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Il fisico Rovelli censurato per le sue idee. Auspichiamo un intervento del presidente Mattarella

Con sgomento apprendiamo che il fisico e scrittore Carlo Rovelli non rappresenterà l’Italia all’inaugurazione della Buchmesse di Francoforte, per le sue posizioni espresse per la pace sul palco del primo maggio e per le sue critiche al ministro Crosetto.

Lo sgomento è anche per la modalità e i contenuti della lettera con cui Riccardo Franco Levi, presidente dell’Associazione italiana editori (Aie) – in questo caso in veste di emissario del governo – gli ha comunicato la sua decisione. Così scrive il professore Carlo Rovelli, rendendo pubblica la lettera che ha ricevuto:

 

Non è rimasta silente la casa editrice Adelphi che pubblica i libri del noto fisico e scrittore: «Apprendiamo che Carlo Rovelli non sarebbe più degno di rappresentare l’Italia, come ospite d’onore, alla Fiera di Francoforte nell’autunno 2024: un evento che si svolgerà fra un anno e mezzo. Il motivo? Ha espresso libere opinioni in una manifestazione pubblica. Ci preme dichiarare che l’autocensura da parte dell’Associazione Italiana Editori – e di chi la rappresenta – è una pratica imbarazzante in ogni paese che si definisca libero. Un episodio grave e una decisione dalla quale non possiamo che dissociarci, esprimendo tutta la nostra vicinanza all’autore”, scrivono Teresa Cremisi e Roberto Colajanni.

Auspichiamo che intervenga il presidente della Repubblica Mattarella (qui l’appello lanciato  su change.com.  Qui la lettera aperta al presidente lanciata da Transform). Auspichiamo il suo intervento come garante della Costituzione in cui è incisa come cardine  la libertà di pensiero e di espressione.

Il pensiero corre inevitabilmente ai tempi in cui i professori dovevano giurare fedeltà cieca al governo. In tanti con coraggio, rischiando la vita si rifiutarono, come racconta Giorgio Boatti nel libro Preferirei di no. Le storie di 12 professori che si opposero a Mussolini edito da Einaudi. Come tristemente ci ricorda sulla Gazzetta Ufficiale del 28 agosto del 1931 apparve il regio decreto n. 1227 che all’articolo 18 obbligava i docenti universitari a giurare devozione «alla Patria e al Regime Fascista». Su 1225 professori solo 12 rifiutarono il giuramento pur sapendo di dover subire, quale inevitabile conseguenza, il licenziamento.

Aggiornamento 15 maggio ore 19:40: Stop a Rovelli, poi il dietrofront Levi ci ripensa

Qui l’intervista di Left a Rovelli

Al ballo mascherato delle riforme

Il 9 maggio Giorgia Meloni ha aperto le danze al ballo mascherato delle riforme, convocando tutte le opposizioni a Palazzo Chigi. Si è trattato soltanto di un primo giro di danza per la scelta dei ballerini disposti a ballare sulle note di Fratelli d’Italia. Dopo questo giro saranno scartati i ballerini più distonici, ma Giorgia Meloni non ha paura di ballare da sola, anche se Renzi si è prontamente offerto di partecipare al gran ballo delle riforme costituzionali. Meloni non ha tirato fuori un suo progetto, come aveva fatto nella passata legislatura quando aveva presentato un disegno di legge di modifica della Costituzione (A.C. 716) ispirato all’iper presidenzialismo di tipo francese, che fu bocciato per pochi voti. In realtà il presidenzialismo è stato sempre un cavallo di battaglia del Movimento sociale (Msi) di Giorgio Almirante. Quel disegno esprimeva la tradizionale insofferenza dei fascisti per il regime parlamentare, coniugata con una concezione autoritaria dei poteri pubblici. Giorgia Meloni, avendo sempre orgogliosamente rivendicato la sua provenienza da quel fronte e da quella cultura politica, adesso ha la possibilità di mettere mano a quel progetto, incidendo su quegli assetti della democrazia costituzionale che i Costituenti avevano concepito per preservare l’ordinamento dal pericolo di svolte autoritarie.
Il paradosso dell’Italia è di avere una Costituzione scritta, partorita nel fuoco della Storia, che da oltre trent’anni è vissuta con insofferenza da molti settori dell’arco politico, a partire dalle famose picconate di Cossiga. Fino al punto che si è sviluppata quella che Giuseppe Dossetti ebbe a definire una “mitologia sostitutiva”. Vale a dire si imputano alla Costituzione quei problemi che la politica non riesce a risolvere, in questo modo si crea un mito che nasconde l’incapacità delle forze politiche di governo e di opposizione di indicare una prospettiva di sviluppo per la società italiana nel suo complesso scaricando i fallimenti della politica sulle istituzioni. Tutti i tentativi di riforma della Costituzione che si sono sviluppati negli anni, non sono venuti fuori da reali esigenze dei cittadini o da difetti degli ingranaggi costituzionali che abbiano pregiudicato l’attività di governo. La modifica dei meccanismi della democrazia costituzionale è un obiettivo che è sempre stato a cuore di ceti dirigenti, (sia di destra che di centrosinistra), che, accecati da una bulimia di potere, hanno posto mano a progetti di grande riforma della Costituzione rivolti a dare più potere al potere. Prima della Meloni ci aveva provato Berlusconi nel 2005, con una riforma che riscriveva completamente l’ordinamento della Repubblica, puntando ad una sorta di “premierato assoluto”, progetto sconfitto nel referendum del 25/26 giugno del 2006. Poi ci aveva riprovato Renzi nel 2016, modificando la Costituzione e la legge elettorale. L’Italicum introduceva un sistema elettorale, molto simile alla legge Acerbo del 1923, volto a creare le condizioni per il governo di un unico partito, sennonché il popolo italiano bocciò la riforma con il referendum del 4 dicembre 2016 e subito dopo la Corte Costituzionale dichiarò incostituzionale l’Italicum.
La presidente del Consiglio Meloni è cosciente del rischio che le proprie ambizioni costituenti possano essere travolte dal referendum, che opportunamente i Costituenti hanno previsto a garanzia della stabilità della Costituzione. Per questo sta sondando l’opposizione per scegliere fra i vari progetti quello che potrebbe incontrare la minore resistenza in Parlamento in modo da ottenere una maggioranza che le consenta di evitare il referendum. Comunque sia, una volta iniziate, le danze non si fermeranno perché Giorgia Meloni ci ha detto quali sono i suoi punti fermi: rispetto del voto dei cittadini e rispetto dell’impegno assunto con gli elettori di fare le riforme.
Sotto la formula del rispetto del voto espresso dai cittadini si cela l’opzione per una democrazia dell’investitura. La riduzione delle procedure della democrazia all’investitura del capo politico che, essendo eletto direttamente dai cittadini ha il diritto/dovere di governare, senza subire condizionamenti di sorta dal Parlamento o dagli organi di garanzia, costituisce la vera concezione istituzionale di questa destra. Meloni è disposta a trattare sul modello ma non sul principio dell’investitura. A questo riguardo, le “aperture” di Renzi e di Calenda sul cosiddetto “sindaco d’Italia” le hanno fornito un atout formidabile.
L’altro punto fermo è quello di un preteso rispetto degli impegni assunti con gli elettori.
Questa giustificazione deve essere respinta al mittente. Finquanto è vigente la Costituzione nessun partito può promettere agli elettori di fare la pelle alla Costituzione italiana perché sarebbe un atto eversivo. La gara elettorale si svolge all’interno di un quadro di regole e valori. Coloro che ottengono la maggioranza in Parlamento hanno il dovere di governare e sviluppare il loro progetti politici all’interno del quadro costituzionale predefinito, ma non possono attribuire al mandato elettorale la spinta a rovesciare il tavolo. Non c’è nessun mandato politico che consenta o autorizzi di mutare il volto della Repubblica, nata dalla Costituzione frutto della Resistenza.

Il magistrato Domenico Gallo è stato presidente di sezione della Corte di cassazione. Da sempre impegnato nel mondo dell’associazionismo e del movimento per la pace, è stato senatore della Repubblica e fa parte del comitato esecutivo del Coordinamento per la democrazia costituzionale

Pallottole e menzogne di Stato: l’uccisione di Giorgiana Masi

Il 12 maggio 1977 fu assassinata Giorgiana Masi, giovane militante radicale. In un libro ricco di inediti documenti Andrea Maori (archivista, collaboratore di Radio Radicale e curatore dell’archivio Bordin) ricostruisce quella drammatica vicenda. Si intitola significativamente “12 maggio 1977, la morte di Giorgiana Masi pallottole e menzogne di Stato” (Reality book), ve ne proponiamo un estratto:

I fatti: La richiesta di abrogazione della legge “Reale” venne fatta propria dai radicali all’interno di un pacchetto referendario di otto quesiti la cui raccolta delle firme fu avviata proprio nella primavera del 1977. Per i comitati promotori dei referendum bisognava dare una svolta nella raccolta delle sottoscrizioni dei cittadini in un momento in cui la campagna non stava andando particolarmente bene per le difficili condizioni di agibilità politica che in quel momento si vivevano in Italia. In alcuni casi la raccolta delle firme fu vietata: a seguito di una denuncia dei deputati radicali al ministro Cossiga, fu segnalato che la Questura di Nuoro aveva vietato una manifestazione radicale sui referendum “adducendo pericolo infiltrazioni provocatorie”, mentre a Venezia i radicali polemizzarono, insieme ai rappresentanti del Movimento lavoratori per il socialismo, dentro il Palazzo di giustizia di Venezia, per la decisione del presidente della Corte d’appello di vietare in luoghi aperti la raccolta delle firme per i referendum abrogativi.  Ad una delegazione dei comitati promotori il presidente della Corte d’appello comunicò che la disposizione era stata emanata direttamente dal ministero di Grazia e Giustizia. In questo clima di incertezza, fu convocata dal Partito radicale una manifestazione a piazza Navona il 12 maggio con lo slogan “Per un nuovo 13 maggio, per una nuova vittoria popolare”, in occasione dell’anniversario della vittoria al referendum sul divorzio del 12-13 maggio 1974. Per i promotori l’iniziativa costituiva l’occasione di dare un segnale per il ripristino della legalità costituzionale e per il rispetto dei più elementari diritti civili dei cittadini. La manifestazione del 12 maggio non fu autorizzata a seguito dell’ordinanza prefettizia emessa il 22 aprile. Nonostante il divieto, i promotori ne confermarono la convocazione per denunciare il restringimento degli spazi di libertà di riunione e il pesante clima repressivo, favorito da un governo d’emergenza, cosiddetto della “non sfiducia”. Secondo gli organizzatori, la manifestazione sarebbe dovuta essere rigorosamente nonviolenta, costituendo altresì un’occasione importante per informare i cittadini sui referendum rispetto ai quali si stava per concludere una difficile raccolta di firme…Di fronte al continuo divieto del ministro dell’Interno, i radicali decisero, dopo una trattativa con i dirigenti della Questura, dopo aver parlato direttamente con il ministro Cossiga e averne dato conto con una conferenza stampa ed un comunicato, di rinunciare ad ogni caratterizzazione politica e annunciarono che ci sarebbe stata solo una festa musicale, senza comizi e interventi politici e la raccolta delle firme per i referendum. La costruzione del palco per il concerto iniziata il giorno prima, potè proseguire tranquillamente. Malgrado questo, il centro di Roma fu completamente militarizzato e molti cittadini vennero caricati, respinti, picchiati. Le attrezzature di piazza Navona, luogo tradizionale delle manifestazioni radicali in quel periodo, vennero smontate a forza e gli organizzatori vennero portati via di peso. Alcuni fotografi e giornalisti vennero picchiati, anche selvaggiamente,  Nel clima di quei giorni, di omologazione totale dell’informazione, molti fotoreporter si videro respingere il loro servizio dai giornali per i quali lavoravano abitualmente. Mentre nelle strade erano in corso gli scontri e i parlamentari radicali protestavano alla Camera contro le aggressioni e le violenze della polizia, impegnata anche in forme decisamente irregolari, avvenne l’uccisione di Giorgiana Masi e il ferimento ad una gamba di Elena Ascione: durante una carica le due ragazze furono raggiunte da proiettili sparati da ponte Garibaldi dove erano attestati poliziotti e carabinieri, mentre un terzo ragazzo – Francesco Lacanale – si vide trapassare i pantaloni da un proiettile.
La presenza delle forze dell’ordine sul ponte Garibaldi fu confermata nella prima requisitoria del procuratore della Repubblica Giorgio Santacroce che scrisse: «Giova ricordare che il 12 maggio 1977, fra le ore 19 e le ore 20,30, intervennero su ponte Garibaldi: a) 100 allievi sottoufficiali carabinieri del battaglione allievi sottoufficiali di Velletri, comandati dal capitano Iannece Giuseppe a disposizione del vice-questore I dirigente dott. Alagna Antonino; b) 30 guardie di P.s. del I raggruppamento celere a disposizione del vice-questore aggiunto dott. Vincenti Luigi; c) personale dell’ufficio politico della questura di Roma». L’Ascione così raccontò la sua testimonianza: “Arrivando in piazza Belli ho visto persone che stavano in piccoli gruppi e un grande schieramento di polizia che chiudeva da ponte Garibaldi verso piazza Sonnino. Non mi ricordo se erano carabinieri o poliziotti. Sul ponte c’era un’improvvisa barricata di macchine che mi sembrava solo difensiva. A un certo punto una parte della polizia si è mossa verso ponte Garibaldi. Non potendo attraversare mi sono mossa in direzione di piazza Sonnino ed è a questo punto che si sono sentiti colpi d’arma da fuoco provenienti esclusivamente dalla parte in cui stava la polizia. Non sono in grado di precisare se erano colpi di pistola o di mitra. Io mi sono messa a scappare e sono stata colpita subito, mentre ero con le spalle verso il ponte e restando colpita da sinistra. Non ero in grado di vedere altre persone che cadevano, però l’ora era più o meno le venti.”

Il contesto storico: Il 1977 fu caratterizzato da un’esplosione di massa dell’estremismo politico giovanile ma in un quadro di crisi delle organizzazioni extra-parlamentari. Gran parte di quella violenza diventa autonoma da quei movimenti e partiti e tuttavia si radicalizza e si moltiplica. Aumentano i casi di «espropri proletari» o di «riappropriazione di beni», come venivano autodefiniti. Lo scenario in cui si svolsero questi avvenimenti aveva come riferimento il terzo governo Andreotti detto di “solidarietà nazionale” per l’appoggio esterno del Partito comunista italiano (Pci), impegnato fortemente nella strategia del compromesso storico.
Insediatosi subito dopo le elezioni politiche del 1976, il governo Andreotti dimostrò subito la sua impopolarità malgrado l’ampia maggioranza parlamentare: tra i provvedimenti assunti fin dall’autunno del 1976, furono decisi consistenti aumenti di tariffe su beni e servizi. Nel contempo il quadro politico fu scosso da due episodi che coinvolsero alti rappresentanti dello Stato: lo scandalo Lockeed, con l’incriminazione degli ex ministri Mario Tanassi e Luigi Gui per corruzione e deferiti alla commissione inquirente e l’arresto di un questore, di un colonnello dei carabinieri e di un agente del servizio informazioni difesa (Sid) accusati di aver coperto cellule neofasciste implicate nella strage di piazza Fontana.
In questo contesto si stava consumando una crisi economica di largo respiro con il prolungamento della lunga e intensa durata dell’inflazione che, malgrado gli interventi governativi e della Banca d’Italia, non fu tenuta sotto controllo: nel 1977 il costo della vita aumentò mediamente del 18,11% mentre avanzavano precarietà e diffusione di nuove marginalità giovanili. L’università cominciò ad essere area di parcheggio di disoccupati intellettuali. L’esplosione della rivolta nel mondo universitario fu anche favorita da un piano di studi del ministro Franco Maria Malfatti che introdusse misure restrittive per piani di studio e appelli di esami.
Fu all’interno dell’università di Roma che si svolse uno degli episodi più spettacolari.
Il 17 febbraio 1977, in occasione di un comizio, il leader della Cgil Luciano Lama fu costretto ad abbandonare il palco prima della fine del suo discorso per gli scontri tra gli studenti di autonomia e gli addetti del servizio d’ordine. L’episodio fu ampliato dalla stampa e diede vita ad una nuova ondata di manifestazioni di piazza con inevitabili scontri, soprattutto a Roma e a Bologna. Da quel momento si moltiplicarono gli episodi di guerriglia urbana. Nel contempo però le assemblee studentesche erano affollatissime: l’obiettivo politico della contestazione era il sostegno del Pci al governo Andreotti e alla «politica dei sacrifici». Lo scontro si fece aspro: l’accusa ricorrente del Pci verso il nuovo movimento era quella di essere espressione di un nuovo squadrismo. Posizioni distanti che riflettevano anche diversità sociali e culturali perché la dirigenza politica del Paese appariva ostile e in grado di imporre solo sacrifici e compromessi. In questa fase di scontro sociale e politico, i divieti di manifestazione imposti dai prefetti ottennero l’effetto di favorire l’escalation della violenza. Nel 1977 il conflitto politico e sociale assunse quindi caratteri drammatici: ramificato in tutti i settori della società italiana, la risposta dello Stato e dei suoi apparati fu però una sua involuzione poliziesca, autoritaria, con una progressiva diminuzione delle libertà costituzionali ed un ampliamento della discrezionalità dell’azione delle forze di polizia: l’abuso del ricorso a reati associativi o di pericolo presunto costituì il presupposto per l’ampliamento di una normativa emergenziale sull’ordine pubblico che da allora, a fasi alterne, non si è mai interrotta.

Errare humanum est, perseverare autem Lollobrigida

Ci è ricascato, di nuovo. Il ministro Francesco Lollobrigida, a margine degli “Stati generali della Natalità” torna a parlare di etnia, incurante di averci già fatto una pessima figura: “Credo che sia evidente a tutti che non esiste una razza italiana, è un falso problema quello di immaginare un concetto di questa natura. Esiste però una cultura, un’etnia italiana, che la Treccani definisce ‘raggruppamento linguistico-culturale’, che in questo convegno si tende a tutelare“.

Il ministro insiste con i giornalisti. ”Noi parliamo di cercare di avere una prosecuzione della nostra identità culturale, della quale io sono orgoglioso. Abbiamo un incremento demografico di 75 milioni di persone l’anno – ha aggiunto Lollobrigida – quindi la popolazione del mondo cresce e tanti di quelli che nascono nel mondo vorrebbero venire a vivere in Italia. Allora perché preoccuparsi delle nascite in Italia? Se la risposta è di incrementare la natalità è per ragioni legate alla difesa di quella appartenenza a cui molti di noi sono legati – io in particolare con orgoglio – la cultura italiana, il ceppo linguistico, il modo di vivere. Così come credo siano orgogliosi tutti i popoli”.

Ad aprile il ministro aveva detto “le nascite non si incentivano convincendo le persone a passare più tempo a casa perché così si intensificherebbero i rapporti – disse  – Il modo migliore è quello di costruire un welfare che permetta di lavorare e di avere una famiglia e non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica, per cui gli italiani fanno meno figli e li sostituiamo con qualcun altro”. Gli avevano fatto notare che si tratta delle stesse teorie dei cospirazionisti di estrema destra autori di stragi negli ultimi anni. Si scusò. Spiegò di avere peccato di ignoranza e non di razzismo.

Ieri ha perseverato nel peccato, qualunque sia.

Buon venerdì.

Einstein e Picasso oltre lo spazio classico

In ricordo di Pietro Greco, scrittore e giornalista scientifico, storico collaboratore di Left il 12 maggio si tiene il convegno Sullo spazio, scienza e bellezza nell’Aula magna di giurisprudenza dell’Università Roma, organizzato dalle associazioni Amore e psiche e La scuola che verrà. Con interventi di scienziati, psichiatri, urbanisti storici dell’arte e del cinema. Per l’occasione ecco uno scritto di Pietro Greco su come Einstein e Picasso rivoluzionarono l’idea di spazio. Uscito il 12 agosto 2017 su Left è pubblicato nel volume La lezione di Pietro Greco Quando la divulgazione scientifica è un’arte edito da Left

Berna, 30 giugno del 1905. Un giovane impiegato dell’ufficio brevetti, Albert Einstein, 26 anni appena compiuti, invia alla più importante rivista di fisica del tempo, gli Annalen der Physik, un articolo “Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento”, in cui assume che la velocità della luce sia costante in qualsiasi sistema di riferimento e che il principio di relatività galileiano sia valido per ogni sistema fisico in moto relativo uniforme. L’articolo unifica parzialmente la meccanica e l’elettrodinamica. E manda definitivamente in frantumi la concezione classica del tempo e dello spazio.
Parigi, anno 1906. Un giovane pittore spagnolo, Pablo Picasso, 25 anni appena compiuti, dà le prime pennellate a Les Demoiselles d’Avignon. Le cinque damigelle di Avignone rivivono sulla tela di Picasso in una «prospettiva spaccata, frantumata in volumi … incidenti l’uno nell’altro», che ce le propone in simultanea sebbene ciascuna viva in una dimensione spaziale diversa. Il quadro, a detta di molti storici dell’arte, inaugura la stagione del cubismo. E manda definitivamente in frantumi la concezione classica dello spazio nelle arti figurative. Le due opere, l’articolo e il dipinto, con strumenti affatto diversi affrontano il medesimo problema: quando possiamo dire che due eventi sono simultanei? E, negli stessi mesi, giungono alla medesima conclusione iconoclasta: la degradazione di una concezione plurimillenaria dello spazio assoluto, contenitore immutabile e indifferente degli eventi cosmici. C’è qualcosa che connette Le Damigelle all’“Elettrodinamica dei corpi in movimento”? C’è una qualche correlazione tra queste due opere che aprono una nuova era, rispettivamente, nell’arte figurativa e nella fisica? C’è qualcosa che lega il più grande pittore del XX secolo, Pablo Picasso, al più grande fisico del secolo, Albert Einstein?
Per molto tempo il problema è stato sostanzialmente ignorato dagli storici della scienza. D’altra parte, ove anche vi fosse, non è facile dimostrare, documenti alla mano, una correlazione tra l’elaborazione analitica di uno scienziato e la sintesi poetica di un’artista. Il problema è stato invece affrontato dagli storici dell’arte. I quali riconoscono che, nel dipingere Les Demoiselles d’Avignon, nel mandare in frantumi lo spazio classico e nell’avviare una rivoluzione nell’arte figurativa, il genio di Picasso ha interpretato e si è fatto partecipe dello «spirito del tempo». Ivi compreso quello «spirito scientifico» che, a inizio ’900, stava sottoponendo a seria critica la concezione newtoniana dello spazio e del tempo. Riconoscimento tutt’altro che banale, questo degli storici dell’arte. Perché implica l’esistenza di qualche cosa, un ponte tra dimensioni diverse della cultura umana, l’arte e la scienza, che molti negano e che ha portato, più tardi, nel 1959, l’inglese Charles Percy Snow a parlare di una avvenuta separazione tra «le due culture».
E tuttavia nessuno ha osato indagare quella singolare coincidenza di tempi e di contenuti tra il dipinto di un pittore spagnolo di 25 anni e l’articolo di un fisico tedesco di 26 anni. Anche perché nel 1905 Einstein ignora l’esistenza di Picasso e nel 1906 Picasso ignora l’esistenza di Einstein. Alcuni anni fa, tuttavia, uno storico della fisica inglese, Arthur I. Miller, ha deciso di passare il Rubicone e ha cercato di venire a capo di quella strana coincidenza. Il risultato è in un libro dal titolo: Einstein, Picasso: spazio, tempo e la bellezza che causa uno sconquasso. Il succo della ricerca di Miller è che c’è una correlazione diretta, forte, che va ben oltre una generica adesione allo «spirito dei tempi» tra il quadro e l’articolo, tra il genio della pittura e il genio della fisica. Non solo entrambi, Einstein e Picasso, si interessano agli stessi problemi. Ma entrambi hanno attinto alla medesima fonte di ispirazione.
Ecco come è stato costruito questo meraviglioso ponte tra arte e scienza. Nell’Ufficio brevetti di Berna, l’impiegato Albert Einstein si arrovella intorno alla natura della simultaneità. Esiste un tempo assoluto che ci consente di dire che un treno a Parigi e un treno a Roma sono partiti nel medesimo istante o che un evento sulla Terra e l’altro su una lontana stella sono avvenuti simultaneamente? È grazie a questa domanda che Einstein generalizza la relatività di Galileo: non c’è alcun modo di distinguere tra due sistemi che si muovono di moto relativo uniforme. Lo possiamo verificare anche noi: spesso capita alla stazione che non riusciamo a percepire se a muoversi è il nostro treno o in direzione opposta il treno vicino. Einstein sostiene che ciò deve essere valido per ogni tipo di sistema, meccanico e elettromagnetico che sia. Dunque, non esistono sistemi di riferimento assoluti. Poi il giovane introduce il concetto della invariabilità della velocità della luce, sulla scorta di due fenomeni ottici già noti: la luce viaggia nel vuoto a 300mila chilometri al secondo, la sua velocità non può essere superata. Ne deriva che, qualsiasi sia il sistema di riferimento di chi la osserva, la velocità della luce risulta sempre costante. Da tutto questo deriva che non esistono eventi simultanei in assoluto nell’universo. Che non esistono un tempo e uno spazio assoluti. La simultaneità dipende dal sistema di riferimento.
In quegli stessi mesi Pablo Picasso è impegnato in un vero e proprio «programma di ricerca»: la riduzione delle forme a rappresentazione geometrica. Il programma di ricerca di Picasso, come quello di Einstein, riguarda la simultaneità. E l’ottica del giovane pittore è la medesima del giovane fisico: non esistono sistemi di riferimento privilegiati. La simultaneità assoluta non esiste. E ciascuno ha una visione dei fenomeni che avvengono nello spazio che dipende dal punto di osservazione.
In definitiva, entrambi, Albert Einstein e Pablo Picasso, tra il 1905 e il 1906 scoprono il concetto di relatività. Il primo (non senza incontrare ostacoli e resistenze) conferisce a questo concetto una piena dignità scientifica, attraverso un modello matematico. Il secondo (non senza incontrare ostacoli e resistenze) gli conferisce una piena dignità artistica, attraverso un nuovo modello geometrico.
Questa prima tesi di Miller è forte, tuttavia è convincente. Nessuno dubita, infatti, che Einstein nel 1905 e Picasso con il dipinto completato nel 1907 hanno rivoluzionato la visione classica dello spazio. Già, ma il problema è, come mai tutto ciò è avvenuto in maniera, è il caso di dirlo, simultanea? Beh, sostiene Miller, perché pur ispirandosi a fonti diverse, i due ragazzi hanno attinto anche a una fonte comune. E influente. Questa fonte ha un nome e un cognome: Henri Poincaré, il francese che, insieme al tedesco David Hilbert, è il più grande matematico in circolazione all’inizio del XX secolo.
Poincaré si è occupato di simultaneità e della necessità di un approccio che superi lo spazio euclideo nella spiegazione del mondo fisico in un libro pubblicato nel 1902, La scienza e l’ipotesi.
Quel libro Albert Einstein lo ha letto direttamente, nell’edizione tradotta in tedesco. Ebbene, Arthur I. Miller dimostra che anche Picasso è venuto a conoscenza delle profonde idee del matematico francese. Non direttamente, ma attraverso le accese discussioni interne al circolo di giovani, la banda Picasso, che anima le sue giornate a Parigi. Nel gruppo c’è un tal Maurice Princet, un assicuratore che conosce l’alta matematica. È Princet che ha letto Poincaré e ne diffonde, con entusiasmo, le idee. È dunque nelle accese discussioni sulla natura dello spazio alimentate dall’amico assicuratore, che Picasso trova ispirazione per dare seguito artistico al suo progetto di ricerca sulla riduzione delle forme a rappresentazione geometrica. Les Demoiselles d’Avignon, sono la prima manifestazione della nuova estetica di Picasso.
È dunque il matematico Poincaré all’origine della rivoluzione in fisica e della rivoluzione in pittura? Picasso, dunque, è stato ispirato da Poincaré e dalle sue teorie sull’universo non euclideo? Molti ancora oggi sono scettici. Ma «le radici della scienza – sostiene Miller – non sono solo nella scienza. Perché le radici del Cubismo dovrebbero essere solo nell’arte? Potrebbe essere, ma ne dubito. C’è troppa scienza in ciò che Picasso va facendo».
La verità è che tra scienza e arte, tra tutte le diverse dimensioni della cultura umana, esiste un processo incessante di osmosi. Spesso il flusso di idee e suggestioni è carsico: consiste, per dirla con Eugenio Montale, in un pellegrinaggio oscuro e irrisolvibile. Talvolta il flusso è esplicito e visibile. Nel caso di Picasso, grazie agli studi di Arthur I. Miller, questo flusso, dalla scienza all’arte, è emerso finalmente alla luce.
Non è una questione da lasciare, solo, agli storici della scienza e dell’arte. Perché, dopo Einstein e dopo Picasso, la nostra visione dello spazio è cambiata. Tutti noi “sentiamo” in qualche modo che non viviamo in uno spazio assoluto. Questa sensazione quasi sempre è poco lucida. Raramente si fonda su solidi argomenti e quasi mai su una piena comprensione scientifica della relatività. Eppure esiste. Oggi noi abbiamo una concezione dello spazio diversa da quella che avevano gli uomini nelle età precedenti.
E, allora, viene da chiedersi chi e attraverso quali pellegrinaggi culturali, più o meno oscuri, abbia contribuito di più a rimodellare la percezione dello spazio e l’acquisizione di una concezione, sia pure rudimentale, dell’universo relativistico di noi tutti, gente comune: Le Damigelle d’Avignone o l’“Elettrodinamica dei corpi in movimento”? Einstein o Picasso? La scienza o l’arte?
Probabilmente sono domande che non ammettono una risposta netta. Probabilmente la risposta che più si avvicina alla verità è: Le Damigelle d’Avignone o l’“Elettrodinamica dei corpi in movimento”. Albert Einstein e Pablo Picasso. La scienza e l’arte.

Left, 12 agosto 2017

 

L’appuntamento: Il 12 maggio alle 15.30, nell’aula magna di giurisprudenza dell’Università Roma Tre, si tiene l’incontro “Sullo spazio, scienza e bellezza” in ricordo dello scrittore e giornalista Pietro Greco, autore dell’opera in più volumi La scienza in Europa (L’Asino d’oro edizioni) e storico collaboratore di Left. L’incontro organizzato dall’associazione culturale Amore e Psiche e dall’associazione La Scuola che verrà, in collaborazione con Netforpp, Network europeo per la psichiatria psicodinamica e altri. Giunto al terzo appuntamento, il tema è il concetto di spazio, inteso come spazio cosmico, fisico, ambientale rappresentativo di ciò che viviamo e ci circonda, interiore. Moderato da Maria Nicola, l’incontro vede la partecipazione di Elena Pettinelli, Lorenzo Ciccarese, Franco d’Agostino, Annelore Homberg, Camilla Ariani, Daniela Ceselli, Giuseppe Benedetti e Federica Di Folco.

Liberiamo Assange e la libertà di informazione

Distruggere Assange, per farla finita con la libertà d’informazione: questo il titolo, diretto come un pugno nello stomaco del libro di Sara Chessa, giornalista che collabora con Indipendent Australia, con Global Insight, ma soprattutto attivista dell’organizzazione Bridges for Media freedom e della ong Blueprint for Free Speech.

Impegnata nella difesa dei diritti umani e della libertà di informazione e pensiero, in quasi trecento pagine di testimonianze, interviste, incontri, resoconti di udienze riporta la nostra attenzione sul caso del giornalista e fondatore di Wikileaks, Julian Assange incarcerato per aver fatto informazione (a cui Left ha dedicato molti articoli, una copertina e il libro Free Assange ndr).

Abbiamo conosciuto Sara Chessa durante la Giornata mondiale per la libertà di stampa quando il suo libro, edito da Castelvecchi, è stato presentato a Roma, con lei che è intervenuta online da Londra.
«Per me è stato particolarmente importante parlare in quella giornata perché la vicenda di Assange rappresenta il caso-chiave di fronte al quale la situazione di tutti i giornalisti può cambiare», esordisce Chessa che dal 2019  segue da vicino la storia di Assange, attualmente rinchiuso in un carcere di massima sicurezza nel Regno Unito e in attesa di essere estradato negli Usa dove rischia più di 150 anni di carcere per aver diffuso documenti secretati che hanno permesso di conoscere i crimini di guerra commessi dagli Usa in Iraq e non solo.
«Come giornalista conosco la vicenda di Julian Assange fin dalla pubblicazione dei “Diari di guerra in Iraq”, testimoniati da Wikileaks, poi ho sentito l’esigenza di partecipare sempre più da vicino al lavoro in difesa dei diritti umani attraverso l’attività delle ong con cui lavoro». Alla presentazione romana, in video- conferenza dalla capitale britannica, (proprio dove Julian Assange è detenuto) Sara Chessa ha chiesto ai presenti di chiudere gli occhi per un momento e provare ad immaginarsi al posto di Julian, nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh. «Ho chiesto di provare a immaginare e sentire come può stare una persona – dice l’autrice di Distruggere Assange – che sapeva fin dall’inizio di poter andare in carcere, di essere esposto a possibili torture, ma è andato avanti lo stesso con rara integrità, di fronte al suo dovere, come giornalista, di salvaguardare il diritto del pubblico alla conoscenza. E mi sono chiesta: sapremmo fare lo stesso?». Ne saremmo capaci? Ci domandiamo insieme a lei. «Dobbiamo aspirare a servire la conoscenza», rimarca Sara. Che tornando all’urgenza del caso Assange ci ricorda: «Ora dobbiamo sapere se lui sarà estradato fuori dal Regno Unito. Se accadrà, costituirà un precedente, un fatto per cui ognuno di noi potrà essere colpito per aver messo in imbarazzo una grande potenza, come gli Stati Uniti. In un altro caso potrà essere la Cina, la Russia e così via. Diventerà difficile non avere paura, siamo umani, e rinunceremo a fornire le informazioni che conosciamo. Dobbiamo impedire che questo accada, può essere una trappola per tutti».
In Italia ci sono state dimostrazioni di solidarietà da parte della Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi), Left con Pressenza ha organizzato dal vivo e online una 24 ore non stop free Assange con attivisti da tutto il mondo, alcuni quotidiani hanno avviato una raccolta firme per la liberazione di Assange, la giornalista Stefania Maurizi, che è stata stretta collaboratrice di Assange, ha chiesto alle autorità americane accesso agli atti che le stato negato. Pensi che si dovrebbero muovere le istituzioni fin qui troppo tiepide a cominciare da quella italiana?
«Tutti i paesi occidentali hanno una bella responsabilità – risponde Chessa – In Europa diversi parlamentari hanno provato ad intervenire come Andrej Hunko, che si è impegnato e si impegna per la liberazione di Julian. In Italia il senatore Gianni Marilotti come presidente della Biblioteca del Senato ha chiesto la desecretazione degli atti delle Commissioni d’inchiesta parlamentari nella scorsa legislatura e l’onorevole Pino Cabras, che ha sempre, come politico e come giornalista, difeso Assange ha promosso una mozione di riconoscimento dello status di rifugiato politico per il fondatore di Wikileaks. Ma il fatto è che la soluzione di questo processo può essere solo diplomatica. Il sistema giudiziario britannico ha ignorato sistematicamente tutti i punti chiave che permetterebbero di bloccare l’estradizione di Assange. Di fronte a tutto questo le istituzioni nei Paesi occidentali non possono essere tiepide». Nello stesso giorno dell’incoronazione di Carlo III, facendo eco alla lettera che lo stesso Assange ha scritto al re, il presidente brasiliano Lula si è rivolto alle autorità inglesi chiedendo la liberazione di Assange. Ma in Europa nessun altro alto esponente politico ha fatto lo stesso.
«I governi alleati degli Stati Uniti devono dire chiaramente che il partner americano sta sbagliando, sta calpestando la propria Costituzione. Ma sono pavidi – accusa Sara Chessa -.Evitano di parlare, si gloriano di questa alleanza ma non si pronunciano sulla questione. Devono “spingere”: dire a Biden che deve archiviare le accuse ad Assange perché ne va della libertà di informazione di tutto il pianeta. E noi come società civile abbiamo il dovere di fare pressione perché i nostri governi parlino». Intanto il tempo corre le condizioni di salute di Julian Assange si fanno sempre più precarie. L’avvocata e compagna di Assange, Stella Morris ha più volte lanciato l’allarme. Che possibilità ci sono ad oggi di impedire l’ordine di estradizione che pende sulla testa di Assange e che permetterebbe di tradurlo nelle carceri americane, chiediamo a Sara Chessa cercando di capire meglio cosa si muove o meno Oltremanica. «Il sindacato britannico dei giornalisti, le Ong, tutti noi, speriamo nella possibilità di impedirla, speriamo nella possibilità che la causa arrivi nelle Corti britanniche perché tutto sarebbe più veloce. Se dovesse accadere che Assange non possa presentare appello contro la sentenza di condanna, emessa in primo grado, allora il team legale dovrà rivolgersi alla Corte Europea per i diritti dell’uomo, che però porta avanti cause in tempi lunghissimi. Persone vicine al team legale dicono che ci sarebbe la possibilità di ingiunzione per permettere ad Assange di restare in Europa durante il periodo di attesa. Sarebbe una buona notizia. Ma il punto è che resterebbe comunque dentro un carcere, rischia di morire lì dentro».

Oltre al rigore e alla passione civile che traspare da Distruggere Assange nella prefazione del libro colpisce la definizione di “diario emotivo” attribuita a questo testo. «Sì – accenna Sara Chessa sorridendo – qui racconto tutto il mio percorso da cronista e attivista dal momento dell’arresto di Assange in poi, annoto tutte le udienze, ripercorrendo l’intera storia come un diario, ci tenevo che tutti conoscessero quanti si sono impegnati per la liberazione di Julian». E aggiunge: «Da questo “diario” si vede anche il tentativo di distruggere l’intera filiera dell’informazione, attaccandola in più punti, per esempio quello fondamentale del rapporto con le fonti giornalistiche, essenziali al nostro lavoro». Ne emerge un percorso emotivamente coinvolgente e molto politico… «Nel libro compaiono molte persone di cui ho voluto raccontare la lotta, tra queste il padre di Assange, John Shipton, per il quale nutro un profondo sentimento di amicizia. C’è una sua intervista nel libro dalla quale traspare un po’ del suo carattere: sai, spesso in mezzo a traversie e sofferenze ci si indurisce, lui, vicino all’ottantina, è rimasto sempre la persona straordinaria che è. Ricordo che spesso era lui a rincuorarci quando eravamo stanchi e scoraggiati, prendeva i nostri sentimenti negativi e li trasformava con dolcezza e determinazione. Certo lo faceva per suo figlio ma anche per il grande amore per la difesa dei diritti umani che considera la cosa più preziosa che abbiamo. Ti auguro di conoscerlo».
Da ultimo una domanda se possibile ancor più impegnativa: come vede Sara Chessa, dal suo osservatorio, il futuro delle democrazie occidentali? «Lo vedo in mano ai cittadini come noi, se abbiamo il coraggio di difendere i principi fondamentali della libertà di pensiero, la libertà vera dei media e i diritti umani non negoziabili, pur violati decine di volte. L’ex ministro per gli Affari interni islandese Jònasson, nel 2011, quando l’Fbi è andato senza autorizzazione in Islanda con la scusa di difenderla da attacchi hacker, non li ha fatti entrare nel Paese.Non ha avuto alcun servilismo da politico di fronte ad emissari di una superpotenza. È questo l’atteggiamento che dà speranza. Se vogliamo possiamo difendere i nostri valori, possiamo agire nella direzione coerente che abbiamo messo a fondamento della democrazia».

Elisabetta Piccolotti: La forza della pace mentre l’Europa vota per la guerra ad oltranza

La decisone del Parlamento europeo di attingere perfino ai solidi dei Pnrr e ai fondi di coesione per sostenere la produzione di armi da inviare in Ucraina. L’escalation militare e la mancanza di una iniziativa diplomatica da parte dell’Europa per il cessate il fuoco e la costruzione di una pace giusta. La stessa parola pace ostracizzata dai media mainstreim in Italia e da gran parte delle forze politiche, nonostante il sentimento popolare contrario all’ulteriore invio di armi all’Ucraina. Sono tante le questioni urgenti, non più eludibili che l’Alleanza Verdi e sinistra solleva per un più ampio dibattito pubblico. Sono al centro anche del seminario dal titolo La forza della pace che organizza oggi, 11 maggio, a Roma. Ne abbiamo parlato con la deputata Elisabetta Piccolotti.

Onorevole Piccolotti l’invasione russa dell’Ucraina ha prodotto una corsa accelerata al riarmo con quali conseguenze per il futuro dell’Europa?

La risposta degli Stati europei all’invasione russa dell’Ucraina è stata una sola: mandare armi. La discussione si è spostata solo sulla tipologia e le quantità di armi da inviare, senza una strategia per raggiungere la pace. Una prospettiva di guerra ad oltranza che contraddice i valori fondanti della stessa Unione europea. È chiaro che questa prospettiva invita gli Stati a produrre più armi con buona pace di chi ha sostenuto o sosteneva le idee di disarmo. Un paradigma che può essere riproposto anche in futuro, quello di un’Europa fucina di armi e non costruttrice di pace. Una visione che pensavamo superata dalla storia.

Mentre perfino la Cina si muove cercando una soluzione diplomatica (pur fra mille ambiguità) l’Europa ha abdicato? Perché non si è nemmeno tentato di costruire una grande conferenza di pace?

Questo è il punto centrale. L’Europa non si è assunta il ruolo di forza di pace. Vi ha rinunciato perché da una parte, di fatto, ha applicato una visione ancillare a quella della Nato, dall’altra perché non avendo una comune strategia di politica estera e di difesa ha seguito le inclinazioni degli Stati più forti. Lasciare il ruolo di arbitro a forze illiberali come Turchia o Cina è una sconfitta senza precedenti della diplomazia europea. L’Italia non ha fatto niente per modificare lo stato delle cose adeguandosi e anzi rilanciando. Sembra una corsa al primo della classe a chi fornisce più armi, senza un’idea di pace.

Il Parlamento europeo ha approvato una procedura d’urgenza che rafforza la fornitura di munizioni all’Ucraina. Anche il Pd l’ha votata. Che ne pensa?

La procedura del Parlamento europeo si inserisce nell’ottica di cui sopra. Guerra ad oltranza. E si parla di forniture previste per gli anni a venire. Da questo punto di vista il sia dal governo Draghi che dal Pd non c’è mai stata una presa di distanza ma solo l’accettazione dello stato delle cose. Spero che questo atteggiamento cambi, in Italia come in Europa, a partire dalle forze progressiste.

L’Europa non esclude il ricorso a fondi del Pnrr e di coesione per questo scopo, una sua opinione?

Si chiama Piano di ripresa e resilienza. Io non credo a una ripresa e a una resilienza che parta dalle armi. I soldi del Pnrr possono fare tante per la sanità, per la scuola, per l’emergenza abitativa, per li caro affitti, per il welfare, per i milioni di famiglie in difficoltà, per la transizione energetica verso l’energia pulita. Se sprechiamo questi fondi nella produzione di strumenti di morte abbiamo sbagliato tutto e perdiamo un’occasione che non si ripresenterà. I fondi del Pnrr devono provare a colmare le tante diseguaglianze del nostro Paese, non produrre altre bombe.

L’opinione pubblica in Italia è stata ed è largamente contraria all’invio di armi ma la parola pace è ostracizzata da larga parte della classe politica e dai media mainstream. È un deficit di democrazia?

Pace è diventata una parola proibita nel dibattito e sui grandi giornali. Non lo è tra le persone. È per questo che abbiamo organizzato questo momento di confronto tra le forze pacifiste ed è per questo che ci impegniamo da un anno fuori e dentro le istituzioni. Ci hanno detto che siamo putiniani, a noi che vediamo Putin come il più grande nemico della democrazia e della libertà. Dobbiamo dare voce al popolo della pace che è maggioritario nel nostro paese. Per cambiare le cose, per un futuro di pace e disarmo, in Italia e in Europa.

 

L’appuntamento

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L’Europa non si dà pace e Bruxelles riempie gli arsenali

Chissà cosa avrebbe detto Sandro Pertini, il presidente che invitava a svuotare gli arsenali e a riempire i granai, di fronte ad un’Unione Europea che invece gli arsenali di armi li va riempiendo.
La Commissione europea ha infatti proposto di poter comprare e fabbricare armi con i finanziamenti europei. E il Parlamento europeo, il 9 maggio, giorno della festa dell’Europa, ha addirittura votato quasi plebiscitariamente una richiesta d’urgenza in tal senso. Si compreranno armi con i fondi della pace (la pace è guerra, diceva il grande fratello di Orwell), dei vari Pnrr, addirittura con quelli destinati alla coesione sociale.
Bypassando il divieto del Trattato a finanziare attività belliche con l’imbroglio di considerare queste attività belliche come industriali. Il che aggrava la situazione: in questo modo si considera la produzione militare come privilegiata nelle scelte industriali europee. Si dirà che ci si sta difendendo da Putin. Francamente mi pare che questo argomento non regga.
Ormai, dopo un anno e più di guerra e centinaia di migliaia di morti, la guerra di aggressione di Putin appare come un nuovo Afghanistan, una guerra impantanata, come peraltro teorizzato da importanti esponenti politici occidentali.
Ma che “interesse” ha l’Europa a tenersi un Afghanistan, o una Siria, nel proprio cuore? Con in più lo spettro nucleare e il dover ribaltare decenni di economia globalizzata? Dillo a Putin mi sento dire spesso.
Avendo una certa età e avendo visto come l’Europa, e gli Usa, “tradirono” Gorbaciov che proponeva la casa comune europea e il disarmo, per vezzeggiare prima Eltsin e poi quel Putin che il movimento per la pace ed altermondialista invece avversava, rispondo che non ho nulla a che spartire né con Eltisin né con Putin.
Tanto meno avendo visto “difendere” con le bombe principi di autodeterminazione di varia natura nella ex Jugoslavia, poi dissolta, non riconosciuti a curdi e palestinesi ed opposti alla difesa della “integrità ucraina” di oggi.
Troppe guerre hanno visto dopo il 1989 partecipare, magari a pezzi, l’Europa. A volte “a rimorchio” degli Stati Uniti, come in Iraq e in Afghanistan (ora “tranquillamente” riconsegnata ai talebani), ma anche “in proprio”, come in Libia.
Per questo non mi convince neppure l’idea che l’Unione europea sia “trascinata” o “fatta a pezzi” dagli Usa e dalla guerra mondiale Nato-Russia, in prospettiva Cina.
Logica vorrebbe che se uno ha una guerra in casa cerchi di farla finire prima possibile.
Essendo poi ormai il mondo una casa globalizzata, perfino Cina e Brasile, pur così distanti dal conflitto, cercano di promuoverne lo spegnimento, essendo quelli che più puntano oggi sulla globalizzazione stessa. Lula peraltro lo fa con un protagonismo internazionale più marcato dei precedenti suoi mandati.
Perché la Unione europea invece non si muove?
Purtroppo un’antica propensione alle guerre le nazioni europee l’hanno sempre avuta. Qui si sono incubate due guerre mondiali. Come colonialismo, imperialismo, commerciali e militari caratterizzavano l’Europa quando ancora gli Usa erano lungi dal “nascere”. Fu la Seconda guerra mondiale e il riconoscimento del ruolo dei movimenti operai a fare promettere di costruire la pace e una democrazia sociale. Promessa ben presto rimangiata.
Ed anche la “questione russa” è “antica”. Solo il degrado propagandistico bellico può mettere insieme zar, Urss, stalinismo, fascismo, “putinismo” Cose diverse storicamente che si sono anche combattute tra loro.
Piuttosto andrebbe rivisitata la storia dell’Europa delle nazioni, delle tante guerre, del bonapartismo e poi della conferenza di Vienna e di Monaco dove l’ossessione anticomunista spiana la strada ad Hitler e Mussolini e a Franco nelle cui mani cui viene abbandonata la Spagna.
Il “revisionismo storico” è un’attività permanente di questi decenni di costruzione di una Unione europea che assomiglia sempre più ad una nuova società delle nazioni, una forma “moderna di ancien régime”.
La mozione delle destre italiane approvata in Parlamento per il 25 aprile non a caso richiamava direttamente quella con cui il Parlamento europeo ha travisato la storia della seconda guerra mondiale.
Le destre che si richiamano al passato stanno diventando molto forti e trainanti in Europa. Governano in Italia, Polonia, Finlandia. La Spagna, dove si vota tra poco, è a rischio. I sondaggi dicono che Popolari (sempre più a destra) e destre potrebbero avere la maggioranza del Parlamento europeo nel 2024.
Polonia e Germania spendono cifre enormi per enormi riarmi. E il riarmo diviene un’opzione “industriale” europea.
Intanto si riparte col patto di stabilità e misure draconiane per chi ha bilanci in rosso. Avviso molto chiaro non solo all’Italia, ma alla Francia o, meglio, a chi, la maggioranza delle persone, lotta per le pensioni: non avranno nessuno ascolto.
Le armi costano, arricchiscono i mercanti, le pagheranno le persone normali. Così come succede per l’energia, la crisi sanitaria, climatica, economica.
Come accadeva negli ancien régime dove i dominanti, tutti, vivevano “a corte”, e i dominati, tutti, morivano e pagavano per le “loro” guerre.
Mai come oggi la lotta per la pace, contro tutti i dominanti e le loro guerre, va portata in Europa.

Il meraviglioso mondo di Valditara

Problema del caro affitti per gli studenti mentre la loro protesta si allarga a macchia d’olio? Colpa della sinistra. Il ministro all’Istruzione e al Merito Giuseppe Valditara è un fenomeno che andrebbe studiato con attenzione. Ha le risposte a tutte le domande, la risposta è sempre la stessa ed è sbagliata.

«Io credo che il problema del caro affitti sia grave ma tocca le città governate dal centrosinistra. Nelle città dove ci sono gli accampamenti degli studenti non sono state attivate dalle giunte comunali politiche a favore dei giovani e degli studenti per offrire loro un panorama abitativo decoroso», ha detto ieri Valditara.

Se la prende perfino la sua alleata, la ministra all’Università forzista Annamaria Bernini. L’Ansa parla di “irritazione” per l’uscita di Valditara, ritenuta “controproducente al raggiungimento di una soluzione efficace e il più possibile condivisa del problema”. La strada da percorrere, dicono dallo staff di Bernini, “deve essere quella del dialogo e del coinvolgimento di tutti”. E la ministra è decisa a proseguire su questa linea “senza alimentare inutili polemiche”.

“Qui ci sono due possibilità, o quella del ministro Valditara è una battuta, peraltro riuscita male, oppure è frutto di una riflessione. Se è frutto di una riflessione profonda, credo che con questa affermazione il ministro Valditara illumini il Paese rispetto a quello che lui è”, risponde il sindaco di Milano Beppe Sala. “Se è una battuta, rispondo con una battuta: magari è così perché gli studenti hanno più voglia di stare nelle città di centrosinistra che non di centrodestra perché accolgono la loro complessità e le loro problematiche”, aggiunge il primo cittadino milanese. “Valditara scarica sulle città di centrosinistra le colpe del caro affitto che grava sugli studenti. Come se dipendesse dai sindaci! Ma il ministro dov’era mentre il suo governo votava a dicembre l’azzeramento del fondo nazionale affitti? Non c’è limite alla vergogna”, dice il sindaco di Firenze Nardella. Per Gualtieri quello di Valditara “è uno scaricabarile penoso, vorrei evitare di scadere a un livello così basso. Tutte le istituzioni dovrebbero fare la loro parte e affrontare questo problema. Tra l’altro gli studentati non sono nemmeno competenza dei Comuni”.

Mentre da noi si svolgeva questo teatrino a Strasburgo Lega e Fdi si sono astenuti sulla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Sarò colpa della sinistra. Sicuro.

Buon giovedì.

 

Damiano Coletta con Pd e M5s sfida la destra a Latina

Il voto per le comunali a Latina ha un significato politico che travalica i confini della città fondata durante il Ventennio. Mentre a una manciata di chilometri Roma sfoggia il governo nazionale e regionale in mano alla destra, nella pianura pontina il centro sinistra gioca una partita coraggiosa. L’ex sindaco e presidente di Latina bene comune Damiano Coletta è il  candidato in una coalizione che comprende Pd e M5s contrapposto a Matilde Celentano di Fratelli d’Italia appoggiata da liste varie, civiche e di destra. Uno contro uno. Due visioni del futuro diverse. Da un lato, la ricerca, seppur impegnativa, di uno sviluppo sostenibile con l’attenzione all’ambiente, alla formazione universitaria, alla lotta contro le diseguaglianze e dall’altro, la politica degli annunci, delle “azioni in cinque mesi” e delle grandi opere.

Coletta, il cardiologo che nel 2016 aveva sbaragliato il potere sedimentato nelle decennali amministrazioni di centro destra con un movimento civico, Latina bene comune, si ripresenta il 14 e 15 maggio come candidato unico per il centro sinistra, dopo aver partecipato alle primarie e averle vinte con una netta maggioranza. Di fronte, un altro medico, Matilde Celentano di Fratelli d’Italia. Finora è stato impossibile un confronto tra i due. «La mia competitor si è sempre sottratta, come del resto aveva fatto Vincenzo Zaccheo, il mio avversario nel 2021», dice Coletta che due anni fa aveva di nuovo battuto le destre al ballottaggio, ma senza avere la maggioranza in consiglio comunale. Si era trovato così nella situazione delicatissima di “anatra zoppa”, una «anomalia legislativa che dovrebbe essere superata» aveva detto, perché in effetti al vincitore del ballottaggio non viene concesso di governare. Amministrare la città in quelle condizioni non è stato facile. Poi nel 2022 si è verificata un’altra vicenda. Il Tar ha imposto elezioni suppletive in 22 sezioni dopo aver riscontrato irregolarità nel turno elettorale del 2021. Il voto del 4 settembre, pochi giorni prima della vittoria di Giorgia Meloni, ha visto di nuovo prevalere Coletta. Ma il 28 settembre (la cronologia dei fatti è importante) i consiglieri di centrodestra sono usciti dall’aula del consiglio comunale per andare a firmare dal notaio le loro dimissioni. Con il sindaco sfiduciato è arrivato il commissario. E adesso siamo arrivati alla resa dei conti.

Non è esagerato dire che Latina è stata identificata per anni come una roccaforte della destra, una destra la cui visione politica certo non si può definire “moderata”. Così vicina alla Capitale, pur essendo collegata a questa tramite la famigerata statale Pontina, Latina si ritrova un territorio funestato dalla presenza di reti criminali come ha evidenziato di recente anche la Commissione antimafia, ma soprattutto la città forse paga ancora lo scotto di non aver superato del tutto, dal punto di vista culturale, un passato chiuso in sé stesso. Latina è stata fondata nel 1932 in pieno regime fascista. Una data che tuttavia non riassume assolutamente la storia e la cultura dell’agro pontino e dei suoi abitanti. Una data non costituisce l’identità di una città. Ne era già molto consapevole addirittura il primo sindaco dell’età repubblicana. «Bando al passato! Latina è sorella di ogni altra città d’Italia, democratica antifascista e repubblicana», disse nel suo discorso di insediamento Fernando Bassoli il 28 aprile 1946, come scrive la giornalista Licia Pastore nel suo bel libro dedicato al primo sindaco repubblicano di Latina – alla guida allora di una giunta Pri-Pci – che però dovette cedere qualche anno dopo di fronte allo strapotere della Dc.

Veniamo all’oggi, Damiano Coletta. Si può dire che il voto del 14 e 15 maggio in questo momento storico assume un significato particolare?
Sì, ha un’importanza storica, perché Latina ha iniziato un cambiamento nel 2016 quando è iniziata la mia esperienza amministrativa, proseguito anche nella mia riconferma del 2021. Abbiamo attraversato poi varie vicissitudini, compresa la sfiducia legata al fatto che non avevamo la maggioranza in consiglio, ma adesso si tratta di un voto importante. Se la città deciderà di continuare il cambiamento intrapreso, vuol dire che avrà fatto una scelta fondamentale. E, sottolineo, se si pensa al contesto in cui avvengono queste elezioni, con un vento nazionale e regionale che è andato in una certa direzione, sarebbe un risultato che avrebbe un valore immenso.

Rispetto al 2016 c’è un cambiamento sostanziale. Lei adesso corre per il centro sinistra. Cosa significa?
Anche questo credo che sia un passaggio importante. Nel 2016 avevamo fatto la scelta, che poi ha pagato, di rimanere coerenti come movimento civico, senza fare accordi con i partiti. Adesso invece ho partecipato alle primarie, vincendole. E questo risultato mi ha dato una ulteriore legittimazione, dopo comunque, aver sconfitto tre volte gli avversari di centro destra. Credo che siamo una delle poche realtà che in questo momento rappresentano una coalizione che è composta dall’elemento del civismo insieme al Pd e al M5s. Con questi partiti, va detto, abbiamo anche avuto un’esperienza di governo nella seconda consiliatura, in giunta erano presenti entrambi. Abbiamo lavorato bene e quindi direi che c’è una maturazione politica che nei territori rende possibile questo tipo di coalizione, all’interno di un campo di valori basato sul concetto di bene comune, sulla partecipazione, sulla lotta alle diseguaglianze. Anche il tavolo programmatico è stato molto partecipato e siamo riusciti a trovare sempre una sintesi.

Quindi Latina come laboratorio di una politica di opposizione coalizzata a livello nazionale… La segretaria Pd Schlein è venuta a Latina, come è andato l’incontro?
Un incontro affollatissimo che ha dato molta spinta, un’ulteriore energia all’area progressista. Già conoscevo Schlein, l’avevo incontrata in precedenza in eventi pubblici e ci siamo ritrovati sul tema della lotta alle diseguaglianze e sul valore dell’inclusione. Giovedì (l’11 maggio) verrà anche Conte, quindi si chiude un po’ un cerchio.

Coletta, che tipo di destra è questa che si presenta alle elezioni?
Hanno scelto una candidata sindaco che non appartiene alle storie passate, però di fatto dietro ci sono più o meno le stesse persone che fanno parte di quella destra che fino al 2015 aveva gestito una città amministrandola come fosse una sua proprietà privata. Anche dai loro punti programmatici, peraltro molto scarni, traspare il rischio di un ritorno alla cementificazione. Da loro non sentiamo parlare di rigenerazione urbana, di sostenibilità, di lotta alle diseguaglianze. Al solito, si parla di grandi opere che non troveranno mai una loro realizzazione. E comunque è evidente la volontà di un “fare” molto generico. Come ho già ricordato in occasioni pubbliche, noi a Latina dal 2015 dobbiamo pagare un milione e 200mila euro all’anno (per 30 anni) a causa di una sanzione emessa dalla Corte dei Conti per la malagestione dell’aspetto economico e finanziario delle amministrazioni precedenti la mia. Insomma, hanno prodotto un indebitamento. Non è che dobbiamo pagare un mutuo, no, dobbiamo pagare una multa.

Nel corso della campagna elettorale il tema della richiesta di servizi da parte dei cittadini sembra dominante. Ovviamente sono fondamentali ma una buona amministrazione si caratterizza solo nel fornire servizi?
Io ritengo di no, ma è giusto che un cittadino reclami per esempio il suo diritto ad un decoro urbano. Su questo aspetto dobbiamo senz’altro migliorare. Io mi sono occupato purtroppo di problemi molto complessi da risolvere perché con le amministrazioni precedenti si era generata un’economia che definisco tossica. Loro sostengono che c’era “movimento” nell’urbanistica ma questo sa cosa ha prodotto? Sei piani particolareggiati annullati, e questo ha comportato di conseguenza il blocco dello sviluppo urbanistico. Amministrare una città significa tante cose e la cultura che stavamo cercando di sviluppare era proprio quella del senso della collettività, della partecipazione, del mettere al centro la persona. Abbiamo gestito l’emergenza della pandemia e siamo riusciti a tutelare la fascia di popolazione più fragile con azioni da parte dei servizi sociali importanti, non solo di mero assistenzialismo ma proprio di presa in carico delle persone. E quindi questo cambia un po’ la storia. Poi, certo, mi rendo conto che ad alcuni cittadini fa più effetto la strada asfaltata che non tutelare le famiglie che non arrivano a fine mese. Io credo che si debba trovare un equilibrio in tutto questo. Quindi tutela dell’ambiente, sviluppo economico, università, decoro urbano e servizi e contrasto alle diseguaglianze: questa è la mia visione di amministratore di una città.

Che cosa ha imparato in questi anni? E cosa cambierebbe nel suo operato?
In base all’esperienza che ho avuto, forse avrei dovuto porre maggiore attenzione alla capacità di comunicazione di quanto ho fatto e anche di quanto non ho fatto. Credo che nessuno metta in dubbio la mia onestà nell’approccio e nella gestione del bene comune, ma mi sono trovato ad affrontare situazioni molto complesse e ho dato per scontato che il cittadino lo capisse. Ho dovuto necessariamente fare delle scelte per questioni di bilancio, sacrificando inizialmente il decoro urbano, il che non vuol dire volere la città brutta, però, ecco, non è stata posta quell’attenzione che forse, tornando indietro, avrei dovuto avere, magari sacrificando qualcosa delle energie spese per la gestione dei problemi complessi.

Nel 2032 cadrà il centenario della fondazione di Latina. La destra coglie l’occasione per fare propaganda, Vittorio Sgarbi, capolista della lista Matilde Celentano sindaco, esalta il razionalismo in architettura. Lei come pensa di affrontare questo passaggio?
Va rispettata la storia di Latina prima della bonifica, così come va rispettata la storia della bonifica, senza cadere però sempre nella retorica del passato. La storia sicuramente va celebrata e voglio ricordare che nella piazza principale di Latina abbiamo ripristinato i giardini così come erano stati originariamente progettati. Il 30 giugno 2021 abbiamo ricordato la posa della prima pietra della città, cosa che nessuno aveva fatto. Quindi la storia la si rispetta. Ci si avvia verso il centenario per il quale dovrà essere costituito un tavolo per promuovere le varie iniziative, ma nello stesso tempo dobbiamo dare forza e identità a una città che comunque è giovane. Se Latina nasce un po’ come città futurista, diciamo, noi in linea con queste origini dobbiamo renderla una città universitaria, una città che diventi più smart e nello stesso tempo più green con l’attenzione alla sostenibilità e all’ambiente. Insomma, è una città che deve guardare al futuro.