di studi, rivoluzionari d’alto bordo. Manzoni che detesta i preti e i loro abusi sui giovani abbandonati in collegio (dove anche lui fu spedito).
Manzoni outsider, nato da una relazione extraconiugale (con Verri) della ribelle Giulia Beccaria (figlia del più famoso Cesare autore Dei delitti e delle pene), donna assai affasciante che ben presto lo abbandona per andare a vivere a Parigi con un nuovo amore. Manzoni che al fondo non riesce a staccarsi dall’eredità culturale del padre bigotto, il conte Manzoni, che gli dette il suo nome, pur sapendo che non era suo figlio biologico. Manzoni che si innamora di una sedicenne protestante, Enrichetta Blondel, con cui stabilisce un rapporto simbiotico, pieno di contraddizioni. E molto altro ancora.
È un ritratto per molti versi inedito e assai sfaccettato quello che emerge dal libro di Eleonora Mazzoni, Il cuore è un guazzabuglio, pubblicato da Einaudi. E non poteva essere diversamente conoscendo la ricerca artistica e umana che anni fa ha portato l’autrice a scrivere Gli ipocriti (Chiarelettere) denunciando abusi e violenze psicologiche dentro Comunione e liberazione. Da allora Eleonora ha fatto molte realizzazioni, come attrice, scrittrice, di recente anche come direttrice del festival forlivese dedicato a un altro personaggio storico decisamente fuori dagli schemi come Caterina Sforza.
Dopo l’anteprima al festival della fantasia di Ferrara, Eleonora Mazzoni ha presentato il suo nuovo libro il 22 maggio al Teatro Manzoni di Roma (con Filippo La Porta e Paolo Di Paolo) nell’anniversario dei centocinquant’anni della morte di Manzoni. Le abbiamo rivolto qualche domanda.

Manzoni un «rivoluzionario passato alla storia come un reazionario», denunciava già Carlo Dossi. Eleonora Mazzoni, il discorso agiografico su Manzoni ne ha alterato la memoria?

La discussa conversione di Manzoni, su cui sono stati spesi fiumi di parole, dimenticando che lui avesse optato per la sua proverbiale riservatezza, ha presto generato un’immagine di bigotto baciapile. Mi ha sempre colpito il commento di uno dei primi biografi dello scrittore: “i preti furono solleciti a levarne soverchio romore e a trarne troppo grande profitto”.

Quanto sono responsabili certi programmi scolastici nel proporre un ritratto polveroso, tout court conservatore, dell’autore dei Promessi sposi?

I promessi sposi, quando uscirono nel 1827, ebbero un successo spropositato, popolare e trasversale. Lo leggevano tutti quelli in grado di leggere, “dalla portinaia all’astronomo”, come diceva sempre Carlo Dossi. Venne tradotto subito in Francia e in Germania, dove fu recensito da Goethe. La stessa cosa successe nel 1840-42 con l’edizione definitiva. Purtroppo un romanzo così vitale subì in seguito uno strano destino: si istituzionalizzò.

A quando risale questo obbligo scolastico”punitivo”?

Ai primi del Novecento e aveva la funzione educativa di guidare i ragazzi verso i buoni sentimenti, poi rinsaldata dalla riforma Gentile e, a breve giro, anche dall’introduzione nelle scuole dell’insegnamento della religione cattolica. Manzoni si proponeva l’utile per scopo, il vero per oggetto e l’interessante per mezzo, non aveva certo l’obiettivo di educare ragazzi. Ai buoni sentimenti, poi. Per potere assolvere questa funzione, quindi, l’opera fu mutilata dell’inquietudine che conteneva, a lungo le sue parti più pericolose, come i capitoli dedicati a Gertrude o certi brani relativi al troppo “difettoso” Don Abbondio, furono ignorate.

Non fu considerata abbastanza la sua Storia della colonna infame che denuncia l’ingiustizia durante la peste di Milano del 1630? 

La Storia della colonna infame è il racconto duro, atroce, drammatico di un’ingiustizia della giustizia, nell’edizione del 1827 era ancora dentro alla carne del romanzo. Diventò in quella definitiva un’opera a se stante, che però rappresentava il finale ideale de I promessi sposi e l’antidoto naturale a ogni tentazione di interpretazione idilliaca. Bene. Quel processo, “capolavoro d’autorità, di superstizione e di bestialità”, cadde nell’oblio più assoluto. Dunque una lettura imposta – di per sé capace di trasformare un piacere in piccola o grande avversione – perdipiù edulcorata: un cocktail veramente letale sia per il romanzo che per il suo autore.

Il suo primo incontro con le opere di Manzoni è avvenuto fuori dall’obbligo scolastico. Ha giovato che fosse una libera scelta piluccando da sola nella biblioteca di famiglia. Cosa le ha fatto scattare il pensiero “Questo scrittore capisce gli esseri umani”?

Sì, e sono molto grata alla mia curiosità giovanile! Sicuramente il personaggio in cui mi colpì allora, anche per una questione anagrafica, fu la monaca di Monza. Manzoni scava nella psicologia di quella bambina e adolescente, tartassata dalla violenza che compiono su di lei – in maniera subdola e sottile, mai manifesta – il padre e tutta la società patriarcale, con una tale immediatezza di particolari e sfumature. Si avventura nelle pieghe della sua mente, dentro alle sua paure, i continui rimandi e le incapacità di opporsi, poi, una volta avvenuto l’abuso, affonda nei rimpianti e nel risentimento. Ma ogni personaggio de I promessi sposi è costruito a tutto tondo, quasi a comporre un altro romanzo all’interno del romanzo stesso, con un punto di vista preciso e una voce narrativa specifica, che crea la polifonia e la varietà di stili presenti nell’opera. E ogni personaggio viene presentato come un caso di coscienza, che ancora oggi ha molto da dirci.

Mettere insieme biografia e opera è un modo non per fare aneddotica ma al contrario per andare più in profondità. Come è nata questa esigenza e questa ricerca?

Dopo essere rimasta folgorata a neppure dodici anni da I promessi sposi e dopo averli riletti svariate volte in età diverse, sempre continuando ad amarli, ho avuto voglia di conoscere di più l’autore. Anche qui, mi sono imbattuta, a parte poche eccezioni, in una gran quantità di libri pedanti e noiosi. Fedele al consiglio di Calvino di preferire la «lettura diretta dei testi originali, scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni», sono andata alla fonte e alle tantissime lettere di Manzoni, a cui ho aggiunto anche quelle della madre, delle mogli, figli, parenti e amici. Pur sapendo che gli epistolari, soprattutto a quei tempi, seguivano una grammatica peculiare e non dicevano la verità tout court, mi sono messa in ascolto profondo dei pensieri e delle emozioni, seguendo quella preziosa quotidianità che si capta qua e là. Quando poi sono tornata a I promessi sposi, ho notato quanto siano impregnati di traumi, ostacoli, esperienze sue personali, oltre che di luoghi, paesaggi, sapori e odori. E questo mi ha permesso una lettura ancora più accurata.

Nel libro spicca Giulia Beccaria, madre di Manzoni. Fu costretta alle nozze con l’anziano conte Manzoni da suo padre, il celebre Cesare Beccaria, così poté continuare la relazione con Verri, approfittando giustamente dell’ipocrisia dell’epoca. Dopo la nascita di Alessandro scappò, ancora una volta per amore, rifugiandosi nei salotti illuministi di Parigi. Una figura decisamente insolita, quella di Giulia. A suo modo cercò di ribellarsi al patriarcato e a un padre che, per quanto avesse scritto Dei delitti e delle pene, forse non era così affettivo e aperto ai diritti delle donne?

Giulia era veramente anti convenzionale, non a caso fu sempre molto chiacchierata dalla società milanese. Prima di moglie e madre, sentiva istintivamente di essere una donna. Ebbe il coraggio di chiedere una separazione dal marito, che non sopportava più, senza accettare l’ipocrisia dei cavalier serventi o dei cicisbei e fregandosene dei pettegolezzi. E fece causa a suo padre per avere l’eredità, che le aveva lasciato sua madre e lui le aveva egoisticamente sottratto. Giulia intuiva che, per essere libera, a una donna occorreva non solo una buona formazione culturale ma anche un’indipendenza economica, quella famosa rendita di 500 sterline l’anno rivendicata un secolo e mezzo dopo da Virginia Woolf.

In questo alveo si iscrive l’adorazione che Beccaria nutriva per Rousseau? Beccaria «illuminato solo a parole»?

È interessante vedere che nella vita di Cesare Beccaria, geniale intellettuale, ma ombroso e anaffettivo, agivano spinte diverse. Questo si nota anche in altre menti progressiste: se da una parte a livello teorico sentivano, ad esempio, il bisogno di definire un altro tipo di femminilità più moderna, dall’altra nella pratica rimasero a lungo intrappolati in posizioni più tradizionali e tranquillizzanti per il genere maschile. Nel rapporto con la figlia femmina (un maschio Beccaria ce lo avrà dalla seconda moglie), questo è ancora più evidente: l’illuminato Beccaria rinchiuse Giulia in un collegio di suore agostiniane, paragonato da lei, esattamente come faranno anche Manzoni e la Monaca di Monza, a un carcere, permettendole così solo una cultura scarsa e approssimativa, le combinò un matrimonio per lei odioso, non le cedette la legittima eredità materna.

Torniamo a Manzoni: Da un lato si taglia il codino, si ribella ai preti che abusano degli studenti, legge Voltaire, sceglie amicizie elettive per sottrarsi a rapporti di sangue indifferenti e anaffettivi, rifiuta la religione. Dall’altra però finisce nel gorgo della ritualità (pretendendo il battesimo cattolico dei figli), finendo folgorato sulla via di Damasco dopo una crisi di panico. Un bel guazzabuglio di contraddizioni?

Sì, proprio un bel guazzabuglio. Ci tenevo innanzitutto a rispolverare l’adolescenza e la giovinezza di Manzoni (Manzoni, tra l’altro, non viene mai percepito giovane!), periodo irrequieto, trasgressivo, giacobino e anticlericale senza mezzi termini, con quei dieci anni passati in tristi collegi cattolici, tutti da lui detestati, e con quel suo successivo soggiorno francese, tra salotti mondani impegnati e anticonformisti. Manzoni a ventun anni, mentre era già a Parigi, di fronte al compagno di collegio Luigi Arese, gravemente ammalato e costantemente assediato dai preti, è uno che disse al comune amico Pagani di voler rimanere lontano dall’Italia, «un paese, in cui non si può vivere né morire come si vuole. Io preferisco l’indifferenza naturale dei Francesi che vi lasciano andare pei fatti vostri, allo zelo crudele dei nostri che s’impadroniscono di voi, che vogliono prendersi cura della vostra anima, che vogliono cacciarvi in corpo la loro maniera di pensare». Sono parole forti. Ad un certo punto sì, è indubbio che ci sia stato in Manzoni un cambio di rotta, il recupero di una fede in dio e il bisogno di un centro saldo (anche se Carlo Dossi, suo attento conoscitore, sosteneva che «Manzoni – come ogni grande umorista – è scettico» e «dissimula il non credere»). Comunque sta di fatto che la sua formazione continuò a circolare nel suo sangue e nel suo cervello anche dopo. Così come una certa dose di anticlericalismo – basta leggere alcune lettere a Padre Tosi. Manzoni, lievemente eretico per la vicinanza all’ambiente giansenista, non condivise mai il potere temporale della Chiesa. E il suo pensiero rimase, anche indipendente e originale.

Che idea si è fatta del suo rapporto con Enrichetta, docile, innamorata, sedicenne, molto religiosa, con cui lui instaura un rapporto simbiotico? Enrichetta sua musa, sua moglie e sua ombra… tutto questo ci aiuta a poter meglio comprendere il personaggio di Lucia? 

Mentre ho amato follemente Giulia Beccaria (e Gertrude), di primo acchito Enrichetta (e Lucia) mi sono apparse donne di altri tempi, distanti dalla nostra sensibilità contemporanea. In effetti per tanti versi Enrichetta (e Lucia) restano donne di quei tempi, che ci raccontano quei tempi e le donne di quei tempi, a cui era ancora quasi totalmente sottratto il diritto di parola e la possibilità di inserirsi all’interno di una dimensione pubblica, private di quel “potere” inteso primariamente come verbo: poter essere ascoltate, poter essere prese in considerazione, poter incidere nel mondo. Guardandole però a un certo punto con occhio più attento, ho riconosciuto sia in Enrichetta sia in Lucia un ruolo chiave e una forza “guerriera”, per nulla passiva, che subito non avevo percepito. Anche qui ho dato credito al commento di uno dei primi biografi di Manzoni, che parlava di Enrichetta, oltre che come musa, anche come prima lettrice dei testi del marito, mentre noi tendiamo a immaginare in quel ruolo il solito Fauriel o l’amico Ermes Visconti. Allora la questione diventa più complessa, considerando, tra l’altro, che nell’Introduzione al Fermo e Lucia lo scrittore dichiara espressamente di voler rivolgersi all’universo femminile e che affida a una donna la conclusione del suo romanzo.

 

 

Omicidio Attanasio: stavano scherzando

Diceva Giorgia Meloni lo scorso febbraio: «Ricordare Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci non è solo un dovere istituzionale, ma un atto di giustizia e di amore. Verso le loro famiglie (…) che possono contare sul sostegno delle istituzioni per conoscere la verità su quei tragici fatti. Verso la nostra Nazione, che con orgoglio può rendere omaggio al sacrificio di due servitori dello Stato…». Stava scherzando.

Il prossimo 25 maggio si terrà l’udienza preliminare del procedimento italiano. Palazzo Chigi ha qualche giorno per costituirsi parte civile ma ancora il governo non lo ha deciso. A pesare sul procedimento per la morte di Attanasio potrebbe essere una questione “diplomatica” che riguarda l’immunità (o meno) dei due dipendenti del Pam. E il Pam è un’agenzia dell’Onu, il che vuol dire anche gli alleati americani. Così il sospetto è che Palazzo Chigi stia prendendo tempo per non turbare le sensibilità diplomatiche.

Gli indagati infatti sono due dipendenti del Pam in servizio nella Repubblica democratica del Congo, per i quali la Procura di Roma a novembre scorso ha chiesto il rinvio a giudizio. Sono accusati di non aver predisposto “per negligenza, imprudenza e imperizia, ogni cautela idonea a tutelare l’integrità fisica dei partecipanti alla missione” di quel 22 febbraio 2021. Quando la Procura ha iscritto i due funzionari è stato sollevato un problema di immunità, che però il pm Sergio Colaiocco ha escluso. Sarà il giudice a decidere sull’immunità. «Il governo è ancora in tempo per costituirsi parte civile, non tradisca due servitori dello Stato uccisi mentre erano in sevizio e svolgevano con onore il loro lavoro» ha detto ieri Domenica Benedetto, la fidanzata di Vittorio Iacovacci, il carabiniere che faceva da scorta all’ambasciatore italiano.

Anche il padre del diplomatico italiano ha pochi dubbi: «Sono più importanti le relazioni con le Nazioni Unite o l’onore di un Paese che deve pretendere verità e giustizia per i suoi caduti e per la loro memoria? Lo Stato deve far vedere da che parte sta», dice in un’intervista al Fatto Quotidiano. A proposito di avvocatura di Stato vale la pena ricordare che negli ultimi mesi è già stata revocata la costituzione di parte civile nei processi a Berlusconi (a Milano e a Bari), nel caso della strage di Piazza della Loggia invece la richiesta è arrivata in ritardo ed è stata respinta dal giudice. Sul procedimento a carico dei torturatori di Giulio Regeni Giorgia Meloni e il ministro Tajani, convocati dal gup, non si sono presentati, causa “segretezza” dei colloqui con il presidente egiziano Al-Sisi.

Buon lunedì.

Nella foto: l’ambasciatore Luca Attanasio, frame di un video di Unica Tv

La ministra Roccella contestata al Salone. Il punto è l’identità delle donne, ancora negata in Italia

La ministra della Famiglia e della natalità Eugenia Roccella contestata al Salone del libro. Quale è la lesa maestà? Fino a prova contraria siamo in una Repubblica democratica e il dissenso, la dialettica di idee è, non solo consentita, ma auspicabile, come è scritto nella nostra Costituzione antifascista.

La segretaria del Pd Elly Schlein ha commentato: “In una democrazia si deve mettere in conto che ci sia il dissenso”. E ha aggiunto: “è surreale il problema che ha questo governo con ogni forma di dissenso”.

Ma esponenti del centrodestra e di governo non ci stanno. Durante la presentazione del libro di Roccella (Una famiglia radicale, edito da Rubettino) la deputata di Fratelli d’Italia Eugenia Montaruli ha apostrofato il direttore del Salone Nicola Lagioia, urlando “vergogna, con tutti i soldi che prendi”. Ricordiamo gentilmente a Mantaruli quanto la riguarda.

Intanto il direttore del Salone Nicola Lagioia su facebook racconta così l’episodio:
«Sono stato chiamato a intervenire sul palco. Me lo hanno chiesto alcuni funzionari della Regione. Quello che ho detto è molto semplice. Ho detto che in democrazia le contestazioni sono legittime purché non violente. E ho poi invitato chi contestava a dialogare con il ministro, muovendole in modo anche duro critiche a cui avrebbe potuto rispondere. Il gioco democratico tra cittadini e potere è fatto anche di dure critiche. Mi sembrava che i contestatori non accettassero questo tipo di invito (anche qui: chi contesta, purché in modo non violento, decide come contestare). A quel punto, colpo di scena: una deputata di Fratelli d’Italia, Augusta Montaruli (dunque stiamo parlando di istituzioni), la quale evidentemente pretendeva che dicessi quello che voleva lei, ha cominciato ad aggredirmi verbalmente con una furia e una violenza verbale abbastanza sconcertanti: “Vergogna! vergogna!” A quel punto, pieno di imbarazzo per lei, sono sceso da un palco dove ho quasi dovuto evitare che la deputata mi si scagliasse addosso».

La diatriba è stata raccontata da molti giornali, ma quel che non emerge è il punto cardine della discussione, ovvero l’attacco all’identità che le donne stanno subendo in Italia da parte degli esponenti della maggioranza, attacco alla loro libera scelta di fare figli o meno, di realizzarsi a tutto campo nella società e nella loro dimensione interiore e vita privata.

Un attacco che parte dalle affermazioni della premier che, fin dal suo libro Io sono Giorgia e nelle politiche conseguenti, “riduce” l’identità della donna all’ossequio di “Dio, patria e famiglia”, salvo riservare per sé altro destino, da premier che, peraltro, chiede di essere appellata al maschile, e che non fa alcuna battaglia per una reale emancipazione femminile in questo Paese. Come se in Italia i livelli di occupazione femminile non fossero fra i più bassi in Europa, e le giovani donne di talento, scienziate, letterate, economiste ecc. non fossero costrette a emigrare, specie se sono del Sud, come ben documentano le ricerche della Cgil.

Ma non è, ripetiamo, “solo” una questione di negazione della realizzazione sociale delle donne. In Italia, come su Left denunciamo da anni. E’ violentissima la negazione dell’identità umana delle donne, che a 45 anni dalla approvazione della legge 194 (che ricorrono proprio oggi) ancora non possono decidere liberamente se e quando diventare madri, a causa dell’altissimo numero di ginecologi obiettori di coscienza.

Confondendo maternità solidale (per altro proibita in Italia) con la fecondazione eterologa, perfettamente legale in Italia dopo anni di battaglie contro l’antiscientifica Legge 40, di cui con Left ci siamo fatti carico, esponenti del governo si lanciano contro ‘Wish for a baby’, l’evento sulla fertilità che si tiene oggi a Milano.

La deputata di Fratelli d’Italia Grazia Di Maggio lo ha definito una “fiera per bambini preconfezionati”. Ma di che parliamo? Se la questione per il governo è la denatalità, perché osteggia la fecondazione eterologa (che ripeto, è legale in Italia  anche grazie alle nostre battaglie con L’Associazione Luca Coscioni)?  Perché la destra non fa nulla per facilitare le adozioni che oggi in Italia sono impossibili per chiunque non abbia redditi stellari?

La magia che nasce dalle radici del blues

Un avventuroso viaggio nella cultura afro-americana. Protagonisti sono i Roots Magic, un collettivo di musicisti Jazz di stanza a Roma, che negli ultimi anni ha sviluppato un proprio preciso percorso artistico, profondamente radicato nell’eredità della musica afro-americana, in una fusione coerente tra le radici che affondano nel blues ancestrale più antico e rurale (il blues del Delta di Charley Patton, Skip James e Blind Willie Johnson)  e si sviluppano lungo le coordinate di una “tradizione di avanguardia” a cavallo tra sperimentazione e free jazz, che parte da lontano, dagli anni Sessanta e Settanta lungo il percorso tracciato da figure storiche come quelle di Eric Dolphy e Ornette Coleman, Sun Ra, l’Art Ensemble of Chicago, Julius Hemphill, la cui influenza si estende fino ai giorni nostri.
In occasione della pubblicazione del loro quarto album – Old Long Road (etichetta Clean Feed) – abbiamo incontrato Alberto Popolla, clarinettista e polistrumentista, e Fabrizio Spera, batterista, membri fondatori della band sin dall’ormai lontano 2014.

La formula costitutiva della band, ovvero quella di mescolare il blues rurale delle origini con il jazz contemporaneo, sembra proseguire in questo nuovo disco. Quali sono le novità in questo nuovo lavoro?

La prima novità rispetto al passato nasce da un nuovo approccio compositivo – racconta Fabrizio Spera – mentre nei tre dischi precedenti la maggior parte dei brani era costituita da rivisitazioni o riscritture di altri compositori, in questo nuovo album abbiamo finalmente raggiunto un nuovo equilibrio tra i pezzi originali, a firma collettiva dell’intero gruppo, e le reinterpretazioni di brani altrui.
In particolare – sottolinea Alberto Popolla – la linea di continuità con i lavori precedenti riguarda il nostro approccio complessivo non solo alla musica, ma a tutta la storia politica, sociale e culturale del popolo afro-americano in tutte le sue innumerevoli sfaccettature.
Infatti già il precedente album (Take a Root Among The Stars del 2020) riportava uno specifico omaggio alla scrittrice Octavia E. Butler, e anche in questo nuovo lavoro ci sono diversi brani originali dedicati a personalità letterarie come Tony Morrison, Z.Z, Pacher e Benjamin Zephaniah, giovane poeta, scrittore ed attivista britannico di origini giamaicane.
Altri brani originali hanno invece riferimenti più specificamente, ma non esclusivamente, musicali, come “Blue Lines” dedicato alla figura fondamentale di Muhal Richard Abrahams, che oltre che musicista, è stato operatore culturale e sociale, vero faro e catalizzatore di tutta la scena musicale dell’avanguardia Jazz a Chicago a partire dagli anni Sessanta e Settanta come fondatore dell’associazione Aacm e mentore dell’Art ensemble of Chicago. “Amber” è invece dedicato al violoncellista Abdul Wadud, esponente storico delle avanguardie jazzistiche.

Un’operazione che sottolinea ancora una volta come il legame con le radici del blues resta il “centro di gravità permanente” da cui partire per il futuro.

Come detto – prosegue Fabrizio –noi facciamo continuo riferimento al blues in senso lato, ovvero a tutta la storia della cultura afro-americana, e ripercorrere e riprendere i fili di quella storia resta per noi un’esigenza fondamentale. Inoltre – prosegue Alberto – abbiamo sentito l’esigenza di aprire finalmente una porta verso l’universo femminile, andando a recuperare la figura della grande Bessie Smith – “l’Imperatrice del blues” – con il brano “Long Old Road”, che dà il titolo all’album, di cui è autrice oltre che straordinaria interprete. Si tratta quindi di un passaggio per noi assai significativo, in quanto per la prima volta inseriamo in repertorio un brano che fa riferimento ad una fase del blues jazzistico urbano già più evoluto rispetto al blues rurale cui abbiamo sempre fatto finora riferimento.

Il gruppo, nato come quartetto, con i fondatori – Alberto Popolla ai clarinetti, Enrico De Fabritiis ai sassofoni, Gianfranco Tedeschi contrabbasso e Fabrizio Spera alla batteria – nel corso degli ultimi dischi si è spesso allargato a musicisti ospiti, ed ora si presenta ormai stabilmente come un sestetto, con Eugenio Colombo al sax soprano e flauto e Francesco Lo Cascio al vibrafono. Come è avvenuto questo cambiamento?

L’interesse e l’apertura all’inserimento di musicisti ospiti – ricorda Fabrizio – sono sempre stati presenti nei nostri dischi, anche se in maniera occasionale. In particolare, nel disco precedente, nel brano di apertura (“Frankiphone Blues”) è avvenuto l’inserimento di Eugenio Colombo e Francesco Lo Cascio.
Va sottolineato – aggiunge Alberto – che la presenza di due nuove voci ha creato un nuovo suono complessivo del gruppo, sicuramente più aperto e con una line-up dei fiati più ampia e variegata, grazie alla presenza di Eugenio, figura storica dell’avanguardia jazzistica in Europa, che con il suo sax soprano e flauto ha fornito nuovi colori all’ensemble.
L’altra grossa novità è, per la prima volta, l’inserimento di uno strumento armonico che sorregge le linee melodiche, come il vibrafono di Francesco Lo Cascio.
La presenza di flauto e vibrafono inoltre crea un giusto mix con il suono più secco e ruvido del quartetto originale; pertanto, questa nuova varietà timbrica è in grado di addolcire il suono del gruppo, aprendo nuove strade e nuove prospettive alla nostra musica.
Inoltre l’idea del sestetto è anche legata ad un evento – il Festival di Lisbona dell’agosto 2021 – per il quale l’organizzazione del festival aveva specificatamente richiesto questa formazione, e quindi tutto il lavoro fatto insieme per poter amalgamare il gruppo ha contribuito a creare quella sintonia umana, oltre che artistica, che ha trasformato definitivamente il sestetto in un gruppo ormai stabile.

L’Africa, come elemento ritmico vitale, resta una delle fondamentali fonti di ispirazione nella vostra musica, come avete approfondito la conoscenza delle radici africane?

In realtà – chiarisce Fabrizio – tutti noi ci siamo avvicinati alla musica di origine africana attraverso il jazz ed in generale attraverso l’approccio all’Africa che ha avuto tutta la tradizione afro-americana. Come sappiamo i jazzisti nero-americani, fino agli anni Cinquanta-Sessanta, hanno descritto e cantato un’Africa mai vista veramente da vicino, anzi fino agli anni Cinquanta hanno vagheggiato in maniera spesso fantasiosa un’Africa immaginaria e di fatto irreale, a volte addirittura un’Africa “da cartolina”, anche se con esiti artistici altissimi, basti pensare al leggendario “jungle sound” dell’orchestra di Duke Ellington, che a ben vedere di autenticamente africano aveva solo un appeal esotico ed estetizzante. Solo a partire dalla fine degli anni Sessanta – aggiunge Alberto – quando i jazzisti neri più impegnati tentarono una sorta di “ritorno all’Africa”, si resero conto che il divario culturale creatosi nell’arco di tre secoli, dai tempi della schiavitù ad oggi, aveva creato una distanza ormai difficilmente colmabile.

C’è un rinnovato interesse nell’evoluzione del jazz di oggi, dovuto soprattutto ad una iniezione di vitalità e di riscoperta delle radici etniche che sta caratterizzando ad esempio la nuova scena caraibico – inglese con artisti come Shabaka Huthcings o Anthony Joseph. Cosa pensate di queste nuove tendenze?

Anche se il paragone può essere corretto, in verità – precisa Fabrizio – noi ci siamo sempre mossi e continuiamo a muoverci autonomamente in maniera istintiva e spontanea, senza sentirci per questo parte di questo o quel movimento.
Non solo in Inghilterra – precisa Alberto – ma anche in America c’è un ampio movimento di riscoperta del “groove” e dell’approccio ritmico “africano”, e in questo senso potremmo definirci un po’ antesignani di questa tendenza che noi ormai perseguiamo dal 2014.
Inoltre – prosegue Alberto – va sottolineato che il blues rurale cui noi abbiamo fatto riferimento, storicamente è stato riscoperto a posteriori essenzialmente dai musicisti rock, mentre, salvo rarissime eccezioni, non è stato mai preso in considerazione in ambito jazzistico, probabilmente per la sua semplicità armonica, che i musicisti più “colti” giudicavano troppo “povera” per poter fornire spunti per uno sviluppo più complesso e sofisticato. In questo momento, senza falsa modestia, noi siamo gli unici ad aver avuto questo approccio diretto con le radici del blues del Delta.

Al di là del disco, la vostra musica è caratterizzata da un forte e coinvolgente impatto sonoro dal vivo.

È sicuramente vero – conclude Fabrizio – la nostra musica pur facendo riferimento a territori vicini al free jazz, mantiene sempre una cornice ritmico-armonica ben definita ed una certa “cantabilità” nell’esposizione dei temi. Ne abbiamo avuto conferma diretta un paio di anni fa al Busker Festival di Palermo, quando, sulla piazza del mercato della Vucciria, siamo riusciti a coinvolgere ed avere un riscontro entusiastico e del tutto inaspettato dal folto pubblico presente, un pubblico sicuramente al di fuori della cerchia dei classici appassionati di jazz.

Per saperne di più: www.roots-magic.com

La crisi e l’ineluttabilità del cambiamento

Pensare alla possibilità di una crisi evolutiva per gli esseri umani, a partire dalla parola greca Krisis e il suo significato di distinzione, giudizio, scelta. E’ questo il filo di ricerca della psichiatra e psicoterapeuta Chimarella Lazzeri nel libro “La crisi essere e divenire dell’uomo. Ineluttabilità del cambiamento” (L’Asino d’oro edizioni). Il volume, che viene presentato sabato 20 maggio al Salone del libro di Torino è il primo titolo di una nuova serie della collana Bìos Psyché, intitolata ‘Percorsi della conoscenza con Massimo Fagioli’, che raccoglie contributi scientifici d’avanguardia in ambito medico psichiatrico. Ecco un estratto dalla prefazione firmata da Ester Stocco, psichiatra e psicoterapeuta

Difficile raccontare, anche solo per questo 1989-1990, i tanti rivoli che partivano, si allargavano e si ricongiungevano al fiume della psicoterapia che Massimo Fagioli conduceva nei seminari, ma per avvicinarci alla tesi di laurea che segue e che l’editore ripropone in questa nuova collana, va detto che l’anno accademico 1989-1990 era per una giovane studentessa, una “compagna del seminario”, Chimarella Lazzeri, l’ultimo anno della Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università “La Sapienza”, perché proprio in quel novembre del 1990 si laureava discutendo la tesi ‘La crisi. Essere e divenire dell’uomo. Ineluttabilità del cambiamento’. Proporla oggi a un pubblico più vasto è uno stimolo a riprendere e approfondire la ricerca sulla specificità della realtà umana, sulla sua origine e sulle cause della malattia mentale. Oggi, a distanza di trent’anni, questo volume ha il significato di confermare, una volta di più, la sostanziale unicità della ricerca e del suo stesso oggetto: l’uomo e la sua realtà più profonda. Nel rifiuto netto dell’impotenza della psicoanalisi classica, la tesi apre all’idea-speranza che la crisi, anche la più destrutturante, se affrontata in un rapporto terapeutico, può essere evolutiva. La tesi di Chimarella è complessa, il linguaggio è colto, scientifico e allo stesso tempo piacevole come quello di una poesia; vi si affrontano i temi peculiari della ricerca di Massimo Fagioli con citazioni dai suoi primi quattro libri, articoli scientifici – in particolare l’articolo sulla percezione delirante del 1962 –, interviste, lavori scritti in varie occasioni pubbliche e le sue continue elaborazioni nei seminari di Analisi collettiva. Il testo si avvale infatti di un apparato bibliografico che lo completa accreditandolo come raccolta organica, pur se non esaustiva, dei molti riferimenti culturali che il terapeuta dell’Analisi collettiva proponeva nei seminari in quegli ultimi anni Ottanta e che per tutti noi erano, a un tempo, frustrazione della passività-sottomissione a un sapere precostituito e stimolo a sviluppare una ricerca attiva, critica e dialettica. Il lavoro è prezioso in quanto costituisce una formulazione sistematica dell’approccio storico-culturale che ha caratterizzato la ricerca psichiatrica e prima ancora umana di Massimo Fagioli, ricerca che si dipana nel tema dell’irrazionale come elemento distintivo della specie umana e possibilità di conoscenza e sviluppo. In tutto il testo diventa crescente un ritmo, una vaga suggestione che richiama la seconda Premessa al terzo libro di Fagioli uscita pochi mesi prima. Forse il passaggio da Ulisse a Edipo, dal mito alla tragedia, ricorda il movimento delle ‘figure sorridenti’: «Le figure sorridenti venivano ad ascoltare …, venivano a violentare, venivano a portare l’inconscio alla coscienza…. Ultima difesa per evitare che la coscienza diventasse inconscio, nell’interpretazione delle immagini trovavano la terapia, in una conoscenza cosciente della realtà inconscia». Il movimento di un assenso inconscio che, appena emerso, viene immediatamente negato per l’angoscia di una crisi, riecheggia il movimento dell’uomo che cerca la sua origine, delle crisi a cui va incontro, della violenza alla quale si oppone: «Le figure sorridenti liberavano la Sfinge invisibile per fermare l’analista che loro pensavano essere causa dell’angoscia. … Le figure sorridenti se ne andavano, lasciandomi solo, sfidandomi a dimenticare l’assenso». La tesi si chiude con l’affermazione di una ineluttabile costante umana; l’uomo riesce ad accettare la realtà inconscia nel momento in cui riesce ad accettare il diverso da sé: «La verità umana è il rapporto tra esseri umani diversi»…

…La passività dello psichiatra-Edipo nei confronti della ragione può essere superata solo da colui che, liberatosi dalla storia antica, può e deve scoprire il colpevole nascosto nell’irrazionale: la pulsione di annullamento fatta in occasione della morte del padre, la carenza di vitalità e resistenza che determina questa pulsione. La passionalità, nemico temuto dall’uomo greco, può essere anche nemico temuto dallo psichiatra, può travolgere la sua identità professionale se non riesce a distinguere una passionalità caotica e animalesca dalla distruttività lucida, se non rifiuta il giudizio morale sugli ‘istinti’. Il testo svolge la critica a Freud e alle sue falsità sulla realtà umana e ricorda che nella storia antica la passionalità condannata e negata ha reso la ragione anaffettiva e violenta. Rifiutare questa cultura razionale e violenta, che avrebbe scoperto la verità della realtà umana, è l’unica possibilità per uno psicoterapeuta di comprendere il mondo di fantasmi, movimento e immagini del paziente. Abbandonare l’idea di un inconscio naturalmente perverso può farlo andare in crisi per la sua stessa passionalità, per la sensibilità che consente di sentire senza vedere… come Tiresia? Il sentire e l’elaborazione controtransferenziale sono per lo psicoterapeuta possibilità-capacità di rapporto con il mondo di pulsioni, immagini, movimento del paziente, sono una ricerca sull’inconscio che non sia solo ripetizione […] La frustrazione è la realtà del terapeuta che costringe il paziente a muoversi, a non adagiarsi sulla guarigione dell’io razionale, sull’impossibilità di cambiamento. La frustrazione ora è data dalla realtà stessa del terapeuta che si mostra e che mette in crisi l’alleanza amichevole stabilita fra paziente e terapeuta. E ancora una volta il terapeuta deve avere il coraggio di affrontare la propria crisi per aver provocato la crisi nel paziente, per l’incertezza, il dubbio sulle possibilità di fantasia e vitalità del paziente, ma anche per il desiderio che può aver suscitato nel paziente. «L’infezione nascosta in un desiderio che non è creatività nel rapporto interumano sfida lo psichiatra a frustrare senza distruggere quanto è sano, bello, risultato in guarigione di un lavoro terapeutico: il rapporto di desiderio»…

 

L’appuntamento al Salone del libro di Torino:

Di lotta nel governo

Tira una brutta aria tra Fratelli d’Italia e Lega. Tra le compagini di governo si discute dell’autonomia differenziata che anche in questo giro rimarrà una bandierina promessa e mai risolta. I leghisti non nascondono il sospetto che la pubblicazione su LinkedIn del dossier che stroncava il decreto Calderoli sia stata un’idea del presidente del Senato Ignazio La Russa. Un segnale politico chiaro: l’autonomia differenziata si discute, forse, dopo le elezioni europee. Rimandarne la discussione però è solo un modo per allungarne l’agonia. Il partito di Giorgia Meloni sa bene come la questione sia un campo minato dal punto di vista elettorale e a differenza dei leghisti il tema non è una sua priorità. Il governatore del Veneto Luca Zaia alla Stampa è arrivato addirittura a spiegare che senza autonomia “viene meno la maggioranza”.

Ieri è accaduto altro. In audizione alla Camera sulla delega fiscale il capo del Servizio assistenza e consulenza fiscale della Banca d’Italia Giacomo Ricotti ha detto che la flat tax “è poco realistica in un Paese con ampio welfare” aggiungendo che gli studi “concordano nel dire che ha effetti negativi su redistribuzione e diseguaglianza”. Poi ha concluso dicendo che le coperture della delega fiscale latitano e la norma “fa perdere gettito”.

Nella Lega fremono. La strategia concordata tra i vertici del partito con l’accordo di Matteo Salvini è quella di raccontare Giorgia Meloni e il suo partito come “ostaggi” dei poteri romani, incapaci di affrontare le riforme che servono. Nel centrodestra si proverà a usurarsi tra alleati. “Qui rischia davvero di venire giù tutto se non veniamo riconosciuti nelle nostre battaglie politiche”, sibila un senatore leghista. Giorgia Meloni ripete ai suoi di non preoccuparsi, convinta che alla fine la gioia del potere non scalfirà la tenuta del governo. Ma la Lega senza flat tax e senza autonomia differenziata come potrà ripresentarsi ai suoi elettori? Male, molto male, e Salvini non ha intenzione di ripetere la figura dell’alleato debole.

Buon venerdì.

Nella foto: Il presidente del Senato Ignazio La Russa alla Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti Ue, 23 aprile 2023 (Archivio fotografico Senato)

Destra e sinistra. Quella irriducibile differenza

Natalia Ginzburg, Vittorio Foa e Norberto Bobbio

In occasione della nuova edizione di Destra e sinistra  di Norberto Bobbio ripubblichiamo la recensione di questo importante testo firmata da Noemi Ghetti che uscì su Left nel 2010 in occasione del centenario della nascita del filosofo e pensatore politico. Riproposto dall’editore Donzelli con una nuova prefazione di Nadia Urbinati, a trent’anni dalla prima fortunata edizione il testo di Bobbio non cessa di stupire per la persistente attualità della ricerca e per l’ottimismo di fondo che la anima

Rileggere le cose non fa mai male: si capiscono meglio. Mai come in questi tempi suona opportuno l’invito, rivolto nei giorni scorsi da un professore agli studenti in un’affollata aula universitaria. L’iniziativa dell’editore Donzelli di proporre, nell’ambito delle celebrazioni per il contenario della nascita di Norberto Bobbio, una nuova edizione del saggio Destra e sinistra – Ragioni e significati di una distinzione politica con un’introduzione di Nadia Urbinati, appare di attualità e offre un forte stimolo di riflessione, anche alla luce degli avvenimenti che investono la vita pubblica italiana in questi giorni. Filosofo e politologo, per molti decenni impegnato nell’insegnamento universitario, pubblicò all’età di ottantacinque anni la prima edizione del «libretto» destinato a restare, tra tutti i suoi lavori, il testo più discusso e famoso. Uscito in libreria il 26 febbraio 1994, fu un successo editoriale senza precedenti: diecimila copie vendute in tre giorni, centomila in due mesi, più di trecentomila nel primo anno. E poi, traduzioni in ben 27 lingue straniere.

Il muro era caduto da cinque anni, l’Italia era immersa nella prima stagione di Tangentopoli e assistevamo attoniti la “discesa in campo” del cavaliere che, a fine marzo, conseguì la prima vittoria elettorale. A maggio dello stesso anno Bobbio, che non cessava di stupirsi dell’imprevedibile fortuna del libro, in una lettera a Carmine Donzelli notava con amaro umorismo: «Andiamo avanti con l’Italia berlusconizzata e con questo governo, per il quale ho scritto: Sì, ci ho riflettuto: / avvenga quel che avvenga. / La gente l’ha voluto / ed ora se lo tenga». Parole sulle quali ci tocca interrogarci ancora oggi, a sei anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel 2004.
Ma più impressionante ancora è l’attualità della ricerca che Bobbio svolge sulla dicotomia tra destra e sinistra, «civettando» continuamente, come egli stesso scrive, con la logica. Una logica deduttiva limpida e mai astratta sostiene l’argomentazione, che compone una straordinaria precisione linguistica con una fine capacità di osservazione, anche psicologica. Perché, come scrive a sorpresa il filosofo che fu definito un illuminista del Novecento, «non c’è ideale che non sia acceso da una grande passione. La ragione, o meglio il ragionamento che adduce argomenti pro e contro per giustificare le scelte di ciascuno di fronte agli altri, e prima di tutto verso se stessi, viene dopo. Per questo i grandi ideali resistono al tempo e al mutar delle circostanze, e sono l’uno all’altro, ad onta dei buoni uffici della ragione conciliatrice, irriducibili».

Quando cadde il fascismo, ricorda Bobbio, la destra sembrò essere quasi scomparsa: con la dissoluzione dei regimi comunisti la sinistra scende e sale la destra. E tuttavia i termini antitetici della diade hanno bisogno l’uno dell’altro per esistere. La questione discussa è dunque se la distinzione storica tra destra e sinistra, metafora spaziale che dalla Rivoluzione francese per due secoli è servita a dividere l’universo politico in due parti opposte, nel tempo della cosiddetta crisi delle ideologie abbia ancora ragione di essere utilizzata, nonostante le argomentazioni tese a negarla. E nonostante la confusione della sinistra con la destra e della destra con la sinistra, verificatasi a più riprese nel Novecento. Come quando agli inizi del secolo intellettuali socialisti si fecero teorici del fascismo. O quando nel ’68 furono adottati a sinistra “maestri del pensiero” come Heidegger, dal passato di chiara compromissione nazista. O quando, fallito quel movimento, intellettuali ex-sessantottini passarono alle file della destra. O da quando, recentemente, politici di destra hanno preso ad appropriarsi di posizioni tradizionalmente proprie della sinistra. Fenomeno che, per alcuni, sarebbe indicativo del fatto che non esistono più differenze che meritino di essere contrassegnate con nomi diversi.

Eguaglianza e libertà: i due termini hanno un senso emotivamente fortissimo, ma un significato descrittivo generico, e un contenuto spesso antitetico, che Bobbio indaga da diverse angolazioni.
La tesi centrale del saggio è che sinistra e destra restano tuttora irriducibili l’una all’altra alla luce dell’opposizione di eguaglianza-diseguaglianza, mentre la coppia oppositiva libertà-autoritarismo serve piuttosto a distinguere i moderati dagli estremisti. Fascismo e bolscevismo, accomunati da concezioni egualmente «profetiche» della storia, condividono infatti per Bobbio il disprezzo democratico e l’uso della violenza, teorizzato come positivo. La teoria degli “opposti estremismi”, che prima della caduta del comunismo molti intellettuali trovavano inaccettabile, è secondo lui dimostrata in modo inoppugnabile dalla professione autoritaria e antilibertaria di quelle dottrine. Una dialettica democratica, dunque non violenta, tra destra e sinistra, non può dunque che svolgersi tra liberalismo e socialismo. Ed Bobbio non esita a dichiarare di essersi sempre dimostrato un uomo di sinistra.

Ma che cosa si intende per eguaglianza? L’eguaglianza radicale di tutti in tutto, che è il nerbo del pensiero degli utopisti, è una formulazione non solo astratta, ma che storicamente si è rivelata funesta, l’«utopia capovolta» del comunismo reale. Un contenitore vuoto, come del resto l’idea della libertà assoluta. Con la differenza che la libertà è sempre in relazione con un altro termine. «Posso dire: io sono libero, ma non: io sono eguale» è la semplice ma fondamentale osservazione di Bobbio. L’idea dell’eguaglianza implica sempre il rapporto con altri esseri umani. E tuttavia il metodo del pensiero razionale, che nello studio della realtà umana si ferma alla coscienza e al comportamento, pur nell’assoluta onestà d’intenti mostra, anche in questo saggio, un suo limite. E, nell’impossibilità di comporre eguaglianza e diversità degli esseri umani secondo un criterio universale, deve accontentarsi di definire l’eguaglianza come “tendenza” specifica della sinistra. Un limite evidente se si consideri il rapporto uomo-donna, che necessita di comporre i termini uguale-diverso: sul piano razionale un paradosso, una sfida all’aristotelico principio di non contraddizione, a cui Bobbio mostra di sapersi avvicinare per altra via.

L’indagine offre infatti, alla fine del millennio scorso, molte folgoranti premonizioni. Come quando ad esempio il politologo pone, ad una sinistra operaista sorda, la questione dell’immigrazione. Nel «pianeta dei naufraghi» il problema dell’eguaglianza, egli avverte, rimane non risolto in tutta la sua gravità. L’affascinante ideale dell’eguaglianza è stato, egli conclude, la stella polare a cui ha guardato e continua a guardare la sinistra, che non solo non ha compiuto il suo cammino, ma paradossalmente, caduto il comunismo, lo ha appena iniziato. L’umanità, affermava ottimisticamente Bobbio nel 1998, non è giunta alla “fine della storia”, ma è forse soltanto al suo principio. Il processo di emancipazione delle donne era infatti, per lui, la più grande rivoluzione del nostro tempo: «Mai come nella nostra epoca sono state messe in discussione le tre fonti principali della disuguaglianza: la classe, la razza, il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini, prima nella piccola società familiare, poi nella più grande società civile e politica, è uno dei segni più certo dell’inarrestabile cammino del genere umano verso l’eguaglianza». Di questa sua lungimiranza, tra le altre la più generosa, noi donne gli siamo particolarmente riconoscenti. (Da Left n. 10, 12 marzo 2010).

 

L’architettura del futuro? Nasce in Africa. Al via la Biennale diretta da Lesley Lokko

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L’attesa per i contenuti di una Biennale di Venezia è sempre direttamente proporzionale alla curiosità per il direttore scelto. Guardando alla storia personale della direttrice della Biennale architettura 2023, Lesley Lokko sembra incarnare una figura impegnata di “architetto attivista”: da anni sta combattendo per il riscatto dell’Africa dal punto di vista culturale e, nello specifico, progettuale. Tanto più perché ha una formazione iniziale da sociologa ed è anche affermata scrittrice di romanzi. L’abbiamo incontrata per conoscere più da vicino il suo percorso, la sua visione e per parlare della diciottesima Mostra internazionale di architettura che si svolgerà dal 20 maggio al 26 novembre, ai Giardini, all’Arsenale e a Forte Marghera.

Lesley Lokko, cos’è cambiato in Africa dal suo primo articolo “When a Door is Not a Door”(Nka journal, 1995) dove affrontava il dominio e la violenza degli standard di bellezza bianchi?
Ciò che è cambiato è l’interesse fuori dall’Africa nell’ascoltare una storia diversa, una differente narrazione del continente. Quanto a me, non mi sono mai pensata come una attivista orientata all’azione. Gran parte del mio pensiero si è sviluppato in tempi lunghi e in modo piuttosto solitario. Direi che il mio pensiero ha avuto uno sviluppo soprattutto interiore. La mia primissima conferenza pubblica era intitolata “Argument from silence”. In archeologia si usa questa espressione per dire che se si cerca l’evidenza che in una certa zona sia successo qualcosa e non la si trova, non significa che lì non sia successo niente. Dunque, non userei la parola riscatto perché implica il fatto che qualcosa sia andato perduto e lo si voglia recuperare, mentre per me quel qualcosa c’è sempre stato e c’è.

Penso che lei e Francis Kéré (primo architetto africano ad ottenere il Pritzker Prize) abbiate molto in comune. Burkinabé e tedesco, Kéré sta rivoluzionando canoni estetici e modalità di realizzazione dell’architettura in Africa. Lei dopo anni di permanenza all’estero, sta facendo la stessa cosa sul piano didattico con la recente fondazione ad Accra di una propria scuola di architettura, l’African Futures Institute (Afi). Pensa che tutto questo possa fare scuola? Quali sono gli ostacoli più grandi?
L’Africa è il continente più giovane del mondo e la nostra età media è sotto i vent’anni. Dunque la nostra relazione con l’istruzione è molto diversa dai contesti in cui l’età media è matura e anziana. Per la stragrande maggioranza degli africani il futuro è davanti a sé. È diverso in Europa e negli Stati Uniti. L’istruzione gioca un ruolo fondamentale nell’agevolare le ambizioni della stragrande maggioranza della popolazione; senza, non puoi letteralmente andare avanti, non puoi cambiare il tuo contesto di vita. L’istruzione è la chiave. Abbiamo anche il minor numero di scuole di architettura di qualsiasi continente. Credo che ci siano qualcosa come 75 scuole accreditate per una popolazione di quasi un miliardo di persone. Per fare un paragone, il Regno Unito ha una popolazione di 63 milioni, ci sono 57mila architetti e qualcosa come 33 scuole. Da noi c’è un enorme deficit. Se vogliamo affrontare il cambiamento climatico e la giustizia sociale, i governi, la mobilità, le infrastrutture, l’unico posto dove possiamo farlo è a scuola. Penso che l’aver lasciato l’Africa per un lungo periodo di tempo, anche per la mia formazione altrove, mi abbia permesso di vedere il mio contesto di origine in modo diverso; ed è quella capacità di guardare ciò che conosci con occhi diversi che andrebbe coltivata a scuola. Ed è quello che fanno Francis Kéré, David Adjaye, Mariam Kamara ed altri. Sono tutti partiti e sono tornati. Io vorrei tanto creare una scuola che non obblighi a lasciare il continente per progredire.

A proposito di “radici”, Wangechi Mutu, artista che vive tra Nairobi e New York, dice che essere radicati in tanti posti diversi simultaneamente potenzia moltissimo il lavoro. Per lei è stato così?
Sì, al cento per cento. Sa, penso che da bambina spostarmi tra il Ghana e la Scozia (luoghi d’origine dei miei genitori) mi abbia insegnato molto presto, quasi prima che potessi parlare, che c’è di più al mondo di ciò che hai sotto il naso. Avere due o tre contesti diversi ti mette in una posizione privilegiata perché puoi confrontarli tra loro; così comprendi a pelle che il mondo è un posto complesso. Per sentirmi davvero radicata in Europa ho impiegato molto tempo durante il quale, perlopiù, mi sono sentita una straniera. Forse solo negli ultimi dieci, quindici anni ho cominciato a sentirmi come qualcuno che ha il diritto di essere lì.

In The Well-Laid table l’architetto/educatore Alvin Boyarsky propone una scuola di architettura che tratta i temi della diversità e della divergenza “frontalmente”. Pensa che la Biennale possa rispecchiarne lo spirito?
The Well-Laid table è uno dei testi più interessanti sull’educazione in campo architettonico e, per molti versi, tutto ciò che ho fatto deriva dal modello di Boyarsky. Non posso anticipare molto sulla mostra, ma posso dire che lo stesso approccio ha guidato la selezione dei partecipanti. Mi incuriosiva scoprire se essi, provenienti da contesti molto diversi, potessero avere approcci simili al tema che proponiamo. In altre parole, non è il colore della pelle della persona, non è la sua discendenza, non è la sua etnìa, non è la sua lingua che determinano se il lavoro avrà risonanza, è il suo approccio.

Ha parlato della mostra come di una sorta di “bottega artigiana”. L’artigiano per definizione non è solo creatore di forme ma anche “riparatore” esperto di quelle che il tempo ha danneggiato. Quanto conta nel suo “laboratorio del futuro”?
Ribadisco, la mostra non ha un intento “riparativo”. Quando si presenta l’Africa fuori dall’Africa, in qualche modo ci si aspetta che si debba ricostruire qualcosa. Quello che faremo, invece, è esplorare questioni che, per molto tempo, sono state al di fuori della narrazione. E che possono essere catalizzatori per pensare al mondo in modo diverso. Vogliamo presentarci in mostra come partecipanti alla pari, non con l’onere di riparare danni altrui.

Preferisce, dunque, immaginare nuove strade e lasciarsi alle spalle il presente?
Non esattamente. Voglio rendere esplicito il motivo per cui qualcosa è andato male. Parlare di decarbonizzazione e di decolonizzazione significa anche che dobbiamo comprenderne il contesto. Ma provare a sistemare qualcosa nello stesso momento in cui si sta cercando di esplorarla spesso può far collassare il progetto, poiché è troppo oneroso. In sostanza, questa mostra è uno spazio dove si possono esplorare molti temi senza la responsabilità di dover fornire una risposta ma, allo stesso tempo, con la consapevolezza che l’esplorazione stessa è già una sorta di risposta. Il passato è super importante, ma non lo penso come l’unica chiave per pensare al futuro.

Secondo Octavio Paz assistiamo al tramonto del futuro a favore dell’oggi. La pandemia ci ha obbligati a concentrarsi sull’hic et nunc, tralasciando progetti di lungo corso. L’Africa tuttavia, con la sua attuale effervescenza creativa (vedi Left di ottobre 2022 e la mostra Africa. Big Change Big Chance alla Triennale nel 2014), sembra contraddire tutto questo. Che ne pensa?
Una decina di anni fa durante una conferenza a Monaco un architetto viennese parlò di un progetto in cui aveva messo insieme, nello stesso edificio, studenti e senzatetto. Mentre i primi sono persone che percepiscono il futuro davanti a loro, i secondi sentono che non c’è futuro. Sono due gruppi che hanno una diversa comprensione di ciò che verrà. Analogamente l’Africa è giovane in termini di età ma contemporaneamente è il continente più antico del mondo. Tutto ciò ci offre un approccio diverso al tempo. Noi pensiamo sia lungo il tempo antropologico che nell’immediato. Poiché il presente in Africa è così pieno di conflitti, il futuro è davvero pieno di speranza. Movimenti come l’Afrofuturismo nella letteratura e nel cinema sono estremamente importanti perché permettono di prendere l’energia dell’ambizione e di convogliarla da qualche parte. L’Africa riguarda il futuro diversamente da tante altre parti del mondo in cui si è persa fiducia.

In molti luoghi dell’Africa c’è l’impronta della Cina e dei suoi metodi di urbanizzazione brutale (eclatanti a Nova Cidade de Kilamba). Ma in Cina si stanno anche valorizzando i territori naturali. Come evitare tutti quegli errori che emergono guardando l’attuale sviluppo delle metropoli contemporanee?
Buona domanda. Credo di poter rispondere con una parola che è “leadership”: ciò che ci manca davvero in Africa. Alcune di queste domande di grande portata riguardo all’urbanizzazione, alle risorse, ai governi, alla mobilità, possono trovare risposta solo a livello di “leadership”. E, in un certo senso, il compito dell’educatore è quello di promuoverla. Il livello su cui operano Cina, Francia, Stati Uniti, Russia, è impossibile da gestire singolarmente.

«L’architettura inizia e finisce con Mies van der Rohe», lei ha dichiarato. È sempre dello stesso parere? Cosa pensa dell’attuale panorama architettonico internazionale, ci sono approcci che ritiene più validi di altri?
È un po’ come se qualcuno mi chiedesse quali sono i miei scrittori preferiti… C’è qualcosa di misterioso e magico che ti fa innamorare di un certo scrittore; dipende dal modo con cui usa il linguaggio, dall’argomento, dal contesto. Quando ho messo piede per la prima volta in un edificio di Mies van der Rohe mi sono innamorata del suo linguaggio, sia del suo spazio che della sua forma. Se sono ancora di questa opinione? Direi di sì, è istintivo, è misterioso. Quello che ho imparato ad amare, forse negli ultimi dieci/quindici anni, è ciò che succede quando si prende un linguaggio da cui si è attratti e lo si ricrea in un altro contesto con materiali diversi, con vincoli diversi; quell’atto di tradurre qualcosa “che ti parla” è molto eccitante. Il mio talento, più che nel creare forme nuove, sta proprio in questo: nel riuscire a dialogare con spazi e materiali che mi suscitano emozioni. Quando insegno mi piace fornire strumenti agli studenti e poi stare a guardare mentre li trasformano in autonomia. Quindi posso dire a qualcuno: “Guarda il Padiglione di Barcellona, ora immaginalo nel contesto del Kongo o Kinshasa, cosa succede lì, cosa succede a quel linguaggio?”. Non voglio dire che la storia dell’architettura sia sbagliata, c’è un’immensa bellezza nella storia ufficiale, solo che non credo sia completa.

L’Italia, purtroppo, è piena di periferie degradate dove bruttezza ed ingiustizia sociale sono la regola. Il tema delle politiche verdi nell’approccio al progetto può rischiare di eludere problematiche come quella della vita nelle periferie urbane, della mancanza di alloggi economici di qualità?
In un determinato contesto, certificare che un edificio è verde non dice nulla sulla qualità della vita o sull’accesso alle risorse del 99,99% delle persone che usano l’edificio. È solo una parte della storia. Io sono a favore di qualsiasi approccio che abbracci la complessità. L’approccio scientifico alle politiche verdi spesso cerca di semplificare, in modo da non dover pensare alle implicazioni culturali e sociali. Molti architetti oggi pensano di risolvere i problemi di inquinamento rendendo “verdi” gli edifici e tralasciando problematiche più importanti. Si crede che l’approccio tecnologico fornisca di per sé la soluzione. La formazione di un architetto dovrebbe essere volta ad insegnarti a pensare in modo molto approfondito, ciò che è importante è la relazione tra le cose.

Se pensa al futuro di Venezia, cosa le viene in mente?
Quando sono qui ho la sensazione che qualcosa stia decadendo molto velocemente ma allo stesso tempo ci si innamora di tutto questo. Essere qui significa essere avvolti da una sorta di meraviglia… Contemporaneamente però c’è la chiara consapevolezza che la popolazione si sta riducendo, c’è il livello dell’acqua che sale o scende, il contesto sembra precario. La città ha 50mila residenti ma ha trenta milioni di turisti ogni anno, anche questo rapporto tra chi vive qui e chi la visita colpisce. Venezia è una città con due estremi molto singolari: un passato che è davvero presente. Il passato è qui, è in ogni cosa, è uno stile di vita, ma allo stesso tempo la sensazione è che questo stile di vita sia piuttosto fragile. Non so cosa significhi tutto questo per il futuro.

Una adunata di “agenti del cambiamento” in Laguna
Si apre il 20 maggio la 18. Mostra Internazionale di architettura Il laboratorio del futuro, curata dalla docente, scrittrice e architetto Lesley Lokko che fa emergere tutta la ricchezza di prospettive che provengono dall’Africa, un luogo a tutti gli effetti fuori dal canone ufficiale dell’architettura che per Lokko è dunque «incompleta».
Una mostra dove prenderanno parola soprattutto le minoranze di approcci al tema progettuale, chi lavora come può/per quello che può dietro le quinte della scena ufficiale internazionale e che proverà a portare le proprie esperienze, i propri singolari approcci (accuratamente selezionati da Lokko) per testarne una possibile efficacia in relazione a grandi tematiche della contemporaneità come la decarbonizzazione e la decolonizzazione.
In definitiva “il piccolo” che agisce “sul grande” e lo sfoltisce di domande fino a ridimensionarne la negatività (si spera). Ecco il capovolgimento attuato da Lokko che porta in scena la “diversità” facendone, a tutti gli effetti, un punto di forza su cui impegnare le nostre energie future, dove posare nuovamente lo sguardo con curiosità perché è nel senso di “autenticità” culturale e di “libertà” implicita che potranno ancora essere rinvenute tracce di “futuro”.
«Ogni autentica creazione è un dono per il futuro» (Camus) è, infatti, il punto di partenza di Lokko come ha avuto modo di dire anche durante la conferenza stampa a Venezia.
Ciascuno potrà prendere la parola in un grande laboratorio fatto di practitioners (e non semplici progettisti), tutti egualmente impegnati nel ruolo di «agenti del cambiamento»: pensatori-artigiani, architetti-poeti, artisti-progettisti, architetti-inventori, in un mix fecondo di interscambi disciplinari (che già di per sé servono a rompere pregiudizi e punti di vista acquisiti in materia di architettura) portando il proprio bagaglio di cultura extra, in grado di immaginare il futuro attraverso la lente di ingrandimento di un’analisi tanto sfaccettata quanto ricca di nuovi illuminanti filtri interpretativi. Tutto si baserà su questo, senza la pretesa di soluzioni definitive che hanno però il desiderio di presentarsi, in ultima analisi, come “L’archivio del futuro”, sintesi forse di una profondità di pensiero che vuole sforare il futuro per rimetterne in gioco sedimentazioni e valori sulla scia di una curatrice come Lokko, ricercatrice solitaria e ora prima portatrice di un vento nuovo a Venezia, con l’obiettivo di ampliare la discussione sui temi progettuali a partire dall’Africa e dalla sua attuale eccentricità di vedute come abbiamo cercato di raccontare in queste pagine e come Left ha fatto in passato anche intervistando l’architetto Kéré. (Patrizia Mello)

Questa intervista, che ora vi proponiamo integralmente è stata pubblicata su Left in edicola il 9 aprile 2023

L’autrice: Patrizia Mello è architetto e saggista. Il suo ultimo libro s’intitola Twentieth-Century Architecture and Modernity ed è pubblicato da Oro editions. Viene presentato il 19 maggio alle 15,30 a Ca’ Foscari a Venezia. Con l’autrice, Fulvio Irace, Angela Vettese e Giovanni Leone