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È nato un “invasore” sulla Geo Barents

Da mercoledì mattina i migranti a bordo dell’imbarcazione umanitaria Geo Barents non sono più 254, ma 255. Alle 11:31 Fatima ha dato alla luce il piccolo Alì. Nato e respinto. E ora? «Le autorità italiane facciano sbarcare a Lampedusa e trasferire in Sicilia la donna che oggi a partorito sulla nave Geo Barents il piccolo Alì». L’appello arriva da Candida Lobes, operatrice di Medici Senza Frontiere, a bordo della nave, che dichiara di aver ricevuto dalle autorità maltesi la proposta «inaccettabile, disumana e illegale» di trasferire a Malta la donna e il neonato, lasciando però sulla nave gli altri tre figli minori, uno dei quali ha appena due anni. «Questa donna si trova a dover scegliere tra lasciare indietro i suoi figli e prendersi cura della sua salute e di quella del neonato. Ci appelliamo al buon senso delle autorità italiane affinché questa ragazza sia evacuata al più presto con la sua famiglia”, conclude. 

Il piccolo Alì è nato dopo sette ore di travaglio. Nella clinica medica della Geo Barents, Fatima è quindi diventata di nuovo madre. Per la quarta volta. Dalla Libia era fuggita a bordo di un barcone, insieme ad altre 89 persone. Con sé i suoi tre figli e la speranza di una nuova vita. «Il viaggio difficile, le dure condizioni, lo stress estremo e la profonda disidratazione hanno innescato il travaglio – spiegano i soccorritori di Msf -. Ha affrontato la straziante traversata su una barca gremita e instabile, temendo per i figli che viaggiavano con lei». 

Una volta a bordo della Geo Barents l’equipe medica si è subito presa cura di lei. Immagino il ministro dell’Interno Piantedosi, nella sua parte di controfigura di Salvini, difendere l’Italia da questo pericolo migrante con qualche ora di vita. Immagino soprattutto quelli che il bambinello lo stanno cercando in porcellana per infarcire il presepe. Se volete esercitare il vostro spirito natalizio c’è Alì. È stato evacuato oggi di prima mattina. Chiedetegli cosa significhi cercare salvezza. Buon giovedì.

In apertura, un’immagine da un video a bordo della nave umanitaria

“Argentina, 1985”, un’opera popolare per non dimenticare gli orrori della guerra sporca

«Il 4 febbraio 1977 fui sequestrata mentre ero a casa mia. Mi caricarono su un’auto. Appena girò l’angolo, mi misero un maglione sulla testa, mi buttarono per terra e mi calpestarono. Poi iniziarono a dirmi che mi avrebbero ucciso. Mi fecero scendere, mi tolsero il maglione, mi misero una benda sugli occhi e mi ammanettarono. Io in quel periodo ero incinta di sei mesi e mezzo, quindi già piuttosto in là con la gravidanza. Mi torturarono, nonostante la mia condizione. Mi tennero rinchiusa per mesi. Le torture erano sistematiche, costanti, di ogni tipo».
Santiago Mitre sceglie questa testimonianza di Adriana Calvo De Laborde, fisica, professoressa universitaria e ricercatrice, rapita durante la dittatura militare argentina, per raccontare uno dei capitoli più bui della storia della violazione dei diritti umani.

Argentina, 1985 in concorso per il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno e disponibile per gli abbonati alla piattaforma Prime Video, racconta lo storico processo civile intentato alla giunta dell’ex presidente Jorge Rafael Videla, Emilio Eduardo Massera e ai principali esponenti del regime militare argentino. Un’occasione per condannare i crimini contro l’umanità perpetrati dalla dittatura e di favorire la continuità della democrazia.

L’opera di Mitre è cauta e accessibile nella sua ricostruzione storica: nell’incipit, delle sintetiche didascalie delineano il contesto politico, in modo che tutti gli spettatori possano confrontarsi con quella che è una tragica parentesi storica, spesso dimenticata: la Guerra Sporca dell’Argentina sotto il regime militare al potere dal 1976 al 1983, che vide il rapimento, la tortura, la sparizione forzata di circa 30mila civili, per eliminare qualunque forma di protesta e dissidenza nell’ambiente culturale, politico, sociale del Paese.

Il film è ambientato nel 1985: ai tempi il regista aveva solamente 5 anni, era quindi coetaneo di quei bambini scomparsi, che sarebbero stati rivendicati dall’associazione delle Madri di Plaza de Mayo. Per Mitre diventa fondamentale ricostruire quel momento storico, di cui avrebbe per sempre, inevitabilmente subito il peso.

Il film si apre poco prima che il procuratore Julio César Strassera, interpretato da un ineccepibile Ricardo Darín, riceva tra le mani la notifica che gli comunica che il processo ai comandanti dell’esercito per le atrocità commesse durante la dittatura militare si svolgerà. Sono trascorsi due anni dall’avvento di una democrazia ancora debole e corrotta: i militari sconfitti continuano a esercitare purtroppo una profonda influenza nelle alte sfere del governo.

Argentina, 1985 sceglie di raccontare la storia di un uomo mosso dal desiderio di giustizia ma spaventato all’idea che la sua famiglia, continuamente vessata da minacce, possa subire ritorsioni. Il film si articola, convenzionalmente, attraverso le diverse fasi del processo. Ma l’occhio del regista si divide tra lo spazio dell’aula del tribunale e le mura di casa di Strassera. In questo modo, spesso, dei momenti di leggerezza della vita quotidiana riescono a spezzare la tensione. La risata diviene strumento indispensabile per esorcizzare la paura e il senso di impotenza che spesso gravano sui protagonisti, che non sono idealizzati e costruiti come figure eroiche, ma rappresentati come semplici uomini e donne.

Il nuovo presidente Raúl Alfonsín è riluttante nel sostenere una condanna al vecchio regime e Strassera ha solo pochi mesi per raccogliere le prove necessarie a dimostrare la colpevolezza degli imputati e lavorare a un processo senza precedenti, la più grande azione penale per crimini di guerra dai processi di Norimberga: ad aiutarlo saranno l’assistente Luis Moreno Ocampo (Juan Pedro Lanzani) e un gruppo di giovani neolaureati in giurisprudenza.

Combinando cinema di finzione e rigore documentaristico il dramma procedurale raccontato da Mitre trova espressione nelle testimonianze delle vittime di torture e dei familiari dei desaparecidos, troppo a lungo rimasti inascoltati.

L’intelligenza di Argentina, 1985 è proprio nel suo taglio mainstream, quasi televisivo, nei tempi veloci, nella sua estrema leggerezza nel saper condensare una battaglia così dura e drammatica. È proprio questa impostazione a rendere potente il film di Mitre: un’opera popolare, che non vuole commuovere ma restituire con autenticità la testimonianza degli orrori e delle violenze della dittatura, per renderci consapevoli e saper guardare avanti, senza dimenticare. Nunca más.

Salvini triste, solitario y final

Nella sua Lega è tornato Umberto Bossi a scavargli un fossato intorno. Già questo dice quando Matteo Salvini sia fragile dentro e fuori al suo partito. Nei giorni scorsi in Lombardia il consigliere regionale Gianmarco Senna ha annunciato l’addio al partito di Salvini per entrare nel Terzo polo, e quindi sosterrà Letizia Moratti alle prossime elezioni regionali. I leghisti (o ex, ora fuoriusciti dal partito) che sperano di entrare nella lista della già vicepresidente della Regione Lombardia – come fa notare Cristina Giudici su Linkiesta – hanno un doppio obiettivo: mettersi di traverso all’eventuale vittoria di Attilio Fontana per dare uno schiaffo a Matteo Salvini e – per quanto riguarda i consiglieri regionali – sperare di essere rieletti.

In Lombardia la Lega non è più di Salvini. Dopo Bergamo, nei congressi provinciali il Comitato Nord di Bossi si prende Brescia, Lodi, Cremona. A Varese assente Giorgetti, che non ha votato. A Rovigo, in Veneto, al primo congresso provinciale, ha vinto Guglielmo Ferrarese. È vicino all’assessore Cristiano Corazzar, in linea con Zaia. Stessa cosa a Cremona dove segretario è Simone Bossi altro leghista da Comitato Nord. Pavia va a Jacopo Vignati, grazie al sostegno del vicepresidente del Senato, Gian Marco Centinaio. A Como è stata invece riconfermata Laura Santin che è la moglie di Fabrizio Cecchetti, segretario della Lega Lombarda, uno che in Lombardia ha lavorato contro Attilio Fontana.

Il calo del partito di Salvini sembra inarrestabile anche a livello nazionale, assestandosi al 7,6 per cento, più di un punto sotto il pessimo risultato delle politiche e scavalcato anche dal Terzo polo, al 7,9. Vola la sua avversaria Giorgia Meloni. Anzi, a dirla tutta, Matteo Salvini e Giorgia Meloni ormai giocano in due campionati diversi: lui arranca in un ministero di cui non ha competenze e a cui non riesce a dare slancio (attaccato a quella bolsa trovata del ponte sullo Stretto) mentre lei tira i fili del Paese.

Ieri sera Matteo Salvini, logorato e svuotato da una sconfitta che può riuscire solo a rallentare, ha impugnato il suo telefono convinto di avere trovato una grande idea per scaldare gli animi dei suoi elettori. Ha preso un video dei tifosi del Marocco che festeggiavano a Milano e l’ha pubblicato su Facebook commentando con «il Marocco elimina la Spagna, così “festeggiano” a Milano… Mi auguro che i responsabili vengano identificati e ripaghino tutti i danni». È passata qualche manciata di minuti e la Questura di Milano ha diramato un comunicato in cui scrive che «non ci sono stati disordini o criticità».

Poi Matteo è andato a dormire.

Buon mercoledì.

Che fine ha fatto il rapporto della sinistra con le classi popolari?

Mentre assistiamo allo psicodramma che si svolge in casa Pd, non possiamo non rattristarci di fronte allo spettacolo altrettanto mesto che ha luogo fuori da quella casa, per i suoi toni beckettiani se non alla Ionesco. Personaggi muti recitano a soggetto, afoni. Nessuno ode, perché non si profferisce verbo. La vicenda Soumahoro, poi, nel mostrarne la superficialità, li ha solo ammutoliti oltre ogni ritegno. La classe dirigente che mancò, questo sarà il responso degli storici nello studiare dov’è finita la sinistra, solo un secolo dopo quella partenogenesi catartica che era stata spinta dal mito propulsivo della rivoluzione bolscevica. Perché il fatto è che la sinistra – nelle forme che ha assunto dopo l’89 – si è pericolosamente avvicinata al baratro della sua estinzione.

La sinistra in Italia
Ventuno anni fa, nel 2001, Ds e Margherita – che si fonderanno poi nel Pd – raccolsero, rispettivamente, 6,15 e 5,39 milioni di voti (il 31,2%), mentre Rifondazione comunista e Comunisti italiani ne ottennero 1,87 milioni e 620mila (6,7%). Cinque anni dopo, l’Ulivo di Ds e Margherita ne prenderà 11,9 (il 31,3%) e Rc e Ci, separatamente 3,1 (l’8,16%). Se aggiungiamo i socialisti, la lista di Di Pietro e i Verdi, che nel complesso ne raccolsero 2,65 milioni (il 7%), alla sinistra andarono 17,7 milioni di consensi (la coalizione, con un’alleanza di ben tredici liste raccolse 19 milioni di voti e la maggioranza, d’un soffio). Dopo di allora, il declino. Il Pd, con l’esordio con Veltroni, è sceso dai 12 e passa milioni di voti (33,2%) del 2008, agli 8,65 milioni del 2013 (25,43%), ai 6,16 del 2018 (18,8%) fino ai 5,36 milioni del 2022 (19.1%). Alla sinistra del Pd, le varie reincarnazioni di partiti e liste sono passate, nel complesso, dal milione e mezzo di voti del 2008 (il 4,1%) al milione di Sel, in coalizione col Pd (3,3%), più gli 850mila delle altre liste (2,6%) nel 2013. Nel 2018, un’uguale divisione ha portato 1,11 milioni a LeU (3,4%) e 500mila voti alle altre (1,52%), laddove nel 2022 l’Alleanza SI+V ha raccolto poco più di un milione di voti (3.6%), Unione popolare 403mila (1.43%), mentre le altre liste, però solo in parte riconducibili alla sinistra, hanno preso 906mila voti (3.23%). In ventun anni, quindi, la sinistra, nelle sue varie articolazioni, è passata da un consenso di 17,7 milioni di voti a poco più di 7 milioni, con un crollo che comincia solo dopo il 2006. Aggiungiamoci pure il M5s, presente solo nelle ultime tre tornate, e il totale raggiunge oggi gli 11,4 milioni. Se è principalmente il Pd che ha visto dimezzare i suoi consensi, anche il resto del vario arcipelago non ha certo brillato, riducendo il suo bacino di ben due terzi. E l’appeal dei 5 Stelle, che raccolse il malumore sociale degli anni dell’austerity nel 2013, confermato poi cinque anni dopo, si è notevolmente ridimensionato.
La sinistra, è evidente, ha perso il favore di una buona fetta del suo elettorato, provocando una «delusione» che si è riflessa nell’aumento dell’astensione. L’affluenza, infatti, è scesa dall’83,6% del 2006 (era stata l’81,3% nel 2001) all’80,5% del 2008, passando poi al 75,2% del 2013, al 72,9% del 2019 fino al 63,8% del 2022. In sostanza, è aumentata la disillusione democratica, con un’astensione che ha ormai superato un terzo degli elettori.

Il Paese dei divari
Nello stesso arco di tempo, però, la situazione economica e sociale del Paese è andata peggiorando. Non solo il Pil ha smesso di crescere, non tornando più ai livelli del 2007, in termini reali, ma lo stato complessivo dell’economia non ha fatto che divenire via via più fosco. Le disuguaglianze di reddito sono rimaste alte (tra le maggiori in Europa occidentale), la mobilità sociale si è fermata, l’occupazione è debolmente aumentata (meno che altrove), ma solo grazie al lavoro precario, la disoccupazione è rimasta alta (più che altrove), soprattutto nelle fasi cicliche, la povertà affligge ormai un quarto delle famiglie, anche tra i lavoratori (come nei Paesi europei meno avanzati). I divari territoriali, poi, sono andati peggiorando, con un Mezzogiorno che si allontana vieppiù dal Centro-nord, la migrazione interna e verso l’estero in aumento, la popolazione residente in calo continuato (più al Sud che al Centro-nord), la natalità in continua frenata, non compensata dall’immigrazione, minima. I salari e gli stipendi sono altresì fermi se non in calo, in termini reali, soprattutto per le categorie meno qualificate. Anche la struttura sociale è andata ingessandosi, sfarinandosi vieppiù tra le fasce più deboli. Forse la classe operaia non esiste più, come una certa vulgata ama dire, eppure gli operai e assimilati rappresentano ancora il 34,2% degli occupati (nel 2021), esattamente come dieci anni prima. E, però, sono meno garantiti, più nei settori dei servizi che nel manifatturiero. La crescita del reddito, quando vi è stata, si è accompagnata ad un aumento della disuguaglianza, beneficiando di più le famiglie con i livelli reddituali medio-alti. A rimanere indietro sono stati soprattutto i giovani, colpiti in misura crescente dal rischio di povertà. La crescita del reddito del quinto della popolazione con introiti più bassi è stata sempre più contenuta di quella registrata negli altri quinti. In sostanza, i meno abbienti sono divenuti via via relativamente più poveri dei più benestanti, perché più precari, meno protetti. Tuttavia, sarebbe sbagliato ritenere che ciò è accaduto solo perché il Paese ha attraversato due crisi – quella economica e quella indotta dalla pandemia – sopravvivendo, perché il suo corpo sociale ne ha sofferto in modo non equo: un lavoratore su tre guadagna meno di mille euro al mese, un italiano su quattro è in condizione di povertà, l’occupazione è sempre più precaria, il divario di reddito e territoriale è aumentato. Il «cuore» dell’economia e della società più «tutelato» si è ristretto e si è allargata l’area attorno, quella periferica e marginale, ma non per questo meno funzionale ad essa. C’è qualcosa di distorto e di profondamente iniquo se il sistema va evolvendosi verso una società nuovamente «classista» e, in definitiva, sbagliata. Di cui la politica dovrebbe occuparsi e che ha, invece, trascurato, anzi contribuendovi.

La sinistra verso il baratro
Con la «globalizzazione», il capitalismo è entrato in una nuova era, favorita dalla tecnologia e dalla geo-politica. Il modello neo-liberista, riaffermatosi negli anni Ottanta contro il neo-keynesismo in crisi, ha però colto le sinistre impreparate, ritenendo queste che il capitalismo sostenuto dalla democrazia liberale che garantiva welfare e una promessa di emancipazione per le masse come si era sviluppato nel dopoguerra avrebbe continuato ad evolversi lungo quei binari. Ma la certezza della crescita per tutti, corretta dalla redistribuzione, si è presto rivelata un’illusione, una volta che le praterie del mondo «limitless» e «borderless» si sono aperte al capitalismo globalizzato. Perché sono stati il lavoro e i suoi prestatori a pagarne il prezzo, a favore del capitale.
E i nodi sono venuti al pettine. Il capitalismo predatorio produce sfruttamento e si fonda sulle disuguaglianze. Affidarsi al mercato, anche nella gestione dei beni pubblici, genera sperequazioni. Nel mercato globale, il lavoro non è tutelato e se non è lo Stato, o le istituzioni sovranazionali, ad intervenire, la piramide sociale non farà che farsi più alta e stretta. La sinistra, abbandonata definitivamente la prospettiva di una trasformazione del «sistema», si è limitata a difendere quel sistema così come lo aveva prefigurato nei decenni addietro: ma esso è cambiato e, con esso, la struttura sociale, con la «disarticolazione» del lavoro e la iper-frammentazione del suo mercato. In questa dinamica, la sinistra ha finito per rappresentare vieppiù gli interessi delle classi medie e medio-basse tutelate, del lavoro dipendente e impiegatizio, strutturato, non riuscendo più a raccogliere quelli delle classi basse e «periferiche». Che si sono così allontanate.
Ciò è apparso, in modo plastico, nel 2013: dopo una legislatura all’insegna del rigorismo neo-liberista europeo, sposato dal Pd, il crollo dei consensi è stato immediato, tutto a vantaggio della proposta «egalitaria» portata avanti dai 5 Stelle. La legislatura seguente non ha inciso per nulla sul quadro sociale ed economico e nel 2018 il Pd ha pagato un prezzo ancora maggiore. E nel frattempo la disaffezione democratica dei ceti popolari non ha fatto che aumentare. Come hanno confermato le ultime elezioni, nelle quali a destra ha chiamato a raccolta i suoi elettori di sempre, mentre la sinistra ne ha persi, per lo più tra gli astenuti. Tanto quella raccolta attorno al Pd, quanto l’altra, che non ha saputo articolare una convincente proposta alternativa.
In termini gramsciani, si potrebbe dire che il «blocco sociale» della sinistra non esiste più. O meglio, non ne esiste più una rappresentazione politica. Le classi popolari sono lì che attendono, che domandano rappresentanza. Un nuovo classismo ha cominciato a farsi strada, nuovi steccati sono stati eretti, fino a disgregare il tessuto sociale che aveva fornito la linfa democratica alla «società del benessere». Che ha cominciato ad essere prerogativa di maggioranze via via più ridotte. Con i poveri alle frontiere e nelle periferie.
Erano anni che si diceva che le disuguaglianze non trattate, che la mobilità sociale ridotta avrebbero portato allo sfaldamento del tessuto democratico. Erano anni che si gridava che l’Europa «sociale» era rimasto un mito sfoderato solo per nascondere quella del libero mercato, che l’illusione della «crescita per tutti» non avrebbe retto. E così è stato. Riflettendosi nei risultati elettorali.
I partiti della sinistra si sono via via sfarinati, chi dietro bandiere lise, chi dietro nuovi miti modernisti, «interclassisti», oltre le classi perché «le classi non ci sono più». Così, elezione dopo elezione, le classi popolari hanno cercato altrove, appellandosi a chi faceva loro gola, strumentalmente. Per ritirarsi, pian piano, nella disillusione.
Questa è la responsabilità storica: aver fatto svanire l’illusione democratica che uno Stato equo avrebbe provveduto ai più, prendendo da chi ne ha per dare a chi non aveva avuto le stesse opportunità. Storica perché segna un’epoca. Già nel 2013 era apparso chiaro: attenzione, chi si appella a istanze egalitarie troverà consenso, per quanto strumentale. Niente, da sinistra non è venuto alcun ripensamento, da tutta la sinistra. E si è giunti al 2018 senza aver riflettuto per un solo momento sugli errori. E si è continuato, fino a finire nel baratro quattro anni dopo.
La coazione continua. Ci fosse uno solo di quella classe dirigente che affermi di voler ripensare tutto. Sta forse avvenendo una discussione su quale società, quale sistema di relazioni economiche e sociali, quale modello si vuole? Nel Pd si parla di nulla, nuove persone per un partito senza progetto. Fuori dal Pd si coltivano orticelli identitari. Altri ora sventolano la bandiera «progressista», guardando all’oggi, piccoli cabotaggi per restare a galla senza cambiare nulla. Le ragioni delle iniquità restano, vittime del capitalismo globalizzato restiamo tutti, subendolo come se non ci fosse nulla da fare. Non «ce lo dice l’Europa», è la mancanza del coraggio del pensiero, il problema.

L’autore:  Pier Giorgio Ardeni è professore ordinario di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna. È stato candidato per Unione popolare in Emilia Romagna

Nella foto: l’assemblea nazionale del Pd, 19 novembre 2022

Il Governo del Vittimismo

L’abbiamo già scritto e sta riaccadendo, ancora. Sulla legge di Bilancio la tattica del governo Meloni è sempre la stessa usata fin dai tempi dell’opposizione: farsi vittime, raccontare un accerchiamento, utilizzare il dissenso generale come medaglia.

Ieri è accaduto che il capo del Servizio struttura economica del Dipartimento Economia e statistica della Banca d’Italia, Fabrizio Balassone, davanti alle commissioni Bilancio riunite (ma sono presenti solo 7 parlamentari) ha criticato i provvedimenti bandiera dell’esecutivo. Sulla flat tax Balassone ha spiegato che «la sussistenza di regimi fiscali eccessivamente differenziati tra differenti tipologie di lavoratori pone un rilevante tema di equità orizzontale, con il rischio di trattare diversamente, in modo ingiustificato, individui con stessa capacità contributiva».

Sui pagamenti elettronici Bankitalia ha detto l’ovvio: «I limiti all’uso del contante, pur non fornendo un impedimento assoluto alla realizzazione di condotte illecite, rappresentano un ostacolo per diverse forme di criminalità ed evasione». Ma va? Non era così difficile. Così come non è difficile capire che «per gli esercenti, il costo del contante in percentuale dell’importo della transazione è superiore a quello delle carte di debito e credito». A meno che, ovviamente, il contante non finisca sotto il cuscino.

Chissà che ne pensano poi, oltre ai partiti del governo, anche quelli del sedicente Terzo polo del fatto che sul reddito di cittadinanza Bankitalia afferma che «una forma di reddito minimo a sostegno delle famiglie più bisognose è presente in tutti i Paesi dell’area dell’euro e in molti di essi presenta carattere di universalità. In questi anni il sussidio ha contributo dapprima a contenere gli effetti negativi dell’epidemia di Covid sul reddito disponibile delle famiglie più fragili e poi a sostenere il potere d’acquisto particolarmente colpito dal recente shock inflazionistico». A meno che, come vedete accadrà, non si voglia semplicemente cambiargli il nome per il gusto della propaganda sulle spalle dei poveri.

La manovra finanziaria è criticata dai sindacati, da Confindustria, dalla Banca d’Italia, dalla Corte dei Conti. Ma dalle parti del governo dicono che «questo è un bene». Il vittimismo del resto prevede che il disaccordo generale verso le proprie azioni indichi un “complotto generale” da abbattere. E continueranno così, fino alla fine. Insistendo come quello che prende l’autostrada contromano e per tutto il viaggio si lamenta di essere circondato da scemi. Fino allo schianto.

Buon martedì.

Padre Rupnik accusato di violenze da 9 suore, restano in vigore le misure cautelari dei gesuiti. Ma chi controlla?

Alla fine si è aperta una crepa nel muro dell’omertà sul caso del gesuita padre Marko Rupnik di cui abbiamo scritto la mattina del 2 dicembre. Come si legge in una nota interna della Compagnia di Gesù firmata dal delegato, padre Johan Verschueren, l’allora Congregazione per la dottrina della fede (attuale Dicastero per la dottrina della fede – Ddf) «ha ricevuto una denuncia nel 2021» contro padre Marko Ivan Rupnik «sul modo in cui ha svolto il suo ministero» e ha aggiunto che «non sono stati coinvolti minori».

La denuncia in questione ha portato a un’«indagine previa» il cui rapporto finale è stato consegnato al dicastero per la Dottrina della fede. Questo «ha constatato che i fatti in questione erano da considerarsi prescritti e ha quindi chiuso il caso, all’inizio di ottobre di quest’anno 2022».

Restano in vigore però, a carico di padre Rupnik, alcune «misure cautelari» – sottolinea la Compagnia di Gesù nella nota – come il divieto di confessare, di partecipare «ad attività pubbliche senza il permesso del suo superiore locale» e di «accompagnare esercizi spirituali». Proprio la presunta violazione di questi divieti da parte di p. Rupnik durante l’istruttoria aveva spinto alcune religiose ed ex religiose della Comunità Loyola a contattarci nel novembre scorso attraverso la mail di Spotlight Italia, la nostra inchiesta permanente sui crimini compiuti all’interno della Chiesa in Italia ([email protected]).

Per quanto riguarda le apparizioni pubbliche in numerosi video su Youtube quindi è presumibile che siano state autorizzate dal superiore di Rupnik della diocesi di Larino (Molise), ma come si spiega questa locandina degli esercizi spirituali di Loreto di cui abbiamo parlato il 2 dicembre?

 

Inoltre, i gesuiti parlano di una sola denuncia nei confronti di Rupnik (reato prescritto), che fine hanno fatto le altre – sono almeno otto – presentate contro il teologo? Se il reato è prescritto (sono passati quasi 30 anni), come mai restano in vigore alcune misure cautelari peraltro disattese?

Molto interessante è quello che scrive l’agenzia religiosa Aci prensa riportando i virgolettati di una fonte della diocesi di Roma. «Le accuse contro p. Marko Rupnik esistono» conferma la fonte e le denunce sono in tutto 9. Tuttavia, la stessa fonte ha spiegato ad Aci prensa che «il Vicariato di Roma non ha svolto alcuna indagine su tali accuse, perché i presunti abusi non sono avvenuti a Roma, ma sarebbero avvenuti in Slovenia». Tuttavia il Vicariato «ha ricevuto una notifica dal provinciale dei gesuiti che informava sulle misure cautelari e suggeriva che p. Rupnik non fosse coinvolto in attività pastorali e nuovi incarichi». A raccogliere le 9 denunce, come sappiamo, è stato il commissario della Comunità di Loyola, fondata in Slovenia, mons. Daniele Libanori, che per primo ha compiuto una visita canonica e che tuttora è commissario della Comunità di Loyola (come risulta anche dalla testimonianza che abbiamo pubblicato il 3 dicembre). Mentre l’istruttoria contro Rupnik è stata portata avanti da un religioso dominicano che ha raccolto diverse testimonianze e «il rapporto finale è stato presentato alla Ddf», l’ex Sant’Uffizio. La prescrizione segna un punto importante a favore del gesuita. Per ora.

Tutte le puntate dell’inchiesta di Spotlight Italia – Il database di Left

Se sei a conoscenza di casi che non sono stati segnalati o vuoi aggiungere nuove informazioni a quelle già pubblicate, puoi scriverci all’indirizzo email [email protected]

Al via la costituente di Unione popolare

Domenica 4 dicembre a Roma si è tenuta l’assemblea di Unione popolare, con la partecipazione di centinaia di militanti in presenza e in streaming, che ha dato inizio alla fase costituente che si concluderà entro marzo con un congresso. Up è nata il 9 luglio con l’idea di unire per la pace e la giustizia sociale. Bisognava radicarsi nei territori e costruire connessioni con individualità e collettivi, ma le elezioni anticipate ci hanno costretto a decidere se provare ad esserci in un contesto improbo o rinunciare, tenuto conto del pochissimo tempo a disposizione. Abbiamo deciso di tentarci, in pochi giorni abbiamo costruito una lista con candidati con storie belle e credibili in tutti i collegi, raccolto 60mila firme per poterci presentare e realizzato un bellissimo programma in pochissimi giorni con il contributo di tanti giovani ed intellettuali. È iniziata una entusiasmante campagna elettorale, senza risorse economiche, provando, in piena estate e in pochi giorni a farci conoscere.

Tanti appelli in nostro sostegno, dal mondo della cultura a quello della ricerca, dagli intellettuali per finire alla venuta in Italia per sostenere il nostro progetto di Mélenchon e Iglesias. Abbiamo visto crescere simpatia, entusiasmo, finalmente una risposta politica che mancava da tempo ad una voglia di sinistra. Di pari passo però i sondaggi non ci tracciavano, i telegiornali ci oscuravano, il tempo era poco per farci conoscere e non giocava a nostro favore. Alla fine il combinato disposto tra l’oblio nel quale il circo politico-mediatico ci voleva collocare in quanto unica forza antisistema, una legge elettorale incostituzionale ed antidemocratica che ha spinto verso il voto utile, il non essere arrivati fisicamente in tutti i territori, insomma il combinato disposto di questi ed altri fattori similari non ci hanno fatto raggiungere la soglia per poter entrare in Parlamento.

A risultato elettorale ancora caldo, però, elettrici ed elettori, militanti e simpatizzanti, ci hanno con voce unanime chiesto di non mollare ed andare avanti nel progetto politico. In questi due mesi abbiamo ascoltato e discusso, ora è il momento di cominciare la fase costituente. È necessario unire le italiane e gli italiani su lotte per le quali la nostra storia racconta di persone coerenti e credibili: dalla pace, siamo l’unica forza da sempre pacifista contro l’invio delle armi e per la soluzione diplomatica in Ucraina, alla giustizia economica, sociale ed ambientale. Up è per l’attuazione piena della Costituzione senza più ambiguità e tradimenti. Dal diritto al lavoro all’unità del Paese contro il disegno eversivo dell’autonomia differenziata, dall’uguaglianza formale e sostanziale al ripudio della guerra, dalla sanità ed istruzione e ricerca pubblica al diritto all’ambiente. In prima linea nella lotta per i diritti e le libertà civili, contro corruzione e mafie, per la costruzione di un modello economico alternativo al neoliberismo, tutti elementi fondanti dell’azione di Unione popolare.

Bisogna, come abbiamo fatto a Napoli per le elezioni rivoluzionarie a sindaco e in Calabria alle regionali con un risultato ottimo, unire associazioni, comitati, movimenti, reti civiche, centri sociali, amministratori e consiglieri locali, la sinistra quella vera, per rompere il sistema  consociativo e costruire l’alternativa di governo. Unione popolare si radicherà sui territori sempre di più coinvolgendo persone in un percorso democratico e partecipativo e vuole essere forza oggi extraparlamentare di opposizione sociale al Governo delle destre. Abbiamo costituito un coordinamento costituente provvisorio di 60 persone per lavorare in particolare sul modello organizzativo del soggetto politico da realizzare insieme. Si formeranno nei prossimi giorni gruppi di lavoro tematici che vanno dall’organizzazione territoriale alle campagne di finanziamento e adesione, dalla comunicazione a tutti i temi per cui combattere e costruire alternative. Necessario alla fine del percorso costituente sarà l’approvazione di uno statuto.

Unione Popolare si oppone poi duramente al disegno autoritario che si vuole imporre nel nostro Paese: dalla repubblica presidenziale allo svuotamento della centralità del Parlamento, dalla neutralizzazione della magistratura e media quali organi di controllo, alla costruzione dello stato d’eccezione permanente e la criminalizzazione del dissenso. Alle politiche liberiste dei Governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte 1, Conte 2 e Draghi, il governo Meloni le consolida ed imprime una robusta carica ideologica di destra: la selezione disumana dei migranti da accogliere con la restituzione aberrante in mare del “carico residuale” di persone, alla carcerazione di chi dissente, manifesta, si riunisce ed occupa, ad una manovra economica che colpisce ceti poveri, popolari e medi. Up opererà tra la gente, gli oppressi, i ceti popolari, la classe media, il mondo che produce tra mille ostacoli; ci batteremo per salario minimo e reddito di cittadinanza, lotteremo per ridurre disuguaglianze economiche e territoriali, per invertire subito la rotta sui disastri climatici. Il sistema deve dimostrare che non esistono alternative e propinano sempre la stessa cura che è veleno mortale e noi di Up risultiamo quindi pericolosi per il sistema perché con le nostre storie abbiamo dimostrato che l’alternativa è possibile ed un’altra realtà si può costruire. Facciamo paura perché non abbiamo prezzo, non siamo in vendita e non ci possono acquistare, con la nostra tenacia e il nostro coraggio, con umiltà ma ferma determinazione, unendo visione e concretezza lavoreremo per un’Italia migliore e costituzionalmente orientata.

L’autore: Luigi de Magistris, ex magistrato ed ex sindaco di Napoli, è il leader della coalizione Unione popolare

Riccardo Noury: Dopo i mondiali dei diritti violati il mondo del pallone non sarà più come prima

«Il mondiale in Qatar è sfuggito decisamente di mano alla Fifa e sono convinto che non poche federazioni calcistiche europee le presenteranno il conto rispetto alle dichiarazioni espresse e agli atteggiamenti e comportamenti che ha tenuto» dice a Left il portavoce di Amnesty Italia Riccardo Noury. Lo abbiamo intervistato in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, Qatar 2022, i Mondiali dello sfruttamento, edito da Infinito edizioni.

Il 95% della forza-lavoro in Qatar proviene da lavoro migrante, mentre 2 milioni di lavoratori denunciano sfruttamento, stipendi mancati e condizioni di vita difficilissime. Dal 2010, anno in cui sono cominciati i lavori per Qatar 2022, fino al 2020 sono morti 6.750 lavoratori migranti provenienti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka, ma il 67% di questi decessi è attribuito ufficialmente a cause naturali o ad arresto cardiaco. Quali sono le condizioni dei lavoratori migranti in Qatar e perché fino ad oggi ne abbiamo sentito parlare poco?
Per dodici anni, quelli trascorsi dall’assegnazione dei Mondiali al Qatar e il loro inizio, centinaia di migliaia di lavoratori migranti hanno lavorato in condizioni di schiavitù: vincolati al datore di lavoro dal sistema della kafala, sottoposti a orari di lavoro massacranti, impossibilitati ad accedere alla giustizia per reclamare stipendi trattenuti anche per anni e costretti ad alloggiare in condizioni subumane. Nessuna meraviglia che siano morti a migliaia: tutti d’infarto, secondo le autorità, e quasi tutti non sul lavoro (poiché stramazzavano, senza riprendere conoscenza, nei lettini nei quali dormivano due o tre ore a notte). Ciò ha impedito, tra l’altro, alle famiglie delle vittime, di ricevere risarcimenti: quelli che da mesi Amnesty International chiede alla Fifa di garantire, attraverso la messa a disposizione di un fondo di 440 milioni di dollari, cifra che equivale a quella versata dalla Federazione per organizzare l’evento sportivo in Qatar. Le riforme avviate nel 2017 hanno introdotto qualche miglioramento: abolizione della kafala (che peraltro, di fatto, è ancora utilizzata per costringere i lavoratori a ottenere, dietro elevate somme, il nulla-osta del datore di lavoro per cambiare impiego o lasciare il Paese), salario minimo, comitati per la risoluzione delle controversie, interruzione del lavoro nelle ore più calde. Di queste riforme hanno beneficiato comunque pochi lavoratori, quelli dei cosiddetti “siti ufficiali”. Tuttora non è possibile iscriversi a sindacati né ovviamente fondarli.

Spesso si è sentito parlare di greenwashing, ma adesso si parla anche di sportwashing. Lei come definirebbe quest’ultimo termine?
È una strategia di pubbliche relazioni applicata dagli Stati del Golfo, che utilizza gli appuntamenti sportivi per esibire grandi capacità di organizzare eventi internazionali ma anche e soprattutto per “sbiancare” l’immagine negativa di un Paese, soprattutto per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani. Presentarsi al mondo moderni, competitivi e “puliti”, insomma. Lo sportwashing è efficace perché sfrutta due elementi: la passione del pubblico sportivo (“Lasciateci divertire!”) e la scarsa dimestichezza del giornalismo di settore per quanto riguarda la situazione dei diritti umani (“È roba della redazione esteri!”). Si basa sulla narrativa per cui “sport e diritti umani sono questioni diverse”, peraltro messa in dubbio sin dalla finale di Coppa Davis del 1976 tra Italia e Cile disputata a Santiago durante la dittatura di Pinochet e dai boicottaggi che in seguito avrebbero segnato varie edizioni delle Olimpiadi, compresa quella dell’inverno 2022 in Cina.

La Fifa è la maggiore responsabile per l’organizzazione dei mondiali di calcio in Qatar. L’attuale presidente, Gianni Infantino, nel corso della conferenza stampa inaugurale dei Mondiali ha dichiarato: «Oggi ho sentimenti molto forti. Oggi mi sento qatariota, mi sento arabo, mi sento africano, mi sento gay, mi sento disabile, mi sento un lavoratore migrante». Poi ha aggiunto: «Polemiche ipocrite dall’Occidente. Per quello che abbiamo fatto in passato, noi europei non dovremmo dare lezioni morali a nessuno». Tuttavia, la prima ipocrita non è proprio la Fifa stessa, che teoricamente dovrebbe battersi contro ogni forma di razzismo e discriminazione etnica e sessuale, ma invece decide di giocare i mondiali in Qatar e impedisce ai calciatori di protestare vietandogli l’uso della fascia arcobaleno Lgbtqia+? Ci sono state delle nazionali che hanno cercato di opporsi a tali divieti? Qual è la situazione in Qatar per le persone Lgbtqia+?
Il presidente Infantino si è “sentito gay” al punto da impedire, di lì a poche ore, di esprimere qualsiasi forma di solidarietà nei confronti della comunità Lgbtqia+ del Qatar. L’articolo 296.3 del codice penale criminalizza vari atti sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso e prevede il carcere, ad esempio, per chi «guidi, induca o tenti un maschio, in qualsiasi modo, a compiere atti di sodomia o di depravazione». L’articolo 296.4 criminalizza chiunque «induca o tenti un uomo o una donna, in qualsiasi modo, a compiere atti contrari alla morale o illegali». Nell’ottobre 2022 le organizzazioni per i diritti umani hanno segnalato casi in cui le forze di sicurezza hanno arrestato persone Lgbtqia+ in luoghi pubblici, solo sulla base della loro espressione di genere, controllando i contenuti dei loro telefoni. Le transgender arrestate sono obbligate a seguire terapie per la conversione come condizione per la loro scarcerazione.

Lo scorso 24 novembre il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che definisce la corruzione all’interno della Fifa “dilagante, sistemica e profondamente radicata” e chiede alla Federazione internazionale e al Qatar di risarcire tutte le vittime dei preparativi per i mondiali di calcio. Molte famiglie delle vittime si sono dovute indebitare solo per fare il funerale al proprio caro. Secondo lei questa risoluzione del Parlamento europeo contribuirà a cambiare le cose? Ci sarà il risarcimento ed un cambio di marcia all’interno della Fifa o finito il mondiale non si parlerà più di nulla?
Difficile prevedere cosa succederà rispetto alla richiesta di aprire il fondo di risarcimento. Se non è certo l’esito di questa istanza, è invece sicuro che nulla sarà come prima all’interno della Fifa. Questo mondiale le è sfuggito decisamente di mano e sono convinto che non poche federazioni calcistiche europee presenteranno il conto rispetto alle dichiarazioni, agli atteggiamenti e ai comportamenti della Fifa.

A Monaco, a 16 kilometri di distanza dal campo di concentramento di Dachau, nel 1972, nonostante l’attentato dell’organizzazione terroristica Settembre nero che causò la morte di 11 atleti israeliani, le olimpiadi proseguirono comunque. Oggi i mondiali in Qatar, nonostante la morte di migliaia di lavoratori migranti, vanno avanti in un silenzio quasi assordante. Perché di fronte ad eventi tragici come questi lo sport, che dovrebbe perseguire i valori della tolleranza, della pace, e dei diritti umani, al posto di fermarsi decide di avanzare? Nello sport, e nel calcio in particolare, ormai l’unica cosa davvero importante, non importa a discapito di chi, è il profitto economico?
La ragione ha un nome: il denaro. Il denaro investe nello sport perché è l’attività globale che determina umori e stati d’animo di almeno quattro miliardi di abitanti di questo pianeta. Lo sport, a sua volta, ha raggiunto una dimensione così gigante da non poter fare a meno del denaro. Questo circolo vizioso sovrasta ogni altra considerazione. C’è da sperare che la parte più sana, ossia gli atleti e i tifosi, prendano la parola.

 

* L’autore: Andrea Vitello è specializzato in didattica della Shoah e graduato a Yad Vashem. Ha scritto il libro, con la prefazione di Moni Ovadia, intitolato Il nazista che salvò gli ebrei. Storie di coraggio e solidarietà in Danimarca (Le Lettere 2022). Scrive su Pressenza e su Left

I più grandi inquinatori hanno ricevuto 100 miliardi di euro dall’Ue

Il Wwf lo scrive chiaro e tondo: per una falla nel sistema europeo di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra (Ets) le grandi industrie inquinanti negli ultimi nove anni hanno ricevuto dell’Unione europea 98,5 miliardi di euro in quote di carbonio gratuite, ovvero con la licenza di inquinare gratis.

Il sistema Emission trading system è stato introdotto in Ue nel 2005 con lo scopo di implementare un sistema di tariffazione del carbonio per i settori dell’energia elettrica, dell’industria pesante e dell’aviazione ed è finalizzato a incentivare la decarbonizzazione.

Il principio alla base declamato è “chi inquina paga”, ma l’analisi dell’associazione ambientalista sul periodo 2013-2021 dimostra che più della metà delle emissioni Ets (53%) sono state distribuite gratuitamente a chi inquina attraverso il cosiddetto schema di “allocazione gratuita”. Le quote gratuite hanno fatto inceppare il sistema, afferma il Wwf. Inizialmente giustificate dalla paura delle delocalizzazioni da parte delle aziende in altri Stati con norme ambientali meno stringenti, dal 2006 il numero dei permessi è diminuito, stima l’Ong. Nonostante questo, il loro valore è superiore agli 88,5 miliardi di euro addebitati fino ad ora agli inquinatori, principalmente centrali elettriche a carbone e gas, per le loro emissioni di CO2.

«L’analisi mostra che nell’ultimo decennio l’Ets si è basato sul principio ‘chi inquina non paga’, con miliardi di mancati introiti che i Paesi Ue avrebbero potuto invece investire nella decarbonizzazione industriale», spiega Romain Laugier, dell’ufficio per le politiche europee del Wwf e principale autore del rapporto. «I negoziatori Ue devono eliminare gradualmente le quote gratuite il prima possibile e nel frattempo assicurarsi che le aziende che le ricevono soddisfino condizioni rigorose sulla riduzione delle loro emissioni».

Secondo Alex Mason del Wwf, «se i contribuenti rinunceranno a decine di miliardi di entrate, l’industria dovrebbe usare quei soldi per investire nelle tecnologie per decarbonizzare,anziché non fare nulla o addirittura approfittare delle quote gratuite».

Laugier ricorda anche che «del denaro che i Paesi dell’Ue hanno raccolto dall’Ets, almeno un terzo non è stato speso per l’azione per il clima o è stato speso per progetti di discutibile valore per il clima ed è dunque chiaro che l’intero sistema deve essere rafforzato e l’opportunità di farlo esiste oggi, durante le discussioni del Fit for 55».

Tutto bene?

Buon lunedì.

Naela e le altre, così le donne palestinesi sfidano il patriarcato

«Mio padre ha sostenuto economicamente me e i miei figli fino alla sua morte. Quando ho ottenuto l’eredità, ho costruito una casa per me e i miei figli e mi sono comprata un’auto» racconta Naela Ali Faheem Abu Jiba, una donna di 40 anni proveniente dalla Striscia di Gaza. «Un giorno mi trovavo in un salone di bellezza e ho sentito una cliente discutere con il marito al telefono sulla necessità di avere un’auto. In quell’occasione mi è venuta l’idea di creare un servizio di trasporto per le donne». Così Naela ha iniziato a lavorare come tassista. Un settore, quello dei trasporti, dominato dagli uomini e un’idea, quella di Naela, rivoluzionaria, per i Territori palestinesi occupati ed in particolare per la Striscia di Gaza.

La tassista offre un servizio utile ed efficiente per le donne palestinesi, che, grazie a lei, si sentono più sicure nei loro spostamenti. In una società patriarcale che limita la libertà di movimento delle donne, muoversi in autonomia e sicurezza diminuisce la dipendenza dai maschi di famiglia e le solleva dalla pressione sociale e dai pregiudizi legati al fatto che una donna salga su un taxi guidato da un uomo. Naela è una pioniera, e non è l’unica.
Rimah Jihad Atallah Al-Behissi, una ventenne di Deir Al-Balah, nella Striscia di Gaza, lavora nel campo dell’energia solare, altro settore tipicamente dominato ovunque dagli uomini. Scegliendo questa professione, Rimah ha dovuto superare gli ostacoli che le donne palestinesi devono sistematicamente affrontare quando cercano di accedere al mercato del lavoro, così come gli stereotipi di genere che hanno confinato le donne palestinesi in pochi settori, in particolare quello della cura (istruzione, sanità, assistenza sociale e lavoro domestico).

La partecipazione femminile al mondo del lavoro è ancora molto bassa ed il divario occupazionale tra i generi è estremamente ampio. Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese (Pcbs), nel 2020 solo il 16% di tutte le donne in età lavorativa nei Territori palestinesi occupati lavorava, rispetto al 65% degli uomini. Tra la popolazione femminile, in Palestina si rileva un alto livello di scolarizzazione. Questo non va però ad influire positivamente sull’occupazione: il tasso di disoccupazione, che per le donne è del 40%, sale infatti al 69% se si considerano le giovani laureate. Il dato scioccante è che, per quanto riguarda le donne palestinesi, più queste sono istruite e più alto è il tasso di disoccupazione. In altre parole, un titolo universitario non aumenta la probabilità di ottenere un lavoro e ciò è ulteriormente confermato dal fatto che, sebbene il 61% degli studenti iscritti agli istituti di istruzione superiore siano donne, il tasso di disoccupazione femminile continua ad essere molto più alto di quello maschile.

Anche Babel Ahmed Qdeih ha studiato e alla fine ha deciso di aprire un proprio negozio, dove fornisce alle donne di Gaza servizi di programmazione e manutenzione dei telefoni. «Sto cercando di conciliare il lavoro e i doveri familiari», ammette. Nei Territori palestinesi occupati, l’80% degli uomini e il 60% delle donne ritiene che «il ruolo più importante delle donne è quello domestico», mentre il 75% degli uomini e il 51% delle donne afferma che per le donne è più importante sposarsi che avere una carriera. Questi atteggiamenti influenzano le aspirazioni delle donne e la definizione delle loro priorità. Il risultato, tra l’altro, è che il 94,8% delle donne sono occupate nel lavoro domestico e di cura, rispetto al 42,5% degli uomini. Nella Striscia di Gaza, le donne disoccupate spendono in media 12 ore al giorno per l’assistenza non retribuita e il lavoro domestico. Questo rende particolarmente difficile per loro lavorare fuori casa.

Avviare attività in proprio risulta difficile perché l’accesso al credito e ad altre risorse essenziali per l’avvio di un’attività sono in mano agli uomini, che amministrano anche i beni delle famiglie. «I principali ostacoli che ho affrontato provengono dalla mia famiglia e dalla società. La mia famiglia voleva che lasciassi il mio lavoro: non voleva che il nome della famiglia fosse legato al mio lavoro come tassista», racconta ancora Naela.
Oltre a questo, l’occupazione militare israeliana limita ulteriormente l’accesso delle donne al lavoro e alle opportunità di sviluppo in generale. Insieme alla presenza dei coloni e il blocco nella Striscia di Gaza, l’economia locale è in sempre maggiore crisi, le opportunità di lavoro si riducono e le donne sono le prime a essere tagliate fuori. «I principali ostacoli che ho incontrato sono stati la mancanza di risorse disponibili e la difficoltà a ottenere una formazione pratica, dato che sono una ragazza e tutti gli specialisti in questo campo sono uomini», afferma Babel, la “donna elettrica”.

Babel, Naela e Rimah rappresentano la caparbia e determinazione di molte giovani palestinesi, che nonostante la situazione economica di Gaza e il contesto sociale e familiare non si arrendono e costruiscono semi di futuro. Affrontando e superando discriminazioni multiple, combattono ogni giorno per liberarsi del fardello delle aspettative sociali, seguendo le proprie passioni e aspirazioni. Delle vere e proprie rivoluzionarie che affrontano critiche e pressioni, soprattutto da parte della loro comunità, eppure decidono di continuare a sfidare i pregiudizi attraverso il loro lavoro. Come dice Naela, la tassista, «Il mio lavoro non è vergognoso, anche se non è convenzionale per la società palestinese. Sarebbe sbagliato non continuare. Devo affrontare le difficoltà e assumermi le responsabilità per l’emancipazione economica e morale di altre donne».

Interviste raccolte nell’ambito del progetto Cospe “Gender Equality in the Economic Sphere: Our Right, Our Priority” in Palestina