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Le isole e le montagne sono i laboratori per una nuova relazione uomo-ambiente

L’impatto dell’attività umana sul pianeta è talmente preponderante da segnare la fine di un’epoca geologica: l’Olocene, cominciato circa 10.000 anni fa al termine delle ultime glaciazioni, ha ormai lasciato il posto all’Antropocene. In questa nuova epoca l’essere umano è diventato una forza geologica, capace di plasmare la superficie terrestre e di alterare i processi atmosferici e biosferici. Nell’Antropocene, quella tra gli esseri umani e gli ambienti si scopre come un’interdipendenza ineludibile: la degradazione ambientale prodotta dallo sviluppo illimitato è minaccia esistenziale per l’umanità stessa.
Sembriamo aver scoperto solo ora, nel caos climatico globale, che gli esseri umani non sono al di sopra o al di fuori, ma in mezzo alla fitta rete di interdipendenze ecologiche, insieme ad altri esseri viventi, a batteri, virus, minerali, elementi atmosferici…

Eppure, queste interdipendenze non sono nuove. Molte società le riconoscono da tempo e le collocano perfino all’origine della propria esistenza. È il caso delle società indigene di molte isole dell’Oceano Pacifico, in cui le genealogie ignorano la separazione tra esseri umani e non umani. Per esempio, nelle isole Belep, che fanno parte della Collettività francese d’Oltremare della Nuova Caledonia, i Kanak hanno sviluppato un rapporto con la terra e con l’oceano basato sull’intimità e sulla cura.
Ciascun clan è situato in un determinato territorio, ne trae sussistenza e se ne prende cura grazie al proprio daan. I daan sono storie genealogiche e percorsi geografici che collegano i luoghi abitati dagli antenati di un clan, assegnando su un certo territorio diritti e privilegi ma anche doveri di reciprocità e responsabilità. Essi pongono all’origine un antenato non umano, spesso un animale, dando così vita a una società sin dal principio multispecifica. Le storie dei clan rivelano una cosmologia in cui i corpi di umani e non-umani sono legati tra loro, condividono le stesse sostanze e compongono un unico quadro di scambi, di parentela, di affinità, di desideri e di volontà. Antenati, rocce, piante, animali terrestri e marini, umani viventi e defunti costituiscono uno stesso mondo. È un mondo in cui gli esseri umani non occupano un posto migliore, non si trovano in una posizione di superiorità o dominio, ma, come tutti gli altri elementi, appartengono alla terra. Sono gli esseri umani ad appartenere alla terra, non il contrario. In queste isole la consapevolezza dell’interdipendenza di umani e non umani non è il frutto di un ripensamento critico; essa è all’origine stessa della possibilità di abitare, è all’origine stessa della società.

C’è qualcosa che risuona tra le piccole isole nel Pacifico e le terre alte nelle nostre Alpi. Si tratta di una comune consapevolezza storica di essere invischiati in collettivi più-che-umani e di una simile responsabilità nel prendersi cura del territorio. Quelle che abitano le piccole isole e le montagne, caratterizzate da condizioni estreme e risorse limitate, sono società che “semplicemente” non possono ignorare il proprio ambiente. Nel Comelico (in provincia di Belluno) persistono, dal Medioevo almeno, le Regole. Si tratta di organizzazioni familiari basate sulla condivisione collettiva della proprietà fondiaria di boschi e pascoli. La loro esistenza e persistenza è un indizio di relazioni che non parlano il linguaggio del dominio su risorse considerate senza vita, ma privilegiano ancora una volta l’idioma della cura e della reciprocità.

Pur con modalità molto diverse, in entrambi i casi l’inclusione sociale e un’etica della cura si estendono oltre il mondo umano, dando forma a società non solo o non troppo umane, ma più-che-umane, in cui la preoccupazione per la sopravvivenza degli esseri umani è strettamente legata alla preoccupazione ecologica, alla cura per la terra e per i suoi abitanti. Nonostante i profondi cambiamenti storici, queste società continuano a riconoscere il paesaggio come soggetto attivo nel tessere la trama sottile delle relazioni con gli umani. La persistenza di forme di gestione consuetudinaria e collettiva della terra e del mare, così come i diritti d’uso e di accesso, che si esprimono attraverso pratiche collettive di cura e responsabilità ecologica, aiutano gli abitanti di terre alte e piccole isole a gestire i limiti ecologici delle loro società.

Le isole e le montagne hanno avuto un ruolo importante nell’ascesa e nello sviluppo della nostra moderna visione ecologica del mondo, fornendo modelli e teorie. Dai tempi di Alexander von Humboldt e Charles Darwin innumerevoli naturalisti si sono avventurati attraverso gli oceani e hanno scalato montagne alla ricerca di geografie perfette per una visione sinottica delle interconnessioni tra le forze biologiche, geologiche e umane. Isole e montagne sono oggi scrutate come vere e proprie “sentinelle” del clima globale e del cambiamento ambientale. Sono osservatori privilegiati del cambiamento in atto e icone dell’Antropocene, a causa della drammatica erosione costiera, degli eventi meteorologici estremi e dello scioglimento dei ghiacciai. Ma sono anche laboratori per soluzioni collettive, dove strade nuove e già conosciute emergono per riconfigurare la relazione tra l’uomo e il suo ambiente.

Sia nelle terre alte delle Alpi che nelle isole del Pacifico gli esseri umani hanno già sperimentato in passato i limiti ecologici e la vulnerabilità delle loro società e dei loro ambienti. La varietà biologica e culturale dei paesaggi alpini è il risultato di pratiche agrarie sostenibili che si sono susseguite nel corso di molti secoli. I Kanak della Nuova Caledonia, come altri abitanti delle isole del Pacifico, hanno già affrontato crisi ecologiche di entità “globale” in passato: bastarono, infatti, pochi secoli di colonizzazione umana a compromettere l’equilibrio ecologico delle isole rischiando di renderle non più adatte a una presenza stabile. Gli antenati degli attuali Kanak si spinsero a ripensare l’organizzazione della propria società, anche sul piano politico e simbolico, in modo che fosse più rispettosa dell’ambiente insulare. Essi hanno dimostrato che è possibile sviluppare organizzazioni permanenti e al tempo stesso ecologicamente rispettose, basate sulla priorità dell’interesse collettivo su quello individuale e sull’estensione della solidarietà anche ai non umani.
Le società isolane e montane sono già capaci di riconoscere i collettivi più-che-umani e di fornire esempi positivi di condivisione e comunanza. L’invito che proviene da esse è quello di immaginare un «futuro comune» basato sulla solidarietà tra umani e non umani, riconoscendo pienamente questi ultimi come soggetti viventi.
Come sottolineato dall’antropologa Anna Tsing, il concetto di socialità non distingue tra umano e non-umano. Immaginare un nuovo patto sociale, che includa insiemi vibranti di esseri umani, entità non umane, agenti tecnologici e processi terreni, è possibile, perché patti eco-sociali di questo genere sono già in corso.

LA GIORNATA DI STUDI – FESTIVAL “DIALOGHI DI PISTOIA”

Lara Giordana, docente di antropologia all’università di Torino, sarà relatrice al convegno I diritti della natura, organizzato da GEA Green Economy and Agriculture – Centro per la Ricerca della Fondazione Caript, con l’incontro dal titolo “Dalle isole alle montagne: società più che umane”. La giornata di studi si svolgerà venerdì 19 maggio, dalle 9.30 alle 18 al Parco Gea di Pistoia (Via Ciliegiole 99), ed è realizzata in collaborazione con il festival di antropologia del contemporaneo Dialoghi di Pistoia, dedicato quest’anno al tema Umani e non umani. Noi siamo natura, in programma dal 26 al 28 maggio.
Oltre a Lara Giordana parteciperanno: la filosofa morale Laura Boella, lo storico della filosofia contemporanea Marcello Di Paola, l’antropologo Francesco Zanotelli, e le docenti di diritto comparato Anna Mastromarino e Barbara Pozzo. Segue una tavola rotonda aperta al pubblico coordinata dall’antropologo Adriano Favole, alla quale interverranno: Flavia Cuturi, docente di antropologia culturale all’Università di Napoli L’Orientale, Gabriele Paolinelli, docente di architettura del paesaggio all’Università di Firenze, Giovanni Talli Barbieri, docente di diritto costituzionale e prorettore all’Università di Firenze, Cecilia Turco, presidente dell’Ordine degli avvocati di Pistoia. A conclusione, nel Parco, Aura Ghezzi sarà protagonista della performance Senza vivere senza. Il racconto della Mortella.
Informazioni e iscrizioni su: www.gea.green

 

Sicuri che sia maltempo?

«Una nuova ondata di forte maltempo», l’ha chiamata Giorgia Meloni.

La climatologa del Cnr Marina Baldi intervenuta nella trasmissione L’Italia s’è desta su Radio Cusano Campus spiega: «Dobbiamo ancora valutare questo tipo di configurazione atmosferica, è difficile attribuirlo direttamente ad un cambiamento climatico al momento. Quello che possiamo attribuire al cambiamento climatico è l’intensità di questi fenomeni». «È un fenomeno – spiega Baldi- che si verifica molto raramente nel mese di maggio. Fenomeni così intensi si vedono di solito nel periodo autunnale. Abbiamo l’aria fredda che arriva dal Nordest, dall’altra parte dell’Europa abbiamo invece un’aria molto più calda. Questa differenza di temperatura attira l’aria umida da Sud che va a concentrarsi sull’Adriatico. Per questo vediamo fenomeni così intensi. Queste grandi piogge seguono un periodo molto siccitoso durato quasi anni».

Silvio Gualdi, senior scientist al Centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc) dove dirige la divisione Climate simulations and predictions, al Corriere della sera dice che «le condizioni di alta pressione che fiancheggiano questa depressione le impediscono di fluire da ovest verso est, seguendo il normale flusso della circolazione atmosferica. Ciò ha generato sulla Romagna questa enorme quantità di pioggia» ma l’altro fattore che contribuisce a rendere questo evento eccezionale è il riscaldamento globale: un’atmosfera più calda contiene una maggiore quantità di vapore acqueo che, quando si verificano queste condizioni meteorologiche, è quindi in grado di produrre molta più pioggia». La siccità prolungata dei mesi scorsi ha poi aggravato l’impatto, «perché un terreno particolarmente secco non riesce ad assorbire le precipitazioni in modo efficace, pertanto la pioggia tende a scorrere sul terreno». Meglio abituarsi, e adattarsi, a quella che rischia di diventare la «nuova normalità». «È probabile che questi eventi estremi diventino più frequenti in futuro. Piove meno frequentemente, e quindi aumenta la probabilità di periodi siccitosi, ma quando piove le precipitazioni sono più intense. È una tendenza che stiamo già osservando e secondo le proiezioni dei modelli climatici si accentuerà ulteriormente in futuro», prosegue Gualdi. Ora prepariamoci ad un’estate più calda ed umida del solito.

Paola Mercogliano, responsabile della divisione Remhi (modelli regionali ed impatti geo-idrologici) del Cmcc, conferma l’attesa variabilità. «Le attuali condizioni estreme sono simili a quelle che portarono all’alluvione del Po nel 1994 e nel 2000. Quindi non possiamo affermare che si tratti di eventi mai visti prima ma sicuramente il cambiamento climatico amplifica la loro frequenza e intensità». Mauro Rossi, ricercatore dell’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Consiglio nazionale delle ricerche di Perugia (Cnr-Irpi) a Fanpage spiega a proposito dell’Emilia Romagna e degli eventi estremi: «Quest’anno ne abbiamo avuti vari: a settembre c’è stato l’evento di Senigallia, anche se è stato più corto, con pioggia elevatissima, poi c’è stato qualche settimane fa un evento simile sempre in Emilia Romagna, e la stessa cosa è successa anche in Sicilia e Calabria. Il problema è che la frequenza quest’anno è estremamente elevata. Frequenza che può essere sì contingente ma anche un qualcosa che purtroppo sta diventando normalità. Questo è chiaramente attribuibile ad un contesto di cambiamento climatico, che sta rivoluzionando il modo in cui il clima fa pressione sul nostro territorio. Ci sono indicazioni inequivocabili che stiamo osservando il cambiamento climatico e questi sono i suoi effetti».

Qualche giorno fa l’’Istat ha reso disponibile l’aggiornamento al 2021 della serie storica delle statistiche meteoclimatiche di precipitazione e temperatura per i 109 Capoluoghi di Provincia e la Normale Climatologica 1981-2010. Si legge: “Nel periodo 1971-2021, i valori più alti della temperatura media annua dei capoluoghi di Regione si registrano negli anni 2011-2021 (media del periodo 15,8°C). Nel 2014, per la prima volta sono stati raggiunti i 16°C (+1,5°C sul CLINO 1971-2000). La precipitazione totale presenta nel lungo periodo una variabilità inter-annuale: nel 2011-2021 è in media pari a 769 mm. Nel 2021, gli Indici di estremi di temperatura mostrano aumenti per gran parte dei capoluoghi di Provincia. I giorni estivi sono in media 120 e le notti tropicali 44 (in crescita di +4 giorni e +6 notti rispetto al valore medio del periodo 2006-2015). Sale anche il numero di giorni senza pioggia (in media pari a 286 nell’anno) di +5 rispetto al periodo 2006-2015”.

Buon giovedì.

Attentati e crisi umanitaria: l’Afghanistan in mano ai talebani è al collasso

Dopo che il mese di Ramadan è giunto alla Eid al-Fitr, la conclusione, la situazione politica in Afghanistan continua ad essere drammaticamente instabile. Tra marzo e maggio quattro attentati a Kabul hanno ucciso tredici persone e una decina sono state ferite. L’ultimo il 5 maggio all’aeroporto internazionale della capitale. Il governo afgano nega la stabilizzazione delle forze IS-KP ma l’inasprirsi degli attacchi dal 2021 ad oggi sembra indicare l’esatto opposto. Al centro, una popolazione stremata da quarant’anni di conflitto e una crisi umanitaria che rischia di degenerare in una delle più gravi dell’intera regione.

Nella tradizione coranica il Ramadan rappresenta la commemorazione della prima rivelazione della parola sacra al profeta Maometto. È un tempo di digiuno, astinenza e preghiera. Un mese di distacco dalla quotidianità utile per approfondire quanto di più spirituale le appartiene. A Kabul, la capitale dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, questo periodo da poco giunto al termine è stato il terribile sfondo per una recrudescenza degli attacchi ai danni di autorità e civili.

Nelle prime due settimane di Ramadan solo nella città afgana si sono registrate tre esplosioni nelle vicinanze dei posti di blocco delle forze talebane. Nel pomeriggio del 24 marzo una detonazione artigianale manovrata a distanza nei pressi del viale centrale di Baghe Bala ha gravemente ferito un bambino, mentre il 27 dello stesso mese alle 13:15 locali, un attacco suicida a pochi passi dal ministero degli Affari esteri ha provocato la morte di nove rappresentanti dell’Emirato islamico e quattro civili, oltre al ferimento di quattordici passanti. Alle 19.30 del 4 aprile infine una nuova esplosione nei pressi di Khoja Rawash, il numero di feriti resta sconosciuto.
Alla scia di attacchi esplosivi si sono aggiunti i colpi di arma da fuoco scaricati sul lato est dell’aeroporto internazionale della capitale nel pomeriggio del 5 maggio che hanno ferito gravemente due civili.

Nessun attacco è stato formalmente rivendicato a parte la terribile esplosione kamikaze del 24 marzo firmata dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante per la Provincia di Khorasan (IS-KP), una fazione politico-religiosa nata nel 2015 come costola dello Stato Islamico e violentemente attiva in Afghanistan, Pakistan e Tajikistan.
L’esplosione ha fatto seguito all’uccisione da parte dei servizi segreti afgani di tre rappresentanti delle IS-KP avvenuta nella stessa mattinata nella regione nord di Balkh. Secondo il comunicato diramato dalle autorità, nel raid militare era stato ucciso anche Mavlavi Ziauddin, massimo rappresentante amministrativo dello Stato islamico KP nell’area. Nei giorni precedenti altri attacchi mirati dei servizi segreti afgani avevano portato all’uccisione e all’arresto di numerose figure cardine del gruppo politico-militare nato nel 2015.

Nonostante il governo di Kabul per mezzo del portavoce Zabihullah Mujahid continui a ripetere che «l’Isis è stato in buona parte sconfitto dal governo talebano e non ha più la forza di un anno fa» , i fatti dimostrano una situazione completamente diversa.
Come sottolineato anche da Michael Kurilla, primo ufficiale del Comando centrale delle forze statunitensi (Centcom) durante un incontro ufficiale alla Camera dei Deputati, «Isis ha drammaticamente espanso la propria area di attività e intensificato le proprie azioni in Afghanistan». I recenti eventi di Kabul paiono essere una chiara prova di questa realtà.
Alla base degli attacchi sembra esservi l’avversione dello Stato Islamico verso la politica interna ed estera dei talebani, ritenuta eccessivamente aperta alla influenza statunitense e prosecuzione mascherata dell’internazionalismo del precedente presidente Ashraf Ghani. Questo nonostante l’approccio del governo talebano si stia caratterizzando per una imposizione radicale della sharia come modello di amministrazione e una centralizzazione della religione islamica negli affari di stato.

La recente apertura del governo di Kabul rispetto ai tavoli di negoziato promossi dalle Nazioni Unite a Doha non sembra garantire un miglioramento dei livelli di stabilità interna. Anzi.
Un ulteriore fattore di rischio che minaccia di aumentare il coefficiente di tensione nel Paese è rappresentato dal quantitativo di materiale bellico lasciato dalle forze statunitensi nel corso della rocambolesca evacuazione nell’estate del 2021. Le autorità talebane infatti hanno da poco confermato di aver ultimato i lavori di restaurazione di decine di veicoli militari appartenenti alle forze Nato che erano stati danneggiati durante gli scontri nel Paese. I mezzi pesanti d’assalto saranno utilizzati per scovare ulteriori base dell’Isis e inasprire la stretta contro le sacche di resistenza al potere di Kabul.

Nel cuore di questo clima politico di estrema tensione c’è una popolazione sfiancata da quarant’anni di conflitto ininterrotto, spinta sull’orlo di una crisi umanitaria tra le più gravi dell’intera regione mediorientale. Secondo il World Food Program, nove milioni di persone nel Paese sono a rischio di malnutrizione acuta e severa mentre più della metà vive attualmente al di sotto della soglia della povertà .
L’intervento delle organizzazioni umanitarie nel Paese garantisce un baluardo di protezione dei diritti umani fondamentali nel Paese e la garanzia di servizi sanitari di base divenuti indispensabili soprattutto nei contesti rurali, dove l’accesso limitato rende più difficile la propagazione dei fragili sostegni pubblici.

«La situazione nel Paese è estremamente complessa, siamo in una fase di forte instabilità e il ruolo delle organizzazioni internazionali è fondamentale per garantire un accesso ai diritti di base per migliaia di bambini, donne e sfollati interni ogni giorno – riferisce un rappresentante della rete delle organizzazioni internazionali non governative attive nel Paese -, stiamo negoziando con le autorità afgane per allargare il raggio di intervento delle nostre attività, ci aspettiamo un supporto costante della comunità internazionale in questo senso».
L’appello arriva in un momento in cui la politica internazionale sembra trincerarsi nella volontà di non riconoscere il governo talebano come un contrappunto politico legittimo, abbandonando così più di quaranta milioni di persone in un clima di insicurezza sociale e umanitaria costante.
Il Ramadan di sangue appena giunto nella sua Eid sembra gridare con forza per una nuova apertura e scongiurare il tracollo umanitario dell’intera regione.

(In collaborazione con pressenza.com)

L’autore: Guglielmo Rapino è cooperante internazionale e attivista per i diritti umani

Perfino il Servizio del bilancio del Senato boccia il dl Autonomia

Il Servizio del bilancio del Senato «ha passato al setaccio il disegno di legge» sull’Autonomia differenziata, in questi giorni all’esame della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, “rilevando alcune criticità”. Si può leggere su LinkedIn, dove sul profilo ufficiale del Senato da giorni campeggia un post in cui si sottolineano criticità sul “trasferimento alle Regioni di un consistente numero di funzioni oggi svolte dallo Stato (e delle relative risorse umane, strumentali e finanziarie)” che provocherebbe “una forte crescita del bilancio regionale ed un ridimensionamento di quello statale, col rischio di non riuscire a conservare i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) presso le Regioni non differenziate”.

In questo modo “le regioni più povere, oppure quelle con bassi livelli di tributi erariali maturati nel proprio territorio, potrebbero avere maggiori difficoltà a finanziare, e dunque ad acquisire, le funzioni aggiuntive”. Un problema che si autoalimenta, quindi: le Regioni ricche che si prendono molte autonomie si terranno più soldi, e ne daranno meno allo Stato, che così avrà meno risorse per aiutare le Regioni più povere – o comunque quelle che riscuotono meno tasse. La mancanza di soldi renderà sempre più difficile, per le Regioni povere, finanziarsi da sole e arrivare a poter acquisire più autonomie. Sono le stesse critiche che da più parti sono state avanzate. Sono le osservazioni che il governo continua a negare.

Lo studio spiega che ogni Regione dovrebbe finanziare le sue nuove funzioni prendendosi una parte delle tasse che normalmente vanno allo Stato: è la “compartecipazione sui gettiti dei tributi”. In una “fase avversa dell’economia”, però, gli introiti dalle tasse diminuirebbero e le Regioni non potrebbero fare nulla: non avrebbero lo stesso margine di manovra che ha lo Stato, per cambiare in autonomia l’entità delle tasse in base alla situazione. Servirebbero quindi ogni volta nuove trattative Stato-Regione, un processo macchinoso e poco funzionale. Per quanto riguarda la possibilità delle Regioni di trasferire funzioni ai Comuni si sottolinea come “potrebbe far venir meno il conseguimento di economie di scala”, perché in ogni caso ci sono “dei costi fissi indivisibili legati all’erogazione dei servizi” che pesano di più, se a sostenerli devono essere tante amministrazioni locali invece di una sola più grande.

Infine, il dossier ha messo in evidenza che, anche se nel testo della legge c’è scritto che dall’attuazione dell’autonomia non devono derivare “direttamente oneri a carico della finanza pubblica” non sarà così. Ieri qualcuno si deve essere accorto del Senato che boccia il governo e Palazzo Madama frettolosamente ha chiarito che si è trattato di “una bozza provvisoria, non ancora verificata, sul disegno di legge sull’autonomia è stata erroneamente pubblicata online. Il Servizio del bilancio si scusa con la stampa e con gli utenti per il disservizio arrecato. Non la pensa così il senatore Pd Alessandro Alfieri, responsabile Pnrr e Riforme per il Pd, che racconta come “il dossier era stato già mandato per mail a tutti i senatori venerdì scorso, quindi ben 5 giorni fa. Ridicolo parlare di bozza”. Per Marco Sarracino, responsabile Sud e coesione della segreteria Pd, “sarebbe grave se una manina avesse sollecitato il ritiro di un documento di un organo dello Stato. E sarebbe ancora peggio se fosse partito un processo di normalizzazione delle strutture tecniche, che come è noto svolgono con grande professionalità e imparzialità il loro lavoro”.

Buon mercoledì

Nella foto: il ministro Calderoli alla conferenza stampa di presentazione del Dl Autonomia differenziata, 2 febbraio 2023

 

Cercasi effetto Schlein al ballottaggio

In un’epoca di omologazione imperante, culturale e politica, bisognerebbe coltivare, curare, proteggere come i Panda, la pratica del pensiero critico. Non tanto per condividerlo, ma come esercizio di riflessione, occasione di confronto. Invece si assiste, purtroppo soprattutto a sinistra, ad un appiattimento acritico sulle posizioni del vincitore di turno. Ma quel che appare più disarmante è l’accusa – talora esplicita, talora velata – verso chi prova a manifestare posizioni critiche, di accanimento pregiudiziale, di acrimonia, di prevenzione persino personale. Senza riflettere sul ragionamento, tutto politico, da cui nascono tali osservazioni. È il caso del “nuovo” Pd e della neosegretaria Schlein: un rincorrersi di elogi da far invidia a quelli a suo tempo espressi al Renzi trionfante.
Allora c’è bisogno di fare un po’ di chiarezza riguardo questo nuovo corso, secondo un ragionamento “tutto politico”, appunto, e che non ha nulla di personale, ma, appunto, su quel che non convince.

Intendiamoci, non è che non ci siano perplessità anche sulla vicenda e la figura della Schlein. Qualche esempio:
– la lunga narrazione che l’ha caratterizzata (e fatta crescere nell’immaginario come la “speranza della sinistra”) circa la necessità di costruire un soggetto di sinistra, civico, femminista, antifascista al di fuori del Pd, dimenticata in un batter d’occhio. Viene da pensare che non riuscendo a costruire un soggetto proprio abbia trovato l’occasione propizia per appropriarsi di quello altrui. Altrimenti perché non entrare nel Pd prima della rovinosa caduta di Letta per proporre il suo percorso?
– La evasività con cui rispose nella campagna delle primarie circa un suo giudizio sul comunismo – “non ero ancora nata” – che giustifica di fatto l’identico atteggiamento della Meloni verso il fascismo – anche la Meloni non era nata;
– L’evanescenza della richiesta di una “Pace giusta” per l’Ucraina, senza mai specificare cosa intenda per pace giusta: Ucraina nella Nato o no? E quel che è avvenuto nel Donbass, quale futuro, ecc?;
– La riproposizione, anche nelle ultime comparse in Tv, della necessità di una riforma elettorale, senza indicare quale;
– La contrarietà al progetto di Autonomia differenziata ma sempre aggiungendo “quella di Calderoli”, di cui chiede “una moratoria”, e lasciando intendere che un’altra può essere oggetto di trattativa.

Insomma, si potrebbe continuare, ma già questo basterebbe a giustificare molte perplessità su questo “nuovo corso”.
Ma il ragionamento, dicevamo, è più ampio e politico.
La vittoria della Schlein dimostra, qualora ce ne fosse bisogno, che il Pd è un partito “scalabile’”. Tanto scalabile che persino un esponente estraneo può appropriarsene, prendendo la tessera un mese prima delle Primarie. Ed è tanto scalabile che si può diventarne segretario/a persino a dispetto del partito stesso. La Schlein non vince le Primarie di partito (quelle dove scelgono i tesserati e militanti) ma quelle “aperte” (dove sceglie chiunque).

Ma se la Schlein ha davvero in mente di trasformare il Partito in un soggetto diverso dal precedente, un soggetto finalmente “di sinistra”, che chiude i ponti con le stagioni precedenti e le scelte scellerate precedenti (job act, accordi libici di Minniti, buona scuola, ecc), in fin dei conti un altro partito, non potrebbe che mettere in conto, anzi in qualche modo favorire, la fuoriuscita di tutta la classe dirigente che quelle scelte non solo aveva fatto ma che in qualche misura ancora rivendicano. Non si tratterebbe di una resa di conti, ma di un partito che si dà un’identità precisa e che, conseguentemente, non può contenere allo stesso tempo chi rimpiange identità diverse.

Non sarebbe un male, quindi, ma un’operazione di chiarezza. Da un lato, come si dice persino oggi con l’uscita (degnissima nelle modalità) di Cottarelli, si perde una porzione di ceto di riferimento e di elettorato “liberista e centrista”, ma si recupererebbe dall’altro l’elettorato sfiduciato di sinistra che in questi anni ha alimentato fortemente l’astensionismo. E avrebbe persino maggiori chance di recuperare anche tra l’elettorato, parte del Movimento 5S di Conte.
Ma se le regole del Pd restano le stesse, il grosso del gruppo dirigente resta lo stesso, le pratiche restano le stesse, la vittoria della Schlein altro non risulterebbe che un’ennesima stagione, effimera per quanto apparentemente entusiasmante, come prima è stata quella di Renzi, poi di Zingaretti (la sinistra del dopo-Renzi), infine di Letta (il salvatore richiamato dall’esilio). In attesa di una nuova stagione, magari con il ritorno di un nuovo Renzi (appunto, il Pd sempre scalabile).

La stagione della neosegretaria quindi, sarebbe la riproposizione, anche se formalmente negata, di una politica e delle scelte conseguenti, legata ad una visione, e pratica, dell’uomo/donna solo/a al comando, pronta a ricambiare pelle all’affacciarsi di un altro uomo/donna.
Perché se proponi un partito che è cosa diversa da prima, poi devi essere conseguente, e devi consentire alla gente, alle persone che pure ti seguono, di capire che non si è solo chiusa una stagione nefasta, ma si fa in modo che non possa tornare. Consentire cioè a molti di riconoscersi in questo partito che del precedente, per vezzo, per difesa del “brand”, mantiene solo quel nome, Pd, ma che ha chiuso con il liberismo, con le stagioni dei dialoghi con Marchionne, che non si piega al mercato, che contrasta il precariato, l’abominio della scuola-lavoro ecc., ma ha una nuova e davvero diversa visione, prospettiva, obiettivo, funzione, composizione.

Ma se così fosse, ad oggi, come interpretare il segnale dato solo pochi giorni fa dai parlamentari europei del Pd che hanno condiviso e votato la riconversione di fondi Pnrr da obiettivi sociali a finanziamento per produzione di armi? Gli stessi che votarono l’equiparazione tra nazismo e comunismo. Possibile che il partito non abbia dato indicazioni? E se le ha date, quali: contrarie, e quindi disattese, o favorevoli? In tutti i casi un segnale devastante.

Può ancora il Pd avere come caratteristica principale l’ambiguità – prima centrista ora di “sinistra”? Si può continuare con risposte evasive ed evanescenti?
Che tutto ciò non basti è confermato anche dai risultati delle amministrative (14 e 15 maggio) dove si registra un ulteriore calo dell’affluenza del 3% (i votanti passano dal 62% al 59%), che dovrebbe essere un assillo per la sinistra a prescindere dagli esiti. E i cui esiti comunque, al di là delle narrazioni, raccontano che, sempre al netto della scarsa affluenza, vedono sì il centrosinistra vincere a Brescia – in alleanza con Italia Viva e Azione e non con i 5Stelle – e a Teramo – con i 5Stelle ma non con Italia Viva e Azione – (“geometrie variabili” si sarebbe detto un tempo e oggi si preferisce “dinamiche locali”), ma al contempo si perde fortemente a Imperia, Sondrio, Latina e quasi ovunque il centrosinistra arranca, persino a Siena, Pisa, Ancona, Massa.

Che segnale è candidare a Catania con il centrosinistra Ilaria Paolillo (dirigente del partito anmalista ndr) che in contemporanea si candida con il centrodestra a Gravina? Ma qual è il senso, il segnale? Per carità, un episodio “minore”, che però forse ci racconta molto delle pratiche ancora in uso.
E non può bastare dire che il nuovo Pd c’è da solo un mese, perché le lune di miele possono esaurirsi anche dopo la prima notte.

Tutto questo giustifica vecchie e nuove perplessità, cui bisognerebbe dare risposte certe, univoche, definite se si vuole davvero costruire, ricostruire una casa comune, abbandonando tutte le ambiguità e atteggiamenti buoni per tutte le stagioni (voglio la Pace nel mondo). Non basta dire “ci sono solo da un mese, quello era un altro Pd”. Perché come sa bene la Schlein per avercelo raccontato in questi anni, il popolo di sinistra è generoso, volenteroso, disponibile, ma da troppo tempo fiaccato da facili entusiasmi e da rovinose disillusioni.

L’autore: Lionello Fittante è tra i promotori deli Autoconvocati di Leu, ex membro del Comitato nazionale del movimento politico èViva

Nella foto: frame del video della conferenza stampa di Elly Schlein, Roma, 16 maggio 2023

No alla giustizia come vendetta. Fermiamo la pena di morte

Mai così tante esecuzioni dal 2017. È agghiacciante il quadro che emerge dal nuovo rapporto di Amnesty International sulla pena di morte nel 2022. Le esecuzioni registrate sono state ben 883 in 20 Stati soprattutto in Medio Oriente e Africa del nord, senza contare le condanne che potrebbero essere state eseguite in Cina e in Corea del Nord di cui cui poco sappiamo. Per quanto non si conosca il numero esatto di esecuzioni in Cina, dai dati che Amnesty ha raccolto risulta che sia in testa alla lista delle esecuzioni, seguita a ruota da Iran, Arabia Saudita, Egitto e Stati Uniti d’America.

Quanto all‘Arabia Saudita – decantata dall’ex premier Renzi come nuova patria del Rinascimento– si è “distinta” con 81 esecuzioni in un solo giorno.

Ma cerchiamo di analizzare il quadro più in profondità: «Aumentando il numero delle esecuzioni, gli Stati dell’area Medio Oriente e dell’Africa del Nord hanno violato il diritto internazionale e mostrato un profondo disprezzo per la vita umana. Il numero delle persone private della loro vita è enormemente cresciuto: l’Arabia Saudita ha incredibilmente messo a morte 81 prigionieri in un solo giorno. Nella seconda parte dell’anno, nel disperato tentativo di stroncare le proteste popolari, l’Iran ha messo a morte persone che avevano solo esercitato il loro diritto di protesta», dichiara Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International. «Il dato preoccupante – prosegue la rappresentante di Amnesty – è che il 90 per cento delle esecuzioni registrate, dunque esclusa la Cina, ha avuto luogo in soli tre Paesi dell’area Medio Oriente e dell’ Africa del Nord: in Iran sono salite da 314 nel 2021 a 576 nel 2022; in Arabia Saudita sono triplicate, da 65 nel 2021 a 196 nel 2022, il più alto numero registrato da Amnesty International in 30 anni; e in Egitto, dove sono stati messi a morte 24 prigionieri».

Altro segnale negativo è che alcuni Stati abbiano ripreso a eseguire condanne a morte. È accaduto in particolare in Stati come Afghanistan tornato nelle mani dei talebani, ma anche in Kuwait e una città Stato per tanti versi avanzatissima (non solo sul piano economico) come Singapore, dove proprio oggi 16 maggio, è annunciata una nuova condanna a morte di un uomo di 37 anni di cui sappiamo solo che è singaporiano-malese.  Il crimine? traffico di un chilo e mezzo di cannabis… (Sul caso Singapore avremo modo di tornare a con un reportage ndr ).

Dal rapporto di Amnesty risulta che le persone mandate alla forca per “droga” è più che raddoppiato rispetto al 2021. «Le esecuzioni per reati di droga violano il diritto internazionale dei diritti umani, secondo il quale le esecuzioni dovrebbero limitarsi ai “reati più gravi”, come l’omicidio intenzionale», scrive Amnesty. Ma noi ci permettiamo di dire di più: che è sempre insensato procedere secondo la legge del taglione, accecati da un’idea di giustizia che è solo vendetta.  Tornando al tema “reati di droga” sappiamo che sono state eseguite pene capitali in Cina (sebbene non se ne conosca il numero), Arabia Saudita (57), Iran (255) e Singapore (11) e hanno costituito il 37 per cento del totale delle esecuzioni registrate da Amnesty International nel 2022. È probabile che esecuzioni del genere siano avvenute anche in Vietnam – precisa il Rapporto – dove però i dati sulla pena di morte rimangono un segreto di Stato. Nella maggior parte di questi casi queste esecuzioni colpiscono persone svantaggiate.

Un dato molto evidente e particolarmente odioso è l’aumento delle esecuzioni, rispetto al 2021, in Iran (da 314 a 576), dove la pena di morte è comminata a giovanissimi e a esponenti delle minoranze che non hanno compiuto nessun crimine uccisi  per il solo fatto di aver protestato contro la teocrazia al potere. E poi in Arabia Saudita, come accennavamo (da 65 a 196) ma anche negli Stati Uniti (da 11 a 18) considerati dai più baluardo di democrazia. «È tempo che i governi e le Nazioni Unite aumentino le pressioni nei confronti di chi si rende responsabile di queste clamorose violazioni dei diritti umani e assicurino la messa in essere di garanzie internazionali», ha sottolineato Callamard presentando il Rapporto.

In questo quadro desolante, qualche piccolo segnale di cambiamento positivo: sei Stati nel 2022, hanno abolito in tutto o in parte la pena di morte. Il Kazakistan, Papua Nuova Guinea, Repubblica Centrafricana e Sierra Leone hanno abolito la pena di morte per tutti i reati, Guinea Equatoriale e Zimbabwe per i reati comuni. «Alla fine del 2022, 112 stati avevano abolito la pena di morte per tutti i reati e altri nove stati l’avevano abolita per i reati comuni. Questa tendenza positiva sta proseguendo nel 2023 – riporta Amnesty-. In Liberia e Ghana sono state avviate iniziative di legge abolizioniste. I governi delle isole Maldive e dello Sri Lanka hanno annunciato che non verrà dato seguito alle condanne a morte; nel parlamento della Malesia sono in discussione proposte di legge per annullare l’obbligatorietà della pena capitale».

«Molti stati continuano a consegnare la pena di morte alla discarica della storia ed è tempo che altri seguano l’esempio. Gli atti di brutalità in Iran, Arabia Saudita, Cina, Corea del Nord e Vietnam appartengono ormai a una minoranza di stati. Ma sono proprio questi stati che devono mettersi al passo coi tempi, proteggere i diritti umani e assicurare giustizia invece di mettere a morte persone», ha aggiunto Callamard. Che aggiunge: «Di fronte a 125 stati membri delle Nazioni Unite, un numero mai così elevato, in favore di una moratoria sulle esecuzioni, non ci siamo mai sentiti così fiduciosi che quell’orrenda punizione possa essere e sarà consegnata agli annali della storia. Ma i tragici dati nel 2022 ci ricordano che non rimanere indifferenti e inoperosi. La nostra campagna continuerà fino a quando la pena di morte non sarà abolita a livello globale».

Rai: quelli che vengono (oltre quelli che vanno)

Breve lista di appunti su Giampaolo Rossi, nuovo direttore generale della Rai scelto da Giorgia Meloni che recupera il pessimo precedente di Fanfani mettendo un suo fedelissimo all’interno dell’azienda pubblica, senza nemmeno fare finta.

Il compito di Rossi è chiaro: «riequilibrio di tutte le narrazioni», recuperare spazi «usurpati dalla sinistra» e lasciare spazio «agli intellettuali di destra». Fin qui sembrerebbe l’ennesima lottizzazione dell’azienda pubblica, semplicemente dall’altro lato.

Giampaolo Rossi da quel che leggiamo è un fan sfegatato Netanyahu, Putin e Orban (e fin qui ci potrebbe stare, è esattamente ciò che fu Giorgia Meloni fino a un secondo prima del suo arrivo a Palazzo Chigi). Nel suo blog de Il Giornale come ricorda Paolo Mossetti “definisce gli statunitensi scesi in piazza per contestare l’elezione di Trump «i nipotini di Soros», «femministe vomitate da una caricatura… cianfrusaglie travestite da donne». Ed è solo un assaggio: lo specchio dell’acredine «buonista» che ha da sempre come bersaglio”. Definisce Roberto Saviano un «vermilinguo» e ha nemici ben definiti. Scrive sempre Mossetti: “«l’intellettuale impegnato», «il volontario delle Ong con i soldi di Soros», «il fighetto radical-chic con il culo degli altri». O paragona Mbappé, il calciatore di successo, a un rapper che gira con la maglietta con la scritta Jihad: «il primo è un’eccezione, il secondo sarà la regola». O come quando identifica due categorie: «il nigeriano e il buonista» come «la feccia di questo Paese», che vanno messi, entrambi, «nella condizione di non nuocere». Per non dire che tra i suoi miti ha Francesca Totolo, la blogger vicina a CasaPound accusata di aver inventato la storia delle unghie smaltate di Josefa: «La dama sovranista è una delle più scrupolose cacciatrici delle fake news del mainstream». E se lo dice lui”.

Putin? Come racconta Davide Maria De Luca su Domani Rossi scriveva: «La colpa di Putin è di non volere sottomettere la Russia ai dettami del Nuovo ordine mondiale preconizzato da Soros». «La democrazia in Occidente è in pericolo non per Putin, ma per un’élite tecnocratica che sta distruggendo le sovranità popolari». E ancora: «Obama vuole spingerci alla guerra contro Putin». «Pensare che la Russia stia per invadere l’Europa – scriveva nel 2018, quattro anni dopo l’inizio delle operazioni militari russe in Ucraina – è solo il frutto di una schizofrenia indotta». In quegli anni definiva i timori per l’aggressività di Putin come una narrazione che «affonda le sue radici nei secolari interessi imperiali di Londra» e che oggi si sposano «con gli interessi dell’élite globalista».

Si legge nell’articolo di Domani: “«Guai a chi si oppone ai disegni del Nuovo ordine mondiale», scriveva in uno dei suoi articoli. Secondo Rossi, il principale esponente di questo complotto è (indovinate un po’) il miliardario ungherese George Soros, «speculatore globalista con il vizietto di destabilizzare governi democraticamente eletti» e vero architetto dei «processi migratori per alterare gli equilibri demografici secondo quella “etica del caos” tipica dell’umanitarismo ideologico della élite». Rossi ci tiene a ricordare che Soros è «ebreo», ma «di origine ungherese», e lo paragona al mostruoso Shelob di Tolkien, «il malefico essere a forma di ragno»”.

Buona visione e buon martedì.

“Oggivabbène”: Le storie diverse di Giorgio Panzera

Salentino d’origine e romano d’adozione, Giorgio Panzera è un colto e appassionato cantautore. Assolutamente atipico. Usa le parole con il contagocce e fa parlare, e tanto, la musica. Questo genera esiti imprevisti e sorprendenti da un punto di vista compositivo. Canzoni che diventano temi orchestrali, chitarre elettriche, fisarmoniche e archi che si passano la mano senza chiedere il permesso. Giorgio, oltre a scrivere musica e testi, cura personalmente tutti gli arrangiamenti sin nei minimi dettagli, quasi a sottolineare il carattere unico ed “artigianale” delle sue composizioni. La sua originale vena espressiva nell’ambito della canzone d’autore è apparsa nitidamente già dal primo album Tu che hai capito l’Amore pubblicato nel 2013. Lo abbiamo incontrato in occasione dell’uscita del suo nuovo cd Oggivabbène.

Giorgio Panzera raccontaci un po’ della tua storia come musicista, dei tuoi inizi e di come si è sviluppato il tuo rapporto con la musica popolare e con la forma-canzone che sono state da sempre le tue passioni.

Da ragazzo a casa mia c’erano fortunatamente diversi strumenti, una chitarra, un pianoforte, un mandolino. Cominciai come tanti a suonare la chitarra. Verso la fine degli anni Settanta, esplose tra i giovani la passione per la musica popolare. Oggi potrebbe sembrare incredibile, ma all’epoca facevamo la fila per andare a sentire i concerti della Nuova compagnia di canto popolare, per La gatta Cenerentola di Roberto de Simone o per Musicanova di Eugenio Bennato. Io stavo cercando la mia musica, e mi appassionai alla musica popolare che mi sembrava la più vera e la più autentica. Insieme ad altri compagni musicisti viaggiammo a lungo nel Sud Italia con microfoni e registratori sulle orme di Ernesto de Martino. Dovendo a quel punto approfondire le mie conoscenze, decisi poi di iscrivermi al conservatorio di santa Cecilia e mi diplomai in chitarra.

Come è proseguita poi la tua ricerca verso la forma-canzone?

In ogni genere musicale c’era qualcosa che mi affascinava, la polifonia e la complessità della musica classica, la rarefazione di una ballata jazz, la semplicità e la potenza della musica popolare, ma soprattutto la melodia, che resta per me il centro di ogni composizione. La canzone è una sintesi formidabile… La sensazione che si trasforma in un’idea musicale, poi c’è l’atmosfera, l’arrangiamento, e infine la voce, che ha un’espressività assolutamente unica. Tutto in tre, quattro minuti. Ed ecco quindi la scelta della “forma canzone”.

Come è maturata l’esigenza di scrivere queste canzoni, prima ancora che venissero incise e fissate su disco?

Ognuna di esse racconta qualcosa: una storia, un amore, un passaggio, un cambiamento, un ideale. Quando si riesce a trasformare queste cose in altro, ad esempio in una canzone, si rischia qualche momento di vera felicità. La musica poi permette di condividerla con gli altri musicisti e con il pubblico. Tutto questo mi ha dato la spinta a continuare nonostante la genesi assai “travagliata” di alcuni brani del disco.

Come procedi di solito nella composizione di un brano, parti prima dalla musica e poi in un secondo tempo aggiungi i testi, oppure musica e parole si sviluppano insieme?

Parto sempre dalla musica. In realtà già qualche giorno prima avverto la sensazione che qualcosa stia arrivando, prendo la chitarra e cerco di tirar fuori una frase musicale che mi corrisponda, e poi una risposta, che poi magari scoprirò che in realtà era la vera domanda, e così via, in un gioco di continui rimandi. Alla fine, ma non sempre, arrivano le parole.

Da un primo ascolto del nuovo disco si nota una particolare cura negli arrangiamenti. Quali sono le affinità e quali le differenze con il precedente album?

Tu che hai capito l’amore è stato pubblicato nel 2013, è stato il mio primo album, e lì ho cercato di proporre uno stile personale. Rispetto al nuovo disco gli arrangiamenti erano sicuramente meno complessi e concepiti soprattutto per le esecuzioni dal vivo.
Questo è un disco che sento più maturo. C’è più consapevolezza dei miei mezzi espressivi e di come usarli. Tutto ciò mi ha permesso di sperimentare, cambiare, rischiare strade nuove, e spero, lo dirà chi lo ascolta, di aver proposto qualcosa di originale. Anche nella musica purtroppo oggi si cerca il consenso, le cose che vanno, i suoni di moda… Per questo gli arrangiamenti in questo album sono tutti diversi come sono diverse le suggestioni legate a ciascun brano. C’è voluto un gran lavoro: canzoni che avevano una struttura apparentemente già definita, nel tempo si sono trasformate fino a trovare la forma e i colori che volevo. Devo ringraziare per questo innanzitutto i miei compagni di avventura, Matteo Montaldi – fisarmonica e pianoforte – e Gianni Badaracchi – chitarre – che mi hanno affiancato nel lungo periodo della pandemia. Per ottenere i risultai voluti ci siamo avvalsi anche di un uso mirato dell’elettronica e di campionamenti orchestrali.

Nei tuoi brani si colgono influenze musicali diverse, che vanno dalla musica popolare, non solo italiana, al tango, a echi di jazz.

La canzone, se vogliamo, permette questa libertà: prendere un colore dal Messico come in “Ballerina”, un ritmo di tango argentino in “Una storia diversa” o citare il suono di una banda di paese in “Oggivabbène”. Ma tutto si fonde poi con la propria storia e la propria sensibilità. Basta pensare ai nostri maestri, De Andrè, Fossati, Conte… ognuno di loro ha saputo guardarsi intorno, cogliere e rielaborare alcuni dettagli sonori senza perdere nulla della propria originalità. “Una storia diversa” ha una storia diversa… è dedicata a una persona che mi ha cambiato la vita. Solo dopo molti anni l’ho incisa.

Chi sono i musicisti che ti hanno affiancato nella realizzazione del disco e che ti affiancheranno nelle prossime uscite dal vivo?

Oltre a Matteo e Gianni di cui abbiamo già parlato, tutti mi sopportano con le mie ansie e i miei tempi: Toni Avenoso è riuscito a suonare la batteria su un quartetto d’archi e Paolo Di Gironimo, contrabbassista di musica contemporanea, non si spaventa di nulla. A questi aggiungerei l’amico Fabio Ferri, che ha curato il mix e il suono del disco in ogni dettaglio, Piero Colò che ha realizzato la splendida immagine di copertina e Raffaella Marchetti per la elegantissima veste grafica.

La marcetta spensierata che dà il titolo all’album – Oggivabbène – sul piano personale sembra rimandare ad una visione più serena del presente, e, perché no, del futuro?

Non è stato e non è un periodo facile. Pandemia, guerre, governo di destra…Tutti i giorni episodi di violenza incredibili, eppure, a guardarsi bene intorno, si scopre che in tanti, la maggioranza, credono ancora nella bellezza degli esseri umani e non sono per niente rassegnati. Poi, una mattina ci si sveglia e si pensa…però, “oggivabbène”.

L’appuntamento: Giorgio Panzera con la sua band presenterà il nuovo cd “Oggivabbène”
sabato 10 giugno 2023 alle 20 presso la “Casa della partecipazione”
di Maccarese (RM).

 

Vivere e morire a Ramallah a 75 anni dalla Nakba

Jawad e Thafer Rimawi fanno parte dei 231 palestinesi uccisi dall’esercito israeliano in Cisgiordania e Striscia di Gaza nel 2022. Con già 123 palestinesi uccisi al 10 maggio, il 2023 si preannuncia ancora peggio. Il 15 maggio nel giorno in cui si commemora la Nakba (la cacciata nel 1948 di 700mila palestinesi dalle loro case e dalle loro città e che ancora li costringe all’esilio) pubblichiamo la toccante testimonianza di Ru’a Rimawi che denuncia l’uccisione a freddo dei suoi fratelli e l’oppressione subita ogni giorno dal popolo palestinese. L’ha raccolta per Left la giornalista e ricercatrice Elena Colonna. Foto di Maria Colonna  

 

Ru’a è seduta sul divano grigio cenere nel salotto della sua casa a Beit Rima, villaggio a di nord di Ramallah, in Cisgiordania. La calda luce della giornata primaverile riempie la stanza, illuminando le due grandi fotografie che campeggiano sul muro alle spalle della ragazza. «In Palestina senti parlare di persone che vengono uccise ogni giorno, tanto da farci l’abitudine, ma non ti aspetteresti mai che siano i tuoi due fratelli a essere uccisi», dice Ru’a.

Lo scorso 29 novembre, i due fratelli minori di Ru’a – Jawad e Thafer Rimawi, di appena 22 e 19 anni – sono stati uccisi dall’esercito israeliano durante un’incursione al villaggio di Kafr Ein, a pochi chilometri da Beit Rima. La loro colpa, aver lanciato dei sassi contro i soldati che attaccavano il villaggio.

«Verso le 5 del mattino, sono stata svegliata dalle urla di mia madre», racconta Ru’a. Dopo essersi precipitati all’ospedale della vicina città di Salfit, la ragazza e i suoi genitori hanno appreso che a Thafer erano stati sparati tre colpi al petto, e Jawad era stato colpito da un proiettile esplosivo e presentava una grave emorragia interna. Mentre i suoi genitori sono rimasti con Jawad, che veniva operato d’urgenza, Ru’a è salita in ambulanza con Thafer, che doveva essere trasferito a Ramallah dove c’era un chirurgo toracico in grado di operarlo.

In ambulanza, mentre Thafer era in bilico tra la vita e la morte, la preoccupazione era di raggiungere l’ospedale senza incorrere in nessun posto di blocco israeliano. A un posto di blocco, infatti, i soldati avrebbero fermato l’ambulanza e interrogato il personale medico, rischiando di far morire Thafer nell’attesa. «Mi sono ritrovata a guardare Thafer e a chiedermi come fosse possibile che mentre mio fratello stava morendo dissanguato, i medici stessero discutendo dei posti di blocco», dice Ru’a, con la voce spezzata.

foto di Maria Colonna

Appena raggiunto l’ospedale, il cuore di Thafer si è fermato. Mentre i medici effettuavano la rianimazione cardiopolmonare, Ru’a ha ricevuto una telefonata dalla madre che le comunicava che Jawad era morto. «Mia madre ha detto: “Ti prego, dimmi che Thafer è vivo, non posso perderli entrambi” e in quel momento ho capito che li avevo persi entrambi e per sempre». Ru’a tace qualche secondo. «Mi sento bloccata a quel giorno: il sole sorge, le persone vanno al lavoro, io devo svegliarmi, ma non mi sento più viva».

Eventi come questi, dice Ru’a, sono ciò che i media chiamano ‘scontri’ tra israeliani e palestinesi: giovani uccisi a sangue freddo per aver lanciato sassi contro i soldati che attaccano le loro case. «Cosa possono fare dei sassi contro i fucili, le bombe, i carri armati, e i soldati armati fino ai denti di uno degli eserciti più forti al mondo? Come può il fatto di lanciare una pietra giustificare lo sparare tre proiettili nel petto di un diciannovenne?» Ru’a aggiunge che i proiettili esplosivi, come quello che è stato sparato a suo fratello Jawad causandogli lacerazioni interne, sono proibiti dal diritto internazionale. «Non c’era modo per nessuno dei due di sopravvivere: è stata un’esecuzione a sangue freddo».

La ragazza spiega inoltre che non c’era un motivo apparente dietro all’incursione a Kafr Ein: non c’è stato nessun arresto, e dopo aver sparato a Jawad e Thafer i soldati sono ripartiti, lasciando i due ragazzi a terra sanguinanti. «Se qualcuno ci vede un motivo, me lo dica» dice Ru’a, «a parte ricordarci che viviamo sotto occupazione, e che loro possono fare quello che vogliono – anche ucciderci senza nessuna conseguenza». Ru’a ci spiega infatti che non si sa chi abbia ucciso i suoi fratelli, e che questa persona non subirà alcun tipo di condanna: uccidere palestinesi, dice, è solo parte del lavoro di un soldato israeliano.

foto di Maria Colonna

Jawad e Thafer fanno parte dei 231 palestinesi uccisi dall’esercito israeliano in Cisgiordania e Striscia di Gaza nel 2022, in quello che è stato l’anno con più uccisioni dal 2005. Con già 123 palestinesi uccisi al 10 maggio, il 2023 si preannuncia ancora peggio. «La differenza tra il numero di palestinesi uccisi e quello di israeliani uccisi (29 nel 20220 ndr) è enorme: non si tratta di uno scontro tra forze pari, che si attaccano con uguale violenza, ma di un’occupazione» dice Ru’a.

L’occupazione per i palestinesi è una violenza quotidiana: ogni giorno i palestinesi devono aspettare ore ai posti di blocco, subire retate, violenze, insulti e umiliazioni, sapendo di poter essere uccisi o perdere i propri cari da un momento all’altro. Non c’è palestinese che passi un giorno della propria vita senza che qualcosa gli ricordi di vivere sotto un’occupazione militare. «Come ci si può aspettare che reagisca qualsiasi essere umano in queste circostanze? Perché viene sempre incolpata la reazione palestinese, e non le azioni israeliane che la causano?» si chiede Ru’a, «difendersi e difendere i propri cari è una reazione umana, e l’unico modo che i palestinesi hanno per farlo è lanciare sassi contro un esercito». Ma quando si parla di Palestina, quella che è una reazione umana viene definita atto di terrorismo.
«Com’è possibile che lanciare sassi sia considerato un atto terroristico, mentre attaccare un villaggio con i carri armati no? Come ha fatto il mondo a convincersi che le retate, le violenze e le uccisioni perpetrate da israeliani possano essere classificate come ‘autodifesa’, mentre lanciare sassi è terrorismo, e una ragione sufficiente per venire uccisi?», continua Ru’a, «Si punta il dito sempre contro le azioni violente dei palestinesi, senza vedere le nostre azioni come reazioni generate dall’oppressione e alla violenza che subiamo ogni giorno da anni. Dall’altra parte, viene sempre trovata una giustificazione per le violenze israeliane».
A chi sostiene che i palestinesi non vogliono e non cercano la pace, Ru’a quindi risponde: «Come potrebbe qualsiasi essere umano sano di mente non voler vivere in pace?» Aggiunge però che la pace proposta dagli israeliani è che i palestinesi accettino di essere uccisi e perdere i propri cari in silenzio. «È dal 1948 che cerchiamo di negoziare una pace, ma l’unica cosa che otteniamo e che ci siano sempre più uccisioni, sempre più insediamenti, sempre più posti di blocco».
«L’occupazione deve finire, le uccisioni devono smettere: nessuna sorella dovrebbe vivere questo dolore, nessuna madre dovrebbe perdere i suoi figli in questo modo. Il mondo non può permettere che persone innocenti continuino a morire e perdere i loro affetti».

Nonostante il dolore che le provoca parlare della morte dei fratelli, Ru’a sente la responsabilità di farlo, perché «se non ne parliamo noi, chi ne parlerà mai?». Per questo ha scritto un articolo su quello che è successo. Ru’a ha però trovato molte difficoltà nel pubblicare il suo pezzo, poi accettato da Al Jazeera: molte testate internazionali hanno rifiutato l’articolo di Ru’a proprio per la menzione al fatto che i suoi fratelli avevano lanciato dei sassi, ovvero un atto terroristico.
«A una sorella dovrebbe essere concesso il tempo di affrontare il lutto: ma in quanto palestinese devi convincere il mondo che l’uccisione dei tuoi fratelli è stata ingiusta, che non hanno fatto nulla per meritarla, che i loro assassini devono essere chiamati a renderne conto, e che la loro morte è una perdita per il mondo intero».
Jawad aveva studiato amministrazione aziendale all’università Birzeit, una delle migliori università palestinesi, e lavorava in banca. Thafer si era da poco diplomato dalla scuola superiore con uno dei punteggi più alti di tutta la Palestina, e aveva iniziato a studiare ingegneria informatica all’università. «Erano pieni di sogni e ambizioni, erano compassionevoli e affidabili, erano i migliori fratelli che si potessero avere, degli amici fantastici. Persone come loro non avrebbero mai dovuto essere uccise».
«So che parlare di Thafer e Jawad non li riporterà in vita», conclude Ru’a, con le lacrime agli occhi, «spero però che raccontare di loro farà capire al mondo la realtà e la brutalità dell’occupazione israeliana, e riuscirà a prevenire altre uccisioni: la mia storia, la storia di Jawad e di Thafer, è la storia di ogni palestinese, tutti i palestinesi conoscono qualcuno che è stato ucciso».

«Se la mia storia riuscirà anche solo a colpire una persona, a far capire a una sola persona la sofferenza palestinese, quello sarebbe abbastanza».

Caso Rovelli: peggio c’è solo l’autocensura. Che c’è

Nel giro di qualche ora è accaduto di tutto. Tutto è molto peggio di quanto si potesse immaginare nella più funesta delle ipotesi.

Il fisico Carlo Rovelli rende pubblica la mail con cui viene sollevato dall’invito di rappresentare l’Italia all’inaugurazione della Buchmesse di Francoforte. Il commissario del governo nonché presidente dell’Associazione italiana editori Riccardo Franco Levi nella sua mail fa riferimento alle parole pronunciate da Carlo Rovelli sul palco del primo maggio, quando si è permesso di dire pubblicamente ciò che tutti dovrebbero sapere ovvero che il ministro della Difesa Guido Crosetto era un signore delle armi prima di diventare ministro delle armi (lui stesso aveva ritenuto inopportuna una sua eventuale nomina a ministro in quel ruolo).

Le reazioni alla notizia sono la fotografia di un tempo cupo, confuso e di poco sapere. Qualcuno dice che giustamente Rovelli è stato escluso perché “amico di Putin”. C’è anche un certo giornalista, una firma celebre del giornale che piace alla gente che piace, che definisce Rovelli fiancheggiatore di Putin. È normale: come in tutte le guerre anche su quella innescata dalla assassina invasione russa si buttano gli amatori degli armatori. C’è chi dice che Rovelli dovrebbe parlare “solo di buchi neri”. Sono gli stessi che grazie alla guerra hanno guadagnato un po’ di visibilità e ora discettano di geopolitica, di politica, di cultura, di costume e commentano i commentatori. Anche questo l’abbiamo già visto: la pandemia ha vomitato mostri onniscienti. Poi, per fortuna, spariscono.

Torniamo alle reazioni che ci interessano. L’Aie (Associazione italiana editori) ha sconfessato il suo presidente Franco Levi. Tra gli editori qualcuno (troppi pochi) ha preso posizione. Soprattutto il ministro Crosetto ha riferito di non avere esercitato alcuna pressione. Quindi chi ha spinto Levi a questa scelta? Lo spiega lui stesso in un’intervista al Corriere della Sera in cui dice di avere scelto “da solo” e di averci ripensato. Rovelli ci sarà.

Niente censura quindi? No, peggio: autocensura. L’interprete di un ruolo di punta dell’editoria italiana – il luogo dello smottamento per vocazione – ha deciso di cancellare l’intervento di una delle penne di punta della cultura italiana per “stare tranquillo”. Un gesto che è una medaglia per un governo che sogna di censurare senza proferire verbo. A questo punto la domanda è semplice: chi non è all’altezza del ruolo, provocando dannose polemiche?

Buon lunedì.

Nella foto: frame del video dell’intervento di Carlo Rovelli al concerto del primo maggio a Roma